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I pettegoli della «critica» hanno lungamente discusso intorno alla data della venuta al mondo di Gabriele e intorno al luogo dal quale egli rallegrò il mondo col suo primo vagito, come se il nostro «superuomo» fosse morto. Oh! che sì preziose notizie non potevano, oh! che non possono, anzi, chiederle al «divo» stesso, anzichè gittarsi e smarrirsi in così affannose ricerche?
E dire che esiste l'atto di nascita presso l'ufficio di stato civile di Pescara e che c'è anche l'atto di battesimo presso la parrocchia di San Cetteo, nel quale, a edificazione e consolazione nostra, fra altre cose, si legge che il portentoso bambino «nacque il 12 marzo del 1863 nella casa di abitazione della puerpera.»
Il parroco che stese l'atto sagramentale, assicurando che «il luogo dove Gabriele aprì la prima volta gli occhi alla luce fu quello dove abitava la puerpera», non peccò – come ognuno potrebbe credere – di ingenuità, che anzi!.. – I superbimbi, come Gabriele, non è necessario che nascano – come fa la comune dei bimbi – da umana carne, ma possono – se lo vogliono – plasmarsi da sè, e in ciò appunto consiste la prova che la natura cui appartengono non è l'umana, ma la superumana; onde, l'accorto, il molto accorto parroco di San Cetteo, il quale, dai segni prodigiosi che portava seco il bambino, intuiva che esso sarebbe stato un giorno creduto più divino di Gesù nato da una vergine, volle, sì, far sapere al mondo che Gabriele era nato «nella casa di colei che fungeva da madre»; ma quanto ad affermare che fosse venuto fuori proprio dall'alvo di costei, non era no, in coscienza, in grado di farlo.
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Chi prima ebbe la grazia di toccare le rosee carni del bambino Gabriele fu Angeladea (fatidico nome!) Angeladea Mungo, la levatrice, divenuta rispettabile, commendabile, ricordabile e immortalizzabile solo per questo, e il cui nome è stato strombazzato dalla nostra stampa giornaliera e periodica cretina, e registrato fra le nostre glorie nazionali. – Ma le più preziose notizie intorno alla nascita del bimbo meraviglioso ce le dà il pedagogo abruzzese Filippo De Titta, che fu il primo maestro di Gabriele e che passerà alla storia, non tanto pel latino di cui egli è zeppato, quanto per avere insegnato musa musae al divo in erba. – Ora, questo De Titta, che vide nella culla e adorò e, forse, odorò il portentoso bambino, si è – or non è guari – gettato in mezzo ai disputanti intorno al giorno e al luogo della nascita di Gabriele, e, distribuendo scappellotti a destra e a sinistra, si è messo a gridare: «Non a Francavilla, ma a Pescara egli nacque, nel giorno di San Gabriele, non il 12, ma il 18 marzo 1863; non di sabato, ma di venerdì; non nelle ore otto antimeridiane, ma alle cinque e mezza.» – E in prova ricorda che era «un mattino chiaro ed azzurro» e che «in quel momento nasceva anche il sole» – l'unico momento in cui potesse nascere quell'altro «sole» che di tanta luce avrebbe, fra non guari, illuminato il mondo della poesia e dell'arte. – E così dovette essere: come si sa, nel 18 marzo il sole suole levarsi alle sei; ma il 18 marzo del 1863, essendo il giorno natalizio del divo bambino, esso anticipò di mezz'ora la sua apparizione, quasi per dire alle genti: Ecco! È nato mio fratello!
Ci dice il De Titta che «il bimbo, subito dopo la sua nascita, aprì gli occhi» – (oh! portento dei portenti!) – «fece udire la sua voce» – (oh! miracolo dei miracoli!) – e fece – (aggiungo io) – la sua prima cacca, che diffuse attorno odore di ambrosia, 1'odore dei «divi».
E ci dice ancora che «la matrina donò al suo figlioccio un paio di orecchini di brillanti» – simbolo, dico io, della femminilità di cui il divino fanciullo avrebbe un giorno vestito sè e l'opera sua.
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Nelle vene di Gabriele scorre il sangue putativo dei Rapagnetta.
Francesco Rapagnetta di Pescara, padre del «divo» era stato legittimato (ed è superflo dire il perchè) da un signor Antonio d'Annunzio anche di Pescara, del quale prese il suo vero e proprio cognome. Questo Francesco fu, col tempo, padre di cinque figli, primo dei quali Gabriele.
Narra la cronaca che, quando il sor Francesco fu padre la prima volta – (non presagiva egli che era nato il sole glorioso della sua casa, dell'Italia e del mondo?) – spalancò al popolo di Pescara tutte le porte di casa sua, fece spillare molte botti di vino e distribuì a chi ne volle tutte le provviste domestiche!
Ma che! – dicono i maligni – il sor Francesco, ex-Rapagnetta-legittimato-D'Annunzio, era un vanesio senza cervello, e voleva tener sempre imbandita la tavola per gli ospiti di qualsiasi condizione sociale, sicchè molti ci speculavano vivendo alle sue spalle. – Ma da questo alle sei botti di vino e a tutte le provviste d'un anno da lui sperperate in un sol giorno alla maggior gloria di Gabriele – dicono i costui adoratori – ci corre; gli è che tutto doveva essere, in quel fausto giorno, eccezione e preconizzazione: il sole anticipante di mezz'ora la sua apparizione; la giornata meravigliosamente bella; il venerdì sacro a Venere e agli amori; il numero 18, che è il simbolo dei loquaci; il mese di marzo che è il primo mese dell'anno astronomico, quasi a significare che Gabriele sarebbe stato il primo nell'ordine cronologico dei nostri superuomini; – era necessario, quindi, che tutti i pescaresi, uomini e donne, poveri e benestanti, rendessero i dovuti onori al superbambino, che, con meraviglia di tutti, specie del De Titta, apriva gli occhi, faceva sentire la sua voce e faceva la cacca olezzante d'«acqua-nunzia».
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E gli fu imposto il nome fatidico di Gabriele, che vuol dire Forza di Dio, e che è il nome dell'arcangelo primieramente inviato da Dio a Zaccaria per annunziargli la nascita del figlio (che fu poi San Giovanni Battista) e inviato poscia alla Vergine per annunziarle che era stata scelta da Dio a madre del Salvatore. Dunque gli fu imposto il fatidico nome di Gabriele, perchè – anche lui Forza di Dio – avrebbe annunziato al mondo il verbo dell'Arte-meretricia.
Ma dicono ancora i maligni che il nome di Gabriele gli fu imposto dal vecchio Antonio D'Annunzio – suo nonno – perchè Gabriele era il nome del più bello dei suoi trabaccoli, coi quali caricava e scaricava mercanzie nelle due sponde dell'Adriatico; – il che potrebbe anche farci supporre che cotesto vecchio mercatante presagisse che «questo sangue del suo sangue» sarebbe un giorno divenuto il più abile merciadro di mercennume letterario presso quella frivola società che vive, muore e rinasce fra due sponde: l'ignoranza incosciente e pettegola, di qua, e la sfrontata, colossale réclame, di là.
E narra la veridica cronaca che la sora Luisa D'Annunzio, la beatissima donna che si sgravò del bimbo divino, non è potuta mai riuscire a pronunziare esattamente il nome Gabriele, che nella sua bocca diviene costantemente Gabbiele, quasi gabbiero o gabbiere, che è il nome che si dà al marinaio il quale sta nella gabbia dell'antenna a far la guardia: gli è che la sora Luisa, priva del dono della previgenza, si augurava in cor suo che il nato dalle sue viscere fosse il futuro padrone del trabaccolo che portava il suo nome. E se fosse stato così, certo, una grande perdita avrebbe avuta la réclame, ma una grande vergogna sarebbe stata risparmiata alla nazionale letteratura.
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E narra la cronaca reclamistica che Gabriele o Gabbiele, fattosi giovanetto, «sorrideva colle grazie d'una donna – (ecco perchè la matrina gli aveva fatto dono d'un paio di orecchini di brillanti!) – sicchè tutti i compagni – (in grazia della grazia del suo sorriso di donna) – lo seguivano e gli... ubbidivano.»1
Sì, la matrina, signora Rachele Bucci, che al fonte battesimale tenne, protendendola sulle acque lustrali, la magrolina, bellissima creatura, cui fu imposto il nome di Forza di Dio, offerse alla medesima un ricco paio di orecchini di brillanti. Questo significantissimo dono e il fatto che al battesimo di Gabriele «non ci fu patrino», furono gli eloquentissimi segni che in quella Forza di Dio avrebbe trionfato la femminilità. Il già citato Filippo de Titta, che ci narra di sì belle cose nella Fiaccola di Ortona a Mare, aggiunge: «Non si seppe mai il perchè di questo dono muliebre.» Cioè, non si seppe mai o non si volle mai sapere dagli adoratori del «Divo»; ma il perchè c'è, ed è, che, se non per le ingannevoli apparenze del corpo, certo per le reali qualità dell'anima, Gabriele non era un maschio, ma una femina. Ben è vero che donna Rosalba Rapagnetta, zia del neonato, la quale, dopo attente ricerche, aveva visto e, forse, anche palpato il microscopico segno di una incerta mascolinità, era corsa al fratello gridando: «Con salute e figlio maschio!»; ma non per questo la sora Rachele Bucci ritirava il suo dono.
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E narra la cronaca che, approssimandosi il giorno pronosticato del grande avvenimento, il sor Francesco ex-Rapagnetta-legittimato D'Annunzio, la passava a leggere, a consultare alcuni manuali d'ostetricia, ed oggetto speciale della sua attenzione erano i segni preaccusatori del sesso dei nascituri: pancia prominente a destra, figlio maschio; pancia prominente a sinistra, figlia femina; pancia ugualmente prominente a destra e a sinistra, un maschio-femina, o una femina-maschio, o, che è lo stesso, un ermafrodito. E la pancia della sora Luisa era ugualmente tonda d'ambo i lati; sicchè il brav'uomo viveva mesto, preoccupato e in grande timore; ecco perchè donna Rosalba, che adorava il fratello e voleva liberarlo da quell'oppressione, corse a lui gridandogli: «Con salute e figlio maschio!» – L'effetto fu meraviglioso: gli occhi di don Ciccillo sfavillarono di gioja, e il vino delle sue cantine scorse a fiumane, e le farine, i caci, i prosciutti e tutte le sue provviste di un anno mutarono la sua casa – per un giorno – in una grande cuccagna.
Narra ancora la cronaca: «Il bambino nacque nutrito, sanissimo, col cranio ben formato e adorno di biondi capelli; ma era sì minuscolo, sì delicato, che don Ciccillo non permise che fosse stretto dalle fasce; ma non riuscì ad impedire che la sora Angeladea gli coprisse la testolina con una cuffietta tutta nastri e trine, sicchè chiunque, vedendolo, esclamava: che bella bimba!»
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Come si è detto, era nato di marzo e di venerdì, onde la sora Luisa, quando le dissero che non era una bimba – com'essa, all'opposto del marito, aveva desiderato, e come aveva creduto vedendo quel capetto in cuffia femminile – si consolò dicendo: Figlio mio, sei nato di marzo e di venerdì: chi sa che grande cosa tu dovrai essere un giorno!
E il De Titta, che ci narra tutta questa storia, compreso d'umiltà ammirativa uguale, se non maggiore, a quella con cui gli evangelisti narrano la nascita del Figlio di Dio, aggiunge:
«Queste precise parole negli anni posteriori donna Luisetta mi ha ricordate ogni volta che ci giungevano notizie di novelli trionfi2 di Gabriele.»
Sicchè, volendo credere al De Titta, Gabriele deve la sua «gloria» al fatto che esso è nato di marzo e di venerdì!
Sul meraviglioso bambino egli ci fornisce ancora queste altre preziose notizie:
1° – Gabriele fu battezzato nella chiesa di San Cetteo otto giorni – non già uno – dopo nato.
2° – Esso fu nutrito col solo latte materno.
3° – Donna Luisetta, gentile e delicata, non patì nessun deperimento per l'allattamento della prole.
Quest'ultima notizia – non c'è che dire – è di quelle davvero pochissime che hanno virtù liberatrice: per essa noi ci liberiamo dal peso enorme d'una preoccupazione accablante, ed esclamiamo con un sospiro di sollievo: Ah! sia lodato l'Altissimo! Ella non patì nessun deperimento!
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Dunque – riassumendo – la nascita di Gabriele si compiva sotto e frai segni della femminilità. La quale – e ne toccheremo le prove colle nostre mani – è la sola causa della sua celebrità colossale. Egli è, infatti, un fenomeno unico nella storia, la quale non ci porge nessun esempio d'una rinomanza rapida e grande come la sua. Frai ciarlatani più favoriti dalla fortuna non troviamo alcuno che siasi fatto celebre magnificando qualche sua qualità negativa, come ha fatto e fa Gabriele; tutti, invece, si sono studiati e si studiano di apparire possessori di qualità positive, fra le quali principalissima quella della mascolinità, vuoi delle membra, vuoi dello spirito, vuoi del sapere, vuoi dei sentimenti, vuoi del coraggio, vuoi del sesso, chè – per quanto ciarlatani – avrebbero preferito e preferirebbero morir d'inedia, anzichè vivere lucullianamente, derogando alla loro mascolinità. Sin qua s'erano visti degli esempi logici, e perciò spiegabilissimi, di donne aspiranti alla mascolinità, se non a quella impossibile del sesso, almeno a quella dei pensieri e delle opere, giacchè la mascolinità è superiorità vera rispetto alla femminilità, e ogni donna, se lo potesse, baratterebbe il suo sesso a qualunque condizione, pur di provare la gioia di sentirsi maschio. Gabriele ci offre – ahimè! – l'esempio opposto: egli è felice di pensare, agire e scrivere come una femina. Il suo corpo – per quello che appare – si direbbe virile, ma l'anima sua è essenzialmente muliebre, con questo di più, che il suo corpo – per virile – è meno completo della sua anima, che – per muliebre – è completa; onde è accaduto che, asservito a cosiffatta anima, non avendo da contrapporle che una scarsa o dubbia virilità fisica, anche il suo corpo ha finito per mulierizzarsi del tutto, e di ciò fanno fede inoppupugnabile i suoi boudoirs.