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Come la pianta è tutta virtualmente nel seme, così il grande D'Annunzio è tutto nel D'Annunzietto quale, appena ventenne, si rivelò ai lettori e, specie, alle lettrici della Tribuna. Da cronista mondano agli stipendii del detto giornale, Gabrieluccio esordiva nel 1884, solleticando tutte le «duchesse romane» nelle loro parti più delicate, anzi adoperando un solletico speciale per ciascuna di loro. Sin dalle prime cronache la sua magistrale competenza in materia di futili e sciocchi argomenti sorprende, anzi sbalordisce: in lui si rivela un genio, fra tutti i genî il più portentoso, quello, cioè, di saper dare consistenza al vuoto con vuote parole; e per far ciò, egli pianta le sue tende in quel gran vuoto che è il mondo mondano, ed in cui vivono, ornate di ricche parures, quelle vuote cose che chiamansi contesse, duchesse e principesse, e delle quali, siano giovani o vecchie, belle o brutte, egli si pone a solleticare la vanità, che è vuoto di mente e di cuore. Egli è un laudatore mirabile, inesauribile, senza pari. Immaginate! Quando non può, senza coprirsi di vergogna, dir bella qualcuna di quelle grandi dame, scopre che ha belle le mani, o ben dipinto l'arco del sopracciglio. Se qualcuna zoppica, oh! che non zoppicava la divina Lavallière? Se qualche altra ha i capelli posticci e i denti falsi, ha però l'incesso nobile e imponente. Ma, belle o non belle, Gabrieluccio trova che le son tutte vestite comme il faut e che tutte han pose da dee. Il far questo – lo si vede – gli è, non solo facile, ma ancora, e sopratutto, gradito, perchè egli è un effeminato; i suoi gusti sono accentuatamente muliebri, egli è un adoratore dell'abbigliamento più di quanto possa esserlo una femina. Egli conosce tutti i segreti delle bellezze posticce delle grandi mondane: i cosmetici, i cinabri, i neri di sughero, i cuscinetti, i ripieni, le false mammelle, i falsi fianchi, i falsi capelli, non che le false posizioni; conosce le maraviglie, i miracoli che san fare le «grandi» sarte; si direbbe, anzi, che egli non abbia fatto altro sin là che studiare, a parte a parte, gli abbigliamenti muliebri sui mannequins presso i grandi magazzini di mode, riempiendo molti quaderni di note, appunti, descrizioni intorno alle stoffe, ai tagli, alle applicazioni e alla loro esotica nomenclatura, chè – egli lo sa – il vestire è ciò che sopra ogni cosa interessa le donne, specie se del gran mondo; onde sapientemente si pone a trar profitto da quella gran vanità che le donne tutte antepongono perfino alla vanità della loro bellezza corporea, dico la vanità che tutti le trovino ben vestite. Ma questo, in lui, ad onor del vero, non è soltanto calcolo, ma ancora, e più, è istinto, poichè la sua speciale natura di femina deviata alquanto in maschio, o di maschio deviato molto in femina, gli impone di preferire all'essere il parere; onde accade che per lui tutte le arti e tutte le industrie del parere hanno una immensa importanza: e perciò apprezza ed onora l'arte delle sarte e dei sarti, delle sarte e dei sarti creatori ed artisti, ai quali ed alle quali suggerisce linee e forme in armonia a un cotal suo ideale figurino di eleganza, che, per ciò che riguarda la sua personcina, egli va traducendo in pratica con grande sorpresa ed altissimo scandalo dei butteri coi quali ha plebeamente vissuto e ai quali ha voltate definitivamente le spalle. Per tutto quanto riguarda le «elegantissime» egli vi sa dire da quale atelier di modista parisienne è venuto fuori quel cappello; da quale magazzino, quella stoffa; da quale calzolaio, quel paio di scarpette; da qual profumiere, quel profumo, e ne sa anche i prezzi e le marche di fabbrica. Che rivelazione! E che fortuna per «le duchesse romane» l'essersi imbattute in un «cronista mondano» più femina di loro!
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Sì, tutto il grande D'Annunzio è nel D'Annunzietto autore delle cronache mondane apparse sulla Tribuna dal 1° dicembre 1884 a tutto l'agosto del 1888; sì, c'è tutto dentro il «gran D'Annunzio» di poi: l'erotico-naturalista, come lo chiama – e pour cause –lo Scarfoglio; il poeta-panista, come lo chiama Peppantonio Borgese; il poeta-sensitivo, come lo chiama il critico confitto sulla croce della sua vanità denarosa; il poeta-visivo, verbalista e magniloquente declamatore, come lo chiama il Gargiulo; e, sopratutto, il poeta-superuomo, come il D'Annunzio stesso vuole che lo si chiami. Egli è rimasto e rimane, infatti, sempre, il D'Annunzio cronista mondano della Tribuna, enumeratore minuzioso e prolisso di «ninnoli muliebri» e descrittore di «episodî d'alcova». E fu appunto questa sua «qualità essenziale» che gli aperse le porte dei salotti dorati, e, quindi, la via verso la considerazione, la fama e la ricchezza, e che di lui – già piccolo buttero dal cappelluccio di cencio – fece (come dice lo Scarfoglio) «una civetta addobbata, azzimata, profumata». Ma lo Scarfoglio ha torto: il D'Annunzio non divenne una civetta, perchè civetta egli era già sin dalla nascita.
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Dunque, nel dicembre del 1884 (il mese in cui il freddo richiama in città al caldo dei salotti imbottiti di tappeti l'élite d'ambo i sessi, il mese delle passeggiate nelle belle giornate di sole, il mese in cui si riaprono i teatri e ricominciano balli) il divo in erba inaugurò la sua gran campagna di arrivista ingraziandosi il bel sesso dell'aristocrazia romana col profumo delle sue melliflue lodi in stile prezioso, Ecco qualche esempio:
«... Credo che il più lungo mantello e il più magnifico sia quello della Principessa – (colla P grande) – di Venosa. Ieri ella era da Spillmann: chiedeva dei bonbons, forse per il five o' clock tea. Aveva un cappello chiuso con un piccolo pennacchio di airone e di struzzo, e sul volto un velo moucheté. Ella parlava indolentemente con la Principessa – (colla P maiuscola) – Borghese, e la sua figura mirabile, dalle spalle ampie e lunate, dai fianchi opulenti – (cuscinetti segreti) – dalla sottilissima vita – (per virtù dell'imbusto) – tutta avvolta nella lontra odorante di Cypre e di sachet de velutine, faceva contrasto colla grave persona e con l'altera nobiltà matronale della interlocutrice» – che era una vecchia.
Due piccioni ad una fava! – Qual uomo dico uomo nel senso maschio della parola – imbattendosi in una signora, sarà capace di dirci, anche pochi minuti dopo, come e di che era essa vestita? Ma allo sguardo d'una femmina nulla sfugge: a lei basta una sola occhiata per dirci – come sa dirci il D'Annunzio – perfino quanti spilli porta addosso quella signora là, che passa sotto ai suoi balconi!
Sentitelo ancora:
Parla della Contessa – (colla C grande) – di Santafiora. – «... Quella strana figura di gentildonna s'incontra talvolta improvvisamente nella mattina, allo svolto di qualche via urbana, sul marciapiede. È una di quelle visioni che turbano un poco. A traverso il velo molto rado quella faccia pallida, irregolarmente bella, colla bocca rossa e certe volte quasi dolorosa, con li occhi di Venere Ciprigna, dà allo improvviso un'impressione, direi così, di fatalità, suscita all'improvviso, dirò così, un sogno d'amore misterioso, procelloso.»
Prima di scrivere cose sì belle intorno alla Contessa di Santafiora, parmi che il divo in erba siasi anzitutto assicurato della dabbenaggine del conte, che – senza la dabbenaggine – gli avrebbe, come no?, rotte le ossa.
E ancora:
– ..... Ella – (la detta Contessa) – porta un cappello nero, composto di merletti e di jais, altissimo, alleggerito da un bouquet di piume. Ha il passo svelto, tiene i gomiti aderenti alla vita, le mani nel manicotto, il manicotto stretto alla veste...»
Un'altra Contessa. È la Taverna. – «... Porta la lontra. Chi non sa il divino pallore di lei e i capelli neri pieni di riflessi blu ondulati, i lunghi occhi orlati da lunghissime ciglia?»
Una Duchessa:
È la Duchessa d'Artalia, «la piccola Duchessa magra da li occhi turchini e dai capelli cupi, la quale si distingue per le maniche amplissime, ricchissime, d'onde escono due minuscole mani candidamente.» – Io non so, ma parmi che la Duchessa d'Artalia sia punto bella, se il divo in erba ne loda solo li occhi turchini, le maniche ricchissime e le candide mani.
Un'altra Principessa:
È la Principessa d'Antuni. – «Ha una pelliccia breve su cui cade un bel ricciolo nero legato da un nastro azzurro pallido e crême». –E penso che si tratti d'una principessa assai brutta, se il divo in erba trovasi ridotto a dover solleticarne l'amor proprio a mezzo di «un bel ricciolo biondo», che, forse, è anche posticcio!
È la Duchessa di Magliano, «la quale porta una giacca gettata sulle spalle militarmente, con le maniche pendenti su l'abito di panno marrone ornato di soutache». – E son persuaso e convinto che trattisi di una duchessa dal volto e dal corpo inguardabili, se il divo in erba si è afferrato a quel «militarmente» come a una tavola di salvezza.
E ancora:
«Ma un vero trionfo di bellezza l'ebbe jer sera S. M. la Regina. Aveva un abito di broccato candido, chiuso intorno al collo, semplice molto, e sui capelli alcune rose thee. In quella semplicità le regali grazie luminavano più vive..... Quando Lohengrin salì sul battello del cigno, la regina si levò e apparve bellissima, erta di tutto il busto plaudente. Guardandola, io mai come jer sera sentii il fascino dell'eterno femminino regale.»
Ma delle semplici borghesi, anche se bellissime, Gabrieluccio si disbriga con disprezzo:
«Erano imbecilli che correvano su le rotelle, in mezzo a decorazioni molto acquatiche.»
Egli è un plebeo che vuole ad ogni costo arrivare; onde si pone a fare il Dandy. Un vestito aristocratico è un passe-partout. Imitatore insuperabile – (non è egli istrione nel più preciso senso della parola?) – ruba il gergo e i gesti all'élite e la vince nella cura meticolosa degli indumenti, dal cappello alle scarpe. Si vuole che più d'un sarto gli fornisse gratuitamente abiti elegantissimi perchè li portasse in giro sulla sua piccola, sì, ma graziosa persona, come una réclame ambulante. L'aristocrazia romana fu lo specchio nel quale egli studiò ed apprese tutte le falsità che adescano gli occhi, o che dànno negli occhi. Per lui l'essere fu – ed è sempre – il parere. Per lui la parure fu – ed è sempre – tutto. Illudere: ecco l'unico programma della sua vita. E in ciò – non c'è che dire – egli fu ed è sempre insuperabile maestro. Egli nacque col bernoccolo che è proprio del genio turlupinatore. Tutto gli serve bene allo scopo: ciò che per gli altri è senza valore, acquista nelle sue mani un immenso valore tornacontista. Il migliajo di futili e di sciocchi argomenti da lui trattati da cronista mondano provano una grande verità, ed è che un ciarlatano di genio è una specie di Domineddio, che può far qualche cosa di un niente. È, in fondo, l'arte della grande tailleuse, la quale di un manichino dalla faccia di cera fa una gran donna che attira e costringe le eleganti promineuses ad arrestarsi dinanzi a una devanture con occhi intenti e pieni di desiderio; ciascuna di esse, infatti, pensa: Oh! fossi io così ben vestita! Oh! costringessi io la gente a fermarsi come fa quel manichino! – Sapienza di mondo, e profonda, quella di Gabriele!
Il quale porta la nota artificiosamente aristocratica per fino fra le bestie. Sentitelo:
«O belle donne di Roma – (solo le belle!) – proteggete i levrieri: sono della vostra razza! Fate che anche in Roma i livrieri salgano in onore, i grandi cani lucidi come seta – (sempre il vestito!) – dalle gambe nervose, dal ventre roseo, dal fianco palpitante, come voi ardenti, come voi audaci, come voi infedeli.»
A quanto pare, l'infedeltà presso le «belle donne romane» è un titolo d'onore; e per ricordar loro questo titolo, il divo in erba calunnia i levrieri chiamandoli infedeli! – Infedeli!? Oh che nobili cani! Ohimè! – Le belle donne di Roma, lungi dal risentirsi di questo bel paragone fra esse e i levrieri, batterono le mani al «bel fanciullo», come esse lo chiamavano, il quale solleticava così bene la loro vanità!
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Sin d'allora, la smanceria, la preziosità, la cascaggine del suo stile dà a tutto quello di cui egli scrive un disgustoso sapore di falsità. Delle bagnanti nelle acque di Pescara egli vede «il furtivo apparire fra le spume – (non acque) – di spalle marse o marrucine, di ginocchi teramani, di anche frentane e di gambe vestine.» Il che significa che delle donne marse o marrucine appaiono tra le spume solo le spalle; delle donne teramane, solo i ginocchi; delle frentane, solo le anche, e delle vestine, solo le gambe!!! – Ma ciò che solo apparisce tra tutte queste assurde frasi è la preziosità vuota del futuro grande stilista!
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Della levatura o bassura intellettuale e morale di uno scrittore sono indice infallibile gli argomenti da lui preferiti. Un'anima eletta rifugge da tutto ciò che è comune, volgare, negazione di pensiero o negazione di sentimento. – Fin dall'inizio il D'Annunzio si compiace di argomenti futili, ma che, appunto perchè futili, piacciono tanto ai leggicchiatori e alle leggicchiatrici di cronache mondane e scandalose e di libri frivoli. Egli scrive di rose, di duelli, di strade, di piazze, di passeggiate, di funzioni religiose, di baci, di treni, di sigarette, di ricevimenti, di zolfanelli, di pellicce, di rilegature di libri, di cuoi artistici, di operette, di cani, di corse, di matrimonî, di strenne, del carnevale, dei fiori in Piazza di Spagna, dei balli in Corte, dell'estate in Roma, delle prime rappresentazioni, e infine di ogni cosa che abbia qualità visive o sensuali. – Della città eterna egli non riesce a vedere che solo quello che sa vedere la folla, specie, quello che sanno vedere le donne e i bambini, cioè solo quello che costoro possono materialmente vedere cogli occhi, non spiritualmente coll'anima, perchè l'anima loro è sempre assente. – Roma storica, Roma, non le sue pietre, ma il suo spirito, ma le sue multiple missioni di civiltà, ma le sue glorie e le sue sventure, la grande Roma imperiale e la ancora più grande Roma cattolica, questa Roma per lui non esiste, non esiste perchè egli non la vede, come la folla non la vede, come le donne e i bambini non la vedono. La sua Roma è in certe piazze, in certe vie, in certi teatri, in certi salotti, questi étalages delle ricchezze, dei titoli e degli scandali del «bel mondo» romano. Ed egli è beato di poter dire:
«Stamane il Corso è un gran fiume aureo dentro cui i corpi – (capite? i corpi, non le anime!) – s'immergono con voluttà. Uscite, uscite all'aria aperta, o signore – (per Gabriele non c'è al mondo altro che signore). – Le vie eleganti vi aspettano. La via dei Condotti è metà nell'ombra e metà nel sole, con in fondo la Trinità dei Monti, alta come un castello.... (E chi lo sapeva? alta come un castello. Oh la grande scoperta!) – e nella via dei Condotti, dalle botteghe degli orafi, dalle botteghe dei chincaglieri, da quelle del venditore di quadri, da quelle della venditrice di fiori sorge non so quale strana apparenza di lusso e quale bella concordia di colori in cui domina una trinità: il giallo velato dell'oro zecchino, il rosso cupo degli antichi damaschi, il marrone carico del bronzo orientale.»! – E non si avvede che cosiffatta trinità di colori la si può trovare, anzi si trova anche in moltissime vie non romane, per esempio, a Parigi, a Londra, a Berlino, a Vienna, e dovunque ci sieno botteghe di gioiellieri, di drappieri e di antiquarî che specolano sulla vanità e sull'ignoranza del loro prossimo denaroso.
Tutte le sue descrizioni «romane» di quel periodo e di poi procedono collo stesso metodo: egli enumera, chiamandole per nome, le cose che vede; perciò egli fa un grande sfoggio di nomenclatura, che è le piège che egli tende ai lettori e alle lettrici senza pensiero, i quali si mettono subito a sbraitare: «che conoscitore della lingua!, come se chiamare le singole cose col loro nome preciso significhi conoscerle nella loro funzione etica ed estetica! Voi potete addestrare quanti marmocchi vi talenti a ripetere con esattezza una filza di nomi; ma, quanto a chieder loro qual senso è in essi riposto, e, sopratutto, quali segreti legami essi hanno fra loro e coi nomi di tutte le altre cose, questo è impossibile. Ora, la sbalordente nomenclatura dannunziana è quella stessa che è depositata nei dizionarî; essa è solo nomenclatura, non è corpo, non è organismo, non è cosa vivente: la nomenclatura può produrre sì gran miracolo solo quando chi se ne serve abbia la visione interiore dalle cose, che, come singoli nomi, sono, sì, le pietre che debbono formare un'architettura, ma non sono architettura.
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Ma il più bello dei suoi studî fu quello di trasformare tutto sè stesso in un auto-réclame chiassosa e scandalosa. Ben è vero che a tanto egli giunse solo più tardi, quando, avendo già messo i piedi sulla strada consolare della pornografia, il gran successo pecuniario lo pose in grado di sfoggiarla da gran signore. Simile alle cortigiane che – per tener alto il loro prestigio, e più alta ancora la loro tariffa – spendono molto più di quello che truffano ai gonzi, Gabriele, nel quale già spuntava il «Divo», dava fondo in pochi giorni e sovente in poche ore, ai vistosi emolumenti dei suoi editori – (veri mezzani fra i lettori e lui) – col calcolato scopo che tutta la stampa narrasse al mondo le sue eccentricità, le pazzie da lui prese in prestito: fu così che il suo nome divenne celeberrimo e perfino familiare lippis et tonsoribus. Egli si fece una vita di avventuriero, lungo la quale, senza rischiare menomamente la pelle, ma solo la sua dignità, affrontò sovente il ridicolo con un coraggio, pardon!, con quella stessa faccia tosta con cui la prostituta, facendosi fotografare nelle pose più lascivamente nude, affronta i giudizî del mondo. Egli, infatti, si è ognora comportato da «prostituto» escogitando ogni giorno una maniera di vivere più rumorosamente disordinata e perversa.
Per citare un esempio fra mille, egli si portava sovente ai bagni presso la spiaggia versilina su di un bel cavallo grigio pomellato in compagnia d'una magrissima amazzone.... (una donna, ma di quelle... che si prendono a nolo a tanto l'ora) che attirava l'attenzione per la sua cavalla storna, e seguito da due palafrenieri in gran livrea su agili purisangne appositamente ingaggiati, e da una truppa di levrieri – (una trentina!) – che mettevano lo scompiglio e lo spavento trai bambini intenti a scavar buche nella rena «lungh'esso il bel lido dei longobardi conti». Il Divo coi suoi cani, coi suoi cavalli si lanciava in mare con frastuono di grida, di tonfi, di nitriti e di latrati; indi si distendeva sulla arena offrendosi alla ammirazione di tutti gli astanti. Così preparava la materia a nuova e strana réclame: infatti, attorno a cosiffatte improvvisate abitudini del Poeta correvano delle storielle, che, ripetute di bocca in bocca, assumevano carattere fantastico e forma leggendaria, che il Divo non smentiva, perchè egli stesso le aveva appositamente fabbricate; per esempio, si vociferava che «egli di notte si aggirasse per la spiaggia avvolto in un lenzuolo»; che «si ornasse di pepli purpurei e si atteggiasse in plastiche pose in pieno meriggio», e che «la Duse lo ricevesse in quel costume adamitico avvolgendolo in un manto di porpora...» – E lasciava dire che «la sera solesse bere per sessanta lire di champagne!» – Senza dubbio egli è il re degli auto-reclamisti. Se ben cerchiamo, troviamo che tutta cotesta sua vita tessuta di storielle ridicole ha fondamento in quella sua grande vanità muliebre, che lo sprona, lo punge, lo assilla: – se per la vanità le femine passano sopra il loro pudore, il Divo passa e sopra il suo pudore e sopra la sua dignità; ecco perchè le donne più vanitose debbono riconoscere che il record della vanità è stato vinto da Gabriele.
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Narrar la di lui vita nei suoi particolari sarebbe un'impresa interminabile e ne verrebbe fuori una grossa biblioteca. Ma non tanto il fatto della réclame quanto il saperne escogitare il mezzo più efficace e il quando più opportuno, ecco ciò che in Gabriele è davvero strabiliante. E mi si rizza davanti questa interrogazione: Non è Gabriele un genio? Sì, sì, sì: il genio della réclame. Ed allora io mi domando perchè non gli si dovrebbe erigere un monumento? Il genio – qualunque esso sia – merita il monumento, perchè il genio – qualunque esso sia – è sempre una rara individuazione che, nel campo che gli è proprio, non ha pari. Gabriele, infatti, nel campo che è suo, è e rimarrà senza competitori; basti dire che tutte le donne, in fatto di vanità, hanno sempre da apprendere qualche cosa da lui. Sì, il monumento egli lo merita, ed io son pronto ad offrire la mia quota, a condizione però che vi si incidano a grandi lettere queste parole:
Al genio di Gabriele
auto-reclamista senza uguali
la Nazione ramminchionita
q. m. p.
Ed ora – che che contro di lui vogliano dire gl'invidiosi – a me piace affermare che una cosa è certa ed è che Gabriele è malioso. In sulle prime, quando non lo si conosce davvicino, riesce immensamente antipatico; ma, a mano a mano che egli parla, che ti fissa negli occhi, che ti sorride, tu ti senti avvincere, soggiogare e te gli dài prigioniero. Gli è come il fascino – dico io – che le donne-mascoline, dal labbro superiore molto peloso, producono sugli uomini e sulle donne. È egualmente naturale che un uomo-femminino di scarso pelo produca lo stesso fascino: è la voluttà del doppio possesso nascente dalla mescolanza dei due sessi in uno stesso individuo.