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La critica parolaja, superficiale, accademica, irta di formole, di postulati, di problemi, di teoremi, di entimemi, di apoftegmi, et similia, con cui riesce ad abbagliare gli ignorantelli, ma che coi suoi occhi miopi non riesce a penetrare nelle cause da cui – come da seme pianta – derivano gli spiriti e le forme delle così dette opere d'arte, ha attorno al D'Annunzio conchiuso affermando che egli è un sensitivo per eccellenza.
Ora, la sensitività è requisito essenziale d'ogni grande artista, chè nessuna rappresentazione, vuoi del mondo reale, vuoi del mondo fantastico (il quale ha radice nel reale) è possibile se non proceda da sensazioni (prossime o lontane, non importa) che l'artista ha necessariamente avute o si è di proposito procurate, e dalle quali scaturiscono l'anima e la vita della sua opera d'arte. Chi più sensitivo di Dante? E cito questo nome perchè esso solo – che è il più grande nostro poeta – basta a persuaderci che non si può esser grande poeta senza possedere in altissimo grado la sensitività. – Così accade che, perchè un'opera d'arte possa dir qualche cosa al nostro spirito, deve prima impressionare i nostri sensi. Nessun quadro, nessuna statua, nessuna architettura, nessuna musica, e – per conseguenza – nessuna poesia – (la quale, può essere, volta a volta, o ad un tempo, tutte queste cose) – riesce a impressionarci se prima non svegli uno o più d'uno dei nostri sensi, i quali sono le vie necessarie affinchè le impressioni che chiamiamo estetiche giungano all'anima nostra.
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Son queste – ne convengo – cose che sanno anche i bimbi degli asili; ma non mi si rimproveri per averle qui ricordate: giacchè, se le ho ricordate l'ho fatto solo per farmi intendere (sia detto con sopportazione) da quegli altri bimbi della critica accademica e ciarliera, i quali ignorano per fino il significato delle parole. Infatti, essi fanno una sculacciabile confusione tra sensitivo e sensuale allorchè dicono che il D'Annunzio è un sensitivo per eccellenza, quando, in quella vece, il D'Annunzio è per eccellenza un sensuale.
Ora è bene che cotesti bambini sappiano che altra cosa è un sensitivo ed altra cosa un sensuale; giacchè, mentre il sensitivo ha tutti i suoi sensi in funzione d'equilibrio o di compenso, ed è perciò in grado di padroneggiarli, il sensuale non possiede che il solo senso della carne, della quale diviene lo schiavo per via della voluttà e della libidine.
Si rifletta, intanto, che sensualissimi – sensuali per eccellenza – sono coloro i quali, poco o punto provvisti dell'organo fisiologico necessario alla propagazione della specie, trovansi – (per compenso a cotanto difetto) – dotati di una sfrenata «satiriasi fantastica», della quale si servono per possedere – in visione – quante donne essi vogliono, vere o immaginate.
Ora, supponete che uno di costoro sia preso dalla fregola di scriver versi o di fare romanzi od opere teatrali, ed ecco, voi avrete uno scrittore tipo-D'Annunzio, il quale, se ha la disgrazia di nascere in Inghilterra, è processato e condannato; ma se ha la fortuna di nascere in Italia, è applaudito e glorificato.
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Guardate intanto: quelli che possono sempre e pienamente, cioè, fisiologicamente, cavarsi le voglie veneree, sono costantemente i più casti di lingua, di penna e di pennello. E la ragione ne è questa: per essi la donna non è un frutto proibito, chè anzi, tutte le volte che loro talenti di sedersi alla mensa venerea, possono di quel frutto mangiare a sazietà, sicchè vien loro a mancare il motivo di artificiosamente eccitarsi con immagini salaci e descrizioni pornografiche, come accade a coloro che a coteste immagini e a coteste descrizioni ricorrono per potere, almeno, mangiare colla fantasia i frutti che dalla parziale o totale impotenza fisica sono loro interdetti. È colla fantasia, infatti, che costoro denudano le donne e, con parole pregne di insaziato desiderio, ne descrivono le immaginate ascose bellezze con stupefacente verbosità, la quale ha per causa la irresistibile brama non soddisfatta giammai. Ecco perchè cotesti disgraziati non solo conferiscono alle femine che vivono nella loro accesa fantasia qualità corporee sempre perfette, ma anche passioni rabbiosamente lascive.
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L'opera del D'Annunzio costa ormai di molti volumi; ma se sottoponete quest'opera alla decomposizione della critica penetrativa per conoscere le fonti da cui essa scaturisce, voi vedrete che una sola ne è la fonte: la «satiriasi fantastica», che in lui è, a buona ragione, accentuatissima, in compenso del parziale, se non totale, difetto di funzione in un certo organo. E voi troverete ancora che, solo per dissimulare cotesto parziale o totale difetto, egli si è dato a immaginare romanzi e drammi, i cui protagonisti, se uomini, sono in preda alla satiriasi; se donne, sono in preda alla ninfomania. E troverete in ultimo che nei suoi «eroi» egli rappresenta costantemente sè stesso, affinchè si pensi e si dica di lui: «Che formidabile maschio!»
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Certissima cosa è che Gabriele non avrebbe osato scrivere un così gran numero di libri quasi tutti traboccanti di libidine, quali il Piacere, il Trionfo della morte, Forse che sì, forse che no, La Figlia di Jorio, Fuoco, San Sebastiano, ecc. ecc., se alla pubblicazione del Canto novo, nel quale egli osava offrire al pubblico il primo frutto della sua «satiriasi fantastica», gl'imbecilli moralisti di quel tempo lo avessero lasciato morire nel silenzio. In quella vece, essi lo assalirono a gran voci facendogli attorno la più clamorosa réclame, la quale produsse due effetti non voluti: quello d'indurre chi ancora lo ignorava a comprare il Canto novo, e quello di rendere famoso il suo nome presso tutti gli onanisti d'Italia. Sì, tutta l'altra opera del D'Annunzio non sarebbe venuta alla luce senza l'inopportuna ira di Giuseppe Chiarini, di Leone Fortis e di altri paperi siffatti.
Paperi, sì, paperi, giacchè sperare – come facevano costoro – che un ammalato di «satiriasi fantastica» potesse, ai loro rimproveri, provar vergogna del Canto novo, che era appunto il veicolo da lui escogitato per trovare uno sfogo alla sua impotente libidine, era una speranza da paperi. Un individuo che, a causa dell'intero o parziale difetto nel funzionamento di quel tale organo, tutte le ventiquattro ore della giornata viveva – come vive tuttavia – immaginando donne ignude dalle curve opulenti, dalle cosce levigate, dalle turgide ed erette mammelle, e, che è più, tutte ammalate di ninfomania, l'ha di ragione rotta colle leggi della verecondia, anzi con tutte le leggi della vita morale, e la natura per lui non è che un immenso lupanare, peggio, un abominevole continuo incesto, e la vita per lui non ha altro scopo che quello di aspirare l'odore acre di ascelle, di inguini, e..... d'altre cose. Onde accade che ogni sua produzione artistica (?) ha solo e sempre per motivo aperto o latente un pajo di femminee cosce desiderate, sì, ma non possedute; e il successo di coteste sue produzioni è solo dovuto e sempre alle parole veneree che, ogni volta, egli tira fuori, compiacendosene, ad una ad una come perle da uno scrigno: parole che si vedono per le lettere che le compongono, che si odono pel suono che producono, che si succhiano pel miele che contengono, e che aizzano le veneree brame dei giovani onanisti, dei vecchi debosciati, e, specie, di quelle lettrici che, bacate nell'anima, se non nel corpo non ancora posseduto dal maschio, si abbandonano ai lascivi «eroi» dannunziani, sostituendosi, colla fantasia, alle dannunziane «eroine» lascive.
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Ben è vero che da quando le sperticate lodi degli evirati della stampa lo fecero celebre e divo, egli si è provato in versi e prose attorno ad argomenti, diciamo così, puliti, ma è anche vero che giammai – come in cotesti esercizî estranei del tutto alla sua natura di satiro immaginifico – egli si è addimostrato infelice, impacciato, simile a un pesce fuor dell'acqua, e giammai la rettorica a freddo e la faticosa ricerca di parole morte od oscure si sono così scioccamente sforzate di nascondere la miseria intellettuale di lui. E negli stessi libri impregnati della sua sensualità venerea, le pagine nelle quali egli non descrive scene da bordello sono così puerilmente e scioccamente prolisse e snervate e cascanti che mai le uguali. – Sì, egli è caldo, egli è vivo, egli è colorito, egli è pittore efficace nelle descrizioni in cui un ammalato di satiriasi e una ammalata di ninfomania lottano insieme a chi meglio riesca a sfogare la sua libidine; ma gli è che solo allora egli è sincero, giacchè in quell'uomo e in quella donna egli descrive – col desiderio che lo martella – le ninfe che colla fantasia egli possiede, e i satiri dai quali colla fantasia si fa possedere.
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Ricordate Paolo Tarsis ed Isabella Inghirami di «Forse che sì, forse che no»? – Paolo Tarsis, che è – voi lo sapete – un lussurioso e nel quale il D'Annunzio intende presentarci un maschio autentico, ha tutte le caratteristiche dell'impotente affètto da satiriasi fantastica. – Guardatelo: egli è in automobile con la Isabella, e, pur struggendosi dal desiderio di possederla, si astiene financo dal toccarla. – Perchè? Il desiderio in lui arriva al parossismo, ma se egli non lo appaga non è già perchè ci siano ostacoli indipendenti dalla sua volontà, per esempio, la castità della donna, che, viceversa, è oltremodo impudica, ma perchè Tarsis – (nel quale il D'Annunzio ha ritratto sè stesso) – conosce la sua.... incapacità.
«In una carne che egli desiderava s'era convertito per lui tutto il desiderio del mondo, e la immensità della vita e del sogno s'era ristretta in un grembo caldo.»
Proprio, come accade al D'Annunzio. – Quello che accadeva al Tarsis, infatti, accade a tutti gli impotenti che, senza testimoni, si trovino in compagnia d'una donna pronta a darsi, i quali – pur avvampando dal desiderio – sanno che lo strumento necessario a soddisfarlo non dà in loro alcun segno di vita.
E Isabella? Ecco, essa non è una realtà, ma una immagine; essa è la donna che il D'Annunzio vede col suo desiderio d'impotente e, col suo desiderio d'impotente, denuda, e per prima cosa ne vede «le cosce lisce come quelle dei chiari crocefissi d'argento, levigate da mille e mille labbra...» – e poi ne vede «le mammelle piccole sul petto largo come il petto delle muse.»
(Dentro parentesi si vuol sapere dove e quando il D'Annunzio ha visto le muse per sapere che hanno il petto largo?)
Ed è il suo desiderio d'impotente che gli fa scrivere:
«Essa si nudò il petto e prese fra le dita delicatamente una delle piccole mammelle rimaste verginali..., ed egli sentì sulla faccia l'odore caloroso delle ascelle; sentì nelle sue labbra il piccolo frutto duro del seno....»
E potete giurarci: chi sente nelle labbra il piccolo frutto duro del seno d'Isabella è il D'Annunzio, che non può altrimenti procurarsi cosiffatte voluttà che colla fantasia. Sì, è lui che – colla fantasia – «aspira l'odore caloroso delle ascelle femminili», ed è anche lui che – sempre colla fantasia – si unisce carnalmente all'Isabella.
Infatti, egli ci fa sapere che Tarsis e Isabella vivono da amanti, vivono, cioè, possedendosi vicendevolmente; ma questo gli era facile dirlo nel romanzo; e non si avvede della contraddizione che è fra la funzione fisiologica di possessore, da un lato, e le qualità caratteristiche d'impotente che, dall'altro e ad un tempo, egli conferisce al Tarsis. Il quale – infatti – è un libidinoso, vuol dire uno che è ben capace di possedere l'Isabella cogli occhi, colle mani, colla lingua, ma, per ciò stesso, incapacissimo di possederla con l'atto fisiologico, che è quello che ci salva dalla libidine, la quale è una vera e propria malattia dei vecchi anzichè dei giovani, eccetto i giovani come Tarsis, e, specie, come il D'Annunzio, che l'atto del coito compiono sempre e solo colla bocca.
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Nel suo primo romanzo «Il Piacere» la prima manifestazione d'amore ha tutte le caratteristiche dell'impotenza libidinosa. Andrea Sperelli vede Elena, e, vederla e possederla in immaginazione è un punto solo.
«Immagina di chinarsi e di posare la bocca sulla nuda spalla di lei. Gli giungeva il profumo di lei... Tutto il suo essere insorgeva e tendeva con smisurata veemenza – (come accade agli eunuchi) – verso la stupenda creatura. Egli avrebbe voluto involgerla, attrarla entro di sè, suggerla, beverla, possederla in qualsiasi modo sovrumano.»
Possederla, cioè, non umanamente, e perciò, non fisiologicamente, perchè al D'Annunzio ciò non è possibile.... ma succhiandola, bevendola, e, quindi, facendosela entrare in corpo!! – Dicendo questo è come se egli si ponga a gridare ai quattro venti la sua impotenza; ma gli è che gl'impotenti sono soggetti a tali estremi parossismi di libidine, che – pur di soddisfarla in qualche modo superumano, o subumano, che torna lo stesso – non che perdere ogni vergogna, si espongono perfino al rischio di farsi lapidare.
La spalla nuda di Elena abbaglia e fa tremare lo Sperelli; ma – e potete giurarci – chi alla vista di quella spalla si sente abbagliato e trema d'impotente desiderio è il D'Annunzio, che nel romanzo ha preso il nome di Sperelli.
«Nell'atto, l'ampia manica del mantello di Elena scivolò lungo il braccio oltre il gomito» – A tal vista «un fremito gli mosse le labbra, ed egli trattenne a stento le parole desiose.»
E la notte si pone «a sognarla a occhi aperti», cioè, a possederla in immaginazione, nuotando in una «felicità senza fine».
Ma, ecco, Andrea ed Elena si uniscono. Ma come si uniscono? Dice il D'Annunzio – e il dirlo non gli costa niente – che
«la passione li avvolse e li fece incuranti di tutto ciò che per amendue non fosse un godimento immediato».
E aggiunge che
«nell'esercizio di tutti i più alti e i più rari diletti ricercavano senza tregua il Sommo, l'Inarrivabile».
Cercavano, cioè, di succhiarsi e di beversi scambievolmente, meglio ancora, di entrare vicendevolmente l'uno nel corpo dell'altro – per scambiar tra loro i sessi – ma senza riuscirvi.
«Nei baci di Elena era per l'amato l'elisir sublimissimo. Di tutte le mescolanze carnali quella (il bacio) pareva loro la più completa, la più appagante.... Per prolungare il sorso, contenevano il respiro finchè non si sentivano morire, mentre le mani dell'uno tremavano su le tempie dell'altro smarritamente...»
«Mi sembra – diceva Elena ad occhi chiusi – che tutti i pori della mia pelle siano come un milione di piccole bocche anelanti alla tua, spasimanti per essere elette, invidiose l'una dell'altra.»
«Egli allora si metteva a coprirla di baci rapidi, fitti, trascorrendo tutto il bel corpo, non lasciando intatto alcun menomo spazio – (capite?) – non allentando la sua opera, mai. Ella rideva, felice, sentendosi cingere come da una veste invisibile; rideva e gemeva folle, sentendo la furia di lui imperversare; rideva e piangeva, perduta, non potendo più reggere al divorante ardore» – che lo Sperelli – per le ragioni che sapete – non era in grado di spegnere!
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E una domanda viene spontanea: Amandosi in cosiffatta guisa, consumano essi o non consumano l'atto fisiologico del coito? – L'atto fisiologico?! Pouah! Ed è questo, forse, un piacere per un impotente? – E dunque? – D'Annunzio – o Sperelli, che è lo stesso –si unisce ad Elena, sì, ma superumanamente, cercando il Sommo, l'Inarrivabile, succhiandosi e bevendosi, a vicenda.
«I due – (Andrea ed Isabella) – parevano trovar riposo nello sforzo...»
Ora, è forse lo sforzo un atto fisiologico?
E mentre si sforzano, Elena dice al D'Annunzio – o allo Sperelli, che è lo stesso:
«La mia tenerezza per te diviene quasi materna.»
E lui:
«La nostra comunione è così casta, che io ti chiamerei sorella.»
Come si vede, sono, questi, due incesti, che essi commettono col desiderio: amore di madre pel figliuolo, amore di fratello per la sorella.... Che di più casto pei due che si succhiano e si bevono a vicenda? Ma, e perchè no casto – dico io – se, infine, mancava l'atto fisiologico? E questi due casti, questa madre e questo figliuolo, questo fratello e questa sorella «ovunque passavano lasciavano una memoria d'amore..... Possono dirlo le chiese dell'Aventino. Santa Sabina su le belle colonne di marmo pario, il gentil verziere di Santa Maria del Priorato, il campanile di Santa Maria in Cosmedia simile ad un vivo stelo rosso nell'azzurro, conoscevano il loro amore», avevano assistito, cioè, al loro succhiarsi e al loro beversi!
Che più? C'è in questo romanzo una donna «casta», Donna Maria Ferres, la quale dice così:
«I cori dei Centauri, delle Sirene e delle Sfingi nell'Ermafrodito – (un poemetto di Andrea Sperelli, o del D'Annunzio, che è lo stesso) – dànno un turbamento indefinibile, svegliano nell'orecchio e nell'anima una inquietudine, una curiosità non appagata, prodotta dal continuo contrasto di un sentimento duplice, d'un'aspirazione duplice, della natura umana e della natura bestiale. Ma con quale purezza, e come visibile la ideal forma dell'Androgine si delinea tra gli agitati cori dei mostri!»
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Androgine! Ecco, ecco perchè Elena ed Andrea si succhiano, si bevono, si sforzano di entrare l'uno nel corpo dell'altro! Gli è che un impotente, non essendo, fisiologicamente parlando, nè maschio nè femina, può, a piacer suo, immaginarsi maschio o immaginarsi femina, e duplicare, così, il suo piacere come possedente e come posseduto. Ed ecco, ecco perchè, non solo nei personaggi maschi a modo suo, ma anche nei personaggi femmine a modo suo, il D'Annunzio non fa che ritrarre sè stesso. Sì, «dentro i simulacri vani dei suoi personaggi, sia che egli finga uomini o donne, vergini o efebi, maschi procaci o femine lascive, è lui che s'introduce in loro e che presta loro i suoi furori, i suoi impeti, i suoi delirî, i suoi disfacimenti voluttuosi; è lui che, nel graviglio di un desiderio patologico in cui tutte le libidini si chiamano e s'incontrano dalle più rudi alle più raffinate, a quelle figure presta i fremiti, i sospiri, i bramiti, i ruggiti. Pantea è lui, Basiliola è lui, e anche Fedra è lui. Isabella Inghirami è lui, e lo è anche Mila di Codro e lo è anche l'Inimica del «Trionfo della Morte», e via e via e via tutte queste femine che ci passano innanzi in una ridda di contorcimenti lascivi, tutte son carne della stessa carne: la carne di lui.»3
Ed è perciò nauseante. Ma gli è certo che – mentre, come uomo mancato, supplisce al suo difetto colla fantasia, immaginando unioni e scene libidinose – come istrione che sa il fatto suo, procaccia a sè la più grande réclame in mezzo alla innumerevole classe dei corrotti che collezionano immagini oscene.
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Cotesto corrottissimo ed effeminatissimo scrittore che in Inghilterra – ripeto – sarebbe processato e condannato per continuo attentato al pudore, da noi – ripeto ancora – è fatto divo ed immortale. Gli è che sono molti quelli che qui da noi speculano sulla salacità evirata dannunziana: editori e impresari di grido vi han trovato una miniera; la réclame a pagamento ci si è ingrassata, e più lo si glorifica questo puttano autore di romanzi e di drammi-lupanari, beniamino dei salotti-bordelli, dei ragazzi mastrupatori e dei vecchi debosciati, e più la bottega della speculazione allarga i suoi affari e accresce i suoi introiti.
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Molti sono coloro che pongonsi a imitare il Divo; ma se essi sapessero da quale causa inconfessabile il Divo ritrae la materia e la forma dei suoi libri, essi – meno gl'impotenti – se ne ritrarrebbero con vergogna ed orrore. Ma, tant'è, quante donne oneste non tolgono a modello le vesti e le maniere delle più famose cocottes? C'è nelle vergogne sanzionate dalla moda una seduzione irresistibile, perchè è in quasi tutti gli individui d'ambo i sessi un grande irresistibile bisogno di deviare dalla sanità pura dei sensi e dello spirito e di crearsi uno stato di corpo e d'animo morboso, fuori del quale non saprebbero vivere.
Sventuratamente oggi la critica non si chiama De Sanctis, ma si chiama Croce, si chiama Thovez, si chiama Oliva, si chiama, persino – (chi lo crederebbe?) – si chiama Borgese!; e questo spiega come mai il D'Annunzio sia potuto essere discusso seriamente e trattato coi così detti dovuti riguardi!
Ahimè! Ed io immagino che cosa ne avrebbe detto il De Sanctis, dato che al tempo del De Sanctis fosse stato possibile un fenomeno-D'Annunzio. Certo, se il grande critico rinascesse, egli scaccerebbe dal tempio dell'arte cotesto schifoso profanatore e i di lui degni discutitori, compreso il Croce suo sedicente discepolo, il quale si è messo a vagliare seriamente il D'Annunzio!
Seriamente! Ma non ci sono che due soli modi possibili per occuparsi di costui: o fustigarlo colla corda che Cristo adoperò contro i profanatori del tempio, o sbertucciarlo con una grossa risata. Quanto a me, ecco: io preferisco il secondo modo.