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Gabriele è venuto al mondo per compiere una grande missione, quella di iniziare gl'inferuomini alla superumanità, insegnando loro a «godere i frutti della vita»: egli vuole che essi si castrino per potere godere dei piaceri venerei «superumanamente» come ne gode lui. E a questo scopo altissimo, egli si porge loro ad esempio da imitare. Infatti, egli si presenta loro in due momenti opposti, sì, ma entrambi superumani: nel momento, cioè, della bramosia impotente di fisiologicamente godere, e nel momento della stanchezza di avere non fisiologicamente goduto.
E tutta l'opera sua di molti volumi è stata da lui indirizzata a questo scopo.
Il Canto Nuovo è pieno di impotente animalità bramosa.
San Pantaleone e le altre novelle sono piene di folla bestiale, di deformità fisiche e morali ripugnanti, che egli di proposito escogita, volendo insegnare che fonte di insuperabile piacere superumano – cioè piacere da eunuchi – è la insensibilità sentimentale che cambia la crudeltà libidinosa in un piacere squisito.
L'Intermezzo di Rime è il passatempo di una femina, la quale – a riposarsi dalle fatiche di notturni voluttuosi piaceri – si pone a ricamare vesti e camiciuole per le bambole delle sue piccine che essa non ama.
Il poemetto «La tredicesima fatica d'Ercole» è semplicemente grottesco: è il passatempo d'uno scoglionato che improvvisamente si trova – grazie alle sue fattezze di fanciulla «innocua» e «insospettabile» – fra le gonne di femmine titolate e ben navigate nei segreti delle alcove, alle quali è giocoforza che egli si renda piacevole colle riverenze e le svenevolezze di un abatino settecentesco di sesso incerto. E da quelle sue svenevolezze uscirono, infagottati negli sgonfi della moda spagnolesca, l'Isotteo e la Chimera, che, rilegati in marrocchino rosso con fregi d'oro, sono – non c'è che dire – un grazioso ornamento per salotti signorili.
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Furono questi i preludî della missione effeminatrice di Gabriele, da lui iniziata sotto l'imperativo categorico della sua corporalità carnale votata unicamente al «Piacere».
E il Piacere – suo primo romanzo – può, deve, anzi, considerarsi come la prolusione al suo gran corso di letteratura pornografica per uso e consumo delle femine debosciate e degli uomini senza scroto.
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Ed ora mi si permetta ch'io rida, sino a tenermi i fianchi, di coloro i quali seriamente credono che il D'Annunzio siasi un giorno accorto della abiezione della sua sensualità animale e che abbia tentato di liberarsene. Ciò equivale a credere, per esempio, che un majale possa provar nausea della sua vita di majale e che, perciò, pensi di uscirne per viverne una migliore! Ohimè! e vi hanno dundi quelli ai quali pare possibile che un individuo – chiunque esso sia – bestia od uomo, – possa cambiare la sua natura! Tanto varrebbe ammettere, non solo che un porco possa diventare un cane o un asino o altro animale, a sua scelta, ma ancora che una femina possa, a voler suo, diventare un maschio. Costoro, dunque, non sanno che, per liberarsi dalla sua sensualità animale – (sarebbe meglio dire, determinando, sensualità porcina) – il D'Annunzio avrebbe dovuto, o dovrebbe fare una cosa impossibile, eliminare, cioè, i due ostacoli che egli porta fatalmente con sè: la sua imperfetta organizzazione fisica e il suo assoluto difetto di un'anima morale; in altre parole, egli sarebbe dovuto diventare o dovrebbe diventare un essere fisiologicamente completo ed eticamente sano, il che gli era e gli è assolutamente impossibile. – Sì; la lettura dei romanzi russi – (tutte le donne e tutti i deboli vanno soggetti al fascino dell'imitazione) – lo trascinò ad imitarli: ma non riuscì che a farne la parodia. L'Innocente, Giovanni Episcopo ed anche il Poema Paradisiaco non sono Bontà, ma trucchi di bontà; accozzi di periodi e di versi, in cui le parole, che vorrebbero esprimere la bontà, non sono che una verniciatura sopra del legno putrido, e a traverso la quale la putredine, qua e là, fa capolino. Ecco qui, per esempio, «Panphila» del Poema Paradisiaco. Meditate anzitutto su questo nome, il quale vuol dire «femina che ama tutti» e sotto il quale il D'Annunzio adombra la meretrice, «la femina di tutti» e poi leggete:
E l'amerò nelle sue membra impure,
e coglierò tutto il desio terreno,
conoscerò tutto l'amor del mondo....
fra le braccia di una puttana! – Come vedete, il porco, che, per un momento, s'era mascherato da cigno, è rimasto porco. E che porco! – La grossolana turlupinatura fece nausea – ed è tutto dire – perfino allo stesso D'Annunzio: si trattava nientemeno di uno sforzo contro la sua speciale natura di femmina debosciata, e perciò doveva fallire; ma, giusto allora, al gran rumore che facevano le opere del Nietzsche e, specie, il «Così parlò Zaratustra», quella sua stessa speciale natura, nella quale prevale la femmina, lo trasse una seconda volta all'imitazione; ma fu – come sappiamo – una imitazione insulsa e ridicola, perchè la sua natura di femmina e di porco lo trasse, a traverso una sequela di ridicole concezioni «superumane» di eroi da alcova e di eroi da manicomio, lo trasse, dico, a concepire, come l'ultima e la più elevata forma di superuomo, quella dell'androgine, o se vi piace meglio, quella di sè stesso. – Le Vergini delle rocce, Gioconda, Gloria, Più che l'Amore, Fuoco sono i principali gradini pei quali egli vuol dare ad intendere di salire verso la più sicura ed assoluta affermazione della sua «superumanità», e in quella vece non fa che ammannire i più irrefragabili documenti della prevalente sua femminilità corrotta, che delira, evaporando in impotente lascivia e in vanità inane. – Guardateli, dunque, cotesti suoi eroi «superuomini» nei quali successivamente egli ritrae, ogni volta, tutte le sue qualità negative. Vorrebbero essere degli ingrandimenti della sua davvero minuscola personalità, e non riescono invece – parrebbe impossibile – che ad impicciolirla di più! – Gli è che il D'Annunzio non obbedisce che all'impulso che egli può soltanto ricevere dalla qualità precipua della sua femminezza, dico la vanità, la quale costantemente produce l'effetto opposto all'illusione di chi ne subisce l'imperio. Come quelle tinture per capelli di cui non pochi ridicoli vecchi si servono per dare agli occhi altrui l'illusione della loro «giovinezza» e non fanno, invece, che più presto gridare in pubblico la loro senilità, così la vanità – (questo cosmetico di cui il Divo si serve per nascondere la sua piccolezza) – inducendolo a rappresentarsi nei suoi eroi «superuomini» che, a causa delle loro sperticate dimensioni rettoriche, cascano nel grottesco e nel ridicolo, non fa che meglio mettere in mostra la sua minuscola intellettualità e la vuotezza della sua vita di vanesio millantatore di sè stesso.
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Poichè il D'Annunzio è refrattario a qualsiasi serio grande ideale, e poichè – a causa della sua speciale natura di effeminato e di debosciato – non può essere altra cosa che un sensuale, e della peggiore specie, come tutti gli impotenti, è chiaro che i suoi alter-ego, i protagonisti delle opere citate, non posseggono alcun mezzo adeguato all'attuazione della «grande idea» che egli loro suggerisce, la quale – si badi bene – è sempre un'idea che non sorge dall'intimo d'una coscienza, ma che viene di fuori (perchè è un'idea scelta come un tema che si dà a svolgere nel giorno degli esami a degli scolaretti) e dalla quale finiscono per essere schiacciati: voglio dire che gli eroi nominali dei romanzi e dei drammi del Divo si dileguano tutti in una vacuità di parole «eroiche» e di parole «grandi», parole eroicamente e grandemente assurde, grottesche e ridicole, e tutti finiscono per ridursi alle dimensioni d'uomini men che comuni, volgari ed abietti: o delinquenti o lascivi. E a lato a ciascuno di cotesti «eroi-superuomini per burla» il Divo pone costantemente una donna pronta a soddisfarne le voglie di satiro nominale, o ad esaltarsi alla balorda idea d'una assurda ridicola impresa. È questo il condimento necessario affinchè gli eroi dannunziani riescano prediletti al volgo dei lettori-barbieri, i quali, nella impossibilità di avvedersi della miseria superumana di cotesti eroi, vedono però bene in essi degli eroi da alcova, le cui giostre d'amore costantemente combattute colla lingua – come si addice a formidabili maschi – sono le immagini in cui essi si affisano nelle loro notturne mastrupazioni.
Ma è bene ripetere le dieci, le cento volte che in cotesti suoi eroi-superuomini il D'Annunzio non fa che ritrarre istrionicamente sè stesso; il che ci fa intendere perchè essi son tutti dei fantocci che egli muove e fa parlare come gli impone la sua vanità, cioè esagerando in essi e illaidendo di più i suoi difetti e i suoi vizii; e intendiamo anche perchè, se essi superano gli uomini, se sono, cioè, dei «superuomini», lo sono solo nella loro falsità verbale e verbosa, nelle loro immagini secentesche, nelle loro similitudini sciocche ed oscure, nelle loro iperboli maniache, nelle loro ripetizioni ossessionanti, nella loro nullità sconfinata di esseri inutili, in fine, nella sfacciataggine senza uguale di laudatori della propria superiorità, come appunto di sè stesso fa il loro autore.
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Tutto il suo contatto col Nietzsche consiste nel furto della parola superuomo. Innanzi tutto tra lui e il grande pensatore sassone manca l'essenziale anello di congiunzione: difatti, mentre egli sagrifica tutto alla sua carne, l'altro sagrifica tutto al suo spirito; e la conseguenza che deriva da queste due forme opposte di vita li divide ancora di più: infatti, la folla comprende e applaudisce il D'Annunzio, gli pone in mano lo scettro e in testa la corona, lo proclama suo padrone e re; l'altro visse ignorato, e quando qualcuno per la prima volta ne fece il nome ed espose sommariamente la sapienza quasi inaccessibile da lui depositata nei suoi libri stampati a cinque esemplari, la folla disse: è un pazzo!
Ma vi hanno forme di pazzia nobilissime, per esempio, quella di Don Chisciotte – il pazzo collettivista – il quale vuole, nientemeno, mettere l'umanità sulla via del dovere e della giustizia! – Allato a questo nobilissimo pazzo, eterno martire di un irraggiungibile ideale, possiamo collocarne un altro, F. Nietzsche, il nobilissimo pazzo individualista, che tutta la vita spese a costruirsi una via di ascensione spirituale. E noi ci inchiniamo a Don Chisciotte e ci inchiniamo al Nietzsche, all'idealista della redenzione collettiva e all'idealista della redenzione individuale, i quali, in fondo, furono uguali nel martirio, che per entrambi aveva radice nella stessa causa: «la volgarità insanabile degli individui e, conseguentemente, della società.» Ed è anche per ciò che questi due nobili idealisti – (quantunque sembri che battano opposte vie, immolandosi l'uno alla redenzione di tutti, immolandosi l'altro alla redenzione di sè stesso) – si incontrano e si dànno la mano, perchè il concetto della superumanità e quello del superuomo, in fondo, non sono che uno, non essendo possibile una superumanità senza superuomini, non essendo cioè possibile una umanità redenta da tutte le volgarità se gli individui che debbono comporla non siansi già da sè stessi redenti da tutte le umane imperfezioni. È questa la ragion per cui il concetto del superuomo, quale il Nietzsche voleva vedere anzitutto attuato in lui stesso, per quanto agli occhi nostri sia – come è di fatti – un concetto assurdo a causa della sua assoluta impossibilità di attuazione, si impone al nostro rispetto. Gli sciocchi grideranno: dàgli al pazzo!; ma noi – già ammiratori dell'hidalgo dalla triste figura, che smagrisce, allampana, si espone al dileggio e alle risate del volgo, che egli vuole redimere, e per amore del quale si farebbe, occorrendo, configgere sulla croce come Cristo – noi – dico – chiniamo riverenti la fronte dinanzi al Nietzsche che all'altissima irraggiungibile sua idealità bruciò tutto il fosforo del suo cervello, e non ne ebbe in premio che lo smarrimento totale della ragione. Il superuomo nietzchiano è un personaggio eminentemente tragico; esso rappresenta la più gigantesca lotta che siasi sin qui combattuta contro il Fato, che vuole gli uomini pecora obedientia ventri. Sì, egli potè sentirsi e proclamarsi superuomo, e certo lo fu per la sua super-aspirazione, e anche – perchè no? – per avere vissuta una vita solitaria, aborrente dagli interessi e dalle passioni che martellano gli uomini; lo fu perchè in lui – sebbene foggiato fisicamente come tutti i figli di Adamo – visse un nuovo tipo d'uomo interiore, d'uomo spirituale, d'uomo etico ed estetico, capace di schiudere all'anima sua le mirifiche fonti dell' assoluta Bellezza, la quale è in sè anche Bontà e Verità, salvo che non è la bontà e la verità del gran volgo, ossia di tutti coloro – e sono la quasi totalità – i quali non possono in nessun modo raggiungere nè tampoco intendere e sentire la Bellezza.
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Come si vede, questa condizione, cioè l'aborrimento assoluto da tutto ciò che è volgo, è pel «superuomo nietzschiano» una conditio sine qua non. Ed è questo il punto che scava fra il Nietzsche e il D'Annunzio, fra il superuomo nietzschiano e il superuomo dannunziano un abisso incolmabile. Il Nietzsche fu e rimane il tipo più accentuato trai grandi idealisti martiri di una grande e bella utopia; in quella vece il D'Annunzio è un vanesio, un poseur, un istrione, un ciarlatano come tanti ce n'è stati, ce ne sono e ce ne saranno, il quale ha essenziale bisogno del volgo, e fa essenziale assegnamento sul volgo perchè senza il volgo egli sarebbe niente. Egli ha avuto ed ha, infatti, un solo scopo, quello di far danari, coûte que coûte. La réclame gigantesca di cui si è servito e si serve grida ai quattro venti che egli è uno speculatore commerciante, un lanciatore di Pillole Pink. – Il Nietzsche edificava i suoi libri lungo una via senza fine tutta in salita, come un alpinista che edifica un asilo sur ogni vetta che lo leva più in su; e attorno a lui vi aveva silenzio e solitudine. Attorno al Divo – in vece – c'è la gran piazza piena di volgo da lui convocato a suon di grancasse e di fanfare, al quale grida e fa gridare la sua «divinità». Egli è così diverso e lontano e al di sotto del Nietzsche come e quanto una grottesca parodia è diversa, lontana e al di sotto di una grande opera d'arte e di pensiero. Il Nietzsche è il solitario per eccellenza, come di ragione ha da essere un genio che escogita le ascose fonti dell'assoluta Bellezza; egli basta a sè stesso perchè realmente egli sente in sè quell'Umanità superiore che lo distacca per forza irresistibile, fatalmente, dalle moltitudini, delle quali, conseguentemente, disprezza l'applauso; tutta l'opera sua è un'opera di purificazione e di ascensione sino al limite estremo, di là dal quale c'è la follia e la morte. Il D'Annunzio è un mondano per eccellenza che ama produrre molto scalpore attorno a sè servendosi di qualsiasi mezzo, anche presentandosi alla moltitudine coi suoi cani ammaestrati, come un clown; coi suoi cavalli di «nobile razza», come un cavallerizzo; colle sue mille toilettes, come una cortigiana, e sempre azzimato, odorante, trascinandosi dietro un esercito di moretti acclamanti, circondato da disegnatori, da fotografi, da mimi e da ballerine, mollemente, mellifluamente, donnescamente gestendo e parlando, lodandosi, esaltandosi, divinizzandosi, e con appiccicata tutto intorno alla sua macra piccioletta persona questa etichetta: Io sono superuomo. E sotto agli occhi spalancati della folla, ecco, opera un gran prodigio, quello d'intascare – ogni volta – molte decine di migliaja di lire per opere «superumane» che vanno costantemente a finire – se drammi – sotto una tempesta di fischi; se romanzi – nei gabinetti di lettura aggregati ai postriboli e luoghi affini.
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Il «superuomo dannunziano» è costantemente un licenzioso, cioè uno che si arroga il diritto di rompere tutte le leggi sociali per dare libero sfogo alle sue passioni carnali, o per compiere delle stupide imprese; egli è perciò o un debosciato che giunge perfino a gloriarsi dell'incesto, o un incosciente che giunge perfino a gloriarsi dell'assassinio.
Il Divo non può modellare i suoi superuomini che sopra se stesso, onde è naturale che egli conferisca loro le sue proprie qualità.... superumane. Ma poichè nella realtà egli non può avvalersi di siffatte sue qualità per l'ostacolo che egli trova nel codice penale, così accade che coteste sue qualità egli le fa funzionare per mezzo dei suoi superuomini, i quali fanno appunto tutto quello che egli farebbe se il codice penale non glielo impedisse.
Ed è così che egli riesce a «glorificare» tutto ciò che per la società è degradazione e delitto. È come se egli dicesse:
«Io, superuomo, son posto dalla mia superiore natura sopra le leggi che riguardano solo gli uomini. La società che non riconosce il mio diritto alla impunità rispetto alle leggi che la governano e manda gli agenti della forza pubblica ad arrestare me nella persona di Corrado Brando, mio alter-ego, è uguale alla belva incosciente che, quando fa a brani e divora il suo domatore, ignora qual capolavoro di superiorità ha essa distrutto.» – È perciò che i superuomini da lui laboriosamente, artificiosamente e scioccamente escogitati non rappresentano che i vari stati «di potenza superumana», dei quali egli – superuomo per eccellenza – (come se dicessimo: superuomo per ridere) – avrebbe fatto già o farebbe l'assaggio, se la società degli uomini si fosse piegata o si piegasse – come, a creder suo, ne aveva e ne ha il dovere – a riconoscere i suoi diritti di «superuomo», perciò di insindacabile, di inviolabile, e nel tempo stesso di glorificabile, per qualunque cosa a lui piacesse dire o fare. – Di cosiffatti suoi diritti egli, intanto, non ha potuto esercitarne personalmente che un solo: quello alla glorificazione, perchè esso sfugge alla sanzione penale. Lo scrocco, il furto della gloria, difatti, non è – ed è un gran male – non è passivo di alcuna pena; ma bisogna riflettere che cosiffatta glorificazione la società degli uomini non la permette solo ai sedicenti superuomini, ma anche a qualsivoglia ciarlatano che riesca a turlupinarla. – Ma gli altri suoi diritti «superumani», poichè non gli è dato esercitarli personalmente, egli li esercita per via dei suoi eroi superuomini. E che in nome di cosiffatti diritti quei suoi superuomini commettono delle scempie o delle orribili cose, lo dicono bene le risate e i fischi sotto i quali gli spettatori e i lettori volta per volta li seppelliscono.
Se non che, io penso che fischi e risate non facciano insieme il castigo di cui il Divo si è reso meritevole. E perciò batto le mani a quel gruppo di bravi giovani che, usciti dal Costanzi la notte dei celeberrimi fischi, visti per via Firenze dei carabinieri, gridarono ad altissima voce:
– Carabinieri, arrestate il D'Annunzio!
Infatti, non era il D'Annunzio un truffatore? Non aveva egli, con l'aiuto dei compari della stampa e con la mendace promessa di «un gran capolavoro», truffato bellamente 15800 lire agli spettatori? E non è la truffa un delitto? – Inoltre, non aveva il D'Annunzio commesso uno ancor più grosso delitto, rubando una fama e una gloria che non gli appartengono? E ancora: poichè Corrado Brando è il suo eroe prediletto, e poichè nel Brando si annida lui, e poichè egli si compiace di far commettere al Brando – in omaggio ai suoi diritti di superuomo – un assassinio ed un furto, ed anche gli pone in mano la rivoltella per far fuoco sulle guardie che vanno ad arrestarlo, non è anche il D'Annunzio – almeno nell'intenzione – un volgare delinquente? Trovandosi nelle identiche condizioni in cui egli colloca, compiacendosene, il suo «eroe», non avrebbe egli agito come il suo «eroe»? E allora? Non era, e non è anche ora, per tutte queste ragioni, arrestabile il D'Annunzio? Ecco perchè io batto le mani a quel gruppo di bravi giovani, che – ancora sotto l'orribile impressione dei delitti dal Divo – camuffato in Corrado Brando – a sangue freddo commessi in nome dei suoi assurdi diritti di «superuomo» – imbattutisi negli agenti della legge, si posero a gridare: Carabinieri, arrestate il D'Annunzio! – I compari del Divo chiamarono quel grido «beffardo e paradossale».
No, cari moretti dannunziani, nè beffardo nè paradossale, ma serio e spontaneo, logico e giusto. – Il delitto del D'Annunzio, è vero, non è punito dal nostro codice, e ciò è un guaio grosso, perchè la mancanza di una sanzione penale permette che altri delitti siffatti si commettano all'ombra dell'impunità. Egli ammazza la logica, il buonsenso e le più elementari regole dell'arte, con la aggravante di una lingua arcaica e di uno stile artifizioso, per esaltare e glorificare le più rivoltanti azioni in nome di assurdi diritti, che vediamo compiersi sotto i nostri occhi e che producono l'altro consequenziale e più grave delitto, che è lo sviamento, lo snervamento, l'inquinamento di centinaja e migliaja di giovani inesperti, nei quali il Divo inocula la tabe distruttrice di ogni energia etico-intellettuale; e questi delitti non solo noi vediamo restare impuniti, ma – il che è peggio – ci tocca di vedere battezzato per beffardo e paradossale il grido che dal petto di un gruppo di giovani non contagiati dalla tabe dannunziana proruppe spontaneo contro il turlupinatore degli incoscienti, contro lo stupratore delle vergine anime.
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Ma questo sedicente superuomo è anche un superpoeta, perchè, come egli afferma, e come affermano i suoi moretti, egli solo ha la facoltà di vivere nel meraviglioso mondo «superterrestre»; ragion per cui egli è poeta per eccellenza «panico».
È questa una parola di recente adozione e in gran moda presso i critici barbieri che van per la maggiore: è voce dannunziana, e basta! Poeta panico, cioè, poeta universale. Ehi! Non pare anche a voi che sia questo un assai modesto epiteto a petto all'«universalità» in cui spazia il grande minuscolo Gabriele? – Ohimè, a quali aberrazzioni è soggetta oggi certa gente che, alla maniera dell'idol suo, presume tenere per suo uso esclusivo la supremazia della ragione e del giudizio! Ma tal cosa: non accade anche ai pazzi? E non ci sono di coloro che «effettivamente» vedono le cose colorate in modo diverso da quello come tutti le vediamo? Ebbene, ponetevi a persuadere costoro che essi sono dei disgraziati: è come se vi metteste a lavare la testa agli asini: ci perdereste il ranno e il sapone.
Dunque, poeta e, per giunta «panico» il D'Annunzio!
Ohimè! Ma panico è un titolo di sì grande onore che noi lo diamo, per esempio, a un Victor Hugo; il che vuol dire che – ad essere poeta «universale» – è necessario essere un tale gigante da potersi adeguare all'Universo, essere, come la natura, capace di sollevare senza sforzo – cioè con necessità di ragione – tanto il fuscellino, quanto intere coste di montagne; è necessario poter sentire e comprendere che nella vita del microzoari agisce la stessa forza che muove in giro la grande nebulosa; è necessario sapere intuire l'espressione ritmica che è nei rapporti geometrico-matematici fra tutte le cose del mondo esteriore e fra le palpitazioni, quali esse siano, delicate o tempestose, del mondo interiore; è necessario, in altre parole, che il poeta sia – sempre – vero e sincero nelle ideazioni, nelle immagini e nei sentimenti, nei quali egli va traducendo la vita esteriore e la vita interiore, così diverse in apparenza e così affini tra loro! – Panici – sotto questo rispetto – sono i poeti – (prosatori o rimatori) – che suscitano impressioni profonde e illusioni perfette colla virtù, che solo essi posseggono, di porre ogni cosa sotto l'angolo di luce che le è propria. Panici – in questo senso – sono tutti coloro le cui opere ingrandiscono ognora più col tempo perchè in esse l'umanità di ogni tempo si specchia e si vede e si riconosce una in ciò che in essa avvi di immutabile, di eterno. Panici perciò sono Omero, Eschilo, Dante, Shakspeare, V. Hugo ed altri pochi, che, col volgere del tempo, si rivelano ognora più compiuti e più veri e quindi più umani.
Ora, dare del panico al Gabrieluccio della Laus Vitae – la quale egli «modestamente» chiama la cosa più perfetta dopo la Divina Commedia, è un atto d'incoscienza solo possibile in questo tempo nostro in cui la stampa e la critica sono cadute in mano ai barbieri. – Il D'Annunzio è niente. La sua è una forma d'essere per eccellenza negativa: è l'impotenza. La sua qualità unica e propria è l'incapacità fisica, morale e intellettuale. Guardate! Egli è incapace di attività utile, come membro della società; incapace di affetti veri, come essere morale; incapace di produrre opere organiche, come scrittore; incapace di vivere una vita vera, come uomo; incapace di trovarsi in accordo col buonsenso e col senso comune, come essere dotato di ragione; incapace di sentire e di produrre la bellezza nella sua intima semplicità, come artista; incapace di esprimersi nella lingua della grande poesia accessibile a tutti, come si esprimono Omero, Shakspeare, V. Hugo; incapace di porsi davanti a sè e davanti agli altri nelle attitudini proprie dei grandi poeti conclamanti tutti i cuori semplici ed illibati a dissetarsi alle limpide fontane di verità, di bontà e di bellezza che sgorgano dalla loro anima, come fa il Manzoni; incapace – infine – di essere uomo nel più alto senso della parola, almeno una volta; – in quella vece, egli è insuperabile nel trucco istrionico, e come istrione, le sue voci e i suoi gesti sono gesti e voci d'imprestito, voci e gesti suggeriti dal «copione» – Ed egli è perciò provveduto di parrucche, di belletti e d'indumenti diversi che egli va mutando mano mano che – sfruttata una maschera – è costretto ad assumerne un'altra, per porre al riparo del fallimento la sua lucrosa industria. E così noi lo abbiamo visto porsi sul volto ora la maschera di «poeta della natura sensuale», ora la maschera di «poeta della superumanità», ora la maschera di «poeta panico», ora la maschera di «poeta ellenico», ora la maschera di «maestro di tutti». Ma tutte queste maschere non sono che trucchi coi quali egli riesce a nascondere – ma solo ai più piccoli di lui – la sua incapacità d'uomo non intero vanitoso e bugiardo.
Ora, se dispogliamo il Divo di tutte coteste maschere, che cosa troveremo al posto del decantato Immaginifico? Ecco! Provatevi a dispogliare Gabriele dei suoi preziosi indumenti: al posto del Divo, che voi supponete doverci trovar sotto, voi trovate.... non dico precisamente una Diva, ma un magro tessuto di tegumenti di un dubbio sesso. E allora comprendete perchè l'aborto non può produrre altro che aborti.
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Per tutte queste ragioni egli non è nè epico, nè lirico, nè tragico, nè romanziere. Ben ha egli pubblicato dei libri col titolo di canti, di romanzi e di tragedie; ma il titolo non fa l'opera, come il nome di battesimo non fa l'uomo. Qualcuno lo ha chiamato «il più grande lirico-paesista della modernità, il più puro e il più profondo»!? Ma quandanche fosse lirico-paesista, egli occuperebbe, come tale, un assai infimo posto rispetto ai lirici del sentimento, della religione e della patria, precisamente come i pittori-paesisti sono di gran lunga inferiori ai pittori di composizione, ossia ai pittori di espressioni umane. Ma la verità è che – come frai pittori-paesisti ci sono i pittori-scopisti, che riescono alla caricatura e al grottesco del genere perchè mettono, sì, sulle loro tele molti colori, ma non sanno da quei colori cavare una virtù d'espressione qualsiasi – così, frai lirici-paesisti il D'Annunzio è un vero pittore Scopa. Egli, sì, ci dice: questo è un albero, quello è un monte; questo è un pezzo di mare e quello un pezzo di cielo, e così via; ma la visione del paesaggio non ce la dà, e la ragione ne è che, per darcela, dovrebbe prima averla lui, il che, proprio a lui, è impossibile, perchè, capacissimo di vedere il fuori delle cose, egli delle cose ignora l'anima, ossia l'espressione che esse assumono rispetto all'anima nostra. Egli descrive solo cogli occhi, solo quello che vedono gli occhi: i colori, le dimensioni, le superficie e sopratutto il numero delle cose, ma il loro senso gli sfugge, perchè egli è destituito di quell'intuito che è prerogativa solo dei veri poeti, questi ispirati interpreti della grande natura, questi divini traduttori delle voces rerum, i quali, commossi, ci commuovono. Egli descrive alla maniera dei contadini ai quali sfuggono le sintesi delle linee, le armonie, le sfumature, gli ineffabili connubî d'ombra e di luce in cui le cose si fondono in quell'unica cosa che chiamasi paesaggio. Egli fa elencazioni, enumerazioni, inventarî, e, ad ogni passo, a dare un po' di chiarezza e di movimento a tante parole inerti che non formano un organismo, perchè poste le une accanto alle altre, non per l'esigenza del senso, ma per l'esigenza del suono, egli, che è senza vista interiore, ricorre a montagne di similitudini, tutte allo stesso modo ingombranti, come accade dei puntelli attorno a un edificio che spiomba da tutti i lati. E alla stessa guisa che i puntelli sono estranei a quell'organismo che è un edificio, alla stessa guisa le similitudini del D'Annunzio non han nulla da vedere colle cose che egli vorrebbe esprimere, ma non esprime; peggio: esse servono a simulare – (e perciò sono una selva) – servono a simulare la esistenza di un edifizio che non esiste, di un romanzo o di un dramma di cui egli non ci dà che solo il nome. E da questa selva di similitudini vien fuori la prova dell'aridità della fantasia di Gabriele, che non vede mai bene e netto ciò che vuole descrivere. Incapace di giungere con occhio intuitivo alla qualità essenziale delle cose, egli ne enumera tutte le qualità accidentali, le quali tutte insieme non valgono mai quell'una che egli s'illude raggiungere affastellando immagini a immagini, similitudini a similitudini, delle quali egli ha dissemiseminate nei suoi libri, prose e versi, un numero sbalorditoio, qualche cosa come venticinquemila; ma saranno di più, considerando che se ne trova almeno una in ogni suo rigo e in ogni suo verso, fabbricando con esse quel suo stile «prezioso» pel quale si è dato – (e vuole che tutti lo riconoscano per suo titolo maggiore) – il titolo d'«Immaginifico».
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Qualcuno si è domandato:
«Come mai questa natura limitatissima confinata nella sua sensualità animale, chiusa alla sentimentalità, priva di un proprio mondo interiore di affetti e di idee, impotente a creare persone vive e affetti persuasivi, incapace di sentire il ridicolo della sua falsità e forzatura, come mai ha potuto creare opere che – non ostante la segreta inconsistenza – hanno un fascino incomparabile?»
Per rispondere a questa domanda è giocoforza fare un'altra domanda: Su chi esse – le opere del D'Annunzio – hanno un fascino incomparabile? – Certo – e l'ho già fatto osservare – anche un fascino incomparabile esercitano i contastorie sugli analfabeti che lo stanno ad ascoltare a bocca aperta. Tutto è relativo in questo mondo, ed io sono il primo a riconoscere che sul pubblico dei barbieri leggicchianti di ambo i sessi, il D'Annunzio ha un fascino incomparabile. Se così non fosse, esisterebbe, forse, il fenomeno-D'Annunzio? – Le cause sono intimamente legate ai loro effetti, e viceversa. Senza un gran pubblico di barbieri leggicchianti – (causa) – Gabriele – (effetto) – non avrebbe mai potuto aprire la sua bottega di immagini e di similitudini-puntelli. – Onde è evidente che pei non-barbieri Gabriele è un sensuale animalesco, è chiuso alla sentimentalità, è privo di un mondo interiore di affetti e di idee, è impotente a creare passioni vive e passioni persuasive, è incapace di sentire il ridicolo della sua falsità e forzatura; ma è pure evidente che le sue opere – a causa appunto della loro segreta inconsistenza – hanno un fascino incomparabile sui barbieri leggicchianti dell'uno e dell'altro sesso.
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In tanto luccichio di carta dorata e inargentata, che sono le sue strane e balorde immagini, Gabriele è un pitocco dei più miserelli per ciò che riguarda l'oro e l'argento effettivo delle idee e dei sentimenti. È la povertà spaventevole di tutti gli scrittori di maniera: di qualunque cosa essi scrivano, scrivono sempre ad un modo: ricercati, lambiccati, «preziosi» e falsi; sono sempre gli stessi ricami, le stesse frange, gli stessi belletti, gli stessi trucchi, i quali di diverso non hanno altro che le dimensioni e il numero; è sempre la stessa salsa, con più o meno pepe, ma alla quale manca il sale del vero, del buono e del bello. Così accade – come ben dice Savino Varazzani – che i romanzi e i drammi del Divo «sono tutti lo stesso romanzo e lo stesso dramma. Egli non fa che ripetersi, ed è una ripetizione monotona, opprimente. Ed è, purtroppo una ripetizione senza rimedio perchè ha radice in una impotenza incurabile. E più cresce la mole della sua produzione e più si fa pesante e insopportabile la monotonia, perchè più s'inasprisce in lui l'ostinazione, la rabbia, lo spasimo di cavar nuovi effetti da una fantasia, la quale non ha che una visione unica, e di mutare e variare all'infinito soggetti e temi che pertinacemente finiscono per mescolarsi e fondersi in una tinta uniforme».
E intanto gli sciocchi – e in prima fila i critici-barbieri – esclamano: «Guardate l'infaticabile, l'inesauribile!» – Ma è una fecondità illusoria. «Quella del D'Annunzio – dice ancora il Varazzani – è una matrice perennemente in gestazione, che sembra maturi feti nuovi e non fa che ripartorire, per una mostruosità fisiologica, i suoi parti antichi. Imbevuto, impastato, saturato di voluttuosità, di lussuria, egli non esce mai dagli avvinghiamenti di questo suo temperamento: ogni visione, ogni vibrazione, ogni grido di lui scaturisce da quello e a quello ritorna. Tutto ciò che sembra diversificarsi e distacccarsi da quella nota fondamentale non è che orpello, roba posticcia, un'appiccatura, una decoratura artifiziosa: è un po' d'intonaco messo lì, ma che schizza via al primo grattare che vi facciate sopra colle unghie.»