Enotrio Ladenarda (alias Andrea Lo Forte Randi)
La Superfemina abruzzese

LAUS VITAE

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LAUS VITAE

Uscito è dalle mie fornaci il solo Poema di vita totale, vera e propria rappresentazione di Anima e di Corpo, che sia apparso dopo la Commedia di Dante. Questo Poema si chiama: Laus Vitae.

G. D'ANNUNZIO

Dunque, venti anni fa Gabriele, viaggiando in Grecia, concepì – (era quella la sua più grande concezione) – concepì la «santità della vita pagana», e volle che «dalla selva degli antichi miti» – morti, dico io, da più di due mila anni! – si diffondesse novellamente per la terra «un tesoro di aromi e di pollini.... (aromi e pollini cadaverici, dico io) fecondanti». – Infatti, qual cosa di più fecondante dei cadaveri? Seppellite delle carogne a piè d'un qualsiasi albero, e voi vedrete quest'albero farsi in breve rigoglioso e ricco di frutta. – E a sparger per la terra quegli aromi e quei pollini, il Divo ideò e scrisse la Laus Vitae, che, viceversa, è la Laus Mortis, cioè la Laude dei morti miti pagani.

Egli – il cantore di quelle bizantinerie, quando stupide e quando incomprensibili, che sono l'Isotteo e la Chimera, enormi ammassi di vuote parole faticosamente ripescate nei vecchi dizionarî – ha voluto – nientemeno! – con una sola apertura delle piccole esili gambepassare dalla riva dei vivi alla riva dei morti, discoste l'una dall'altra la bagattella di venti secoli!

Intanto, dentro parentesi, chi potrebbe mai credere – se egli non cel dicesse – che nel suo corpo così piccino il Divo serra e custodisce diecimila anime?

«In ogni luogo, in ogni evento
la mia anima visse
(e vive) come diecimila

E dire che noi si credeva che anima egli non ne avesse, non che una, nemmeno mezza!

Ed ora pensate: Avvi cosa alcuna, per difficile che sia, la quale possa riuscire impossibile a chi possegga anime diecimila? – Udite, adunque, la mirabile cosa cui egli si accinse un giorno, cioè, una notte, con l'aiuto clamoroso di tutte coteste anime.

-

Sì, era una notte d'estate; non sappiamo di qual mese, sappiamo in quale ora poichè egli non cel dice, ma, certo, faceva un gran caldo, e Gabriele aveva deposto ogni suo prezioso indumento, quando.... – questo, sì, ce lo dice – quando «egli si sentì e si vide tutto bello per tutto l'essere suo, bello come belli sono solo i giovani raffigurati negli eterni miti ellenici.» – E mentre egli sta – come sempre – ad ammirarsi, ecco, entra nella sua camera Dioniso – il Dio del vino e della gioja – il quale gli a mangiare un suo portentoso grappolo d'uva «che ha i sapori di tutte le vendemmie» – o, se piace meglio, i sapori di tutti i vini. Che bellezza! – Bacco va via, ed ecco, certo attratta dalla di lui adonica venustà, irrompe nella camera Venere Afrodite, che, tutta ignuda e irresistibilmente salace, lo bacia sulla bocca e gli mette in corpo tutte le fiamme dell'amore, meglio ancora, le fiamme d'ogni specie e sotto-specie d'amore, l'amore incestuoso compreso.

– Ah! – dico io – i privilegi dei superuomini dalle diecimila anime! Ne avete mai ricevute di cosiffatte visite voi, inferuomini, poveri possessori di un'anima sola? – Chi, dopo il bellissimo Adone, era degno d'essere baciato in bocca da Venere tutta nuda, se non il bellissimo tutto-nudo Gabriele?

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E dopo il grappolo di Bacco e il bacio di Afrodite, il nostro minuscolo superuomo – (egli non ci dice se nudo com'era, o vestito) – con dei «fidi compagni».... – (Chi fossero costoro egli tace, ma di sicuro li aveva presi in prestito, e forse anche a nolo, da Federico Nietzsche) – egli veleggia verso «l'Ellade santa» – Non la cercate sulle carte geografiche: l'Ellade santa è l'Ellade dei superuomini; ed è detta santa pel semplice motivo che essa sa fare dei miracoli, frai quali – come no? – quello di ridare la chioma allo schiomato Gabriele, giacchè un superuomo senza capelli sarebbe frai Greci causa di riso inestinguibile. E poi, concepite un superuomo dalle «diecimila anime» colla zucca lucida e tersa come una palla di bigliardo? Quale dei giovani raffigurati negli «eterni miti ellenici» è senza capelli? E poi, oh che non ce lo dice egli stesso che egli si era visto «tutto bello, perfettamente bello»? E poi e poi, non andava egli alla conquista di Elena già furiosamente amata da Paride capelluto? – Dunque è assodato: la più bella, aurea, folta e ricciuta chioma, da fare invidia a tutte le acque Migoni che si smerciano nei due emisferi, ornava il cocuzzolo del Divo il giornodico meglio – la notte che, coi «fidi compagni» tolti a nolo dal Nietzsche, sciolse le vele della sua nave verso l'Ellade santa. Alla quale, per propiziarsela, rivolge da lontano le sue parole così:

«Ma i miti foggiati di terra,
d'aria, d'acqua, di foco
e di passione furente4
sono il tuo popolo vivo»!!!

E l'Ellade santa apre le braccia e se ne sta ad attenderlo.

-

Dunque, avete sentito? Egli va a trovare cotesto popolo vivo di miti morti due mila anni fa, ed agitati da passione furente, non ostante che siano fatti d'aria, d'acqua, di fuoco, di terra e di niente.

Quanto ai suoi «fidi compagni» il D'Annunzio ci ha lasciato un documento dal quale risulta che essi erano un po' meno superuomini di lui, cioè non così sciocchi come lui. Infatti, essi, viaggiando verso la Grecia, erano mossi da uno scopo concreto:

«Li affaticava desio
d'errare in sempre più grande
spazio, di compiere nuova
esperienza di genti
e di perigli e di odori
terrestri

I quali «odori terrestri» ben ci dicono che essi «i fidi compagni» del Divo, erano dei profumieri in cerca di nuovi profumi, o meglio in cerca del profumo Ellade-santa... Per altro, oh! che il D'Annunzio non ha fatto anche lui il profumiere, inventando l'Acqua-Nunzia? Sicchè, non c'è dubbio: i suoi «fidi compagni» cercavano «un più grande spazio» per stabilirvi un più grande laboratorio che li ponesse in grado di compiere nuova e più grande esperienza di odori terrestri; ma per trovare quel «più grande spazio» era loro giocoforza compiere innanzitutto «nuova esperienza di genti e di perigli».

-

Sappiate, intanto, che Ulisse, trovandosi giusto allora in viaggio di ritorno da Troia e veleggiando verso Itaca tutto preso dal desiderio delle rosee carni di Penelope, pervenuto colla sua nave nelle acque di Leucade, s'imbatte in quella del D'Annunzio e dei costui compagni profumieri. – Sembra che l'Itacense e l'Abruzzese siano amiconi di antichissima data. Le due navi, infatti, si arrestano l'una accanto all'altra, e, dopo gli inevitabili saluti e le inevitabili esclamazioni: Oh! sei tu!?, Sei tu?!, il Dannunzio presenta i suoi «fidi compagni» al Laerziade, ed essi, «i fidi compagni», cui non par vero di trovarsi alla presenza di un tanto uomo, gli dicono tutti ad una voce:

Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta
noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla
in bando o a tenderla ancora.

Ulisse non comprende così strane parole e fa un movimento di sgradita sorpresa.

Però quelli continuano:

Ma se un re volessimo avere,
te solo vorremmo
per re, te, che sai mille vie.
Prendici nella tua nave
tuoi fedeli sino alla morte.

Che bel discorso, neh? E che effetto grande se ne impromettevano essi, gli adulatori profumieri! Ma Ulisse

«non pur degnò volgere il capo»

commettendo così, a sua insaputa, lui, eroe, ma non linguaio purista, un francesismo: non degnò, per non si degnò!

Ed io immagino come a quella sprezzante scortesia del superbo Laerziade, dovesse il D'Annunzio gongolare di gioia. Oh! che non avevano «i suoi fidi (non più fidi) compagni» manifestato il desiderio di abbandonarlo supplicando Ulisse di prenderli nella sua nave quali «suoi fedeli sino alla morte»? Però della sua gioia egli non fa trapelar nulla ai suoi «fidi compagni» non più fidi, e in quella vece si pone a ricordare i giorni del tempo buono, quando egli – alla insaputa dei Procientrando per un buco segretovisitava la casta Penelope e l'aiutava a fare e a disfare la tela; richiama alla sua memoria il vasto talamo tutto di legno di olivo confitto al ceppo natio con chiodi di argento, sul quale Telemacuccio, allora giovanetto di primo pelo – mentre la genetrice e D'Annunzio chiacchieravanofurtivamente saliva a sollazzarsitenendo gli occhi sul bel Divo – a sollazzarsi col suo bischeretto, quel Telemacuccio che ora s'era fatto Telemaco e che, pur avendo visto Elena, viveva coniugalmente con una fantesca!

Il plebeo! – E, certo, indispettito da quest'ultimo ricordo, Gabriele drizza la prora verso Zacinto – (per tutto l'oro del mondo egli non osa profanare giammai le sue labbra e la sua penna dicendo e scrivendo Zante).

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Lungo il tragitto egli si trasporta col pensiero – chi sa dirmi il perchè? – alla nativa Pescara, dove la madre e le sorelle sue dolci sono attorno a cuocere – (è l'ora del tramonto) – la loro minestra. Ciò che gli suscita la visione della cucina e della minestra domestica è «un fil di fumo» che esce da un colmignolo di Zacinto. Oh i bei ceci, oh le grosse fave, oh le ferrugigne lenticchie! E a queste immagini leguminose e punto rettoriche, egli s'intenerisce e si metterebbe a piangere se ei non si ponesse ad intonare un inno alla «dolorosa», alla «paziente» genitrice, implorando «gloria» da tutti e sette i cieli planetari di Tolomeo sul bianco capo di «quella solitaria» che, viceversa, è in compagnia delle figliuole! Ma gli è che dove il Divo non è, quivi è solitudine e bujo pesto: non adeguasi egli all'universo, e non emanano da lui tutte le luci solari e stellari?

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Ed eccolo arrivato a Patre, l'antichissima Aroe, città dell'Acaja sul golfo di Patros – E guardate! Nel porto di Patre gli accade un caso inaspettato e strano: è infatti che, per la prima volta, egli prova la nausea dell'acqua «oleosa e corrotta»; per la prima volta egli sente il lezzo dello «immondo traffico della vita di oggidì». Sissignori, di oggidì!.... – Ma, oh come mai di oggidì, se poco fa si è imbattuto in Ulisse? Basta! Certa cosa è che nelle acque di Patre, antichissima città ellena, egli sente che il traffico della vita di oggidì è immondo; sente che la vita di oggidì è misera. E se ne duole così:

I marinai dal collo
ignudo, gli stradiotti
bracati, i battellieri
dal braccio di bronzo e dal dorso
incurvo, le flosce bagasce
dalle guance rosse di fuco
vile, i bardassoni più molli
delle femmine esperti
in muovere l'anca, la schiuma
del porto, la melma del trivio,
i nativi e i metèci,
e gli stranieri approdati
da un'ora, accesi di foja,
tumultuavano al lume
fumido delle lucerne
grasse, tracannavano il vino
malvagio e la mastica arzente,
mercavano copula e lue
per mezzo dramma. – E gli sguardi
come i getti della saliva
lucevan sul carnaio in fermento.

Bruttissime cose, neh, queste, che il Divo vedeva; bruttissime, sì, perchè si compievano «al lume fumido delle lucerne grasse»; ma se si fossero compiute in camere ricche di tappeti e di specchi, su letti serici o sopra sofà di damasco odoranti di eletti profumi, come quelle dal Divo rappresentate o descritte nei suoi drammi e nei suoi romanzi, oh! allora....

Ma ciò che lo sorprende e lo riempie di orrore è che egli trova Elena lurida e vecchia – (diavolo! doveva averne dei secoli sulle spalle!) – ai servigi d'una meretrice. Ohimè! Era forse così Elena ai remotissimi tempi in cui la vita degli Elleni riluceva in tutto il suo splendore e in tutto il suo buono odore, come vediamo in marmi e in tele, in cui statue e pitture sono mere finzioni raffiguranti individui giammai vissuti e che, perciò, non mangiavano, non digerivano e, quindi, non inquinavano con materie fecali le acque dei loro porti, e sopratutto non trafficavano, non commerciavano, vivendo – come gli Dei – d'aria e di luce? Beati tempi quelli! – E inorridito dalla presente «barbarie», il Divo se la piglia coi «macri preti salmodianti roche preghiere attorno a una bara con suvvi un cadavere» – Ohhh! Orrrrore! Un cadavere sul cataletto! – Sissignori, sono cotesti «macri preti» e cotesto «cadavere» la causa onde le acque del porto di Patre sono «oleose e corrotte»; son essi la causa onde il traffico della vita d'oggidì è immondo! Giacchè, se nol sapete, i cadaveri che il Cristianesimo chiude sotterra appestano l'aria; ma, viceversa, i cadaveri che gli Elleni antichi bruciavano sul rogo, anzichè nauseante puzzo di carne carbonizzata, emanavano celestiale odore di ambrosia!

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Come sciagurato e rettorico è questo luogo comune del classico effeminato verseggiatore! I primissimi Elleni, che non usavano bucato ed eran sudici; che erano capelluti e non usavano pettine; che marciavano con i piè in aperti sandali e se li insucidavano di polvere e di fango; che aspiravano e respiravano il lezzo delle carni abbrustolite sulle fiammate e se ne inebbriavano; che prendevano le vivande, colanti grasso liquefatto, colle mani che poi forbivano l'uno sulle spalle dell'altro; che avevano i letti inquinati dalle cimici non usando alcuna razzia insetticida; che si ungevano le membra di olio e di grossolani nauseanti aromi; che non avevano l'acqua nelle case e portavano due volte l'anno le loro vesti a detergersi nel mare o nei fiumi; che non avevano cessi vasi smaltati, ma recipienti di semplice argilla porosa che a cento metri all'ingiro avrebbero fatto sentire a noi il loro orribile lezzo, che i grossolani nasi degli antichi Elleni, ormai abituati, non avvertivano; che sputavano, espettoravano e spetazzavano gli uni alla presenza degli altri, come se nulla fosse, e sapevano fornicare all'aperto; cotesti Ellenidico – no, non portavano i loro morti per via. Gloria a loro! Oh! splendore della vita ellenica al tempo di Elena, di Ulisse e di Penelope, quando i porti d'Itaca e di Patre erano pieni di acque di rose, limpide, trasparenti e, sopratutto, profumate dalle odoranti materie fecali che gli abitantisprovvisti di cessi e di acquedotti – vi scaricavano a vista di tutti! – Ma quei marinai, ma quei battellieri, ma quelle male femine, invece, la cui carne era stata battezzata, e che sotto gli occhi inorriditi del Divo «tracannavano vino e mercavano copule e lue» negli angiporti graveolenti, nelle oleose acque di Patre, come erano orrendi a vedersi! Oh! che ci erano, forse, marinai, battellieri e male femine al tempo di Ulisse? Oh! che al tempo di Penelope si mercavano, forse, copule e lue negli angiporti? Oh! che in quel tempo «eroico»... – (digeriscono, forse, gli eroi?) – le acque di Patre erano graveolenti? – Ah! quei «macri preti maledetti» conducenti i cadaveri al cimitero! Può immaginarsi più orribile cosa? – Sì, certo, essi, quei preti macri – (fossero, almeno, grassi!) – hanno la colpa di tutto.

E nauseato alla vista di quei salmodianti attorno ad un morto, il Divo abbandona Patre e veleggia verso la «città santa» di Olimpia.

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Quivi giunto, oh meravigliosa vista! L'ampia valle, ecco, si popola di un'infinita moltitudine di uomini – (e, suppongo, anche di donne) – di cavalli e di carri. Erano Jonî, Dori, Eolî ed Achei; in altre parole «era tutto il sangue di Atene e di Sparta» che raccoglievasi a disputarsi... – (oh la grande, la magnanima, la gloriosa impresa!) – a disputarsi, a pugni e a cazzotti, un serto di olivo selvaggio:

Era su la via santa
la forza dell'Ellade, mossa
da un ramo di ulivo selvaggio.

Il Divo, che è sbarcato e si è mescolato a quella folla di «eroi» – (vedi fortunatissimo caso!) – s'imbatte in Pindaro, al quale egli rivolge la sua parola come ad un collega, dicendogli: «Fammi sentire il tuo sguardo e fendimi il petto con un tuo grido!» Ma Pindaro si allontana in gran fretta sospettando di avere a fare con un pazzo; sicchè il Divo, col petto non fenduto, disilluso di Pindaro scortese e rude... – (oh che non erano rudi e scortesi tutti gli Elleni «forza dell'Ellade mossa – sulla via santa – da un ramo di olivo selvaggio»?) – si pone in cammino per la campagna, dirigendo i passi « dove il Cladeo breve si mescola all'Alfeo tortuoso».

Quivi, viste «le mozze colonne» (allora non mozze) del tempio di Era, intona una prece a Giove, così:

.... O Zeus, tu, anche
tu mandami un segno
su le vie de la Terra.
Per togliere tutti i miei beni,
per cogliere tutti i miei pomi,
improbe fatiche sopporto,
mostri multiformi combatto
che mi precludono i varchi,
ma più terribili quelli,
ahi, ch'entro me repente
insorgono dalle profonde
oscurità dove torpe
il fango delle geniture.

Capite? Parla di mostri che gli precludono i varchi, cioè i canali, mostri che egli sente sorgere, duri e diritti, dalle profonde oscurità del..., doveormai lo sapete – egli conserva «il fango delle torpide geniture», cioè, il fango delle stitiche generazioni dei suoi capolavori olenti di....

Intanto sappiate che è aspettando «il segno di Giove sulle vie della terra» che egli rinnega il Nazareno e si fa greco-pagano. E volete sapere perchè? Perchè «Giove solo può ridare alla terra la giocondità perduta».... (il che è come dire che presentemente la terra, poichè essa è senza Giove, è tutta un mortorio! E dire che mai prima d'oggi la terra aveva trovato un motivo di gaissimo riso come quello che le offre il D'Annuzio!)... – ed anche perchè «Giove solo può ridare alla terra l'amore della sana bellezza dei corpi».

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E qui voi, certo, mi domandate: Fatta l'apostasia dal Nazareno e divenuto Greco pagano, getta via il D'Annunzio i suoi giganteschi colletti, gli sparati inamidati bianchi fiammanti delle sue camicie, i suoi guanti, le sue scarpette lucide, i suoi fraks e tutto il bagaglio degli indumenti dal taglio e dalla lavorazione uso-figurino-Parigi? E rinunzia egli alle sue automobili e, specie, alle sue bistecche? – No – io vi rispondo – ma egli fa assai più e meglio di tutto ciò: egli si pone a girare attorno a un frammento di sepolcro, che, viceversa, è intero, e attorno a una colonna riversa, che, viceversa, è in piedi – (giacchèricordate? – egli si trova ad Olimpia, dove poco fa ha assistito alla celebrazione dei giuochi, e si è abbattuto in Pindaro e lo ha pregato di fendergli il petto con un grido). – Indi si pone a cantare storie e fantasie mitiche: Ippodamia madre di Atreo – il figlio di Maja – l'Androgine ebro di melodia – e tutte le sciocchezze favolose di Elle; – e canta standosene solo – come un pazzo – senz'altri testimonî che le cornacchie, che gli fanno eco dai crepacci, le rane, che gli fanno eco dai pantani, e qualche asino che canta all'asina versi d'amore. Sì, il Divo canta – (ma l'asino, invece, asserisce che quello dell'Immaginifico non è canto, ma raglio). – Sì, il Divo canta, o raglia, tutte quelle cose morte, peggio, non mai esistite, e, peggio ancora, canta, o raglia, per uso e consumo dei moderni, per me e per voi che mangiamo i vermicelli al pomidoro, viviamo nei bars, nei caffè, nei cinematografi, andiamo in automobile, fumiamo le sigarette e ridiamo del D'Annunzio!

-

E dimenticavo dirvi che egli s'imbatte in Ermes – il Dio ruffiano – a cui rivolge una preghiera e, indi, gli rivela le attività varie degli uomini moderni, certo per farlo allocchire. Fra le altre cose gli parla nel seguente modo del telegrafo elettrico:

«La parola serpeggia silente
pei baratri equorei, sotto
i nettunî pascoli; emerge
lungi perfetta nei segni;
narra gli eventi, congiunge le stirpi,
infervora i forti alla gara.

Oh, la gran cosa! – pensa Mercurio. – E che cosa è ciò che fa il vostro telegrafo elettrico a petto a quello che so far io? – E ad alta voce gli risponde dannunzianamente così:

Di congiungimenti maestro
son, di concordie divine
compositor sagace,
perito d'innesti immortali,
per moltiplicar la mia forza,
aedo, e la mia conoscenza.

Vedete? Mercurio, che lo ha subito riconosciuto, chiama D'Annunzio aedo, e – a dimostrargli che egli è della stessa famiglia dei Rapagnetta-D'Annunzio, che egli è, anzi, il D'Annunzio fra gli Dei – gli enumera quello che egli sa fare, e che è appunto quello che fa il D'Annunzio «per moltiplicare la sua forza e la sua conoscenza.» – E la presente Laus Vitae ne è la prova lampante. – E che fa il D'Annunzio, se non quello che fa Mercurio? Non è egli – come Ermesmaestro di congiungimenti, che, per opera sua, i suoi «eroi» compiono perfino colla lingua? E di congiungimenti incestuosi chi più bravo di lui? Non è egli – come Mercurio – «compositor sagace di concordie divine», cioè, superumane? E quale concordia più superumana di quella che il Divo ha stabilito tra lui e la duchessa di Gallese, come già, un tempo, fecero Jeova e Giunone, i quali – divisi – si visitavano, e...., indi, si dividevano, ciascuno facendo il piacer suo; poscia, ancora, si rivisitavano, e...., e, dopo, ancora ed ancora, si ridividevano, e..... – E non è egli perito, peritissimo, anzi, d'innesti immortali, cioè degni di fama immortale, voglio dire di innesti che ordinariamente non usano frai mortali, ma che immancabilmente usano frai supermortali, come lui?

-

Intanto – visto e considerato che nessuno Elleno antico si accorge di lui, e che l'unico antico Greco cui egli ha rivolto la parola gli ha voltato le spalle, dopo di essersi inutilmente sgolato deliziando col suo canto cornacchie, rane ed asini olimpiani, immaginando di trovar miglior sorte in altri lidi – il Divo scioglie le vele verso Delo. Lungo il viaggio gli appare improvviso il Parnaso. Egli ha così la fortuna di conoscere de visu le Castalidi – «dal petto largo e dalle mammelle piccole e dure» – e di più la «decima Musa» che egli chiama Euplete, Euretria, Energeja – ed è la sua musa, alla quale il debole, l'effeminato «moltiplicator delle sue forze» chiede la forza che non possiede, specie quella delle reni che non ha mai avuta, e che la decima musa – la quale è solo un vuoto nomerettoricamente gli conferisce. – E, fatto alunno di Energeja, egli giunge a Delo. Sicuro stavolta che la sua voce è abbastanza forte da farsi udire da quegli abitanti e da farli accorrere al lido, si pone a cantare – nel falsetto dei cantorini della Cappella Sistina – il più sopranamente che può, di fronte al promontorio Andromache, mentre, tra vapori rosei, emergono le cime di alcuni monti famosi. – Ma, che è, che non è, nessun Deloano si accorge di lui. E allora? Per confortarsi, egli si pone a cantare le lodi della sua bella nave, che egli ama «di vigile amore, come, vena per vena, nervo per nervo, si amano le membra viventi – (non quelle morte!) – dell'amica». E canta la bella vela

più bella di tutte le cose
d'intorno apparite,
libera, più pura e innocente
del cielo, una vergine forza,
un desiderio pudico,
un arco acceso d'amore
pel suo segno, un candido spirto
tra il duplice azzurro tutt'ala.

Che al Divo la sua vela sembri la più bella di tutte le cose apparite d'intorno, transeat; ma perchè la chiama libera, se essa – poveretta! – non solo è legata, e come!, all'albero della nave, ma ancora – per la scotta – alla mano del Poeta? E perchè sarebbe più pura del cielo, se essa è fatta di pezzi di tela cuciti insieme con grosso spago, e se essa è macchiata dal sale marino? E poi, più innocente del cielo, oh come mai, se essa commette il grosso e laido peccato di trasportare il povero Divo – che forse lo ignora – al paese dei Satiri? – Vergine forza la sua vela, se essa subisce la forza del vento, che – come vedete – la impregna? E perchè sarebbe essa un desiderio pudico? Non forse pel desiderio «pudico» che in lei si sveglia soffregandosi all'alto, forte e robusto albero a cui si sospende e pel quale si fa arco acceso d'amore? Ma quello che non ammette un commento che valga è il perchè chiama egli la sua vela «un candido spirto, tutto ala, tra il duplice azzurro del cielo e del mare.» La chiamasse uccello, che so io, aquila o cigno, be'.... potrebbe passare; ma candido spirto?! – Ma sì, il commento c'è..... Eureka! Candido spirto vuol dire candido angelo. Gli angeli non sono spiriti? E non sono bianchi, cioè, di nessun colore? E non sono anche androgini, cioè forniti, ognuno, d'ambo i sessi? E non è l'Androgine l'ideale stato di vita del Divo? Ecco, ecco perchè il Divo non ha mai visto, fra le apparse a lui d'intorno, una cosa della sua vela più bella.

-

Dunque egli canta la sua bella vela, la «cui forte scotta...» (la fune principale attaccata alla vela che regola il cammino del naviglio; il che ci obbliga ad ammettere che la nave del Divo è una di quelle antichissime le quali si facevano piegare a destra o a sinistra col tirare o col mollare della scotta, così come faceva Ulisse)... – Egli, dunque, canta la bella vela, «la cui forte scotta pare che, pulsata da un plettro, debba rendere un suono di lira»! – E canta «i silenzî meridiani sulle acque del mar greco.» E quel silenzio ha un perchè: i Deloani si sono addormentati al canto del Divo. – E canta «i pasti sulla tolda, all'ombra della grande randa» (la tarchia delle filuche!) – Ma, in quel momento, egli ode il canto della cicala che ha portata via da Olimpia in una gabbia di giunco.... – La grande conquista! Ma gli è che in quella cicala egli scorge la sua immagine fedele di seccante, monotono cantorino. – La cicala canta, ed allora egli si tace, cedendo l'alto ufficio al suo alter-ego; ma perchè i superuomini dell'avvenire non ne siano defraudati, egli rifà quel canto, cicaleggiando come mai. Tace la cicala ed egli ripiglia il suo interrotto cantillare; e canta le baje che egli e i suoi compagni hanno esplorate, ora «stando chini sull'acqua, ove la loro ombra appariva un miracolo verde»; ora «stando, sottovento, seduti fuori banda sopra gli scalmi, coi piedi immersi nelle onde». – Che comode e deliziose «esplorazioni» coteste! Che cose belle! che cose belle! che cose belle! e gloriose, anzi! – Ma – questo è certo – è di siffatte cose che si occupano e cantano i superuomini. E il mondo dovrebbe sospendere i suoi affari e i suoi moti e starsene silenzioso ad udirli in rapimento!

-

Ma ecco, il D'Annunzio già fatto suddito di Giove, elléno autentico e contemporaneo di Pindaro, anzi di Ulisse, ecco, dico, ritorna dall'Ellade santa alle città «terribili» moderne, dove si direbbe che non sia mai stato, o delle quali, per lo meno, abbia perduto il ricordo, così grandi sono le sue scoperte e le sue sorprese. – Egli vede – (e, pare, per la prima volta) – che le vie delle moderne «terribili» città sono lastricate, e vedeorribile cosa! – che esse riflettono il sole di agosto; – ed io, per colmo di orrore, aggiungo che riflettono anche il sole degli altri mesi. Si può dare sciagura più grande di questa? Oh! benedette le vie dell'Ellade santa non lastricate, polverose di estate e fangose d'inverno! – E vede ancora – (e, pare, per la prima volta) – vede i templi.... (Oh! profanazione! Scancella, o Divo, scancella cotesta parola. Non i templi tu vedi, ma, sì, le «orribili chiese», «sui cui gradini i mendicanti ostentano le piaghe ai divoti che vanno a pregare il Dio delle ceneri....» – (Memento homo... – Ma siffatto Dio ha egli detto, forse, Memento, superhomo?) – E vede ancora ed ancora – (e, pare, per la prima volta) – le case che «son brutte di giorno e più brutte di notte», perchè sono illuminate dalla luce elettrica – (egli dice «da bianchi globi che stanno come pendule lune fra le attonite file dei platani»!) – E alla vista di sì orribili case da lui prima d'ora non mai viste «l'anima sua... – (ha egli un'anima? Non ha egli detto di averne diecimila?) – l'anima sua piena delle bellezze e della letizia delle case elleniche» (illuminate di notte da lucignoli fumiganti e pestilenziali) è preso dal disgusto delle case moderne, e «la sua parola s'intorbida allorchè si pone a cantare.... – (e chi l'obbliga?) – a cantare i vespri di primavera, i crepuscoli d'estate, le prime piogge di autunno sulle immondizie delle terribili città nuove», dove egli «sente, per ogni via, come un molle odor di morte»! – Ah! attristiamoci con lui, disgustiamoci con lui. Sì, le nostre albe, i nostri meriggi, i nostri tramonti, le nostre notti sono orrende cose poichè tali appaiono a lui. Sì, noi siamo dei miseri, noi siamo dei morti: i vivi sono gli Elleni antichi. E, desolato, egli erra di qua, erra di , come un pesce fuori dell'acqua, finchè trova l'acqua che gli è propria, ed è «la Cappella Sistina del Buonarroti», perchè «essa è dominio di violenza, di immortale dolore, di sublimità di male, carnale rapimento degli spiriti verso novelli cieli di potenza e di gloria»!?!?

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Così cantano i superuomini! – Ahimè! E la connessione? domandate voi. Quale scolaretto – voi ditecadrebbe così scioccamente nel mostruoso sproposito di legare insieme la Cappella Sistina e l'Ellade santa?

Ma gli è – vi rispondo – che la Cappella Sistina è anche famosa pei suoi cantorini, i quali voi sapete che cosa sono: essi puzzano di castrato. Ora di giovanetti castrati non ebbe l'Ellade santa gran numero? E il Divo anche lui... – Ma via, stendiamo sopra un velo pietoso, e diciamo, invece, qualmente il Divo, ormai grecizzato e cantorino come non c'è mai stato l'uguale, salisce sopra «un'imperiale quadriga», i cui cavalli sono – (chi se lo immaginerebbe?) – «la Volontà, la Voluttà, l'Orgoglio e l'Istinto». – Sembra che da questo punto egli debba incominciare il suo viaggio di superuomo; ma, in quella vece, – ohimè! – appena egli posa le macre divine chiappe sulla imperial quadriga, ecco, cala il sipario, ed ei s'invola agli occhi nostri!...

Ma – oh dolce sorpresa! – il sipario, ecco, si rialza e il nostro superuomo, ecco, si fa innanzi sulla ribalta a farci sentire ancora uno dei suoi divini ragli: l'Encomio dell'opera sua.

Ma, oh! che ce ne sarebbe bisogno? Oh! che un sì colossale meraviglioso pasticcio non si encomia da se stesso? Toglietelo sulle braccia, se potete: vedete che peso! E come enorme e preziosa ne è l'imbottitura! C'è dentro Penelope, Telemaco, Ulisse, Elena, Paride, Temistocle, Pericle, Alcibiade, Pindaro, una cicala, Giove, Mercurio, Bacco, Venere, Ippodamia, Thànatos, Pegaso, la «rosa di Beozia», l'acropoli eràclia, Colono, Maratona, Ezechiele, le Sibille, il «gran demagogo», Demetra, le macchine moderne, la dolce Toscana, la madre e le sorelle del «Poeta», ed altre cose infinite, che sono le più sciocche, le più vuote, le più dispaiate, le più incoerenti, le più grottesche, le più ridicole fra quelle che sono uscite dalla pelata superumana zucca dell'Immaginifico.

Al quale non occorreva meno di un pasticcio siffatto per «saziare la sua carne.» Egli può dire, perciò, parlando alla sua carne: «Io ti saziai, come l'alluvione sazia la terra.» – E noi ci congratuliamo con lui, tanto più che la sua carne, così saziata, ha acquistato una qualità di cui non saprei altrimenti darvi un'idea che invitandovi a pensare alla cote. – Non credete? – E allora sentite Gabriele:

«La mia carne è quasi pietra su cui si affilano i ferri.»

Egli asserisce il vero, e ne è prova il fatto che, se non tutta, almeno una certa parte della sua carne già servì ad affilare l'arma a valorosi guerrieri da angiporti e da alcove.





4 Cioè, passione d'amor bestiale, che non distingue tra la madre, la sorella e la figlia, tra il padre, il fratello e il figliuolo!



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