Enotrio Ladenarda (alias Andrea Lo Forte Randi)
La Superfemina abruzzese

LA «PRIMA» DEL PIÙ CHE L'AMORE AL TEATRO COSTANZI

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LA «PRIMA» DEL PIÙ CHE L'AMORE
AL TEATRO COSTANZI

(Intermezzo allegrissimo)

Perchè, la notte del 28 ottobre 1906 la sala del Costanzi era piena come un uovo? Perchè – come dissero i cronisti dei giornali romani – in quella sala s'eran dato convegno «i più cospicui» che sogliono figurare negli elenchi mondani invernali? Perchè numeroso era «l'elemento intellettuale» in gran parte anche giunto, per l'occasione, dalle altre città? Perchè c'era la «femminilità più estesa e più signorile»? Perchè vi erano accorsi i critici «maggiori» agli stipendi dei grandi giornali, e buon numero di artisti della scena e delle arti decorative, e uomini politici e demi-mondaines «desiderose di porgere alla festa dell'Arte (?) l'omaggio sfolgorante dei loro gioielli»? Perchè il loggione era affollatissimo? Perchè gli amatori dell'Arte (?) erano tutti lassù da tre lunghe ore»? Perchè alle ore 21 la sala aveva «un aspetto solenne», quale il nome illustre di Gabriele «aveva bene il dritto di pretendere»? Perchè, a dare il bollo ufficiale alla «solennità», all'«avvenimento», figuravano, in un palco di ordine a destra, le Eccellenze del Ministro e del sotto-Ministro della pubblica istruzione? Perchè?

Perchè – (meno pochissimi, i solitarî, gli sdegnosi, quelli che vivono del loro pensiero e che dalla altezza del loro cosciente valore guardano con disprezzo tutte queste marionette umane messe in moto dalla più clamorosa sfacciata réclame) – gli inintellettuali, sedicenti «intellettuali», le demi-mondaines, gli artisti della scena e delle arti decorative, i ministri e – (perchè no?) – anche i sovrani son folla, perchè – come la follaaccorrono dove le trombe dei ciarlatani promettono loro di vedere e di essere veduti. Sì, ciò che specialmente attrasse tutta quella gente al Teatro Costanzi, non fu «il genio» di Gabriele, ma «la réclame» di Gabriele, la quale prometteva una «gran bella serata», la serata «aristocratica», la serata «eccezionale», in cui le mondane e le mezze avrebbero abbagliati gli occhi coi loro giojelli; fu la certezza che il giorno di poi i magni giornali avrebbero – anche prima del resoconto del «grande avvenimento artistico» – gridato i loro nomi alla plebe anonima dei loro quotidiani lettori.

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Intanto (dentro parentisi) domando: Poichè lo strombazzato «capolavoro» della superfemina abbruzzese cadde – come sapetedisastrosamente, vergognosamente, non ostante i puntelli d'una clamorosa , perchè non si è ancora pensato dai nostri legislatori di aggiungere al nostro codice penale un articolo che colpisca con pene corporali e pecuniarie gli autori di truffe come quella consumata a danno di tutti coloro che la notte del 28 ottobre 1906 assistettero alla rappresentazione di «un promesso, sicuro, genuino, meraviglioso capolavoro», il quale, viceversa, era – come si rivelò – un indigeribile, stomachevole cibo sotto le parvenze – ahi! ben presto dileguate – di un appetitoso pasticcio? Infatti, si tratta di una vera enorme truffa, alla quale collaborarono l'autore anzitutto, e poi l'impresario, gli artisti drammatici, i cronisti e i critici magnificatori. La somma scroccata salì a lire 15800! I più umili posti, quelli del loggione, erano stati pagati dieci lire ciascuno!

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Ma passiamo a cose più allegre.

Quando la sera del 28 ottobre 1906 il divo Gabriele entrò nel palcoscenico del Costanzi, ancora quasi deserto e bujo, erano le ore 21 precise. Fatemi grazia di questo particolare per stesso insignificante, ma significantissimo trattandosi di un Grande, la cui vita, che è un tessuto di atti meravigliosi, vuol essere narrata per ore e per minuti, in modo che ognuno possa rappresentarselo e vederlo in tutte le sue funzioni corporali e spirituali, in tutte le sue pose, parole, atti, respiri e sospiri.

All'odor d'ambrosia che Gabriele spande attorno a – (e come no, poichè egli è divo?) – gli adoratori accorrono a lui e gli fan cerchio. All'improvviso l'orchestra della sala comincia a sonare una polka.

Il D'Annunzio salta poco divamente dalla ingrata sorpresa e dice accigliato: «Oh come! Per le mie rappresentazioni non si è mai sonato

Quale profanazione!

Gli astanti, all'orror di Gabriele, prendono tutti il medesimo atteggiamento del Divo: si direbbero dei cortigiani che modellano il loro volto su quello del loro re. – Riavutosi dal suo fittizio orrore il cavaliere Morichini, direttore, impone al signor Santucci, ispettore del palcoscenico, di far cessare quei sagrileghi suoni profanatori. – (L'orchestra aveva ricevuto l'ordine di sonare dal signor Santucci). Costui, nell'imbarazzo, anzi nello sgomento, balbetta: «È stato un errore..... Licenzierò l'orchestra!».... E stava per piangere. Il Divo, misericordioso stavolta contro il suo solito, «non fa niente» – gli dice, e, a dissimulare il suo dispetto, si pone olimpicamente a chiacchierare con qualcuno della bellezza della Villa Borghese; poi, infilato il suo braccio sinistro nel destro di Marco Praga (uno dei famosi pianeti che gli girano attorno e ne sono illuminati) andò via dicendo:

«Io non isto mai a sentire i miei lavori pel timore che me li guastino

E andò via; ma andò via trascinandosi una mezza serqua di autentici cortigiani, che lo seguivano alla dovuta distanza. Sul palcoscenico rimasero gli indispensabili: il signor Enrico Costanzi, proprietario del Teatro, il costui amico, Paride Tomasini, il Morichini, il Santucci, gli attori e i servi di scena.

Di a poco fu tirato il sipario, e fra il più religioso silenzio la rappresentazione di Più che l'amore ebbe principio.

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Già da una lunga mezz'ora il Galvani – (Virginio Vesta, ingegnere idraulico) – e lo Zacconi – (Corrado Brando, protagonista) – si trovavano in iscena esposti da prima al più glaciale silenzio, poi alle risate del pubblico. La signora Ines Cristina – (Maria Vesta) – che, rannicchiata fra le quinte, vedeva e udiva tutto, era in preda allo spavento, tremava come una foglia, pallida, esterrefatta; se non che, anche in preda allo sgomento, ella si ricordava di essere artista e rappresentava a se stessa e a quelli che le stavano da presso il personaggio prima-donna sicura del fatto suo, e intanto faceva e disfaceva un mazzo di viole e diceva ad un impiegato del teatro che essa era uscita dal suo camerino perchè il rumore delle carrozze le dava delle scosse nervose, e perchè le dava molto fastidio la voce d'un venditore che gridava:

«Il più forte per un soldo!».

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Prima che terminasse il lungo, prolisso, indigeribile, nojoso e inverosimile primo atto.... (il Divo vuole che si dica: Primo Episodio) – Gabriele tornò sul palcoscenico, sempre a braccetto di Marco Praga. Uditi gli urli della sala, divamente domandò:

«Che cosa è che specialmente ha urtato il pubblico

Queste sue parole passeranno alla storia, e per mezzo mio. La ingenua domanda – per quanto divamente fatta – escludeva la possibilità che il pubblico fischiasse il «capolavoro» del D'Annunzio. – Sì, il pubblico fischiava; ma per quale motivo? Aveva egli, Gabriele, scritto mai cosa fischiabile? E dunque? Si fischiavano gli attori. Ma per qual gesto degli attori il pubblico fischiava? «Che cosa hanno essi detto o fatto che lo ha specialmente urtato?» – Qualcuno stava per dirgli: Fischiano il vostro «capolavoro»; ma il Divo girò subito sulle calcagna e andò via per telegrafare – Questa preziosa notizia io sono in grado di comunicarla ai miei lettori, perchè quella sera, sul palcoscenico del Costanzi, dal Direttore Morichini all'ultimo servo di scena, tutti dicevano con un accento di grave importanza: «D'Annunzio è andato a telegrafare» – Ma, telegrafare a chi? e che cosa? – Profondo mistero.

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Poco di poi, i grandi signori della stampa quotidiana e periodica, frai quali i grandi bacalari della critica drammatica, accorrono sul palcoscenico per inchinarsi a Gabriele. C'erano, tra gli altri, Morello, Forster, Manca, Origo, tutti e quattro ansiosi di vedere la olimpica faccia del Divo; ma il Divo non c'era: era andato a telegrafare.

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Il primo atto, intanto, finiva fra un uragano di fischi. Gli attori pallidi, colla tremarella in corpo, facevano pietà, quella pietà che sogliono suscitare le vittime dell'egoismo altrui. – Era evidente: il responsabile di tanto disastro non era il D'Annunzio? Ma il commendatore Re Riccardi, il quale voleva a tutti i costi – e pour cause – far credere che la colpa fosse degli attori, diceva loro ad alta voce: «Ma recitate più forte...., recitate col viso rivolto al pubblico, il quale, altrimenti, non vi potrà sentire

Che consigli, neh? Un asino non ne avrebbe potuto dare dei peggiori. E dire che, invece, il pubblico aveva – pur troppo! – sentito, e, perchè aveva sentito, aveva fischiato ed urlato a tutto beneficio del Divo.

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Ermete Zacconi era perplesso.... Non sarebbe stato meglio dire al pubblico che uno degli attori, per esempio, la signora Cristina, stava poco bene e che, quindi, il secondo atto non poteva aver luogo e che l'impresa era pronta a restituire il danaro? – Sì, lo Zacconi proponeva cosiffatto mezzo per iscampare al completo naufragio che avrebbe inghiottito, ad un tempo, il dramma, gli attori, l'Immaginifico e l'onorabilità dell'impresa. – Ma, oh! e che? Era egli possibile far ciò senza l'alta permissione del Divo? – Il Divo! Dov'era il Divo? – Ohimè, il Divo era andato a telegrafare. E intanto il tempo volava.... L'orchestra aveva esaurito il suo repertorio per colmare – con pezzi profanatori – la lacuna del lungo intermezzo, e bisognava dar principio al secondo atto.

Ermete Zacconi s'indugiava... Il suo impresario di Napoli gli stava alle costole perchè si decidesse a restare in quella città anche dopo il 12 novembre. E lo Zacconi a ripetergli: Non posso! Non posso! – Gli è che egli dubitava se sarebbe potuto restar vivo sotto le rovine del mostruoso edifizio, del quale già una metà gli era cascata addosso, e l'altra metà lo avrebbe seppellito. – Ma è anche vero che in quel momento egli l'aveva contro stesso. Non aveva egli accettato di recitare Più che l'Amore? Non era, dunque, evidente che gran parte della responsabilità dell'immenso fiasco cascava su di lui? Oh! era egli, forse, ancora il «grande Zacconi» se s'era potuto così goffamente ingannare scambiando un aborto per un'opera sana e completa? Non aveva egli letta quella «tragedia»? E come mai non s'era avvisto che era «una farsa»? Peggio: come mai l'aveva egli giudicata degna degli onori della rappresentazione? Non era egli, perfino, riuscito ad ottenere che il Divo accondiscendesse ai molti tagli da lui proposti, assicurando che, – dopo quelle operazioni chirurgiche», la tragedia sarebbe divenuta sana, forte e sicura d'un colossale trionfo?

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Ciro Galvani – che, recitando, aveva fatto ogni sforzo per galvanizzare il pubblicochiedeva a chiunque, tenendo gli occhi su Re Riccardi: «Ma dite, su, ditemi: è mai vero che la mia voce non giunge alle orecchie della platea?» – E ciò egli diceva colla più chiara, più bella voce di un baritono tenoreggiante. – La signora Cristina aveva ripreso a fare e a disfare il mazzo di viole. – E intanto la sala rumoreggiava pel lungo, inqualificabile indugio. Fu giocoforza tirar su il sipario.

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Lo Zacconi e la Cristina – come due eroi votati alla morte – fanno prodigî: sì, sono due grandi istrioni che conoscono tutti i trabocchelli del difficile mestiere, ed essi li scansano con meravigliosa destrezza. Si direbbe che il Divo abbia a bella posta costruito i più formidabili ostacoli, mettendo insieme le stupidità più stupifacenti, per porre alla più dura prova la loro bravura. È una lotta titanica fra il buonsenso dei due valorosi artisti contro il non-senso dei due personaggi che essi rappresentano. Sì, è un lavoro di una titanica errata-corrige che i due attori si sforzano di apportare, colla loro voce e coi loro gesti, a quella «cosa informe» che una stampa venale ed incosciente aveva, con sperticate lodi, imposta alla pubblica ammirazione come un meraviglioso capolavoro. E del loro sforzo titanico gli spettatori si avvidero: tutti ebbero come una parola d'ordine, tutti ebbero lo stesso pensiero: salviamo gli artisti. – Bisognava che il Divo capisse che i fischi erano solo per lui. E li applaudirono.

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Re Riccardi suppose che si applaudisse la «tragedia» (?) e si pose a chiedere: D'Annunzio dov'è? Dov'è D'Annunzio? – E lo andò cercando per ogni angolo, mentre altri correvano di qua e di allo stesso scopo. Il custode dell'ingresso al teatro da via Torino assicurava di averlo veduto rientrare. Ed era vero; ma il Divo, ai primi urli, era un'altra volta andato a telegrafare.

Riccardi Re, non che commendatore, esce dal teatro in semplice marsina (e sì che faceva freddo!; ma quella notte egli aveva addosso il rovello e non avvertiva il rovajo). In via Viminale trova il Divo che passeggiava, solo, tranquillamente, come se il fatto non fosse suo, simile all'«eroe» della sua tragedia, il quale, sull'orlo del precipizio, discorre serenamente, ingemmando il suo discorso di belle sentenze e di racconti freddamente orditi. – E poi vogliono dire i malevoli che Gabriele non sia che un superuomo per burla!

Riccardi Re un balzo di gioja, raggiunge il «superuomo» e umilmente lo prega di ritornare sul palcoscenico, dicendogli: Ma non sa nulla lei? Il pubblico va in broda di succiole. La sala prorompe in applausi. Venga! Venga!

E il Divo si lascia condurre.

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La signora Ines Cristina – che stavolta non fa disfà il suo mazzo di viole – è raggiante. E come no? Non ha essa salvato il suo onore di grande artista? Effettivamente, il pubblico ha riconosciuto il suo eccezionale valore e l'ha freneticamente applaudita. Il Divo si degna sorriderle e le fa un complimento pel di lei successo; ed ella, da donna di spirito: «Ma son'io che sono obbligata verso di lei, cui debbo la presente mia grande consolazione». – Infatti, quella volta essa era sicura che gli applausi erano stati solo a lei, che aveva saputo meritarseli recitando in una sciocca tragedia; essa sentivasi, dunque, obbligata al Divo che con quell'orrendo pasticcio tragicomico carne pesce aveva messo lei alla gran prova del fuoco, il cui effetto sarebbe stato: o di troncare miseramente la sua carriera se si fosse fatta fischiare, o di salire agli apogei cui è dato levarsi solo ai grandi artisti, se – non ostante l'assurdità del personaggio che rappresentava – si fosse fatta applaudire. E l'avevano applaudita!

Comprese il Divo o non comprese l'intimo senso delle parole della signora Cristina? Certo è che egli la piantò – (i Sovrani e i Divi possono anche essere incivili) – e andò a sedersi nello studio del cavaliere Morichini, in fondo al palcoscenico, dove, nella sua eterna posa olimpica, chiese a quel signore notizie della prossima stagione musicale, come se nulla, quella notte, lo riguardasse da vicino da lontano! – E poi dicono gl'invidi che egli non sia che un superuomo per ridere!

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Ma giusto allora pervengono alle nobili orecchie, delicate, rosee, trasparenti del superuomo, le formidabili proteste del pubblico, che – fatti ormai i dovuti applausi agli artisti – faceva echeggiare la sala di acutissimi fischi all'indirizzo del Divo.

Il grande istrione, l'eterno poseur, non per ciò si turba, e mellifluamente domanda:

«Ma che cosa hanno?»

Che cosa hanno?! – Dio mio! Oh che nol sapeva lui che cosa avevano? – In quel momento la sua posa olimpica toccava tutte le sublimità del ridicolo. Ed egli sentì che la sua domanda era stata ridicola; sentì che egli diveniva ridicolo. – Non disse più verbo; si alzò; si abbottonò olimpicamente il soprabito un bottone dopo l'altro, dall'alto in basso, flemmaticamente; indi uscì con passo grave e solenne – mentre l'urlio e le fischiate minacciavano di far cadere il teatro – e andò a telegrafare.

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Cala il sipario, ma i fischi e le urla crescono, infuriano, imperversano. Era una grande débâcle; era la miseranda fine di Corrado Brando, di Virginio Vesta e di Maria Vesta, i quali travolgevano nella loro caduta tre innocenti vittime della loro incongruenza, della loro miseria intellettuale e morale: la signora Ines Cristina, il signor Ciro Galvani e, il più disgraziato trai tre, il signor Ermete Zacconi.

Costui, muto, pallido, squallido, disfatto, sudato, inabissato, passa fra due file di giornalisti e d'impiegati e va a nascondersi nel suo camerino. La signora Cristina, che s'era – chi lo crederebbe? – impappinata due volte a causa dello spavento, adesso dubita della sincerità degli applausi fattile nel principio del atto, e, sudata, affannata e scapigliata, va anch'essa a rifugiarsi nel suo camerino desiosa, magari, di riudire la molesta voce del venditore: «Il più forte per un soldo!»: ma quel venditore, a quell'ora, era andato a dormire. – Il Galvani non era meno disfatto dei suoi compagni di sventura; pure, egli trovava la forza di chiedere un'altra volta a Re Riccardi: Ma la mi dica, su, la mi dica! È poi vero che la mia voce non giungeva alla platea?

E intanto tutte le teste sono chinate; tutti han perduto l'uso della parola; tutti sono immersi in un assiduo, tormentoso pensiero: Che dirà, che farà il Divo?

Solo il contabile è raggiante di gioja. Egli si caccia in mezzo a quella gente disfatta, gridando:

«Che successone! Che successone! Quindici mila, ottocento lire d'incasso!!!»


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