Enotrio Ladenarda (alias Andrea Lo Forte Randi)
La Superfemina abruzzese

LA PIÙ NOBILE OPERA DI GABRIELE

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LA PIÙ NOBILE OPERA DI GABRIELE

II.

«Più che l'amore interpreta, con insolita audacia, il mito di Prometeo: la necessità del crimine che grava sull'uomo deliberato di elevarsi sino alla condizione titanica». – Così dice Gabriele.8

Ma Prometeo non commise alcun crimine. Crimine è ogni offesa all'imperativo categorico, cioè al Dovere, e, per esso, ad ogni legge giusta. Ora, l'avere rapito il fuoco al sole per farne dono agli uomini da lui precedentemente plasmati di terra e d'acqua, non è un crimine, sibbene un atto eroico. E domando: i tre volgari delitti consumati dal Brando, cioè, la seduzione di Maria Vesta sorella dell'amico suo, l'omicidio che egli commette in persona di un biscacciere, l'impadronirsi che egli fa della costui cassa-forte affine di procurarsi i mezzi per una piccola e dubbia impresa destituita d'ogni utilità sociale, che cosa hanno da vedere col sublime atto di Prometeo per eccellenza umanitario, anzi indispensabile all'esistenza stessa dell'Umanità? Se in vece di un motivo tutto personale, quale è il suo vivo ma sciocco desiderio di appurare se il fiume Omo appartenga o no al bacino del Nilo, dal quale appuramento egli s'impromette una gloriola d'incerto valore, Brando compisse quei suoi tre atti per il bene di tutti, allora, sì, Brando si assomiglierebbe in un certo modo, e pur sempre da lontano, a Prometeo, e i suoi tre atti, anzichè dei crimini, sarebbero tre azioni encomiabili rispetto al loro scopo e presso che eroiche. La falsità e puerilità dell'eroe dannunziano appare, dunque, dalle stesse parole dell'Immaginifico: tra Brando e Prometeo non ávvi ravvicinamento somiglianza, neppure lontana. Più che l'amore non interpreta il mito di Prometeo. Vorremmo dire che lo trasfigura e lo impicciolisce? Ma, anche dicendo così, noi faremmo a cotesto centone di declamazioni puerilmente rettoriche fin troppo onore, poichè nell'eroe di Più che l'amore non troviamo che uno di quegli «eroi» da cronaca nera, le cui gesta hanno il loro epilogo o alla Corte d'Assise o al manicomio.

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«.... la necessità del crimine che grava sull'uomo deliberato ad elevarsi fino alla condizione titanica» – dice Gabriele. – Ma la condizione titanica è quella che appunto manca al Brando; infatti, un «titano» non commetterebbe quei tre volgari delitti, che tutti i si consumano dai più oscuri uomini: un titano sa, senz'altro, proporzionare il mezzo al fine, anzi è titano in quanto egli solo può far quello che nessun altro può fare. Gli uomini-titani son pochi: essi sono delle vere eccezioni, sono strumenti dalla Mente o dalla Forza eterna prescelti al compimento di fatti colossali, che altrimenti rimarrebbero incompiuti; uomini titani, per esempio, sono Cesare, Colombo, Napoleone, Garibaldi ed altri siffatti uomini straordinari, ai quali – e ad essi soliappartiene il diritto di sentirsi, ma non di proclamarsi superuomini. È per ciò che titano ed eroe sono sinonimi. Ma Brando è un turpe malfattore e un vanaglorioso: egli è D'Annunzio stesso che grida ai quattro venti la sua superumanità, fatta di vento rettorico. Chiunque altri, al posto di Brando, potrebbe fare – e anche meno scioccamente di lui –quello che fa lui. E poi, che cosa possono trovare che molto o poco li interessi, gli spettatori nella immaginaria piccola impresa africana del Brando, la quale non è, per esempio, la nazionale conquista della Tripolitania, altra simile cosa? Possono essi interessarsi, infiammarsi al desiderio di sapere se il fiume Omo (che essi non hanno mai sentito nominare!) appartenga al bacino del Nilo o a quello del lago Rodolfo? Come pretendere che essi non si ribellassero (essi ai quali l'assordante, incessante réclame dei moretti del Divo, aveva promesso godimenti estetici di altissimo ordine ed emozioni tragiche profonde) trovandosi alla presenza di un eroe da burla, il quale non li interessa neppure come delinquente, per la semplicissima ragione che quei delitti il D'Annunzio non ha la scaltrezza di farglieli compiere sotto ai loro occhi, ma solo glieli fa narrare e declamare nella più vieta e più insulsa forma rettorica, in un verboso, interminabile, noioso monologo?

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«Ella – (la sua tragedia) conferisce non so che selvaggio ardore patetico all'impeto iterato della volontà singola verso l'universale, alla smania di rompere la scorza dell'individuazione per sentirsi unica essenza dell'universo». – Così, impertubabilmente, dice Gabriele.

Che vuol dire l'Immaginifico con queste «preziose» parole? – Dunque, commetterebbe il Brando quei tre delitti per dare «selvaggio ardore patetico alla sua volontà individuale verso l'universale»? – E che vuol dire? – Li commetterebbe per dare «selvaggio ardor patetico alla sua smania di rompere la scorza della sua individuazione per sentir – (lui! Brando!) – nell'unica essenza dell'universo? – E che vuol dire? – Su, ditemelo voi, scrittorelli del Marzocco, che vi state in ginocchio davanti al Divo, adorandolo: che vuol dire?

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«Ella – (la sua tragedia) – afferma ed esalta l'istinto agonale, come solo creatore di bellezza e di signoria nel mondo». – Così, pomposamente, afferma Gabriele.

Qui il Divo pensa a stesso. Quell'agonale di ambiguo senso, avente, cioè, senso di combattimento e senso di agonia, ma che è, intanto, una delle solite «preziose» parole di cui egli così spesso rinzeppa i suoi vuoti centoni, e che egli ha messo per impressionare i lettori sciocchi, conviene in ambo i sensi al minuscolo cinquantenne androgine che vuol combattere e morire per «la Bellezza (?) che egli crea, e per la signoria del mondo» dei cretini. Infatti in Più che l'amore, più e meglio che nelle altre sue opere, egli esalta questo suo istinto, e lo personifica in Brando nel modo che sappiamo, cioè, come può farlo un impotente, il quale finisce come il più volgare dei criminali.

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«Ella – (questa sua tragedia) – ricorda alla razza dei Caboto l'antichissima sua vocazione di oltremare, la sua prima sete di avventure e di scoperte, la gioia di propagare di da ogni confine lo splendore della patria, l'orgoglio di stampare l'orma latina nel suolo inospitale». – Così, ignorantemente, Gabriele.

I Caboto, Giovanni e Sebastiano, padre e figlio, erano veneziani, ma da gran tempo stabiliti a Bristol durante il regno di Enrico VII, i quali – ben lungi dal propagare di da ogni confine lo splendore della patria – (la quale, se mai, per essi non sarebbe stata l'Italia, ma solo Venezia) – si proposero di aprire all'Inghilterra una più breve via per le Indie, ed ottennero, a questo scopo, da Enrico VII i mezzi pel viaggio che essi avrebbero fatto verso il nord-ovest. Non giunsero alle Indie perchè impediti dai ghiacci, però scopersero il Labrador, Terranova ed altre isole, che divennero possedimenti inglesi. L'evocazione che l'Immaginifico fa dei Caboto – (e sarebbe stato lo stesso se il Divo avesse evocato il Colombo, il quale lavorò soltanto per lo splendore della Spagna, non già dell'Italia) – a proposito di Brando che ambisce alla gloriola che può venirgli dalla sua minuscola impresa africana, è così sciocca che mai l'uguale. Egli cita l'orma latina; ma – a farlo apposta – i latini, dico i grandi latini, i Romani antichi – furono, sì, dei conquistatori, ma non dei veri e propri navigatori. Ora, la razza dei Caboto può ben essere una razza di navigatori, ma non già di conquistatori. «L'orma latina di da ogni confine»?; ma, in quella vece, di da ogni confine, – (è la storia che ce lo dice) – è stata solo l'Inghilterra a stampare la sua orma! – Ohimè! nel secolo che corre, noi, latini d'Italia, non abbiamo stampato neppure la più piccola orma nell'Asia, nell'America, nell'Oceania, e, ultimi arrivati, siamo i più minchioni colonizzatori in qualche lembo dell'Africa!

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«Misurando sull'arco romano la prominenza del sopracciglio consolare, ella – (la sua tragedia) – offre alla terza Italia la visione augurale della sua nuova architettura considerata come il linguaggio della potenza, come il grande atto concorde della volontà che muove i macigni, come il prodigio completo dell'ebrezza della volontà che aspira a placarsi nell'arte». – Così, ineffabilmente, Gabriele.

Ohimè! E che dicono tutte queste sonanti parole, o cretini? Dunque, tutto questo gran risveglio nelle armi, nelle forze economiche, nella vita nazionale, che «vuol costruirsi in una nuova architettura di forze», non avrebbe ragion di essere – (capite?) – senza «l'aspirazione a placarsi nell'arte», cioè, nell'arte del D'Annunzio!!! – Ohimè! E che cosa è cotesta sua tragedia che «misura la prominenza del sopracciglio consolare sull'arco romano, per offrire alla terza Italia la visione augurale della sua nuova architettura considerata come linguaggio della potenza»? – Che significa cosiffatto accozzo di «preziose» parole? – Com'era fatta – di graziala prominenza del sopracciglio consolare misurata sull'arco romano»? Belle parole, neh? – Sì, ma che dicono? E che cosa potrebbe essere «la nuova architettura della terza Italia considerata come il linguaggio della potenza»?

Ah! il ciarlatano che stordisce e affascina i babbalei con altisonanti stupide parole, sotto le quali nasconde la sua impotenza intellettuale e fisica!

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«Ella – (la sua tragedia) – infine – (infine! Ah meno male!) – santifica il dolore che, trasmutato nella più efficace energia stimolatrice, genera e conserva l'avvenire; ella glorifica la donna sapiente – (Maria Vesta) – in una sola cosa: nel donare stessa».

– Così, sfacciatamente, Gabriele.

Dunque Brando, per via dei suoi tre sciocchi volgari delitti, santifica il dolore.... – (quale dolore? Il dolore di chi?) – che, mutato in energia stimulatrice – (cioè, stimolatrice di Brando affinchè compia la «grande-piccola impresa, la quale, poi, si epiloga nella consumazione di tre comuni delitti) – ... genera e conserva l'avvenire!!!. Cioè, genera ciò che, per essere l'avvenire, non può in atto essere generato, e conserva ciò che, per essere l'avvenire, non può in atto esser conservato! – Eppure, perchè no, se lo dice il D'Annuzio? – Il dolore di Brando genera l'avvenire..., lo genera e lo conserva. – Che piacere! che fortuna! E glorifica Maria Vesta. E sapete perchè la glorifica? Perchè essa è sapiente nel donare stessa a quello scavezzacollo volgare del Brando! – Quel «sapiente» è messo dal D'Annunzio per opporlo alla «ignoranza» di tantissime altre donne che dánno stesse, sì, ma sono tutte colpevoli e obbrobriose perchè non sono sapienti, cioè, perchè non sanno a chi si dánno e perchè si dánno. Ma quando la donna che si è sapiente, cioè, quando essa sa a chi si , sa, per esempio, che si a uno scavezzacollo sedicente superuomo, allora è un altro paio di maniche. – E voi, intanto, domandate: E come si fa per sapere se le donne che si dánno sono o non sono sapienti? – Ecco qua. Se una donna si a uno che non è uomo, ma superuomo, per esempio, al D'Annunzio, essa è sapiente; ma se la stessa donna, delusa di essersi data a un superuomo-non-uomo, si a voi o a me, pur guadagnandoci, e quanto!, nel cambio, essa non è sapiente, e, quindi, è una donna da conio. – Non è il Brando un superuomo? anzi, sotto la maschera del Brando non c'è lo stesso Divo in pelle, ossa e cartilagini? E dunque... Maria Vesta, dandosi al Brando, è donna sapiente, e, dunque ancora, Più che l'amore «glorifica la donna sapiente nel donare stessa»!

O donne, siete avvisate: volete essere glorificate? Ebbene, «donatevi a un superuomo» non ad un uomo: donatevi al D'Annunzio. Il quale – è vero – non vuole, come Brando, scoprire le sorgenti dell'Omo, ma fa più e meglio di costui: «egli possiede una volontà che sa muovere i macigni; egli sa compiere il prodigio di placare la sua ebbrezza nell'arte» e – aggiungo io – egli sa compiere l'altro prodigio di placare la sua ebbrezza nei fischi... Placarsi e non morire sotto i fischi, non vi pare che sia questa la più alta prerogativa del nostro minuscolo superuomo?

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Sul manifesto teatrale il Divo fece stampare: «Il tempo dell'azione è al principio della primavera, tra due vespri.» Ma la «canaglia antidannunziana» non comprese che l'ora del tempo e la dolce stagione erano state scelte a posta, come dice il Divo, per dare l'immagine di un giorno di invenzione», anzi meglio: «di un giorno di trasformazione eroica» – Sicuro! giorno di trasformazione eroica. – Difatti, il burattino, trasformato in eroe, eccolo ; il delinquente, trasformato in superuomo, eccolo ; è uno e son due – son due e son uno: D'Annunzio-BrandoBrando-D'Annunzio. Il quale «già assolto dal bianco lapillo di Atena», vuole che «lo spettatore debba aver coscienza di trovarsi dinanzi ad un'opera di poesia e non dinanzi ad una realtà emperica». Ohimè! Sarebbero dunque un'opera di poesia i tre volgari delitti consumati dal Brando!!! – Ma noi la chiameremmo opera da manicomio, se già non sapessimo che è l'opera d'un ciarlatano.

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– Il quale, ancora una volta, si pone a invocare il «suo démone» (?) così:

«Concedimi che in questa tragedia io termini di scolpire la mia propria statua, secondo le leggi che mi assegnasti tu stesso».

E il demone ha esaudito la sua preghiera: G. D'Annunzio ha finito di scolpire la sua statua. La quale, già abozzata in Settala, in Leonardo, in Flamma, in Cantelmo, in Effrena, eccola ora, tutta perfetta, limata e lisciata, in Corrado Brando. Che ascensione in discesa! Che tonfo nelle allegre acque del ridicolo! Che trionfo a suon d'urli e di fischi! – Giù il cappello e inchinatevi – (ma non ridete, mi raccomando!) – inchinatevi davanti alla statua-auto-ritratto che – secondo le leggi assegnategli dal suo démone – il Divo ha scolpito a se stesso!





8 Prefazione a «Più che l'Amore».



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