IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Dopo i colossali fiaschi di Città morta, di Gioconda, di Gloria e di Francesca, ecco, l'Immaginifico giunge al «trionfo colossale» colla Figlia di Jorio.
Per due o tre mesi la preparazione della messa in iscena di questo «capolavoro immortale» attrasse a sè la malsana febbrile curiosità di tutti i barbieri di questa nostra Italia per le cui montagne e per le cui valli echeggiavano le mille trombe della réclame prezzolata e della réclame cointeressata osannanti all'autore e all'opera sua. Milioni di soffietti, lanciati a guisa di luminosi e rumorosi razzi in tutte le direzioni del mondo sublunare, avvertivano le genti stupefatte che un «grande avvenimento» stava per compiersi. E fu un'inondazione di mirabolanti notizie, di sapienti reticenze, di misteriosi si dice: interviste col Divo, coi pittori suoi collaboratori, coi fortunati fornitori delle preziose quisquiglie dall'Immaginifico volute per ciascuna scena, e perfino coi servi del teatro...; rivelazioni confidenziali intorno allo splendore delle scene verseggiate e delle scene dipinte, sui tessuti speciali espressamente ordinati dal Divo per le vesti di ciascun porsonaggio, sui loro colori, sui loro tagli, sulle loro confezioni, sul numero e grandezza delle pieghe nelle gonne delle tre sorelle, sugli orecchini e sulla collana di Mila di Codro, sul cappotto e sugli ornamenti del petto e della cintura di Lazzaro di Rojo, sulle pettinature di Ornella, di Favetta e di Splendore, sui calzoni di pelle caprina di Aligi, sulla parrucca di Candia della Leonessa e sul di lei grembiule, sull'aratro autentico che il Divo in persona andò a cercare pei fecondi campi di Abruzzo, ecc. ecc. ecc.!
Addirittura pareva che i cardini del mondo fossero, in quei giorni, Gabriele e questa «impareggiabile» opera sua.
Quando l'ora lungamente attesa scoccò, tutti i critici-magni d'Italia s'incontrarono al teatro Lirico di Milano, già pieno come un uovo. E fu un «colossale trionfo».
-
La Figlia di Jorio furoreggiò in tutti i teatri d'Italia, perfino a Palermo, dove per tanti anni avevano furoreggiato i Mafiusi, che sono un capolavoro autentico! Sicchè, i gran signori della critica ne tirarono subito la conseguenza che la Figlia di Jorio era «un capolavoro immortale» ed «unico nel suo genere» Essi sentenziarono:
1. «Il nostro teatro nazionale comincia colla Figlia di Jorio». – Sia gloria, dunque, al «Poeta» dal quale ci vien tanto bene!
2. «La Figlia di Jorio segna l'inizio di una grande rinnovazione letteraria».
3. «L'anima ingenua, semplice, primitiva dei personaggi di questo dramma è avvinta dalla fede (sic) che a loro ha trasfuso il D'Annunzio
4. l'ispirazione viene al D'Annunzio dalla realtà (?), maestra d'arte a tutti gli uomini di genio».
-
Che gli spettatori abbiano freneticamente applaudito quella «rinnovazione letteraria», chi lo contrasta? Ma bisogna riflettere che siffatto fenomeno è identico e quell'altro che ci dánno i bambini, i quali, con occhi luccicanti per piacere infinito, stansene a sentire le (per essi piene di sublimi attrattive) sciocche fiabe della nonna. Ogni piacere, ogni entusiasmo è relativo. Chi nega che il pubblico frequentatore dei teatri da marionette va in visibilio per le impossibili gesta dei paladini di Francia? Ma è certo del pari che questo stesso pubblico alla rappresentazione dell'Amleto si addormenterebbe o se ne starebbe a sbadigliare dalla noja. Il pubblico che applaudì e che tornerà ad applaudire la Figlia di Jorio è quello stesso pubblico che ha applaudito e che tornerà ad applaudire quell'altra «rinnovazione letteraria» che chiamasi la Cena delle beffe. A spiegarci tale fenomeno basta gettare un'occhiata in tutti i settori del teatro affollato di spettatori-barbieri. E mi spiego: il pubblico di un gran teatro che la sapiente réclame riesce a chiamare in gran numero alla recita di non importa quale «rinnovazione letteraria» è, per forza maggiore, un giudice che giudica in senso inverso del valore intrinseco dell'opera, la quale, quanto più è falsa, tanto più gli piace, per la ragione semplicissima che il pubblico il quale si lascia trascinare al teatro dalle clamorose trombe della réclame è composto quasi tutto di persone inferiori, intellettualmente parlando, giacchè non è da dissimularsi che anche il maggior numero di quella parte del pubblico che siede nelle poltrone, in marsina e collo-gigante, è, ripeto, intellettualmente parlando, un pubblico inferiore, compresi i critici magni della stampa. I quali, per dir bene o male d'un'opera, aspettano che gli spettatori-barbieri della sala pronunziino su di essa il loro giudizio applaudendo o fischiando. Ora, poichè gli spettatori-barbieri applaudirono la Figlia di Jorio, da essi, solo da essi i critici-magni dedussero la grandezza e perfezione di quel parto dannunziano; e ne tirarono anche la conseguenza che «quel pubblico plaudente aveva sentito la solennità di assistere al cominciamento di una grande rinnovazione letteraria.»
Fu dunque sul pubblico plaudente che essi – i critici-illustri – eressero l'edificio della loro iperbolica lode.
E guardate: mentre a giudicare di una qualsiasi cosa si richiede lo speciale perito: l'ingegnere per le fabbriche, il medico per le malattie, il magistrato pei delitti, il pittore per la tecnica delle pitture, lo scultore per la tecnica delle sculture, il letterato per la tecnica delle opere letterarie, e così via, una folla di semi-analfabeti, di sensali, d'impiegati, di operai, di bordellieri, di nobiliume, di scolari sgrammaticanti, ecc. ecc. sarebbe competente a sentenziare che la Figlia di Jorio è un capolavoro immortale! E, posando i piedi su così solida base, essi, i critici-luminari, si sentirono autorizzati ad affermare che «i principalissimi motivi di quegli applausi sono l'anima ingenua, semplice, primitiva dei personaggi di questo dramma, e la ispirazione che al D'Annunzio viene dalla realtà, maestra d'arte a tutti gli uomini di genio»; mentre, delle opere del Divo che si discostano dalla realtà le mille miglia, la più falsa è questa Figlia di Jorio, i cui protagonisti sono contadini di nome, ma sono, di fatto, leziosi dicitori di frasi dannunziane leccate, inamidate, ricercate, e perciò senza sapore di semplicità e di verità. La loro psiche è quasi sempre parlata anzichè agìta, sopratutto la psiche delle donne, le quali sono bambolone che recitano a memoria, perchè quello che dicono non procede dall'anima che esse non hanno, ma dal congegno che l'industrioso burattinaio ha posto in ciascuna di esse, e perciò non dicono altro che parole, le quali putono fin troppo del dizionario dannunziano. L'invenzione ne è comune e volgare. La fantasia dell'Immaginifico, di solito così frondosa, qui è frondosa e banale; e qui, l'oro, l'argento, il meriggio, il tramonto, il cielo, il mare, la primavera, le chiare ombre, il ferro ardente, i fiori rari, gli splendori mai visti, con sopra a tutte queste cose uno strato d'amori bestiali, fanno un grottesco miscuglio sul quale l'occhio dello spettatore idoneo non si riposa, ma che appaga – e come! – l'occhio degli spettatori-barbieri che la vista di cosiffatto miscuglio libera dalla – per essi – insopportabile fatica del pensare. E ad incatenar l'occhio, questo strumento dei colori e delle superficie, per via delle scene dipinte anzichè delle scene agite (che sono il gran deficit di questa Figlia di Jorio, come di ogni dramma e di ogni romanzo dell'Immaginifico senza fantasia) il Divo si associò al Michetti, al Ferraguti, al Rovescalli, tre maestri del pennello, che dettero al dramma i colori della natura locale di cui esso difetta, non essendo i personaggi che vi recitano contadini di Pescara, come esser dovrebbero, nè tampoco di Cianciana, ma dei letteratucoli e delle letteratucole vestiti in splendidi indumenti contadineschi di un ignoto paese, i quali si mostrano in pubblico a dar prova della loro grande valentia nella lingua e nello stile del nostro superuomo.
Come parla Mila:
Ah! voce di cielo, nel mezzo
dell'anima mia sempre udita!
I mietitori il gran sole gl'impazza
e come cani abbajano a chi passa.
I mietitori fanno l'incanata,
nel vino rosso mai non mettono acqua.
E per ogni mannella una sorsata,
e il piede della bica è la caraffa.
Quanta verità, che naturalezza in queste espressioni in bocca di quattro persone, che usano la stessa misura di parole e lo stesso fraseggiare!
Sentite come parla alle sorelle «l'anima primitiva» di Alige:
E voi, creature, non più
m'è dato chiamare sorelle,
nè più nominare m'è dato
i nomi che il battesmo v'impose,
che m'eran le mie foglie di menta
in bocca, le mie foglie odorose
che mi davan freschezza e piacenza
fino al core nel mio pasturare.
Che verità, neh?, che naturalezza in coteste frasi contorte, ricercate, leccate come quelle di un rettoricastro!
Madre, dov'è la mazza del pastore,
che giorno e notte sa le vie dell'erba?
Non è evidente che chi parla così è il D'Annunzio travestito da Aligi?
Mila, una risonanza nella voce
hai, che mi consola e mi rattrista
come d'ottobre quando con le mandre
si cammina cammina lungo il mare.
Un paragone questo che poteva frullare solo nell'artifizioso cocuzzolo del D'Annunzio. Ed è sempre il leccato D'Annunzio che, per la bocca di Aligi, parla così:
.....Riempitemi dentro
tutti questi solchi d'amore,
che mi scavò quand'io ero
alle sue parole d'inganno
come la mia montagna rigata
dall'acqua di neve. Riempitemi
il solco di quella speranza
per ove mi corse la grazia
di tutti i miei giorni ingannati.
E la madre di Aligi parla sotto il dettato di Gabriele così:
La tua parola è come quando annotta
e sul ciglio del fosso uno si siede
e non segue la via perchè conosce
che arrivare non può dove è il suo core,
quando è notte e l'avemaria non s'ode.
È una contadina costei, o una maestra elementare che fa le sue prime prove di bello scrivere?
Ma più saputa è Mila quando dice ad Ornella:
Creatura, ora sembra che a te
l'anima tua sia vestimento
e ch'io possa toccarla stendendo
verso te la mia mano di fede.
E Ornella a Mila, con ricercata eleganza, così:
...e vederti
vo' talvolta nei sogni dell'alba.
E Mila a Lazzaro, nello stesso tono, così:
E m'ardano il corpo
e vengan le tue donne a guardare
e si rallegrino. Forse
una caccerà la sua mano
nella fiamma senza bruciarsi,
per trarne fuora il mio core.
Ed Aligi, da consumato maestro di bei costrutti:
La faccia sua non la potei imparare
per lavorarla, madre, in verità.
Come sapete, nel dramma dannunziano Mila è una contadina-cagna alla quale i contadini-cani corrono dietro e, l'uno appresso l'altro, la posseggono, ponendosela sotto per forza. Dovrebbe far pietà, ma fa schifo; e deve averne addosso degli insetti molesti, e deve anche emanare da lei un certo putidore.... Ma, chi lo crederebbe?, l'anima di lei è rimasta pura ed è olente. E, ciò che più monta, dalla sua bocca le parole escono tutte nobili, tutte scelte, sono, insomma, parole dannunzianamente preziose. Al D'Annunzio..., pardon, ad Aligi, che le ha detto:
Questi fioretti di Santo Giovanni
io tolgo dalla mazza del pastore
e te li metto qui davanti ai piedi.
Io non ti guardo, che me ne vergogno.
Dietro a te sta l'angelo dolente.
Ma questa mano triste che t'offese
col tizzo brucerò questa mia mano. – ,
essa risponde così:
In verità, in verità ti parlo,
o fratel mio, caro della sorella,
quant'è vero che non commisi fallo
con te, ma stetti accesa come un cero
dinanzi alla tua fede e fui lucente
d'amore immacolato al tuo cospetto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Non penso, no. Ma lascia anche per questa
notte ch'io viva dove tu respiri,
ch'io ti ascolti dormire anche una volta,
che anch'io vegli per te come i tuoi cani.
Addirittura, Mila è D'Annunzio travestito da contadina, la quale – lo si vede – flemmaticamente racimola dal dizionario le bellissime parole, flemmaticamente le dispone, flemmaticamente le pronunzia, e – come no? – flemmaticamente le assapora nel sentirsele echeggiar nelle orecchie.
E «castamente» si baciano; ma subito cadono in ginocchio, dicendo all'angelo «dolente», che essi vedono per una grazia particolare:
Non furono le labbra, siete voi
testimone, non furono le labbra,
che si baciarono, ma sì le nostre anime!
-
«Grande rinnovazione letteraria» neh? questa Figlia di Jorio, i cui personaggi parlano tutti ad un modo, nella lingua e nello stile del nostro superuomo! E i critici-magni me li dicono «plasmati d'après nature!» Ma sono delle marionette che han tutte la medesima voce, la voce del marionettaio; o, se volete, sono creature false come è falso il loro autore, che il suo falso e ridicolo superuomesimo travasa, per le più viete e scempie vie rettoriche, nei personaggi dei suoi romanzi e dei suoi drammi, tutti contro verità e contro natura; onde accade che anche in Mila ed Aligi parla ed agisce il vacuo nostro superuomo. Il quale – proprio! – «è avvinto dalla fede onde è sinceramente calda l'anima semplice, primitiva dei personaggi del suo dramma»! – Anima primitiva e semplice quella di Mila e di Aligi! Ma voi bestemmiate, cioè, voi pensate come le bestie. Gli è che voi non avete letto il «gran capolavoro». – Già! Al D'Annunzio l'ispirazione viene dalla realtà! Ma quale realtà? quella dei campi nei quali non è mai vissuto? quella dei contadini coi quali non si è mai mescolato, perchè egli, falso, vive e sente di vivere solo nell'aria falsa dei salotti signorili, dove tutto è falso, perfino il piacere? – Già! Aligi e Mila sono creature reali! E quel che è più, sono reali perchè la folla dei barbieri e simili battè loro freneticamente le mani! Ma ciò che quei barbieri applaudirono fu il fattaccio, fu l'acre lezzo ircino e caprino che, a zaffate, eccitando, per le narici dilatate, il loro cervelletto e percorrendo la loro spina dorsale, operò in essi quella tale resurrezione bestiale della carne, onde anch'essi si sentirono presi per la Mila – dico bene – non per l'autentica Mila contadina pidocchiosa e cenciosa, ma per la Mila del palcoscenico, fresca per sapiente belletto, linda, appetitosa e procace sotto il suo bel costume odorante di falsa abruzzese. Sì, quella folla applaudì al fattaccio che dà un tonfo in piena pornografia, anzi in pieno incesto, al fattaccio di cronaca che fa ascendere al decuplo la tiratura del giornale che lo narra e lo descrive, al fattaccio che fa accorrere una folla di curiosi d'ambo i sessi e di tutti i gradi sociali alle corti di assise. Ma cotesta è folla di barbieri, i quali possono non aver mai pettinato e sbarbato nessuno del loro prossimo, ma sono pur sempre barbieri, perchè – come i barbieri – si nutrono di pettegolezzi, di maldicenze, di scandali, di storielle salaci, insomma, di fattacci, in cui l'umanità si rivela nella sua vera e propria animalità. La Figlia di Jorio, dove per una stessa donna ardono un padre e il suo figliuolo – (una cosa, questa, che ha tutta l'aria di un incesto) – e dove il figlio uccide il padre sotto gli occhi del pubblico, è di ragione il capolavoro di tutti i barbieri.
E qui i critici-magni, ecco, vorrebbero venirmi addosso armati di questa «terribile» interrogazione: Ma allora anche il pubblico che fischiò Più che l'amore era un pubblico di barbieri? – E perchè no, cari miei critici-magni? Sissignori, quel pubblico fischiò Più che l'amore, non tanto perchè opera falsa dal punto di vista dell'arte, quanto perchè opera falsa dal punto di vista della sua aspettazione. Infatti quel pubblico fischiò perchè – (io l'ho già detto e qui lo ripeto) – il fattaccio di Più che l'amore, anzichè essere agìto sotto i suoi occhi – come accade del fattaccio della Figlia di Jorio – è nojosamente narrato dal Brando in una lunga, interminabile cicalata di belle parole, di belle frasi, di strabilianti, assurde similitudini e di descrizioni a freddo, nell'uso delle quali è maestro unico il Divo.