Enotrio Ladenarda (alias Andrea Lo Forte Randi)
La Superfemina abruzzese

IL «SAN SEBASTIANO» DEL DIVO GABRIELE OVVERO Un androgine sulle scene dello Châtelet

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IL «SAN SEBASTIANO» DEL DIVO GABRIELE
OVVERO
Un androgine sulle scene dello Châtelet

«Il più grande apostolo della latinità integrale» – «l'inconcusso eccitatore delle energie della stirpe latina» – «il rigido custode dell'italianità» – il meraviglioso artefice dai molti ingegni» – il superuomo dalle diecimila anime»..., ecco, ricevette un giorno dalle lunghe gambe d'una slava ballerina l'ispirazione a scrivere il San Sebastiano. – Come? Perchè? – Oh! che non aveva egli viste sino allora molte altre gambe muliebri lunghe, per lo meno, quanto quelle e, per giunta, latine? gambe di perfezione impeccabile, dal «galbo efebico», dalle «ginocchia delicate nascondenti l'intreccio delle ossa», dai «malleoli fragili come quelli di un fanciullo», dai «piedi piccoli e snelli forniti di unghie rosate e di pollici lunghi e discosti dagli altri diti come i pollici dei piedi statuarî»?

Se ne aveva viste! Ma, tant è, nessun pajo di siffatte gambe gli aveva dato prima di allora la ispirazione per alcun santo Mistero. – Ma, d'altro canto – (ed io son pronto a mettere le mie mani sul fuoco s'io mi sbaglio) – le gambe della Rubinstein non sono belle a vedersi, specie se ignude, perchè ella le ha lunghe, sì, e diritte, anzi diritte in modo inverosimile per una donna, ma scarne, ossee, muscolose. – E allora? – Ecco: gli è che coteste gambe hanno meravigliose qualità maschili e che colei che le possiede ha il petto liscio come quello di un bel giovanotto, il che, con altre parole, vuol dire che egli, il Divo, trovò nella Rubinstein il tipo perfetto della femina-maschio, un androgine, capace di destare sul pubblico le medesimissime impressioni che egli in persona aveva, giovanissimo, prodotte, al suo primo mostrarsi, – ve ne ricordate? – sulle buone lane dei redattori del Capitan Fracassa. – Chè, non c'è dubbio: come dai diciotto ai venticinque anni, il D'Annunzio vestito da educanda sarebbe parso una appetitosa educanda, così la Rubinstein vestita da maschiotto pare a tutti un appetitoso maschiotto.

Sissignori, egli trovò in lei quanto gli occorreva pel suo Sebastiano, da lui foggiato ad Androgine, e al quale l'aggiunto di Santo – come ha dato – uno strano e, perciò stesso, piccante sapore di scandalo.

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Ma tutto ciò non sarebbe bastato a fargli scrivere Le Martyre de Saint Sébastien senza un'altra cosa che, non solo lo pose in grado di dare a questo suo santo Mistero la grandiosità d'un lusso orientale, ma ancora di fare le enormi spese di una colossale réclame; e quest'altra cosa era la cassaforte inesauribile di un arcimilionario birrajo inglese, nella quale la danzatrice ha – come pare – il diritto di attingere a piene mani. «Tu mi darai la gloria, ed io metto a tua disposizione la mia magica borsa.» – Questo il primo sostanziale patto tra la ballerina dalle lunghe gambe e il Divo. Ma, poichè la Rubinstein, che è una ballerina, non sa far altro che ballare, e poichè le qualità fisiche di lei sono tali da guadagnare sotto spoglie virili assai più di quello che esse perdono sotto le spoglie muliebri, così al Divo s'impose la necessità di trasformare la ballerina in un ballerino, e – ciò che è il colmo della seduzione – in un ballerino dalle mosse, dai gesti, dalle flessuosità e dalle pose proprie d'una ballerina. La qual cosa – come bene avverte il mio amico Mario Barbera in un suo magistrale studio, in cui mette a nudo la falsità, e, che è più, l'oscenità di questo Mistero dannunziano, «avrebbe costretto gli spettatori a servirsi del binocolo e a saettare gli sguardi sul Martire androgine».11

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Chè – se nol sapete – il bel Sebastiano plasmato dall'artefice dalle «diecimila anime» si presenta sulla scena «con l'atroce sottinteso della perversione orientale importata a Roma», ossia «coll'atroce sottinteso di quell'abominio che aveva chiamato dal cielo il fuoco distruttore, e che lasciò le luride tracce sulle fumanti rive del Mar Morto12

Il Martire dannunziano, concepito e formato solo per soddisfare le brame della danzatrice – (la quale prodigava enormi somme solo perchè il Divo attirasse sulla plasticità delle sue mosse e sulla sua danza voluttuosa tutta l'attenzione del pubblico) – non è altro che un debosciato, «il quale attira e pretende tutta per l'adorazione per la sua bellezza corporea, per le sue attrattive paganamente estetiche senza alcuna relazione con Dio: esso non agita le palme di Cristo, ma il mirto di Afrodite».13

Nelle didascalie che precedono le cinque Vetrate di questo salace Mistero, il Divo si compiace a descrivere le pose, le mosse effeminate del suo apocrifo Sebastiano: «Il semble s'alanguir comme dans la danse jonienne». – «Dans une ineffable ambígüité le délire alterne avec l'extase, l'ardeur avec la liesse, la saltation guerrière avec la jubilation nuptiale. Toutes les fraîcheurs qu'engendre le printemps de son âme il les éprouve avec sa chair empaurprée par le reflet de la braise.» – Eccetera. – Tutti – secondo vuole il D'Annunzio – si sentono presi dalla bellezza del corpo di lui. Guardate l'ossessione selvaggia attorno al bello Arciero, onde tutti i personaggi gli gridano: Tu es beau! Tu es beau! Il est dieu! Il est dieu! – E non udite le voluttuose parole che egli ripete le cento volte con cinedica effeminatezza:

Je suis l'esclave de l'Amour.
Je suis le seigneur des danses.
Quelle splendeur sort de mes os?
Suis-je lumière?

E non vedete come Diocleziano spasima per lui? – E – come dubitarne? – non è in premio del suo innominabile amore che l'ancora imberbe Sebastiano è dall'imperatore nominatonientemeno! –capitano degli Arcieri? – E gli Arcieri non ardono anch'essi d'impuro amore per lui? – E non muore egli implorando da essi:

Votre amour! Votre amour!
Encore!
Encore! Encore! Amour! –?

E che altro vedono in lui gli occhi del popolo attratto dalla sua sensuale bellezza, se non Adone redivivo? – Non udite, infatti, il Chorus syriacus cantare attorno al suo cadavere:

Il est mort le bel Adonis! – ?14

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Assai innanzi che il Divo mettesse sulle scene dello Châtelet questo suo Mistero-mistificazione, egli fece sapere al mondo dei credenti, per la mendace penna di un suo moretto del Temps (16 maggio 1911) che «il suo culto (?) per San Sebastiano datava dalla sua prima giovinezza – (sin da quando – dico io – il D'Annunzio suscitava in chi lo vedeva immondi appetiti, ed egli lanciava in pubblico le sue prime prose e i suoi primi versi pornografici!) – e faceva dire che «una sua amica adorabile, la più nervosa e più nobile scrittrice italiana,15 gli aveva ispirato l'amore del sanguinante giovanetto dal mito cristiano (sic) trasfigurato nel bel santo colpito che le donne di Biblos deponevano sopra un catafalco di ebano e d'oro»! – E faceva con faccia ancora più tosta rassicurare i credenti con queste bugiarde parole: «Ogni scena di questo Mistero è penetrata da un soffio di potente e ardente fede. In esso si avverte costantemente la presenza di Cristo. In esso si vede l'intervento della grazia, dell'illuminazione e della conversione immediata»! – Il Divo ancora, con più bugiarde parole, affermava ad un anonimo intervistatore:

«Non si può immaginare una più grande potenza di rappresentazione come quella ch'io ho messa nella conversione di un'intera famiglia nel atto. Da Poliuto in poi non si era scritta una tragedia degna di essere inalzata al cielo della grande Poesia, come questo mio Mistero. L'angoscia di Sebastiano e la preghiera di quelli che gli domandano di far loro vedere Dio non ho potuto scriverle senza versare molte lagrime. E non è questo il punto culminante della mia tragedia; ma è da questo punto che il pianto e l'emozione crescono e si elevano sino alla fine con episodî inattesi, sino alla fine con una completa e sublime effusione musicale»!?

Solo ad una superfemina è dato di potersi lodare in così sciocco modo. – E doposbalordente omelìa lirica sulla bellezza ineffabile del suo Mistero da lui scritto in francese, si avventava contro ai «piccoli vecchi» d'Italia che gli davano del rinnegato per avere abiurato la lingua italiana, e gli chiedevano se egli non avesse, per avventura, anche l'intenzione di scrivere un giorno una tragedia in lingua cinese. E rispondeva a costoro: «Francamente, non dico di no!» E il farlo, a parer mio, non dovrebbe costargli molta fatica, giacchè il suo italiano e il suo francese si allontanano tanto dall'uso della lingua viva, da riuscire incomprensibili a noi tanto quanto ci riesce incomprensibile il cinese. Ed è questa – credo – la ragione per cui un tal Passerini, suo amico e ammiratore, ha compilato due voluminosi dizionarî – (più di mille pagine!) –per ajutare il lettore a comprendere il cinese del D'Annunzio.16

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L'ultima cosa alla quale ponga mente il D'Annunzio è quella di scrivere l'opera da lui annunziata al suono di mille trombe e di mille campane. A lui urge innanzi tutto trovare un titolo che – (dica molto o dica nulla) – sia nuovo e sopratutto strano: Terra vergineSan Pantaleone – Il Piacere – L'Isotteo – La ChimeraTrionfo della mortePoema paradisiaco – Le Vergini delle rocce – Più che l'amoreFuoco – La città mortaSogno d'un mattino di primaveraSogno d'un tramonto d'autunno – La nave – La fiaccola sotto il moggioCaprifoglio, e così via. Trovato il titolo, egli lo comunica all'esercito dei suoi moretti, e, ventiquattro ore dopo, tutto il mondo sa che il Divo lavora indefessamente ed anche misteriosamente attorno a un nuovo romanzo, che si intitolerà l'Ortica, o pure attorno ad un nuovo dramma, che si intitolerà la Cantaride, il quale dramma o il quale romanzo sarà prova ancora una volta della «fecondità», della «originalità», della «inesauribilità del suo genio sovrano». – Ma egli non lavora punto, o meglio, egli lavora solo intorno alla etichetta, o meglio ancora, attorno ai pennacchi e ai belletti sotto ai quali egli farà passare per capolavoro una delle sue solite diarree di parole pellegrine che non dicono niente, o che dicono solo porcheriole e storielle da bordelli signorili.

Per tre, per quattro, per sei mesi, egli non lascia passare un giorno, da quello in cui ha letificato il mondo con l'annunzio della sua nuova opera, senza che i suoi moretti si occupino di lui come vuole lui, cioè in una maniera mirabolante che giunge sino al grottesco e al ridicolo: e pour cause, perchè il grottesco e il ridicolo fanno assai chiasso, e i mille, i diecimila lettorelli del soffietto o dell'aneddoto dannunziano in ogni ufficio dove lavorano, in ogni salotto dove conversano lo scodellano ai loro colleghi, ai loro amici, e costoro, alla loro volta, fanno lo stesso coi loro amici e coi loro colleghi di altri ufficî e di altri salotti. Si ride? E che importa al D'Annunzio se di lui si ride? Ciò che gl'importa è che tutti si occupino di lui, facciano il nome di lui più volte in un giorno e per tre, per quattro, per sei mesi di séguito. Ciò entra nel suo calcolo: quando parecchi milioni di sfaccendati si occupano di lui, l'ora verrà che centomila sciocchi popolino successivamente i teatri d'Italia alla rappresentazione della sua Cantaride o che comprino in tutte le città d'Italia il suo romanzo l'Ortica. La réclame – il D'Annunzio lo saserve a trarre nella trappola gli sciocchi; essa inocula negli sciocchi una specie di ossessione da cui costoro non riescono a liberarsi che comprando a caro prezzo il diritto di entrata al teatro, o comprando a caro prezzo il volume.

Oh! che si scherza? Quattro o sei mesi di attesa di un'opera di cui ogni giorno i giornali – a mezzo dei morettilevano alle stelle le «divine bellezze»! Quale sciocco non cadrà nella pania?

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Una categoria di moretti tutta speciale è quella che segue da vicino ogni passo, ogni atto, ogni sospiro del Divo, per letificare il gran pubblico con notizie preziose intorno alla vita di gran signore che l'Immaginifico conduce. Son essi che ci fanno sapere il luogo dove egli si trova, quello che fa, quello che mangia, quello che beve; l'ora in cui si corica, l'ora in cui si leva; quante volte fa la cacca e quante sputa; quanti denti ha posticci, ecc. ecc. – Mentre fervevano allo Châtelet i lavori per la messa in iscena del San Sebastiano e i parigini sfaccendati non facevano che occuparsi del prossimo «grande avvenimento», un suo moretto del Cri de Paris annuziava alle genti che «il grande Poeta delle Laudi dimorava a Versailles, in un immenso e ricco albergo, dirimpetto al Parco dei Re di Francia», e diceva:

«Dalle grandi finestre egli scorge il Trianon.... Lungo la notte egli può sognare tutte le Marie Antoniette e le Maintenon che vi fecero dimora.... Agli amici che lo visitano egli dice: Ero nato per vivere da re.... Egli passa freddo e indifferente fra gli ospiti di quel sontuoso albergo, i quali lo mirano con quel vivo stupore che i grandi producono sui piccoli: tutti quegli ospiti sono stranieri e parlano lingue diverse, ed egli mormora sdegnosamente: Sono il solo francese di Versailles... Nella stanza attigua alla sua alberga una nobile e deliziosa donna, la quale in pubblico si mostra sempre velata. Al di sopra del suo appartamento suona non di rado una voce metallica. Il Divo ascolta con visibile soddisfazione; poi dice: È il mio San Sebastiano; è Ida Rubinstein che educa la sua voce e studia la sua parte. –Tutti e tre, il Poeta, la Rubinstein e la nobile deliziosa donna velata, percorrono il vasto parco ombreggiato e fiorito, declamando dei versi sublimi.... Al signor Astruc, impresario della Rubinstein pel San Sebastiano, il D'Annunzio disse un giorno: Io sono un signore magnifico; ma amo il popolo di Parigi, che è il mio popolo. Non basta che io dia della Bellezza ai felici di questo mondo, i quali hanno i mezzi di pagarmela: è mestieri che anche i poveri partecipino ad essa. Dopo che avremo meravigliato coloro che pagheranno palchi e poltrone a peso d'oro, noi meraviglieremo coloro cui è dato pagare i posti che occuperanno a teatro col loro fervido entusiasmo. Noi offriremo, dunque, il nostro San Sebastiano al popolo di Parigi gratuitamente». – Parole degne di un re!

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Ma il magnifico signore, quantunque profondesse a piene mani l'oro del birrajo inglese, pure non fece in tempo a impedire che alcuni giornali parigini qualche giorno innanzi la rappresentazione del San Sebastiano dicessero la nuda e cruda verità intorno a lui e all'opera sua. Sul Gil Blas, per esempio, in un articolo intitolato Le mauvais exemple, il Pioch si scagliava contro lo scandaloso étalage permanente del modo di vivere dello Immaginifico. Fra le altre cose egli disse: «Prima di potere ammirare il Poeta, siamo costretti a subire l'attore! È questa una miseria di piccolo uomo che scoraggia ed offende.» E conchiudeva invitando il gran vanesio a disilludersi che la decantata bellezza delle sue opere potesse rendere cara ai Francesi la sua non meno decantata persona....»

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Ma è poi vero, domando io – che i giornalisti francesi – come egli fa telegrafare ai giornali italiani – non lo lasciano in pace chiedendogli interviste? È poi vero che in tutti i salotti mondani di Parigi la presenza del Poeta della Bellezza è accolta come un benefizio celeste? È poi vero che le più belle donne di Parigi implorano, quasi in ginocchio, il dono di un sorriso ed anche di un bacio del non chiomato Gabriele? – Ah! se non ci fosse il telegrafo! Ah! se – spediti i telegrammi – non ci fosse così gran numero di giornalisti minchioni in Italia....

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E torniamo al San Sebastiano, dico al San Sebastiano opera d'inchiostro, che non ha niente da vedere col San Sebastiano, opera in accommandita di un pittore, di un musicista e di molti sarti, i quali dettero alla rappresentazione di questo Mistero quei lenocinii e quelle seduzioni degli occhi e delle orecchie che tanto piacciono alla folla. Il San Sebastiano rappresentato allo Châtelet è una ben altra cosa dal Sebastiano del manoscritto. Innanzi tutto, chi lavorò al San Sebastiano del palcoscenico fu Leone Basck, un artista fantasioso che ideò le scene e le vesti dei personaggi con un lussoinusitato di colori e d'oro, d'ombre e di luce da rapire in estasi la numerosa categoria di quegli spettatori che – incapaci di pensare – vogliono solo vedere. E allo Châtelet costoro videro compiersi sotto i loro occhi delle meraviglie, ad esempio, i sette festoni di gigli collocati sulle sette finestre del palazzo del Prefetto, i quali, a vista, si trasformano in sette serafini, mentre Sebastiano danza «lascivamente» sui carboni accesi; videro un sotterraneo trasformarsi in una camera astrologica tra effetti meravigliosi di luce; videro lo accumularsi di tutti gli sforzi del colore e del lusso pagano in forma di fiori e di ghirlande sul corpo del Martire; videro il turchino del cielo vestirsi d'una luce di paradiso, e piovere da quello intensi raggi d'oro in gran copia; videro....

Ora tutto questo non è che del belletto sgargiante sul volto di laida cortigiana, voglio dire, una bella mano di smagliante vernice su di un putrido legno. E la vernice neppure aveva il merito d'essere del D'Annunzio: egli l'aveva solo pagata; meglio, l'aveva pagata la Rubinstein. – La cosa che era e che è sua è immensamente misera, infelice, disgraziata; è un esercizio da scolaretto che fa le sue prime armi in francese. E lo si vede sin dal principio, in quella lunga, vuota e sciocca filastrocca che egli pone in bocca al Nunzio:

«Douces gens, un peu de silence

Egli comincia proprio così, trattando da ragazzi discoli e da populace gli eleganti, compassati, inamidati aristocratici che egli aveva convocati nell'ampia sala dello Châtelet! E dire che, quando si levò il sipario, tale era il silenzio che uguale poteva esser quello di una tomba. Egli – nientemeno! – assimila quella folla in fraks e in vesti scollacciate alla marmaglia medievale schiamazzante che assisteva alle sacre rappresentazioni. Luogo comune, questo, proprio d'uno scolaretto che non sia capace di darsi ragione delle mutate condizioni di tempo e di luogo. E, ciò che è peggio, egli scambia quel suo elegantissimo pubblico di gran peccatori, immersi nel più sfrenato lusso e nei dorati vizî mondani, per dei poveri di spirito disposti a guadagnarsi le indulgenze. Infatti, dice loro così:

Soyez recuillis en presence
de Dieu, comme dans la prière...

A quei dami e a quelle dame! Egli dice loro proprio così: Raccoglietevi al cospetto di Dio, come nella preghiera! E poi, da qual pulpito veniva cotesto invito! – E il motivo, poi, il motivo per cui quei grandi peccatori e quelle grandi peccatrici debbono mettersi in ginocchio, umiliarsi innanzi a Dio e pregare, egli, il cantore dei sensi e della libidine, ha la bontà di farlo loro conoscere:

giacchè qui...

qui, cioè in questo teatro aperto a tutte le più sfacciate eleganze e alle più procaci nudità,

...voi apprenderete, per mistero,
le sofferenze santissime
di quel giovanetto martire
che rinnova continuamente la sua giovinezza
nelle fontane del suo sangue.

E quei signori e, specie, quelle signore, douces gens, per meglio edificarsi alle santissime sofferenze del martire giovanetto, sfoggiavano la loro superbia e la loro vanità nel fulgore dei solitarî ai loro diti e nei vezzi di brillanti e di perle al loro collo e ai loro polsi! E l'avrebbero, dunque, visto nudo quell'imberbe martire «rinnovante la sua giovinezza nelle fontane del suo sangue»! Oh la bella ricetta per conservarsi sempre giovani che il Martire offriva ai giovani anzi tempo appassiti dai loro vizî, e alle giovani comprese d'orrore all'apparire del primo filo d'argento frai loro capelli! – Intanto, osservate. Gabriele ha detto loro: «Vi prego di far silenzio, giacchè qui voi assisterete alle sofferenze di San Sebastiano.» Ma sentitelo adesso:

Io vi prego, dunque, di far silenzio
pei Chiodi, la Spugna e la Lancia.

Bella connessione! Bellissimo quel dunque, che, in luogo di riferirsi allo anzidetto motivo, si riferisce ad un motivo diverso: i chiodi, la spugna e la lancia con cui Cristo, e non San Sebastiano, fu crocifisso, dissetato e trafitto!

Ed egli prende colle buone, cioè con la promessa di un buon premio, quel suo pubblico di «giovanetti discoli» e di «plebaglia rumoreggiante»:

Chi tacerà e guarderà innanzi a
senza rumoreggiare tenzonare
sarà benedetto.

C'è da sbellicarsi dalle risa! Oh! che eran, forse, capaci quei gran signori blasés e quelle grandi signore imbustate e guantate e profumate, erano forse, capaci di rumoreggiare e di tenzonare, , proprio! in quel teatro, come i porte-faix e le comères sogliono far nelle piazze?

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E la filastrocca del Nunzio continua, continua così, monotonamente, scioccamente, lungo la quale noi c'incontriamo in Monsignor Saint Denis e in Sainte Geneviève che cassano i peccati dei Parigini e delle Parigine; e c'incontriamo in Dieu Père, in Dieu Fils, in Dieu Saint-Esprit loro protettori; e c'incontriamo nella Dame Vierge protettrice di Parigi, e anche nel Diavolo che spegne un cero da un lato, mentre dall'altro lato l'Angelo lo riaccende; e c'incontriamo in «Lui», dico in D'Annunzio, fabbro delle cinque Vetrate consacrate a San Sebastiano, il quale – dico il D'Annunzio e non San Sebastiano – ha visto ad ora ad ora uno dei suoi possenti fornelli ardere, l'altro fumare e spegnersi; ond'egli si è messo a invocare: «O arte di Francia!», sentendo ventilare la sua speranza al soffio del suo desiderio – (il che, dentro parentesi, vuol dire che egli soltanto in francese avrebbe concepito e scritto questo suo «mirabile» lavoro!) – «Ô art de France!» – E chiama «operaio pellegrino in esilio»; ed ha la modestia di aggiungere: «che balbetta – (ed è vero!) – nella lingua dell'Oil, come già Brunetto Latini.» E chiama «troppo duro» il suo nome per potersi incastrare nella reticella di piombo delle sue cinque Vetrate rosse e turchine, dipinte nella lingua dell'Oil, il quale suo nome «è pur così dolce nella lingua del ». E presenta al pubblico l'altro operaio Claudio Debussy – il cui nome – (udite!) – «suona come le nuove foglie suonano sotto la pioggia nuova in un verziere dell'Isola di Francia, nel quale verziere i mandorli senza mandorle illuminano l'erba all'intorno in un boschetto di San Germano, il quale boschetto di San Germano si sovviene di Gabriella d'Estrées, del re Fauno (Errico IV) e del loro amore», che fu scandalosissimo. E questo egli ricorda a proposito del martirio di San Sebastiano!

Eccetera.

E tutto il Misterodiviso in cinque Vetrateprocede monotonamente così, pieno della freddezza insipida, leccata, inamidata del Divo fabbricatore di toilettes nelle quali ogni spillo, ogni uncino, ogni nastro, ogni cosa futile è, sì, a posto; di toilettes, sì, che non fanno una grinza perchè non ci son dentro delle creature vive, ma dei mannequins.

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Questo pasticcio senza architettura e senza armonia interiore, senza azione e senza calore – eccetto che nella mimica dei balli danzati dal Santo, ossia dalla Rubinstein, la quale casca ad ogni momento nel lascivo – è così impotente da per a produrre un qualche effetto, che il Divo lo ha puntellato con lunghe, prolisse didascalie, affinchè il lettore sappia quando ha da ammirare, quando da piangere e da esaltarsi, ed è riuscito col lusso orientale delle scene e delle vesti ad occupare l'occhio degli spettatori, nella speranza che la loro bocca non si aprisse allo sbadiglio. Ma ciò non ostante, gli spettatori, come i lettori non sciocchi, non riescono a vincere la noja, il fastidio della monotonia, a superare un senso di disgusto per quel flessuoso, naticante San Sebastiano che non sa far altro che danzare, e attraverso alle cui spoglie appare la ballerina.

E bisogna sentire come S. Sebastiano dannunzianamente parla! A lui ha il D'Annunzio comunicato l'arte di dire parole che non dicono altro che sciocchezze. Sentite come il bellissimo Arciere, rapagnettando, descrive Dio:

C'est lui, c'est lui. Car du haut ciel
il fond et saisit, comme l'aigle
foudroyant.

E dire che egli – seguace di Cristosapeva che Cristo-Dio è sì mansueto! – E aggiunge

...Il saisit, soulève,
emporte, dans les battements (?)
de sa grandeur...

quando, invece, il Dio dei neofiti cristiani era un Dio di pace e di perdono! – Ed è strano che, dopo averlo dipinto così terribile alla folla che gli chiede un segno di Dio, risponde:

Il a dit: Je suis doux. Mon sang
est doux, mon fardeau est léger.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il n'a plus de corps, il n'a plus
de sang. Il a donné son corps
et son sang pour les créatures.

Ma, ed allora come mai piomberebbe dall'alto dei cieli e colpirebbe e fulminerebbe, simile all'aquila che piomba sulla preda? E come potrebbe cotesto San Sebastiano, foggiato dal Divo ad immagine sua e della Rubinstein, come potrebbe, dico, nel momento supremo dell'ultimo supplizio fare una lezione sulla Trinità, servendosi del fusto, della corda e della saetta del suo arco?

Le fût est le Père, la Corde
est l'Esprit, la Fleche empennée
est le Fils qui donne son sang.

E non riflette che la freccia, anzichè dare il suo sangue, toglie il sangue alle carni che ferisce, e, come tale, non può, per nessuna ragione, rappresentare Gesù Cristo, che diede il suo sangue!!

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Ma di questa e di moltissime altre stupide contraddizioni non è responsabile il Divo, ma la supina ignoranza di coloro che, incapaci di darsi ragione e conto di checchessia, inghiottiscono e digeriscono ogni sciocchezza che a lui piace sballare. Il capitale ormai enorme di cui egli dispone e che egli colloca, col frutto del mille per uno, presso le banche dell'ignoranza e della corruzione delle moltitudini plaudenti, è la impassibilità della sua faccia tosta unita all'alto diritto di sovrano assoluto nel campo del monopolio di ogni cosa laida, triviale, stomachevole, contro natura, contro il buonsenso e il senso comune. In altre parole, egli ha ormai il diritto di spropositare, di bestemmiare e di godere – non ostante ciò, anzi a causa di ciò – di un credito sempre maggiore presso le banche già ricordate dell'ignoranza e della corruzione, o – che è lo stesso – presso i plaudenti barbieri della bassa, della media e dell'alta società leggicchiante.

Ma da un altro lato bisogna dire che egli è il clown di tutti costoro, ai quali è obbligato di presentarsi ogni volta con un vestito e un atteggiamento nuovo; nuovo così per dire, perchè è sempre lo stesso atteggiamento e lo stesso vestito: i belletti e i fronzoli sono diversi. Egli riproduce sempre lo stesso tipo di uomo e lo stesso tipo di donna, questa e quello costantemente asserviti alle voluttà degradanti: sono sempre lo stesso uomo e la stessa donna sotto nomi diversi. Ma è bene aggiungere che sono sempre lo stesso falso uomo e la stessa falsa donna. Sono marionette, che egli muove come vuole e a cui presta le sue voglie e le sue parole. Se la recente notizia del Teatro Illustrato è vera, Gabriele butterà via quanto prima la maschera di superuomo per mostrarsi al suo pubblico colla sua faccia vera e propria di burattinaio. Infatti – (afferma la citata Gazzetta) – Gabriele scriverà, fra non guari, «per le marionette». Ed aggiunge: «No, non è uno scherzo; Gabriele, che sogna la resurrezione di questa arte – (che è – dico io – la sua vera arte) – presentò a Renzo Sonzogno gli schemi di quattro o cinque commedie per marionette, alle quali non manca che il dialogo...» – E si capisce: quando mai le marionette hanno avuto l'uso della parola? Esse parleranno per bocca del burattinajo. Il teatro scelto dal Divo è il San Moisè di Venezia. Certo, ci sarà qualcuno che – sotto le indicazioni di Gabriele – farà muovere i burattini dannunziani; ma chi li farà parlare sarà lui in petto e persona. E allora vedremo sfilarci davanti gli eroi e le eroine dei suoi romanzi e dei suoi drammi nel loro essere genuino: e così intenderemo perfettamente bene perchè i suoi eroi e le sue eroine sono tutti una cosa sola: la rara cosa che è Gabriele; giacchè anche Gabriele è alla sua volta un burattino che parla ed agisce come vogliono i due malanni che lo governano: l'impotente lascivia e la vanità muliebre.

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Ma torniamo al San Sebastiano. Se l'Immaginifico non avesse incontrato la Rubinstein, che è una femina mascoleggiante, allo stesso modo che il Divo è un maschio femmineggiante, egli – come già ho detto – non avrebbe concepito quella marionetta androgine che è il suo San Sebastiano. Chi conosce di persona la ballerina russa non può non convenire che essa impressiona come un individuo di sesso incerto: ecco perchè essa è riuscita – come desiderava Gabriele – è riuscita, dico, a dare al Martire un'importanza di efebo inquietante, accentuata dalle sue gambe nervose, lunghe e mezzo nude e dal suo petto addirittura liscio e virile; ragion per cui l'arcivescovo di Parigi lanciò contro questo Martirio, che, viceversa, è esposizione sfacciata della più raffinata lussuria, i suoi anatemi.

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Alla vigilia della rappresentazione, un critico, così per dire, il signor Nazière, sulle colonne del Gil Blas, si diffondeva in lodi venderecce sul D'Annunzio «meraviglioso artista al quale dobbiamo la Gioconda, il Fuoco, il Piacere – (egli ricorda queste tre sole opere del Divo, le quali, più che le altre, riboccano di putrida sensualità). – Così parla del San Sebastiano:

«Noi siamo chiamati ad apprezzare il Poeta nel suo San Sebastiano.... Nella sala dello Châtelet, per la prima di questo Mistero, non vi saranno soltanto dei professori dell'Università e dei grammatici, ma ancora – (questo è l'importante!) – le nostre più fulgide bellezze. Noi vedremo nelle prime file dei palchi le belle attrici, le belle donne del mondo aristocratico parigino riunite, formanti una radiosa corbeille, una luminosa ghirlanda....17» – E detto questo, paragona il D'Annunzio ai cavalieri medievali che combattevano sotto gli occhi delle donne che essi amavano, e aggiunge che «il Poeta potrà scorgere sul viso di queste bellezze fulgidissime il turbamento....»

Infatti, sì, esse ebbero del turbamento, ma... di lascivia.

Non si direbbe che anzichè una lode questa del Nazière sia una vera e propria canzonatura? Ma, e che perciò? Anche la canzonatura è réclame. La quale, per ciò che riguarda il D'Annunzio, ha avuto ed ha delle risorse strabilianti: essa, infatti, giunse perfino a indurre uno spiritoso povero di spirito che si firma Ser Ciappelletto e pubblica le sue pappolate sulla Tribuna, a immaginare una seduta spiritica nella quale lo spirito di Bodel d'Arras, trouvère del XII secolo, uno dei primi che si dedicarono al dramma sacro, ed autore di un Mistero intitolato Le jeu de Saint Nicolas, gli rivela la trama dei cinque atti del San Sebastiano: «La cour des Lys» – «La chambre magique» – «Le Concile des faux Dieux» – « Le Laurier blessé» – «Le Paradis» – e perfino gli rivela delle strofe intere. – Sembra anch'essa una canzonatura. Ma – ripeto – anche in questo caso la canzonatura giova e come!, alla réclame del Divo. – E domando quanto riscosse Ricciotto Canudo – che pur mi si dice abbia dello ingegno – per iscrivere, come scrisse, il Programma della 1a rappresentazione del dannunziano Mistero con piccanti cenni biografici sull'Immaginifico, sulla Rubinstein, e un sunto analitico-laudatorio del San Sebastiano; il quale Programma fu venduto alle porte dello Châtelet sotto lo specioso pretesto di ajutare gli spettatori a meglio intendere, gustare e ammirare le riposte bellezze del nuovo «capolavoro» del Divo?.

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Come sempre, nel periodo di attesa febbrile, il danaro fece prodigî: la Rubinstein snodava largamente i lacci della sua borsa inesauribile, così volendo Gabriele. Gli articoli laudatorî e promettitori di meraviglie mai viste e mai sentite furono un visibilio; cosiffatta réclame non aveva altro scopo che quello di chiamare allo Châtelet il più gran numero di coloro che vivono nel mondo dell'aristocrazia e del denaro. Ma il giorno dopo la prima rappresentazione non pochi giornali parigini e non pochi corrispondenti di giornali esteri posero i punti sugli i.

Max Nordau scrisse alla Wossische Zeitung:

«Non è poesia arte. È un'enorme corbellatura in cinque parti. Niente azione. San Sebastiano non fa altro che danzare e declamare dannuzianamente e muore di una morte terribilmente parolaja. Non può farsi un'idea della vuota gonfiezza di quest'opera se non chi l'ha vista o letta. I costumi sono arlecchineschi. Si vedono i romani vestiti alla medio-evo! Essi, infatti, copiano le miniature dei manoscritti medievali. Il loro effetto è grottesco. Tutta l'opera non ha che uno scopo, quello di creare una parte parlata per la ballerina Rubinstein

E il corrispondente del Berliner Tageblatt:

«È un martirio, non solo per San Sebastiano, ma anche per gli spettatori

Eugenio Checchi mandò alla Tribuna (20 maggio 1911):

«I ragazzi delle nostre scuole elementari prima sapevano che il più grande poeta nostro era Dante, che aveva scritto in italiano la Divina Commedia; ora sanno che, dopo Dante, c'è G. D'Annunzio, il quale ha scritto in francese Le Martyre de Saint Sébastien. Il nome della ballerina russa ed ebrea, Ida Rubinstein, è eternamente consacrato accanto a quello di Beatrice, di Laura e di Eleonora d'Este. Il mestiere di poeta del D'Annunzio somiglia all'abilità di un lanciatore di pillole Pink. Se il San Sebastiano fosse in italiano farebbe venire la voglia di piangere; ma è in francese, e fa venire la voglia di ridere. Fanno troppa malinconia quelli che lo pigliano sul serio e strombettano l'onore che egli fa al nome italiano bevendo il nei salotti parigini, come se il nome italiano avesse bisogno di quattro frasi francesi da scolaretto e d'un pajo di gambe di ballerina».

Come si sa, cotesto mostruoso aborto dannunziano andò in iscena dopo avere subìto lunghi tagli per renderlo meno pesante; ma ciò, se potè rimediare in piccola parte alla indigeribile prolissità e alla valanga delle parole inutili, non valse menomamente a rimediare alla vacuità della concezione e, peggio, alla falsità degli intendimenti religiosi, sicchè, come ben disse il Gaulois (14 maggio 1911) «i più scettici furono costretti a riconoscere quanto fosse ben motivata la interdizione dell'Arcivescovo di Parigi, il quale giustamente vide in questo Mistero un sacrilegio che colpisce la coscienza cristiana: San Sebastiano mutato in un osceno danzatore!».

E il critico letterario dell'Excelsior, M. Galtier, dava addosso al D'Annunzio che «aveva spinto la sua audacia fino a volere scrivere un'opera in francese».

E il Matin, con fine ironia, così pose in evidenza la immensurabile vacuità dell'opera:

«Il D'Annunzio ha due attenuanti: la musica e le decorazioni. Senza di ciò....» E conchiude: «Nessuno ne ha compreso nulla».

E il Figaro: «.... Mi vengono i brividi nel dover fare la critica di questo enorme sforzo letterario....; perciò mi limito a riconoscere solo l'interesse eccezionale della messa in iscena».

E il Petit Parisien:

«Non c'è da cercare nel San Sebastiano una produzione drammatica, ma sì una produzione spettacolosa; e bisogna dire altamente che se il testo è uscuro, la messa in iscena è bellissima... Un pubblico che non comprende finisce per annojarsi....: fortunatamente la musica di Claudio Debussy lo sveglia dal sonno....»

E l'Indépendance, con un articolo pungentissimo, demolisce il Mistero, senza misericordia.

E il Siècle:

«Bisogna sopprimere tutta la 2a vetrata e fondere la 5a vetrata colla 4a».

Povere cinque vetrate ridotte a tre con una capata che mandava in frantumi i vetri del e del atto!

E l'Echo de Paris:

«Il lavoro del D'Annunzio è una beffa, un mauvais tour giocato al popolo parigino. Non si conosce nulla di più deplorevolmente e pretensiosamente nojoso di cotesti cinque atti che si trascinano a traverso l'incomprensibile e in mezzo a salmodie urlanti». – E conchiude così: «Non è forse Lucifero il principe della noja? Ebbene, Lucifero regnò sovrano jeri sera sopra i disgraziati spettatori».

E il Matin in un secondo articolo:

«Per vestire di un conveniente lustro questa rappresentazione così parigina, il teatro dello Châtelet ha prestato la sua sala, il maestro Debussy la sua musica, il Basck la sua arte di scenografo, la Comédie Française la signora Dudley, l'Odéon l'artista Desjardins, la signora Ida Rubinstein gli atteggiamenti jeratici del suo lungo corpo e l'inesperienza della sua dizione straniera (non che 800000 franchi, aggiungo io); finalmente il pubblico ha dato il suo infaticabile snobismo.... Dopo un Prologo, nel quale un attore (il Nunzio) una definizione della musica del Debussy in uno strano ambiente che ha i riflessi d'una cattedrale, si vedono martirizzare i cristiani; una mater dolorosa e cinque sorores si lagnano; San Sebastiano a piedi nudi danza sui carboni accesi... Siamo poi trasportati in un luogo indefinibile, dove dieci maghe non recitano più perchè è stata tagliata una filatessa di duecento versi.... Davanti a una porta che racchiude i segni dello Zodiaco, San Sebastiano conversa con la voce del passato.... Nessuno ci capisce niente, ma si ha la scaltrezza di far cadere la responsabilità di ciò sulla pronunzia della Rubinstein... Sopraggiunge Vera Sergine, ragazza malata di nervi... Non si riesce a comprendere meglio di prima, e allora ci si accorge che la colpa è del D'Annunzio». – E dopo di avere accennato allo sforzo dei colori e della luce e dei suoni, dai quali gli occhi e gli orecchi erano restati affascinati, il Matin finisce facendo questa piccante riflessione:

«A che scopo il D'Annunzio ha voluto guastare siffatte gradite senzazioni con l'indiscrezione del suo poema

E il Journal:

«Tutto è musica, musica, musica».

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E negli intervalli si udiva:

«Questo non è il Martirio di San Sebastiano, ma il martirio del pubblico». – E ancora: «Questo non è il martirio, ma il mortorio di San Sebastiano».

E ancora e ancora:

«Gran bella cosa! ma di una monotonia mortale

«Bellissimo! ma da rappresentarsi nella settimana santa

«È una follia d'isterico

Moltissimi giornali registrarono in cronaca che – non ostante i numerosi tagli – lo spettacolo era sì lungo e accablant che non poche signore abbandonarono il teatro, specie durante il atto, dopo avere visto e ammirato il magnifico quadro scenico, unica attrattiva della pièce.

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Il Martirio di San Sebastiano, edito nel giugno del 1911 da Calman Levy, è stato dedicato dal D'Annunzio, con sbalordente copia di puerili inutili parole, a Maurizio Barrère. Fra le altre «belle cose» che gli dice c'è anche questa:

«Vi confesso che – quando io compî queste mie cinque Vetrate – fui certo di andare in pellegrinaggio a Chartres per rimirarne le belle vetrate e per deporre il mio manoscritto – non già sull'altare, alla mercè di Dio, come un tempo le povere cortigiane di Chartres usavano coi loro bambini difettosi – ma all'angolo meridionale della chiesa ove è scolpito l'Asino che suona la ghironda» (la vielle).

Bravo! Ma sventuratamente il Divo non ne fece nulla, e ce ne dice il perchè, il quale è, davvero, un dannunziano perchè:

«Non avevo mai veduto un cielo più ampio e più indulgente sopra una ubertà più silenziosa. La Beauce, tutta verde, tremava... e ai rami dei meli fioriti le nubi parevano ripiegarsi come lembi di veste fra le mani di donne pronte a uno stornello... – (Oh seicento calunniato!) – Allora, scorgendo le due frecce di pietra che trafiggono il cuore stesso dell'Eterno, ebbi la fede del buon maestro vetraio, che, per volere rivelare d'improvviso la bellezza della sua opera trasparente, confida nel raggio del sole di Dio. Ecco, adunque, il mio libro salvato e perdonato»!?!

Come vedete, il cielo, la Beauce, i meli fioriti, le frecce di pietra che feriscono il cuore di Dio, lo persuasero a non deporre il suo manoscritto ai piè dell'Asino che suona la ghironda! E, tutto pieno della fede del buon maestro vetraio che confida nel raggio del sole di Dio, egli offre il suo San Sebastiano al Barrère, che non è asino e non suona la ghironda!

E gli dice:

«Vi offro i miei versi di Francia perchè amo la vostra prosa d'Italia, mio caro Maurizio... Il mio Sebastiano parla in un certo punto del tendine di bestia – (forse un tendine di asino) – che si adatta al fusto del suo arco sdoppiato e gli aderisce così da fare una cosa sola. Io penso – (attenti!) – Io penso al nervo animale su cui si stende la spiritualità dell'arte vostra (!!!)... Una sera, nelle vicinanze del Taigeto e dell'Eurota, una sola parola irraggiò sull'eroismo del vostro spirito: «il più bello dell'occidente». – (Ma le parole son cinque!) – «Vi è un'altra parola della grande razza latina.... (che lo ha tante volte fischiato).... la quale non mi sembra meno bella, poichè io voglio vederla sempre colorata del mio sangue e del sangue dei miei pari... (per esempio: del sangue di Maurizio Barrère!) e questa parola è: Intrepidezza.

Ossia – dico io – faccia tosta, faccia che non sente gli scoppi delle risa il sibilo dei fischi; la qual cosa, infatti, è «intrepidezza»: l'intrepidezza di Gabriele.





11 In Civiltà Cattolica, quadernoanno 1911.



12 Mario Barbera. – Ibidem.



13 Mario Barbera. – Ibidem.



14 Per la completa valutazione dell'oscenità che informa dal principio alla fine questo Mistero dannunziano e la falsificazione che vi si fa del glorioso Martire, leggasi in Civiltà Cattolica il citato studio di Mario Barbera, critico geniale e profondo.



15 Non sarebbe costei M. Serao, questa spregiudicata scrittrice dai pur troppo liberi costumi, che ebbe un giorno la faccia tosta di scrivere il panegirico di Santa Teresa?



16 Il cervelluzzo di G. L. Passerini ci ha dato due grossi vocabolarî: l'uno della Poesia e l'altro della Prosa di Gabriele, i quali hanno la pretensione di sovrapporsi al vocabolario della Lingua Italiana, d'onde il Divo ha tratto – con certosina pazienza – le sue «preziose» parole, solo che il vocabolario della Lingua registra le parole vive e le parole morte, e questi due vocabolari dannunziani le sole morte, o quasi morte, e usate dal Divo in vece di altre più vive, come nidore, vascolo, vitulino, e simili. E dice il Passerini l'altissimo scopo per cui egli ha compilati questi due dizionarî: «per ajutare a intendere parole e forme del nostro idioma meno consuete o adoperate dal D'Annunzio nella loro meno comune accezione... – (accidenti!) – o da lui derivate o foggiate dalle lingue classiche o dalle lingue straniere» (il che è da barbaro).

E questo Passerini si scaglia contro gli Accademici della Crusca «che ancora non si sono accorti di quanta varia copia e abbondevole sia il tesoro linguistico che G. D'Annunzio possiede, e con quale arte pura e meravigliosa egli sappia valersene, e quanto questa ricchezza si concordi ognora armoniosamente e si fondi con la potenza artistica e col pensiero poetico del grande scrittore».

Certo, è l'infinita piccolezza del suo cervelluzzo che gli fa parere «grande scrittore» il D'Annunzio; gli è perchè tutto a questo mondo è relativo: il pigmeo, che è un pigmeo, non è, forse, un gigante appetto d' una pulce? E i cervelli-pulci sono un visibilio e tutti sono per necessità concordi nel trovar «grande» il D'Annunzio.

Il quale scrive, per esempio, nidore. L'orecchio della pulce, che non è mai stato colpito dal suono di questa parola, si ferma sulla novità del suono; e poichè questa è una parola usata dal «grande» scrittore, la pulce si affretta a conoscerne il significato, pensando che nessuno in Italia lo conosca! Ma se cercasse in ogni più piccolo dei nostri dizionarî troverebbe che nidore deriva da nido, e che esso vuol dire – per estensioneodore di uova corrotte, e saprebbe ancora che accanto a nidore c'è l'aggettivo nidiroso. – Il D'Annunzio scrive vascolo, e la pulce, che non ha mai sentito a pronunziar questo vocabolo, vi si ferma davanti in adorazione sbalorditoia; indi esclama: «Che ricchezza di lingua, questa di Gabriele!», mentre è notorio perfino ai bimbi degli asili che vascolo è il diminuitivo di vaso e che comunissimi sono i suoi derivati vascoloso e vascolare! – Il D'Annunzio scrive vitulino, che ogni ragazzo del ginnasio sa che è un derivato da vitulus parvus, ossia piccolo vitello o vitellino; ma la pulce si pone a gridare: «Che esuberanza di lingua!». – Scrive il D'Annunzio trabeazione, che è – come sanno gli studentelli delle tecniche – il fregio o l'architrave d'un edifizio; ma, nossignori, per la pulce-Passerini questo è un vocabolo di speciale importanza perchè usato dal D'Annunzio, dal solo D'Annunzio! – E così lo traggono in grande ammirazione le voci covone, delfico, ninfomane, trabaccolo, mordicare, guigge, sovatto, spasa, proquojo, manoso, pattovire, scimiatico, fiumatico, eccetera, e con cotesti materiali ammannisce due vocabolarî di mille e più pagine per uso di tutte le pulci-lettrici d'Italia!

Ohimè! Si fanno tante leggi per punire delitti meno gravi di questo consumato dal Passerini, ma non se ne fa una per colpire colla pena della segregazione i microcefali autori di libri siffatti! Ah! se stèsse a me, saprei ben io trovare la pena condegna pel Passerini, che ha il cervelluzzo dei passerini senza averne il canto: lo condannerei a domicilio coatto in un giardino zoologico, dal quale non uscirebbe se non il giorno in cui egli finisse di riempire uno stajo colle pulci annidantisi frai peli delle bestie di quel giardino.



17 In quella vece, mancò assolutamente la vecchia aristocrazia del faubourg Saint Germain, le grandi dame, i grandi signori, insomma tutta la nobile gente ligia agli ordini del suo Pastore.



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