Enotrio Ladenarda (alias Andrea Lo Forte Randi)
La Superfemina abruzzese

UNA DELLE «FAVILLE DEL MAGLIO»

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UNA DELLE «FAVILLE DEL MAGLIO»

(17 Febbraio 1907. –Alla foce del Motrone, nella
Versilia, il giorno dopo la morte di Enotrio).

Parla Gabriele:

«Non ho mai veduto un giorno più candido, posseduto un cuore più pacato»18 com'oggi; segno, questo, evidente di due luminosissime verità: la 1a, che la natura s'impipa di Enotrio morto, e fa bene; la 2a, che anch'io – come la natura – di Enotrio morto m'impipo... (ma già me ne impipavo altresì quando egli era vivo)... e faccio bene. – Anche «le sabbie del Motroneventiquattr'ore dopo la morte di Enotriosono più chiare che nell'estate colma...Bella espressione, neh?, questa: estate colma! – E ci ho proprio gusto che anche le sabbie del Motrone s'impipino d'Enotrio morto, e che se ne impipino anche le sue acque: «esse stagnano, sì, tra giallicce e verdastre, ma l'urto della maretta le fa rifluire con un increspamento luminoso». – Sì, luminoso e perciò allegro e festante... Ed ecco ancora: «i pini immobili sembra si consumino nella luce per le vette colorate di quel colore bruno che procede innanzi dall'ardore», in febbraio! – Ho detto una sciocchezza? Non importa, ne dico tante! Ciò che importa è che oggi, il giorno dopo la morte di Enotrio, tutto è luce. E se tutto è luce, vuole dire che da per tutto è festa... – Sì, io non ho mai veduto un giorno più candido, ho mai posseduto un cuore più pacato», cioè, più estraneo, più indifferente alla morte di Enotrio, il quale – lo sapete – fu un plebeo che si ostinò a restare plebeo non ostante l'influsso benefico dell'«eterno femminino regale»! – Guardate che capricci assurdi son quelli della sorte! Essa fa cadere le perle davanti ai porci e piovere le regali grazie sur un plebeo ricalcitrante ad ogni più elementare buona creanza.... Oh! se quelle grazie fossero piovute su di me! Ma, cangiamo discorso, se no divento itterico. – «Di fronte a questa foce si leva il torvo Gabberi con la sua cima senza nevi» Chi sa dirmi perchè? E sì che fa un freddo cane! – «Dietro la catena rossastra, le sommità delle Alpi nevate splendono senza macchia, come le statue scolpite di recente». – Permettete ch'io mi ammiri per così ben proporzionato sciocco paragone fra le immense Alpi e le statue! – E dire che sino a jeri non mi ero accorto di tale somiglianza, sino a jeri! Oggi, sì, oggi me ne accorgo, oggi, che è il giorno dopo la morte di Enotrio... – «Rado s'ode sul rombo uguale del mare il grido di qualche uccello dileguante....» – Gl'inferuomini direbbero dileguatesi, cotesti schiavi della grammatica... – Intanto io penso che il mondo si commoverà sapendo che oggi il grido di qualche uccello dileguante s'ode rado sul rombo uguale del mare. – «Se ascolto, distinguo il romore..: – (per carità, cretinelli, romore, non rumore) – che fa nel fiume il rifluire delle ondicine»; ma vo' sappiate che, se io non ascolto, quel romore io non lo distinguo... – ponetevelo bene in mente – non lo distinguo. – «Sul lido nereggiano stormi di cornacchie, che di tratto in tratto si alzano con sommesso crocidare»...– Ma allora son corvi? – Ecco qua: sono cornacchie-corvi sono corvi-cornacchie, cioè, sono cornacchie e corvi androgini, onde accade che i corvi gracchiano e che le cornacchie crocidano. Che bellezza – (se sapeste) – il maschio che fa da femina.... la femina che fa da maschio!... Ma voi non mi intendete, voi profani a questi misteri. – «Poi si posano più lontano, breve favellano tra loro, ammutoliscono: covano la loro ombra funesta.». – Di che favellano esse tra loro? E perchè ammutoliscono? E come fanno a covare la foro ombra? Non so; ma ho il sospetto che tutto questo abbia stretta relazione con la morte di Enotrio.... non ostante che «per ovunque è sospesa una pace che è come l'incantamento di un Transito dalla terra al cielo», il quale non ha nulla da vedere col Transito di Enotrio da Bologna a questa foce, chè – se nol sapete – «io qui attendo lo spirito del Poeta ritornante al suo luogo natale». – La pace ch'io vedo sospesa dovunque indica, sì, come ho detto, l'incantamento di un Transito dalla terra al cielo, indica, cioè, la morte di un santo o di un bambino, ma non ha nulla da vedereripeto – con Enotrio, il cui spirito, è uscito dal corpo col fracasso e colla furia del tappo che si sprigiona dal collo d'una bottiglia piena di vino spumoso, sì, ma senza consistenza, fedele immagine e felice di quel vento rettorico di cui sono pieni i suoi Decennalia fatti di parole roboanti e plebee che pajono ciane schiamazzanti e azzuffantisi in un giorno di mercato. E non vedo io «laggiù, intorno al suo cadavere, una gente diversa.... (diversa dalle cornacchie che crocidano e che poi ammutoliscono e covano la loro ombra) – la quale in vita gli leccò le mani o gli addentò le calcagna e che si affanna ora a soperchiare il maschio e composto dolore dei pochi?»... – Ma, e questi pochi chi sono? E se son pochi, oh, perchè han chiamato e chiamano Enotrio «Poeta della Patria»? – Ah! le moltitudini plaudenti a me, loro Immaginifico! Io sì, io sono il Poeta della Patria, perchè tutti i barbieri d'ogni classe, d'ogni grado, d'ogni condizione – (e sono un esercito infinito) – mi battono le mani. – Ma, fra quei pochi che provano maschio e composto dolore per la morte di Enotrio, ci sono io o non ci sono? – Non ci sono e ci sono. Non ci sono per ciò che riguarda la maschilità del dolore: un dolor maschio è un dolore veramente sentito, ed ha forma spontanea, ed è, perciò, rude, senza smancerie, senza pose, senza pubblicità, senza réclame, e perciò non mi riguarda; il mio, se mai, sarebbe un dolore lisciato, azzimato profumato, leccato, loquace e femmineo: onde vi dico che frai pochi che provano maschio dolore per la morte di Enotrio io non ci sono; ma sono frai pochi che per quella morte provano un dolore composto; infatti il mio è sempre un dolore composto di parole e di atteggiamenti rettorici. – «Non so se la mia attitudine pubblica... (di addolorato, di uomo in preda a un dolore composto)... potrà essere pari al mio sentimento vero». – Infatti, è la mia attitudine pubblica che mi impone di mostrarmi addolorato; ma dentro – in verità – io gioisco che Enotrio è morto. Egli, colla sua grossa brutta testa capelluta, con quelle sue spalle di facchino, con quella sua pancia prominente di sileno avvinazzato, gettava una certa ombra sulla mia piccola femminilmente delicata personcina. È morto? Meglio così! – E se io oggi son triste, «la cagione della mia tristezza non è la sua morte – (la quale per altro non ha fatto triste nessuno) – sibbene il modo del suo finire». – Voglio dire che nessun altro, ahimè!, (neppur io quando morrò) avrà l'apoteosi che si ebbe lui. Sì, è per questo ch'io son triste. Enotrio ha fatto più chiasso da morto che da vivo. Io che ho fatto e faccio sì gran chiasso da vivo, da morto non farò, no, il chiasso che ha fatto lui. – Questo, sì, questo mi attrista. E tanto più mi attrista in quanto egli mi era di gran lunga inferiore. Dicono che «la sua fu una grande anima di guerriero» – Bell'anima di guerriero, affemmia! «posta su due gambe titubanti». – Dicono che «egli ebbe dalla natura un gran soffio bellicoso nel collo, per solito strozzato da una cravatta notarile!» Ciò è vero; e non solo quel soffio lo ebbe nel collo, ma ancora nell'epa che ne era rigonfia e dalla quale saliva, senza rimanersene neppure un attimo nel petto che era senza cuore, saliva, dico, nel collo: infatti, l'una, la pancia, gli ballava, l'altro, il collo, gli si gonfiava ogni volta che gli usciva di bocca il soffio bellicoso. E com'era brutto allora! – Disgraziata, volgare, plebea figura quella di Enotrio. Che narici da sfognatore le sue se «d'in sul legno stantio della cattedra respirò deliziosamente il lezzo della scuola cancherosa!». E poi osava vantarsi «di somigliare il gladiatore tirreno e di voler cadere supino bevendo l'aura del combattimento», lui che, ad ogni nuovo odor di polvere, si chiudeva in casa, e si metteva alla finestra per gridare: morte agli Austriaci! – La sua vita trascorse fra «la più desolata impotenza», fra «l'onta del balbettio fioco delle lagrime irrefrenabili; egli fu indegno, infine, di ricevere, col dardo subitaneo dell'inneggiata Diana, la buona morte». La sua, infatti, è stata una mala morte, e per colpa sua: egli sarebbe dovuto morire di subito, di colpo apoplettico, per esempio, o per suicidio, anzichè lasciarsi lentamente morire roso nelle viscere dal dente inesorabile del troppo vino e dei troppi liquori. Ma ciò, forse, egli fece per calcolo, per dar tempo ai suoi fratelli massoni di fargli assegnare le non meritate ricompense: la pensione di dodici mila lire annue e il premio Nobel, le due vie preparatorie alla non lontana apoteosi. – Dopo ciò, parrebbe che io molto e bene lo conoscessi; ma la verità è che io «poco lo conobbi». Ma gli è perchè poco lo conobbi che io ve l'ho così bene dipinto: «anima di guerriero chiusa in late spalle e grossa pancia, questa e quelle sorrette da due gambe titubanti; collo gonfio d'un soffio bellicoso, strozzato da una cravatta notarile... – Sì, poco lo conobbi, «però» molto lo amai di un amore accorato». – Chi ne indovina il perchè? – Ecco: «lo amai di un amore accorato per la forza di passione e di malinconia che era in lui». – Vedo che non ne capite niente; ma state tranquilli; neppur io ne capisco buccicata. «Forza di passione e malinconia in Enotrio»?.... Per la passione, passi: infatti, una passione egli la ebbe e grandissima e invincibile: quella del bere. Ma può mai passare la malinconia? «Malinconia» in Enotrio, con quel collo, con quella pancia e con quel naso rosso e bitorzoluto? Meglio avrei detto dicendo attonitaggine, dalla quale era immancabilmente sopraffatto quando aveva molto bevuto. – Ed è questa la ragione per cui io l'amavo di amore accorato. Ma neppur ciò è vero, giacchè, alla fin delle fini, che importava a me che egli bazzicasse per le buvettes e per le taverne? e che egli facesse il caprone in caldo perfino da nonno? e che si facesse cacciare dagli alberghi dove conduceva le sue sgualdrine? – Vi dirò ancora che «molto lo amai perchè egli mi fu poco benevolo a causa della sua prepotenza irosa». – «Molto lo amai anche perchè non mi sentii mai prossimo a lui nell'affetto, concorde, ma sempre di un'altra specie.... (la specie dei superuomini) – e di un altro ordine... (l'ordine aristocratico)... – Sì, io potevo comprendere lui – (perchè il superuomo comprende l'uomo e l'animale) – egli – (inferuomo e plebeo e beone) non poteva comprendere me». E per questo motivo, «io ebbi talora una commiserazione filiale della sua grande anima scontenta e profondamente soffrî di non potergli arrecare qualche gioja». – Di grazia, non addebitate a me la incongruenza di questo bel periodo, il quale è tutto opera della noja che io provo «a starmene qui, – a questa foce – ad attendere il di lui spirito ritornante al suo luogo natale». Son'io, forse, che ho scritto: la sua grande animapeggio: la sua grande anima scontenta? Son'io, forse, che ho scritto «avere io profondamente sofferto per non potergli arrecare alcuna gioja?» – Non vedete ch'io sbadiglio? E non è la noja suggeritrice di cattivi pensieri? Non è Lucifero il gran martire della noja? e i suoi pensieri e le sue azioni non sono da essa, solo da essa, ispirate? – In Enotrio – questa è la verità – io non vidi, ognora e sempre, che un mio nemico. E come no, se «egli non aveva per me che inquietitudine, sospetto, disdegno mal dissimulato e, forse, fittizio disprezzo»? Infatti, egli vedeva la mia reale superiorità appetto a lui, ma non si piegava a riconoscerla – l'invidioso! – e ostentava disprezzo per me . «La mia vera virtù egli non riconobbe pubblicamente giammai» – l'invidioso! – «La sua lode pubblica non mi venne se non per una canzone di struttura scolastica, di sonorità usuale e di numero oratorio, e tal lode, che poteva parere ambigua ai sottili» – l'invidioso! –«Quando lesse la Salutazione che conchiude la Laus Vitae, mi scrisse una lettera piena di triste modestia con la mano che non aveva già soppessato quel mio volume novissimo a cui si raccomanda il mio nome nel tempo» e anche nell'eternità; ma questo la mia modestia non vuole ch'io l'asserisca. – Sì, egli era invidioso dello splendore della mia Laus Vitae, che è il più grande poema apparso sulla terra dopo la Commedia di Dante. – «Tuttavia il sentimento ch'io ebbi della sua umanità.... (cioè, del suo umanesimo... egli conosceva il latino, forse, bene quanto me)... fu sempre pieno di luci... (vi confesso che nel dir questo non so veramente che cosa io intenda dire) – e denso di ombre patetiche». – Che cosa siano le ombre patetiche delle quali fu sempre pieno il sentimento ch'io ebbi della umanità di Enotrio, chiedetelo alla mia penna, alla quale spesso io soglio lasciar libertà completa di scrivere ciò che più le talenta, precisamente come faccio col mio cavallo e colla mia automobile, ch'io lascio senza freno e senza guida, specie in prossimità di burroni e di precipizi, come vi ha fatto sapere quello dei miei figli che è stato battezzato col glorioso mio omonimo.19 La mia penna, che è una superpenna, sa quello che fa, solo che non si degna spiegarmi il senso di ciò che scrive. «I suoi occhi... – (dico gli occhi di Enotrio) – che erano piccoli e senza bellezza... – (e perciò specchio fedele della sua laidezza interiore) – nella mia memoria si abbelliscono di quel non so che intenso rammarico onde li scorsi aggranditi quando si fissarono in me la prima volta». – Ah! come mi guardava! Oh! come quei piccoli occhi gli sfavillavano e s'ingrandivano e, ad un tempo, si rammaricavano.... Di che? Voi volete sapere di che essi rammaricavano? Credo si rammaricassero della presenza di altri redattori del Fracassa e della Bizantina. Sì, certo, lo sento e posso giurarlo: appena mi ebbe veduto, egli pensò ch'io fossi una giovinetta vestita da giovanetto, tanto allora io ero bello di femminea bellezza...; e, se fossimo stati soli... – Ma voi siete troppo curiosi, ed io vo' castigarvi dicendo che «per un gioco grazioso della sorte... (la mia sorte è sempre graziosa)... io gli sembrai balzare improvviso dal mio Canto novo che egli aveva tra le mani, quasi invertendo la metamorfosi di quei favoleggiati adolescenti che si includevano in un arbusto o in un fiore». Ciò dico perchè allora io erabello, sì bello, sì bello, che egli dovette credermi, non già Narciso trasformato in fiore, ma il fiore ridivenuto Narciso. – «Ah! ch'io mi dissolva, e, come Percy Shelley io mi trasmuti sotto questo mare, (qui dove mette fece il Motrone) in qualche cosa di ricco e di strano (per esempio, in chiocciola perlifera, o in un quadrupedato mostro marino).... prima che la Natura vinca in me la volontà indefessa di essere giovane ancora», di essere, cioè, ancora Narciso. «Che io non sperimenti la malattia ignobile, la pesante vecchiezza, la vergogna della tarda carne....» –Questo lo dico io, la mia penna non c'entra. E s'io non fossi un vanitoso parolaio e uno sfacciato bugiardo, voi non dovreste attender molto la notizia che io, per isfuggire a quella ignobile malattia che è la pesante vecchiezza, mi sarò gettato in questo mare con una pietra al collo, per divenire qualche cosa di ricco e di strano. Quanto alla vergogna della tarda carne, ormai è già da tantissimi anni ch'io la sopporto eroicamente, illudendomi di poterla nascondere costruendo, senza mai stancarmi, quelle famose marionette che sono i «miei eroi» e le «mie eroine» così bene addestrati nelle lizze d'amore, alle quali si abbandonano combattendo solo colla lingua. «In quel tempo... – (nel tempo che gli occhi piccoli e senza bellezza di Enotrio s'ingrandivano allorchè si fissavano sulla mia giovinissima e bellissima carne)... io avevo in me lucido il presagio ch'io mi sarei partito dal mondo prima del mio trentesimo anno». – E dico lucido quel mio presagio perchè, è vero, sì, ch'io ho già passato di molto la trentina e son tuttavia vivo; ma è certo che il bel Narciso che tutti trovavano in me, a trent'anni era già morto. – Dopo... – (dopo che in me fu morto Narciso) – ... animale accomodativo, come ogni altro uomo... – (allora io non ero ancor superuomo) – ...soffersi di oltrepassare quel termine per nove anni ancora, illuso... – (cioè, ingannato) – dalla sensibilità sempre vigile e dal sempre più ansioso amore dell'opera», precisamente come accade ai vecchi, la cui sensualità si acuisce in proporzione diretta della loro crescente impotenza, e nei quali l'amore per quella tale opera si fa sempre tanto più ansioso quanto più si fa minore in essi la possibilità di appagarlo. Ma queste cose io le dico a me solo: non posso voglio dirle in pubblico; in pubblico, invece, prendendo una delle mie solite pose olimpiche, dirò: «A Te, Arte! A Te, Gloria!» – Commentate: poichè a trent'anni Narciso moriva in me, così io soffersi di vivere sino ad oggi per l'Arte e per la Gloria. Sì, io lo soffersi! Chi altri lo avrebbe sofferto? Vivere per l'Arte e, specie, per la Gloria..., ci ha, forse, una più grande sofferenza di questa? – Ma, intanto, Enotrio.... Che ne è dello spirito di Enotrio ritornante al suo luogo natale? Lo avete, per caso, veduto a bere in qualche bettola? o a giocare allo scopone, lui che non era solito cercar farfalle sotto l'arco di Tito? – Quando ancora io ero Narciso, Enotrio.... Ma non posso pensarci, ohimè!... – «Da che cosa potria mai l'anima.... (in questo momento mi conviene credere all'esistenza dell'anima) – .... esser consolata dal non più abitare un corpo di venticinque anni? Non io darei, forse... Sgrammatico? Vorreste ch'io dicessi: Non darei io forse... Ma io sono anche un supergrammantico, e perciò dico: «Non io darei, forse, il più robusto dei miei libri per rinnovare in me un'ora della freschezza primiera?», per ridivenire, cioè, per un'ora, il bel Narciso ch'io fui dai diciotto ai venticinque anni? – «Il più robusto, ho detto, dei miei libri», cioè, il più grosso e perciò il più pesante. Qual è ? Ma se tutto quello che ha scritto la mia penna, col mio e senza il mio consentimento, è piccolo, leggiadro, elegante e perciò leggiero, come è leggiera, elegante, leggiadra e piccioletta la mia carne? – Ah! Che bellezza quando io ero Narciso

e tutta la vita era in me fresca,
aulente,
e il cor nel petto era come pesca
intatta,
e tra le palpebre gli occhi
eran come polle fra l'erbe,
e i denti negli alveoli
eran come mandorle acerbe!

Sì, posso dirlo: io ero più bello di Adone, e Venere – avete letto la Laus Vitae? – ha spasimato per me... – Ma, e lo spirito di Enotrio? Che ne è dello spirito di Enotrio? Si è egli partito da Bononia? È ritornato? Sta ritornando? Ritornerà? E se non ritornasse? E se se ne stèsse a digerire il suo vino lungo disteso sotto una tavola in qualche taverna, come così di sovente gli capitava in Bologna? Male ho io fatto a dar oggi licenza per ventiquatr'ore a Rocco Pesce, il mio caro servo fedele, chè se così non fosse, lo manderei ora per tutte le bettole che tendono sulla loro porta l'alloro lungo il tragitto da Felsina a questa foce. Oh Rocco! il prezioso Rocco, che più d'una volta mi ha sostituito nel turlupinare il gran pubblico, cui ho fatto inghiottire che tutto quello che porta il mio nome è mio.... Sì, passa per mio perchè porta il mio nome, ma.... Per esempio, i versi – (son versi ?) – che vi ho declamati poc'anzi sono stati fatti da Rocco; è lui che paragona il mio cuore ad una pesca intatta, e i miei occhi alle mandorle acerbe... Non è vero che tutto ciò sente un po' di tavola nell'ora del dessert? Sì, quei versi son opera di Rocco, il quale già mi imita così bene, ch'io potrei riposarmi. Se egli fosse qui, vedreste che cose saprebbe suggerirmi sul conto di Enotrio; per lo meno, mi ajuterebbe a intessere un panegirico dell'uomo che laggiù, o lassù, nella turrita Bologna, da ventiquattro ore, ha posto il punto fermo alla sua irrequietezza rettorica e alle sue evoluzioni religiose e politiche edificanti. – Io, io cerco e non trovo... ed è perciò che, anzichè di lui, io vi parlo di me... che sono, almeno, un soggetto pulito, odorante, senza dire che Enotrio mi fu cordialmente antipatico. Era un plebeo che notte e giorno puteva di vino. Ed era così poco conoscitore del Galateo, che... anche da morto, come vedete, mi pianta qui ad attenderlo. – E sì che re e imperatori, al suo posto, già sarebbero qui a ricevere l'onore del mio saluto.... – Ma ora che ci penso... Se il plebeo venisse, dove alloggerebbe? Meco? Che Dio scampi! Un tal grossolano presso un tal raffinato! Alla larga!... – «Frai miei ricordi più penosi.... (no, non ce ne ha uno che si riferisca ad Enotrio)... «Frai miei ricordi più penosi è il giorno in cui, dopo più di venti anni, mi trovai alla presenza di Edmondo De Amicis incanutito, il quale avena serbato di me nella memoria una lontana immagine quasi virginea» – e, pensate quanto bella e seducente! Ma, ahimè! e che ne è d'una donna che ha perduto la sua freschezza e non è in grado di supplirvi colle grazie dello spirito? Tale e quale. In presenza di Edmondo «la miseria della carne mi pesò come se in un attimo una sventura spaventosa mi avesse invecchiato.» Ah! se avessi potuto supplirvi con una di quelle maschie virtù proprie delle grandi anime! Ma io non ho avuto mai nulla di grande, neppure il corpo, neppure.... «Parlavo, e, sentendo ormai passare ogni mia parola viva frai denti non più sani.... – (Ah, che dolore!... Ditelo voi, donne, e, sopratutto, che vergogna!)... cercavo d'infondere più di fiamma al mio dire per nascondere... (come avreste fatto voi, donne) – per nascondere sotto quell'ardore il mio volto disfatto». – Sì, perchè nol direi? Giammai alcuna di voi, femine, ha tanto e così arrossito della sua prima ruga come e quanto me, che, parlando, sentivo vacillare i miei denti posticci. – «E mi rammento che Edmondo mi credette febbricitante». – Se avesse sospettato!? – «Egli mi parlava con i buoni occhi velati di lagrime evocando il suo ventenne figliuolo suicida» ed io – femina sempre – io mi preoccupavo che egli non si accorgesse dei miei denti posticci! Pensate. «Egli mi aveva appunto conosciuto intorno a quel tempo in cui, inaspettatamente, io m'incontrai in Enotrio, quando io ero uno strano fanciullo, anzi, una strana fanciulla, come tutti dicevano, misto di timidezza e di ardire, tanto irrequïeto e spedito che per solito entravo nelle stanze dei miei amici come una apparizione senza romore, o come una irruzione precipitosa». Che bel tempo, quello! Lo ricordo come adesso. – Una mattina io salii a gran balzi le scale della Gazzetta Bizantina per la speranza di sorprendere... – (ma non lo credete, ve ne prego: è una vanteria) – di sorprendere una donna magnifica e illetterata... – (una delle cocottes sfruttate dal Sommaruga) la quale allora teneva in soggezione tutta la plejade giovinetta» – eccetto me, per la semplicissima ragione che io tenevo in soggezione e la detta plejade e la detta magnifica donna illetterata. – Ora, datevi conto della mia sorpresa allorchè, in vece di lei, trovo lui, «una gran fronte selvosa che di subito si levò con un moto risentito, e di sotto ne uscirono due punte aguzze», i suoi occhi cinghialini, che mi guardarono con avidità di satiro. «Dalla stanza attigua il Sommaruga si fece alla soglia e disse: Ah!, ecco il D'Annunzio! – E, dinanzi al mio sbigottimento una sghignazzata chioccia agitò il pomo d'Adamo nel lungo collo del Sommaruga», il quale conosceva assai bene le mie arie, le mie pose, le mie ritrosie, i miei rossori e i miei sbigottimenti di imprestito. – Enotrio mi guardava, mi guardava, mi guardava. «Io mi copersi di rossore, ma non distolsi lo sguardo in me fiso», come era allora mio costume quando volevo affascinare. «E per quello intuito precoce d'ogni animalità che era in me fin d'allora lucidissimo, per entro a quei piccoli occhi di cignale – (per non dire addirittura di porco) – maremmano accanato, vidi....» – Ciò ch'io vidi lo so io, ma a voi nol dirò; vi dirò invece questa coglioneria: io vidi fluttuare la rimembranza dei duri angusti giovani anni non rotti se non da sogni lagrimosi». – E godo nel vedervi sgranar gli occhi a interrogarmi che c.... io intenda dire, come se io lo sapessi. Domandatelo alla mia penna. Certo è che «tanta era allora la gentilezza della mia natura, ch'io ebbi, quasi, un moto di pudore» – e dico quasi perchè, in verità, quel moto di pudore io non lo ebbi: io non ho avuto, io non ho, io non avrò mai pudore; non per nulla lo Scarfoglio mi ha chiamato puttanella sfacciata. – Dunque dicevo che «io ebbi quasi un moto di pudore, come per celare o velare dinanzi a quel rammarico la corporale armonia che irradiava di felicità tutto il mio essere». Giacchè – e questo voi lo sapete – io m'ero tantissime volte guardato nudo allo specchio, ed ogni volta mi ero sempre più innamorato di me stesso, tanto io, allora, era bello! – Ero Adone, anzi Narciso. – «Enotrio era nell'atteggiamento che Giovanni Villani avrebbe chiamato bizzarra selvatichezza». Io lo studiai con una sola occhiata. «Di nobile egli non aveva altro che le mani, tutto il resto era in lui popolesco», idest, plebeo. «In lui non eracontrariamente a quanto i pappagalli lusingatori avevano detto e ripetuto migliaja di voltenessun vestigio romano. Egli mi ricordava quegli Etruschi dalle gambe smilze e dallo stomaco prominente, che si veggono accosciati sui coperchi delle urne funerarie». – Qualcosa di brutto e di ributtante, come è brutta e ributtante la sfacciata menzogna che lo voleva eroe e leone. Vi dirò che la sua vista metteva in me un irresistibile bisogno di ridere, o di prenderlo pel ganascino e gridargli sul ceffo: Buffone! Ma voi vorreste dirmi che anche nel disgraziato corpo di Triboulet c'è un'anima, e, quindi, vorreste ch'io vi dicessi alcun che delle qualità interiori di Enotrio. Ma – voi lo sapete – io non vedo, io non so vedere che solo il di fuori delle cose e delle persone. Chi e che cosa fosse spiritualmente il Carducci io non seppi, non so, non saprò mai, mi cale di saperlo. Il Carducci ch'io conobbi... – (e non so che ci sia stato altro Carducci che quello) – «aveva le labbra sottili e serrate, curve in giù agli angoli come quelle che coprono una dentatura atta alla forte presa», come quella dei cani corsi. «L'appiccatura dei capelli, folta sulla tempia fin verso l'estremità del sopracciglio, pareva serrare... – (voi vorreste ch'io grammaticalmente dicessi pareva serrasse; ma la mia grammatica non è la vostra; essa è una supergrammatica, e basta!)... dunque pareva serrare la fronte e quasi disporla ad attanagliare il pensiero.... (che, senza quella capigliatura, se ne sarebbe fuggito) – e tenerlo ben fermo perchè l'arte, poi, – ossia l'artifiziolo intagliasse e polisse» – Come vedete, egli era plebeo per fino quando pensava, avendo bisogno di tanaglie, di scalpelli e di pietra pomici, per serrare, scolpire, pulire e rendere così, in qualche modo, presentabile il suo pensiero; e quegli strumenti se li trovava proprio sottomano essendogli essi apprestati dalla capigliatura, senza la quale non avrebbe scritto un verso un rigo di prosa. Vi dirò, anzi, che in quella capigliatura era tutta la sua forza, proprio come Sansone. – Ridete? Eppure, la fortuna di certi uomini è dovuta, spesso, all'eccesso o al difetto di certe appendici.... Ma non voglio dir altro su ciò. – «Di poca lunghezza aveva il naso fornito di nari sagaci...Dico nari e non narici, perchè le sue non erano narici, che son proprie dell'uomo, ma nari, che sono proprie dei bruti, ed egli –io già ve l'ho detto – aveva più del cignale che dell'uomo). E quel suo naso «era stato tocco da non so qual colpo di pollice.... (forse dal pollice della levatrice) che per poco non lo volse tutto in su». Sì, egli aveva molto del mastiff-dog; infatti «fierissima aveva la mascella e ampia, che il pelo crespo e incolto della barba copriva sino a mezzo il collo grosso e corto annodato da una cravatta sottile come un capestro». Ed ho l'idea che ciò che gli impediva di gettarsi addosso alla gente per addentarla, fosse appunto quella cravatta, ossia collare, ossia capestro, pel quale era trattenuto da una mano invisibile, quella della vigliaccheria; infatti, per abbajare, abbajava, e come!; ma appena qualcuno alzava contro di lui il bastone.... – «Sì, l'acredine del sangue, già avvelenato (dal molto bere) colorava le sue gote» e accendeva il suo naso, che più tardi doveva vestirsi di bitorzoli. «Figura toscana affocata dal vin frizzante», poichè il vino, anche non frizzante, fu la sua passione vera ed unica: tutto il resto fu in lui rettorica. – Dunque, come vi dicevo, «egli continuava a guardarmi, a guardarmi, senza dir motto... La natura, come sapete, aveva posto in me una semplice grazia, che lo rasserenò. Egli mi sorrise...» Il mastiff-dog, ecco, si trasformava – per la mia semplice grazia – in lap-dog sotto il mio sguardo fascinatore. – Voi certo lo sapete. «egli amava il numerodico il numero delle sillabe nei versie lo misurava col battito del dito», come facevo io a cinque anni. «Sempre lo vedrò in quel gesto di scandere il verso con l'indice levato». Ridicolo gesto, in vero, specie se lo si guardava nella faccia, che in quel momento parava quella di un can barbone ammaestrato, come se ne vedono spesso per le fiere e per le piazze. Ed era tanta in lui l'abitudine a quel gesto che – come mi dicono – «la sua mano si levò ancora nell'agonia per scandere su l'orlo del lenzuolo un numero da lui solo udito... – Questo, sì, questo è il solo Carducci ch'io conobbi, e del cui spirito attendo qui, a questa foce, il ritorno.... – Ma se c'è un'isola di beatitudine – e un'altra di penaper le anime dei verseggiatori, il gesto di un divino giudice.... – (certo, Domineddio da lui più volte decapitato) – .... sta misurando quanto di vero canto – o di falsofosse in lui, per assegnargli il luogo del gaudio», o quello del castigo»... – Ma, ed allora ho un bell'aspettare il suo ritorno, qui, a questa foce. Egli – ne sono sicuro – avrà un luogo di gaudio, il quale vorrà essere – come no? – un'immensa canova dalle mille fontane di vino d'ogni forza, d'ogni colore e d'ogni sapore... – Amici, buona sera: io voi abbiamo più nulla da fare qui. – Ma ecco che, in cambio dello spirito di Enotrio, ritorna a queste parti Rocco. Egli ritorna in buon punto, per ajutarmi in un'opera che.... – Voglio che il morto Enotrio serva, almeno, alla mia réclame... «Manderò un ramo di pino alla sua bara, il più irsuto». – Ehi!, Rocco, mi raccomando!, il più irsuto, che sarà consacrato allo scherno dei necrofori».

Così disse il Divo e fregossi le mani.





18 Le parole in corsivo sono quelle stesse che compongono la «splendida prosa» da Gabriele pubblicata sul Corriere della Sera, 30 luglio 1911.



19 Leggere nel presente volume il paragrafo: Specimen della réclame che Gabriele figlio fa a Gabriele padre.



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