IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
(7 aprile 1912. Da Arcachon, il giorno dopo la morte di Giovannino).
Quando Mariù, la dolce sorella, la tessitrice dalle mani d'oro.... – (veramente ella fu, e suppongo lo sia ancora, anche panettiera insuperabile e sapiente governatrice di galline) – ...chiuse gli occhi a Zvanì, nessuno...20 – udite! udite!... – nessuno fu più certa di lei che Giovannino era morto! Infatti, nei cari occhi abbujati dalla pressura era scomparsa anche l'allegrezza dell'aprile presente.... – Non si pigli un granciporro, per carità: dell'aprile presente, non dell'aprile dell'anno passato. – La dolce sorella, compiuto l'atto pietoso, si pose a dire al morto Giovannino così:
Fantasma tu giungi,
tu parti mistero.
Venisti, o da lungi?
che lega già il pero,
fiorisce il cotogno
là giù.....
– Il rammarico della Mariù, dolce sorella, deve essere stato immenso pensando che Giovannino sarebbe potuto più opportunamente morire qualche mese dopo il legare del pero e il fiorir del cotogno per risparmiare a lei il fastidio di contare e custodire le cotogne e le pere sugli alberi rispettivi. – Se io immagino i suoi occhi – gli occhi di Giovannino – nell'ultima ora, e se immagino le rondini all'Osservanza, quelle dal petto rosso e quelle dal petto bianco, mi torna alla memoria una sua parola di or quindici anni. «Vorrei avere tutto il dì negli occhi la vertigine d'ombra del vostro volo, o balestrucci». – Sicuro! tutto il dì!, come dire, tutta la vita! Sì, egli avrebbe felicemente trascorsa tutta la sua vita avendo continuamente negli occhi la vertigine d'ombra di quegli uccelletti! – Questo – io ne convengo – è un documento vero e proprio dell'imbecillità di Giovannino; sì – ripeto – ne convengo....; ma che volete farci? Egli s'era atteggiato a san Francesco (lui taccagno – e ve lo so dir io – spilorcio e tirchio sino al punto di tenere in servizio per dodici e più anni continui lo stesso vestito!) e cotesto suo atteggiamento faceva bella impressione sopra tutti gli altri imbecilli di cui è piena la terra. Nel raccontar ciò io dovrei, non è vero?, io dovrei scoppiare in una grossa risata.... ma preferisco scoppiare in rettorico pianto, pregandovi di credere che le parole «la vertigine d'ombra del vostro volo, o balestrucci, mi sono penetrate sì a dentro, che solo oggi, dopo quindici anni, mi è finalmente concesso di liberarmene, evacuandole qui, davanti a voi – dopo quindici anni!
Ieri, da qui, da Arcachon, io assistetti, col pensiero, il mio amico nella sua agonia....; ma, a farlo a posta, nessun balestruccio dal petto bianco o dal petto rosso gettava la vertigine d'ombra del suo volo negli occhi di lui.... Più tardi ascoltai la musica infinita che la sera faceva intorno al suo silenzio. – Egli, voi lo sapete, era stato un chiacchierone che mai l'uguale, specie la sera, quando aveva molte volte baciato la bottiglia; sicchè, non è da fare le maraviglie, se allo improvviso, insolito silenzio di Giovannino, la sera del 6 aprile 1912, non più disturbata, dette la stura alla sua musica infinita. Piuttosto dovreste meravigliarmi di me, unico mortale al mondo che abbia sentita quella musica, perchè una cosa è la infinita musica della sera ch'io raccolsi nelle mie orecchie superumane, e un'altra cosa la musica delle sfere celesti udita da Platone; quella che ho ascoltata io era una specie di serenata che la sera faceva attorno al silenzio di un morto, una musica di occasione – come vedete – ma che, intanto, nessuno ascoltò e che io solo ascoltai – e me ne vanto. – Vi dirò che in quella sera – (era un venerdì – il giorno in cui io son nato – sacro a Venere e agli amori) – cedendo alla svogliatezza primaverile, io mi misi a svolgere un libro di figure: era l'Inno a Roma di Giovannino.... Mi soffermai su l'impronta dell'ascia romana e sui seguenti orribili esametri:
Ascia, teque eadem magnae devovit in oris
omnibus Italiae, dein toto condidit orbe.
Ebbene, che direste voi s'io vi dicessi che cotesti esametri mi fecero respirare a pieni polmoni? Non dimenticate che era quella appunto la sera che Giovannino moriva e che attorno al suo silenzio essa faceva un'infinita musica, che io da questa landa francese, bagnata dal mar di Guascogna, nettamente udii con queste mie proprie orecchie. Ebbene, riconosco a quel dilatato respiro del mio sogno uno dei più alti doni di Giovannino, perchè certe sue evocazioni dell'antico, come questa che Giovannino ha fatto dell'ascia romana, e che mi ha fatto sì largamente respirare, si avvicinano ai limiti della magia, cioè ai limiti di una cosa che fu una sfacciata impostura. E vi dico ancora che a un tratto l'immensa notte oceanica si empiva dei suoi fantasimi... dei fantasimi di Giovannino. – Il numero del suo verso si prolungava in una lontananza solenne, fin là dove la parola dell'inno vedico pareva la sua stessa eco ripercossa dall'invisibile confino. – Lo so ch'io faccio a fidanza con voi, miei cari cretinoidi ammiratori. Sì, ne convengo, io vado un po' al di là del solito confino. – L'immensa notte oceanica... Ci credete voi all'immensa notte oceanica che si riempiva dei fantasimi di Giovannino ? E l'ingoierete voi e lo digerirete anche il verso di Giovannino che si prolungava in una lontananza solenne sin dove la parola dell'inno vedico pareva la sua stessa eco ripercossa da un confino invisibile? – Ma l'ho detto e basta! E poichè l'ho detto, dirò ancora che la notte era con stelle forse infauste prese in avvolgimenti di veli e di crini, proprio come le mie immaginuzze che voi continuamente vedete prese in avvolgimenti di parole e di frasi... – Infauste stelle... Perchè? – L'acqua dell'insenata non aveva quasi respiro... Perchè? – L'oceano senza sonno... (che orribile malattia quella di non poter dormire!) faceva il suo rombo... Perchè? – E dove, dunque, era per approdare l'Ulisse dell'«Ultimo Viaggio»? Su questa riva, o su quella? Era per approdare su le acque dell'insenata senza respiro, o sull'Oceano senza sonno? Ma, e come avrei potuto saperlo io, se io di Giovannino non ricordavo le fattezze del volto? E se chiudevo gli occhi e mi sforzavo di ricomporne le linee sul fondo bujo, il suo volto indistinto si dissolveva in bagliori. Ben io ricordavo di avergli detto un giorno: Se tu avessi il viso tutto raso e se tu non sorridessi, somiglieresti a Piero dei Medici, come è scolpito dal Mino.... – Piero dei Medici – voi certo lo sapete – era un tirchio di tre cotte, e tutti i tirchi hanno linee di somiglianze meravigliose tra loro, e Giovannino era tirchissimo. – Ma la verità è che egli non si era mai lasciato guardare da me, come da nessuna femina, fisamente.... – Voi sapete l'effetto ch'io producevo in tutti i maschi veramente maschi... Ve l'ha detto lo Scarfoglio. Ora, Giovannino, che forse era uno non veramente maschio, aveva vergogna di veder sè in me, come io avevo vergogna di veder me in lui, sicchè la nostra amicizia soffriva d'una strana timidezza che non potemmo mai vincere. La nostra era un'amicizia di terra lontana, che si alimentava di messaggi e di piccoli doni. – E per star lontani l'uno dall'altro ricorrevamo a un reciproco inganno: egli lasciava credere che la sua rusticità e la sua parsimonia mi dispiacessero, come io lasciavo credere che a lui increscesse la mia diretta discendenza dalla brigata spendereccia. Ma la verità resta quella: avevamo entrambi – ed io l'ho ancora – la voce così muliebre che..., solo che avessimo aperto bocca l'uno accanto dell'altro, ci saremmo rivelati fratelli in feminilità, e fratelli, infatti, ci dicemmo sempre: lui fratello maggiore-minore, io, fratello minore-maggiore. – Egli, forse, pensava che qualcosa di vero ci dovesse pur essere in fondo alle dicerie della cialtronaglia. Ma allorchè egli seppe che l'acqua, il pane e le frutta erano il mio regime consueto di operaio delle parole, cioè, di gran parolaio, gli parve di potermi offrire l'ospitalità nella sua casa di Castelvecchio, contando di non dovere spendere pel suo dovere di ospitalità che settantacinque centesimi al giorno, oltre i centocinquanta ch'egli spendeva per sè e per la Mariù . Mi risulta che consigliera, anzi istigatrice era stata costei, sua dolce sorella, la quale – se nol sapete – ha avuto sempre una gran velleità di posa-a-letterata e di posa-a-poetessa, quantunque le sue abilità fossero e siano tuttavia quelle uniche e sole che sapete, cioè tessere, fare il pane e governare le galline. E credo che sia stata appunto questa la ragione che mi fece rifiutare l'invito... Certo, siffatta ragione io non l'ho giammai detta a nessuno e perciò non la dirò neppure a voialtri. A voialtri io dirò invece che la sorte volle ch'io non conoscessi il sapore del pane intriso, rimenato e foggiato a crocette dalle mani di Zvanì e della costui dolce sorella. Intanto spesso, alla buona stagione, eravamo vicini, e vedevano entrambi, al levarci, la Pania e il Monte forato...; li vedevano – dico bene – dalle nostre finestre rispettive; ed io dicevo: egli vede la Pania e il Monte forato; io vedo il Monte forato e la Pania....; ma non avemmo agio nè forse voglia di visitarci giammai, perchè, dal lato mio, di imbattermi in Mariù avevo, come avrò sempre, un vero spavento, di Mariù posa-a-letterata e posa-a-poetessa, e poi anche perchè ci sembrava, a Giovannino e a me, che qualche cosa delle nostre persone facesse ingombro alla familiarità dei nostri spiriti.... – Ho detto qualche cosa, così per dire.... Potreste voi immaginare un re, o per lo meno un gran principe, il cui naso, i cui occhi e tutto il resto sono stati educati ai più delicati profumi, alle quisquiglie più ricercate, potreste immaginarvelo, dico, a far visita a dei contadini nel loro cubiculo, accanto al quale avvi la stalla dell'asino, le gabbie delle galline e una bella catasta di concime fumante, assistere alle loro predilette occupazioni in cucina, alla manipolazione del pane, e prender parte alle loro conversazioni.... profumate dal nauseante odor dell'aglio che essi mangiano con infinito diletto? Quanto a Mariù e a Giovannino, sì, ne convengo, essi, visitandomi, avrebbero non poco sofferto, per un senso d'invidia, nel vedere il lusso dal quale io ero circondato. E fu appunto per questo che si astennero dal venire da me.... – Ma, via! ditelo: delle due parti quale aveva più vera e propria ragione di astenersi dal visitar l'altra?... –Ma da lontano eravamo amici! Basti sapere che un giorno da Boccadarno io mandai a Giovannino uno di quei coltelli ingegnosi che hanno nel manico tutti gli arnesi del giardiniere, dalle cesoie al potajuolo.... Ma, capì egli il significato del mio dono? Un altro giorno dalla Versilia gli mandai un'ode curvata in ghirlanda con l'arte mia più leggiera... Capì egli l'ironia? – Ma ora vo' dirvi come fu che ci incontrammo la prima volta. Ciò fu a Roma, per insidia. –Si pensi che eravamo allora due ragazzi e che io allora ero Gabrieluccio dalla riccia chioma e il favorito dei butteri platonici e non platonici del Capitan Fracassa, sicchè, verseggiando io e lui, ci eravamo scambiati molti messaggi affettuosi e quelle lodi acute d'artiere ad artiere, le quali, perchè acute, s'inseriscono alla cima dello spirito, la quale è, sì, una cima, ma fatta di spirito, e fanno dimenticare la grossezza dei solenni tangheri che oggi in Italia giudicano di poesia... – Ora, fu uno di cotesti tangheri... – Ma andiamo con ordine. – Trovandosi a Roma Giovannino, certo, desiderava di vedermi; ma nel momento di porre ad effetto il suo proposito, la timidezza, anzi la ritrosia ad essere da me veduto per la ragione che già vi ho detta, lo arrestava; nè i nostri amici riuscivano a persuaderlo, nè io riuscivo a scovarlo in nessun luogo, per la semplice ragione che anch'io ero ritroso a veder lui. Allora, uno dei tangheri cui accennavo poc'anzi, i quali oggi in Italia giudicano di Poesia, Adolfo De Bosis.... – (ma a me, per certe ragioni che non vo' dirvi, conviene che io lo chiami principe del silenzio, signore di quel Convito che fu presame di amistade frai pochi deliberati di opporsi alla nuova barbarie ond'era minacciata la terra latina – vuol dire la barbarie di Giosue, di Giovannino e mia!) – ricorse a un grazioso stratagemma. Me lo condusse di buon'ora (de bonne heure. Come conosco la lingua, io!) all'improvviso nella mia casa, dandogli ad intendere... – povero citrullo!... – che lo conducesse a vedere una statua di Calliope... – Allora io non m'ero dato alla vita orizzontale ed ero, perciò, povero in canna; basti dirvi che io abitavo in una selleria dei principi Borghese, a Ripetta, e non avevo se non un letto senza fusto, una panca da tenebre21 e la grazia di respirare grandemente. .... Io ero mezzo vestito... Due confusioni si abbracciarono senza guardarsi, non volendo l'uno veder sè negli occhi dell'altro per la ragione che sapete... – Tuttavia ci tenevamo, vergognosi, per mano, gli occhi bassi e le guance soffuse di rossore... – Poi ci sedemmo sulla panca da tenebre. E vo' che il mondo si interessi a questo particolare: eravamo sani e resistenti entrambi... Mi chiederete: resistenti a che cosa?– Veramente non saprei in che modo dirvelo...; se potete, immaginatelo voi; solo vi dirò che una resistenza oscura si accumulava nelle nostre profondità..... – Infatti, egli doveva ancora alleggerirsi di quel troppo peso del corpo che, quando gli uscì fuori, prese il nome di Poemi Conviviali; io doveva ancora sgravarmi del troppo peso del corpo che, quando venne tutto fuori a piccoli pezzi, come accade agli stitici, ebbe da me il nome di Laudi. – O bel mattino in sul principio della state, quando Roma ha gli occhi chiari di Minerva – oh! che begli occhi! – la quale nutre a sua somiglianza i pensieri degli uomini!... – Non ne capite niente? e che posso farci io ? Nè il morto, se fosse vivo, potrebbe ajutarvi a capire..... – Come gli guardai le mani, delle quali sono sempre curioso, come è proprio delle femine, egli le ritrasse con un atto fanciullesco, per non dire contadinesco. Quando gliele strinsi nelle mie, la mia finissima delicatissima pelle s'era un cotal poco risentita dal trovarsi in contatto con certe callosità.... Era stata questa la cagione per cui egli le trasse indietro quando io feci l'atto di guardargliele: io volevo osservare le dita che avevano foggiato tanti pani a crocette e tante fiale. Allora, sorridendo, gli ripetei i versi del Contrasto:
Io prendo un po' di silice e di quarzo,
li fondo, aspiro e soffio poi di lena;
ve' la fiala come un dì di marzo
azzurra e grigia, torbida e serena.
Chi lo crederebbe?... Con quelle stesse mani – non già con altre mani, ve lo giuro! – con quelle stesse mani che aveva nascoste, egli fece un gesto di disdegno potente. – Chi ne indovina il perchè? – I versi che gli avevo ripetuti erano suoi. Gli ricordavano – è vero – un umile mestiere, e forse credette ch'io volessi umiliarlo. – Ma tant'è, il gesto di disdegno che egli fece fu potente, ossia, fu un gesto di potenza: e voi sapete che cosa sia, in che consista cotesto gesto, avendo voi, soppongo, veduto per via qualche popolano piantarsi diritto in faccia ad altro popolano e poi tendere il braccio destro col pugno chiuso e battervi sopra con l'altra mano aperta. Questo è il gesto di disdegno, per eccellenza, potente. – Ma con siffatto gesto che volle dirmi Giovannino? – Certo, fu per cotesto gesto ch'io sentii quanto vi fosse di virile in colui che passava tra le umili mirici per salire verso la rupe scabra. – Bello e sicuro mezzo, affemmia!, per salire verso la rupe scabra, quello di passare tra le umili mirici!...– Ma, con quel gesto che volle dirmi Giovannino?.... – Poi parlammo di Odisseo, nostro comune amico, e della predizione di Tiresia, che tanto ci riguardava da vicino, almeno riguardava assai da vicino la mia persona, giacchè – se nol sapete – Tiresia fu donna per sette anni, ed ebbe da Giove il dono d'indovinare i sessi umani per quanto bene nascosti sotto le più ingannevoli apparenze. – Questo fu il nostro primo incontro. L'ultimo fu nella sua casa bolognese dell'Osservanza qualche settimana prima della mia partenza per l'ultima avventura, per la quale io divenni l'uguale di Dante: triste commiato di chi era per farsi fuoruscito a chi rimaneva legato alla catena scolastica.... – Ma vo' ora descrivervi l'ultimo mio incontro con Giovannino, che – come vi ho detto – fu nella sua casa bolognese all'Osservanza. – Dunque io ero in Bologna. Tutto il giorno m'ero lasciato condurre dalla mia malinconia nei luoghi ove ella più potesse gravarmi.... perchè, non è ella forse una vera dolcezza la malinconia? – Mi ero indugiato su la piazza solitaria che la tomba di Rolandino fa pensosa e quella dei Foscherari degna di un cantore, sotto i suoi archetti verdi, alzata sopra le sue colonne, – dico: le sue, non le mie nè le vostre colonne, ma le sue – simili al coro delle nove muse nel numero. – Rileggete, di grazia, questo mio bellissimo periodo (che io vi offro per modello, e che è simile a quelli che sì di frequente scriveva Giosue, mio fratello grandissimo, e uguale a tutti quelli che scrisse Giovannino) e ditemi poi che c.... io abbia voluto esprimere, perchè vi confesso ch'io non ne capisco buccicata. – Ammutolite? E allora tiro avanti. – Ero entrato nel tempio domenicano di rosso mattone: tra il sepolcro bianconero di Taddeo Pepoli e il monumento di Re Enzio avevo sentito soffiare su me l'ambascia dell'Olifante senza suono... – C'era da morir dallo spavento! Oh che si scherza? Sentirsi soffiar sopra l'ambascia dell'Olifante senza suono! Avesse avuto, almeno, il suono! – Sì, chiunque al mio posto sarebbe morto dallo spavento; ma io no; invece, mi posi a declamare questi sublimamente sciocchi o scioccamente sublimi versi di Giovannino:
Va, ma non giunge. E un brusio d'ombre vane....
– Fate bene attenzione: un brusio d'ombre e vane per giunta! – Da capo:
Va, ma non giunge. È un brusio d'ombre vane
ch'ode re Enzio quale in foglie secche
notturna fa la pioggia e il vento....
– Poi m'ero smarrito nel sacro laberinto di Santo Stefano, nella Basilica delle sette chiese. Misteri ed immagini per ogni dove, e il colore del fumo e il colore del grumo, cioè: misteri color-fumo e immagini color-grumo, o viceversa. Perchè? Io non so; vedete voi e decidete bene, chè le son cose, coteste, di importanza altissima: misteri di fumo e immagini di grumo?, o misteri di grumo e immagini di fumo? – Sappiate intanto che sanguigno e fumoso è il chiostro con sopravi l'ombra della torre quadrata, e nell'ombra è il pozzo, e, tra le due colonne, àvvi la carrucola di legno consunta che – ohimè! – non stride più, e fra gl'interstizî dello ammattonato – udite! udite! – cresce l'erba umile – non l'erba superba ed altezzosa, no, ma l'erba umile; – intorno intorno ai davanzali delle finestre – (vedete che grandi scoperte so far io!) – vasi di basilico! E poi, nell'altro cortile, fra il cotto, la gran tazza di pietra, il fonte senz'acqua, ove, ohimè!, nessuno si battezza più!, e il tabernacolo d'oro luccicante – vedete miracolo! – luccicante a traverso i vetri appannati; e nel vano della finestra, su una colonnetta, il Gallo che canta, e, da presso, il Vescovo colcato – dico colcato – sul marmo sepolcrale, che il Gallo che canta non risveglia più; infatti, io l'ho udito cantare, ma il Vescovo se ne è rimasto, lì, immobile, a dormire, ahimè! – E dietro l'altare irto di candelabri ferrei vidi le rudi arche di granito che l'ascia mistica, – la quale ne vale cento delle asce dei falegnami – tagliò nel sangue petrificato dei Martiri; e vidi la luce che passa nell'abside per gli alabastri fulvi, come quel miele amaro di cui si nutriva il Battezzatore...; cioè: io vidi la luce passare fra gli alabastri fulvi, come pei medesimi alabastri fulvi passa il miele amaro di cui si nutriva il Battezzatore! –Intanto voi domandate perchè oggi della città, ove per fato si spengono i nostri grandi poeti, io non vedo se non qualche piazza mortuaria e quel laberinto cristiano? Perchè? – Ecco qua: perchè, per quanto io cerchi di inumidire i miei occhi e di dare un certo atteggiamento di tristezza alla mia impassibile faccia d'Immaginifico e di Divo, non ci riesco, e mi illudo che la mestizia di questa piazza mortuaria e di questo cristiano laberinto si rifletta su di me, e che ognuno, almeno, dica: Non vedete? Gabriele è venuto a guardare i vasi di basilico nelle finestre, e il Gallo che canta, e l'Arcivescovo che non si sveglia, e la luce che, come il miele amaro, passa attraverso l'alabastro fulvo: Gabriele è mesto, Gabriele è addolorato. – Infatti, per quella piazza e per quel laberinto vuol ripassare il mio dolore, seguendo il feretro del mio fratello in evirazione, e nel più profondo dei sette luoghi, nel settimo, nella Confessione sotterranea, voglio accompagnarlo e deporlo, acciocchè egli mi dica – confessandosi a me – mi dica che c.... volle egli dirmi con quel suo gesto potente, che voi già sapete. – Bologna non ha oggi per me se non quella faccia misteriosa, se non quella bocca piena di freddo alito e di sublime silenzio. – Quella faccia e quella bocca.... voglio dire la faccia misteriosa di Giovannino, che era quella del beone frai suoi e del francescano fra le genti, e la bocca di Giovannino, la quale, non ostante che egli fosse morto, era ancor piena d'un freddo alito di vino, e piena di sublime silenzio, attorno al quale – ricordate? – la sera, per la prima volta non disturbata dall'eterno cicalare di Giovannino, si pose a fare una musica infinita. – Chi potrà dire quando e dove sian nate le figure che a un tratto sorgono – state attenti! – sorgono dalla parte spessa e opaca di noi e ci opprimono – non deliziandoci – ma turbandoci? – Voi ben capite, neh?, che la parte opaca e spessa di noi è quella che è fatta di carne; e allora ditemi dove e quando si formano le figure che d'improvviso sorgono dalla nostra carne e che opprimendoci ci turbano, e che turbandoci ci opprimono? – Quanto a me, io direi che quelle figure si formano quando la nostra digestione è compiuta, e che il dove esse si formano è un certo orifizio della nostra parte spessa e opaca; e sono cotesto quando e cotesto dove che, di comune perfettissimo accordo, concorrono insieme e ad un tempo alla nascita delle sopraddette figure, le quali è ben naturale che, nell'attimo della loro nascita, ci opprimano e ci turbino, come accade a chi partorisce: infatti, tanto nello sforzo della stitichezza che nella snervante copia della diarrea, conviene che la nostra faccia si faccia assai brutta, come si fa brutta la faccia di chi è sotto a una oppressione turbatrice. – Ma, a proposito di che vi parlo io qui di cosiffatte figure ? Ecco, e se manca il nesso, tanto meglio, il mio stile ne sarà, certo, più bello. Ecco: Gli eventi più ricchi accadono in noi assai prima che l'anima se ne accorga.... (Ma, ed allora – direte voi – come è possibile sapere qualche cosa di cotesti eventi più ricchi se prima l'anima non se ne accorga? E ne deducete che io sragiono. Sì, io sragiono: e che perciò, se le mie parole son belle? – E sentite quest'altro bellissimo accozzo di strampalate, sì, ma bellissime parole. E quando noi cominciamo ad aprir gli occhi sul visibile, già eravamo da tempo aderenti all'invisibile. – E quest'altro ancora: Oggi mi sembra che quel pellegrinaggio meditativo, frai vasi di basilico, il Gallo che canta e l'Arcivescovo colcato sul marmo mortuario e che non si sveglia, non fosse veramente una preparazione spirituale alla visita ch'io ero per fare a Giovannino, ma fosse già la visita, e che nessuna delle parole ch'io dissi poi valesse quelle che, andando, io dicevo al mio compagno senza carne.... – E chi era costui? – Ah!, voi non sapete? – Ebbene, è un mio segreto. Io ho un compagno senza carne, simile a quegli angeli custodi che vi camminano ai fianchi e vi sorvegliano senza che voi ne sappiate nulla, colla differenza che quando il mio compagno senza carne mi si pone a lato intavola meco una conversazione, delle cui delizie gaudiose nessun di voi può farsi un'idea. Immaginate! Il mio compagno senza carne non ha bisogno d'indumenti, nè soffre il caldo, nè soffre il freddo, nè ha sete, nè ha appetito, nè digerisce, nè dorme; esso non ha occhi per vedere, nè orecchie per udire; non fiuta, non assapora, non tocca; egli è come se io vi dicessi un coso fatto di niente, perchè esso è una delle mie sciocche invenzioni rettoriche, non diverso dalle qualità che io mi affibbio di Divo dalle diecimila anime, d'Immaginifico, di Superuomo, e che so io. Comprendete adesso la ragione per cui – come vi ho detto – nessuna delle parole che io dissi di poi a Giovannino fatto di carne, di troppa carne, valeva quelle che, per via, io dicevo al mio compagno senza carne? Proprio, e ve ne assicuro, non c'è da far paragone fra il mio compagno senza carne e Giovannino, che di carne ne aveva soverchia, specie ne aveva un pezzo, che era una inutile appendice; – ben è vero che anch'io.... – ma io, almeno, son magrolino.... e son bello, o, se non più bello, lo sono stato, e mi han chiamato fanciullina, cagnolina con un nastro al collo e prostituta. Ma lui così grasso e grosso e panciuto! Basta! – Dunque io andavo a far visita a Giovannino. Or, mentre andavo, pensai a quella natura divina che sempre m'era parso dovesse – solo quella – stargli nella casa a conforto, colla sua lampada e coi suoi libri.... – Se lo sapesse Mariù! Per carità non gliene dite nulla, se no, povero me! Chi mi salverebbe dalle sue unghie? Solo quella cosa di natura divina.... – E di Mariù, che era ed è di natura terrena, troppo terrena, avrebbe egli dovuto, dunque, disfarsene? – Ma, e che posso farci io se quella natura divina non sarebbesi mai piegata a dar conforto a Giovannino se non colla dura condizione di non trovare nella di lui casa nient'altro che la sua lampada e i suoi libri? – E penso che, qualora le città nobili.... – (di grazia, vi sarebbero città ignobili?) – Qualora – dicevo – le città nobili usassero far doni ai poeti, che avrebbe potuto donare Bologna all'estremo Omeride, dico a Giovannino, se non la testa dell'Athena Lemnia? La quale sembra escita da certe visioni tumultuose dei Poemi Conviviali, sembra una duratura bellezza provata dalla strage e dall'incendio, un frammento dissepolto di sotto alle rovine di un antico assedio. – E aggiungo che in mancanza della testa dell'Athena di Fidia, Bologna gli avrebbe potuto offrire un'altra testa divina, per esempio, la testa del c.... di Nettuno, orgoglio dei Bolognesi, la quale è di gran peso perchè di grossa misura; la quale testa.... – Basta! Troppo tardi, ahi lasso me!, mi ricordai di avergli promesso l'impronta della testa di Athena Lemnia; non potendo portargli quell'immagine, io gli diedi quanto potei di me colla meditazione ch'io feci dinanzi il cippo, nella grande sala deserta ove, come la sua poesia, quella testa sovrana era sola tra ruderi e cocci mediocri; la qualcosa vuol dire, ch'io gli diedi trecento o quattrocento parole tra vuote ed insulse, ma tutte belle come queste di cui mi sto servendo per la presente Contemplazione della Morte, nella quale vi ho fin qui parlato di tutto, anche della divina testa del c.... di Nettuno, fuorchè della Morte! – Salii, dunque, all'Osservanza con qualche fiore. Ero – contro al mio solito – così pieno di pensieri – (i pensieri che vi ho snocciolati) – che non ritrovo nella memoria l'aspetto delle cose, perchè le guardai con occhio disattento. Il che significa che io non ero più io – io che ho vissuto e vivo solo per gli occhi; onde temo che mi diate del bugiardo. Per altro, io non ho detto il vero: il vero è che io, entrando nella casa di Giovannino, vidi tutto, anche quello che Giovannino e Mariù avevano chiuso sotto chiave o nascosto nei camerini, affinchè io nol vedessi per tema che potesse offendere i miei occhi avvezzi a non veder cenci, ma solo cose rare, peregrine e preziose. È perciò che, mentendo, vi dico qualmente io non entravo in una casa, ma in una anima, che pareva volersi fare per me più bella. E che nel dirvi ciò io mentisco, voi potete procurarvi la prova lampante nel fatto che io colle mie diecimila anime non potevo in nessun modo entrare nell'unica anima di Giovannino, la quale, per giunta, era un'animuccia. Un'altra prova che io mentisco ve la porgono le mie parole: «che pareva volersi fare per me più bella». – Ragionate un tantino con me: Per farsi più bella l'anima di chicchessia, è necessario anzitutto che essa sia bella; ma se bella essa non è, com'è possibile che si faccia più bella? Ora, belle sono solo le anime che trovansi in armonia colla legge che le governa; per esempio: l'anima virile in un uomo dai trenta ai settanta anni; l'anima semplice in un giovanetto dai dieci ai venti anni; l'anima timidetta in un fanciullo dai cinque ai dieci anni, sono tre specie di anime belle perchè ognuna di esse trovasi al posto che le conviene per la legge delle armonie. Ma l'anima di un bambino, o (sia pure) di un bambinone, collocata nel corpo di un cinquantenne, come mai può esser bella? Essa sarà, per forza, un'anima sproporzionata al corpo che l'alberga, e, come tale, un'anima-caricatura, un'anima grottesca. E poi, per quale ragione l'anima di Giovannino – nell'ipotesi che fosse veramente una bella anima – si sarebbe fatta più bella per me? – Per me! E per quale motivo? Ero io, forse, la sua innamorata? Magari! se egli avesse avuto il requisito per diportarsi verso di me da buttero, sia pure platonico! Ma, in quella vece, egli.... E allora? Se io ho detto che l'anima di Giovannino pareva volesse farsi più bella per me, l'ho detto per soddisfazione della mia femminea vanità... – Ciò non ostante, continuando io nella mia menzogna, vi dico che, se la vita non mi avesse dato altro che quell'alta ora di amicizia, pur la stimerei generosa e mi stimerei contento di aver vissuto in mezzo agli uomini. – Ciò che vi dico è così grossa cosa che – lo so – nessuno di voi riuscirà ad ingollarla. Se l'avessi detta quando Giovannino era vivo, non l'avrebbe ingollata neppur Giovannino, ed è tutto dire! Già! Per un'ora dell'amicizia di Giovannino, io avrei, per esempio, ceduto la mia Capponcina, se i creditori non me l'avessero già tolta!? Già! Io avrei data la mia clamorosa, scandalosa réclame per un'ora di così alta amicizia, che poi non era che l'amicizia di Giovannino!? Ah! che comoda, che ampia e comoda sedia è la rettorica, e come ci si sta bene dentro per turlupinare i gonzi, facendo ad un tempo un grosso affare col Corriere della Sera che cosiffatte ciance mi paga a dieci lire il rigo! Ecco perchè io sto mettendo insieme quanti più righi mi sia possibile, affastellando sciocchezze d'ogni colore! – Udite! Della nostra timidezza... – (timido io?!!) non si mostrò se non un'ombra, sul principio, quando, guardandolo io, egli mosse il capo in non so qual modo sfuggente.... – (Che significa?.... Io non lo so.... Dieci lire il rigo... Lasciatemi dire...) – e battè le palpebre come per cancellare la lesione crudele degli anni e spandere sul suo volto appassito gli spiriti alacri dell'amore. La verità è che Giovannino era confuso e vergognoso di ricevere nella modesta casa uno che in soli tappeti aveva tenuto sotto i piedi centinaia di migliaia di lire. Io me ne avvidi.... Ma voi non vorrete ch'io mi esponga al rischio di farmi graffiare dalla dolce Mariù; permettete perciò ch'io preferisca dirvi che egli mosse il capo e battè le palpebre come per cancellare dal suo volto la lesione crudele degli anni; – anzi aggiungo che io volevo dirgli: non ti peritare, fratello; vedi quanto anch'io sono leso; ma oggi la carne miserabile non c'ingombra; siamo, cioè, tu per me ed io per te, il compagno senza carne; quanto a me, io respiro qui la più pura essenza della tua poesia... Invece, ciò che io respiravo in quel momento in casa di Giovannino era un insopportabile odor di cipolla soffritta, che veniva dalla non lontana cucina, dove la Mariù trovavasi nel pieno esercizio delle sue funzioni. – Già! io respiravo la più pura essenza della poesia proprio nella casa di Giovannino, una piccola e vecchia casa dalle pareti e dal soffitto imbiancati di calce, dal pavimento di mattoni schietti, dai pochi mobili tarlati, dalla spaventevole batteria da cucina, dalla quale veniva e si avventava alle mie narici quel tale soave profumo che vi ho detto. – Io gli dissi: Tu hai l'aspetto della tua forza immortale.... – Così io dissi a Giovannino, che già si faceva di tutti i colori, e che le mie parole spropositamente sciocchissime riuscirono a rabbonire. Poi soggiunsi: Non è fatto dalle tue labbra il sorriso della tua tristezza.... Infatti, a me pareva che quel sorriso di tristezza egli lo facesse col naso arrossato dal troppo bere, e che si studiasse di esprimere un sentimento diverso da quello che aveva in cuore. Quel giorno Giovannino voleva a tutti i costi farmi assaggiare il suo pane a crocette, e gongolava dentro, simile al bambino che ha preparato e tiene nascosto, per rendere più gradita la sorpresa, il berretto da notte da regalare al suo buon nonno nel primo dì dell'anno! – Io gli dissi: Siediti accanto a me come quella volta sulla panca da tenebre. Noi siamo due pazienti artieri. Quanto abbiamo travagliato e quanto sopportato da quel mattino di Roma, quando io volevo vederti le mani e tu le nascondevi ai miei occhi! Ricordi? – Dimmi: Non tentò taluno di far verghe dei miei allori per batterti e flagelli dei tuoi lauri per flagellarmi? – Sì, questo io lo dicevo a lui perchè egli era capace di inghiottirlo. I miei allori ed i suoi lauri! Sì, di lauro io vidi assai copia in casa di Giovannino, ma di quello la Mariù si serviva per condirne le polpette. E vedendo che egli cominciava a sentirci piacere, gli dissi ancora: Ma bastava che di tratto in tratto, di sopra lo schiamazzo ci dessimo la voce.... – Ma la verità è che lo schiamazzo lo facevamo noi, lui volgendo in réclame l'assassinio del padre suo, io con l'avere reclutato un esercito di moretti a pagamento coll'espresso incarico che essi si occupassero di me tutti i giorni scrivendo e pubblicando sul mio conto anche le più ridicole cose. – Colla mia più dolce parola io dissi a Giovannino: Ora siediti: non ti ho mai amato come oggi; e dentro di me soggiunsi: perchè tu servi benissimo alla mia réclame. Difatti, facendo le viste di occuparmi di lui, io mi occupavo solo di me. – Indi ad alta voce gli dissi: Faccio qui una breve sosta e poi riprendo il mio cammino, lasciando dietro di me tutti i miei beni vani. –Da un gesto di Giovannino mi accorsi che egli stava per chiedermi: E a chi lasci cotesti tuoi beni? – (Egli ignorava che non ero io che lasciavo quei miei beni dietro di me, ma che me li strappavano i miei creditori, ragion per cui erano divenuti per me vani). Indovinavo pensando che Giovannino sarebbe stato lietissimo di essere erede di quei miei beni, tanto l'allocco aveva aggiustato fede alle parole che gli avevo dette poco innanzi: io non ti ho amato mai come oggi! – L'allocco! Ma sarei io andato a casa sua se tuttavia io fossi stato possessore della mia Capponcina? Avrei io sopportato di dimorare un sol momento in quella sua casa da contadini, le cui parti più importanti erano un forno, un pollaio e una cucina, sorgenti di tutti i più volgari e bestiali odori, se io fossi stato tuttavia possessore di quella splendida dimora? Avrei io cercato la compagnia di cotesto citrullo e di cotesta... – Ma, acqua in bocca!... ha le unghie terribili! – Mi sedetti sulla sua sedia, dinanzi alla sua tavola. Le sue carte, le sue penne, i suoi inchiostri erano là. – Respirate di soddisfazione: erano là. Tutto era semplice ed usuale: penne da cinque un soldo, bottigliette d'inchiostro da dieci centesimi l'una; la carta era grossolana e resistente: carta più da droghiere che da letterato. La qualità stessa di quel suo cervello maschio s'era appresa a quel luogo di lavoro... Ho detto maschio, e parmi che vi stiate scompisciando dalle risa. L'ho fatto apposta per farvi ridere; infatti, sarebbe più facile ammettere che Giovannino ci avesse idee di grandezze principesche, anzichè credere che egli ci avesse un cervello maschio. – Ma ripeto: l'ho detto per farvi ridere. E, sempre per farvi ridere, io soggiungo che mi pareva che in quella piccola stanza tranquilla, ordinata, come sono tutte le stanze abitate dai senza-idee, fosse qualcosa che oserei chiamare la presenza del démone tecnico: il demone dei cervelluzzi. E se il dire la verità mi fosse concesso dalla mia natura di femina bugiarda, vi direi che il genio tecnico è anche il mio genio, il quale è maestro insuperabile di nomenclatura, e cotesto genio si chiama Giacinto Carena. Per questo riguardo, io e Giovannino siamo veramente fratelli. – Inter nos, l'arte sua e la mia sono arti da ridere, era per lui ed è per me una magia pratica, cioè, una impostura, la quale è una gran cosa agli occhi del gran pubblico; e consiste nell'infilzar parole e parole, come vien viene, purchè suonino bene nell'orecchio, di tal che ogni cretinello pensa e dice di me: che conoscitor di nostra lingua! In cosiffatta arte Giovannino mi superava nella votezza, ma io superavo e supero lui nell'incongruenza; – il che produceva tra me e lui un valore di compensazione, sicchè la nostra fratellanza riusciva uguale d'ambo i lati e perfetta, con questa apparente differenza, che si risolveva anch'essa in una equazione: egli non era, forse, del tutto femina, e preferiva, intanto, far la femina tutta modestia e carità cristiana: io, che in tutto son femina, ho preferito e preferisco apparire formidabile maschio negli eroi nei quali mi trasfiguro... – Dunque, come vi dicevo, io mi ero seduto sulla sua sedia. Egli prese un'altra sedia e venne a sedermisi accanto dinanzi alla tavola. Parlammo di qualche recente opera.... E mi accadde notare che le sue mani, quando soppesavano i volumi, erano una tremenda bilancia. – Avete voi mai visto bilance tremende, bilance che cagionano tremore, ossia bilance terribili? Sarebbero esse, forse, quelle che il mito pone in mano alla dea Temi? Sarebbero, forse, le bilance di Domineddio? O non sarebbero, piuttosto, le bilance di Brenno? Quanto a me, vi confesso che non ci capisco niente; ma invece so dirvi che è una delle mie gioje più vere quella di non capire ciò ch'io dico. Perchè ho io chiamato tremende bilance le mani di Giovannino che soppesavano i volumi? Perchè? Solo io so che le parole «soppesavano, bilance tremende» sono... – via, convenitene – sono d'un bellissimo effetto. – Ma passiamo ad altro. Mescolando egli un che d'amaro al suo discorso... – (aveva egli fatto un discorso? Quando? Veramente, non so) – io gli dissi: se hai tempo, va alla Pinacoteca e cerca di una tela del Francia, dove un Santo Stefano porta sopra un suo libro tre pietre in segno della lapidazione. Or be', metti tre pietre sopra ogni tuo libro e datti pace. – Belle parole anche queste, affemmia! Ma queste parole io le dicevo a Giovannino. Chiunque altro, al suo posto, m'avrebbe messo fuori dalla casa facendomi uscire dalla finestra. «Metti tre pietre sopra ogni tuo libro» non significa, infatti, «considera ogni tuo libro come morto e seppellito», tanto più che seguono subito le parole «e datti pace»?– Ma ripeto; io parlavo a Giovannino, il quale, col suo spirito... – (lo spirito di vino di cui egli era pregno) – arguto rispose – senza sapere neppur lui quel che si dicesse – : ma quello stolto dello struzzolo m'ingolla il libro e le pietre. – Stolto lo struzzolo? Oh! perchè mai lo struzzolo, che è uno struzzolo, sarebbe stolto, se la sua natura è quella di ingollare bellamente checchessia? Oh che gli struzzoli suoi entusiasti lettori non hanno ingollato e non ingollano tutte le puerili sciocchezze che ei si lasciò scappar dalla stupida penna? E oserebbe egli chiamarli stolti per questo? E gli struzzoli miei ammiratori?.... Ma il mio discorso sulle tre pietre lo aveva animato. Non più sembrava timido... anzi indovinavo in lui non so che tenerezza protettrice e il desiderio ch'io gli parlassi dei miei guai...., della mia perduta Capponcina, come se egli fosse in grado di farmela riavere, il bambinone! Eppure – chi lo crederebbe? – egli mi ripetette una parola antica con nobiltà davvero meravigliosa, o, per lo meno, sorprendente in un contadino: «Acciocchè tu più cose possa, più cose sostieni». Anche Don Chisciotte, buon'anima sua, ne sballò molte di simili. Quanta sciocchezza in cotesta parola antica!...– Ma, di grazia, è una parola, o non piuttosto un discorso? – Ma appunto perchè sciocca, quella parola oggi la scrivo qui, in Arcachon, sul muro della mia casa straniera, affinchè gli sciocchi, leggendola, dicano di me: che gran filosofo! – Giovannino fece l'atto di alzarsi.... (ma, si alzò egli, poi, o non si alzò? – Non so dirvelo, ma so che egli fece l'atto di alzarsi); .... mi prese per mano e mi disse: Vieni ora a vedere che ho preparato per te quando tu lo voglia. Un candore infantile, come sempre.... – ma era un candore infantile, o un candore d'imprestito? Non so).... Un candore infantile rideva in lui, e il primo verso del sonetto22 del Petrarca... – Del sonetto! Quale è questo sonetto? – voi mi chiedete, come se io lo sapessi. E finitela una volta con coteste interruzioni! – Il primo verso del sonetto del Petrarca mi sonava nella memoria. Era una piccola stanza chiara.... – Che bella connessione questa mia!... Era una piccola stanza chiara color calce bianca, quasi una cella di minorita, con uno di quei letticciuoli che persuadono a serbare una sola attitudine per tutta la durata del sonno, se – beninteso – chi ci si sdraja a dormire è un contadino rotto dalla fatica. E l'offriva a me! – Come rispondendo alla domanda sommessa che gli avevo fatta dinanzi alla sua tavola prodigiosa.... – ricordate? (prodigiosa per le penne da cinque un soldo e per gli inchiostri da centesimi dieci ciascuna bottiglietta) – mi mormorò in un orecchio, (certo non in tutti e due gli orecchi, pur restando a sapersi se fu nell'orecchio destro o nel sinistro) mi mormorò: Quando sarai qui ti insegnerò un segreto.... – Ma perchè questa promessa me la fece mormorandomela in un orecchio? Oh! che aveva egli dei segreti per la sorella vicina? Ma ricordo bene che proprio in quel momento, allo schiamazre di una gallina, Mariù era corsa al pollaio per vedere quale delle sue amate bipedi bestiole avesse fatto l'uovo. E allora, domando: perchè in un orecchio? – Ma ora che ci penso, quello era stato un suo sciocchissimo stratagemma sperando che, vinto dalla curiosità, io gli dicessi: Ebbene, io resto; dimmi il tuo segreto! Il babbeo! Ma io lietamente, sì, lietamente gli dissi: Non potrò venire se prima non abbia uccisi tutti quei mostri che sai: mi bisogna ancora andare alla guerra. – Se aveste visto la boccaccia che egli mi fece di fanciullo spaventato, atterrito! I mostri che sai! – Quali mostri? pareva, intanto, che egli mi chiedesse. – I mostri ch'io so!? –Veramente le imprese contro i mostri oggi non usano più; esse furono fatte e consumate dai paladini di Carlomagno.... E poi, quando mai ero io stato alla guerra? E allora, perchè gli avevo io detto: Mi bisogna ancora andare alla guerra? Ma se la guerra non l'aveva combattuta neppure il leone Giosue, che, a parole, era sì bravo da uccidere non so quanti tedeschi, quanti tiranni, quanti re, quanti pontefici, e aveva finito per far ridere fin gl'intrepidi Svizzeri del Papa-Re? – Giovanni si volse per passare nello stretto andito, mostrandomi le spalle. Allora – udite! udite! – si creò nell'aria uno di quegli attimi di silenzio che serrano il capo di un uomo come in una massa di ghiaccio diafano.... – Bella, neh?, quest'immagine! Ma, per carità, non mi chiedete ciò che essa significhi..... Che cosa è il capo d'un uomo serrato in una massa di ghiaccio, se non una massa di ghiaccio che serra il capo d'un uomo, forse colpito da meningite? – Ma io dico ghiaccio diafano, attraverso il quale il capo del disgraziato che vi è dentro può da chiunque esser visto. Il che deve essere un magnifico spettacolo. E che cosa sono gli attimi di silenzio che si creano nell'aria per serrare in una massa di ghiaccio diafano il capo d'un uomo? – Certo è ch'io guardai la persona del mio amico improvvisamente colpito da quella strana sventura, la guardai, dico, con occhi divenuti straordinariamente lucidi, forse dallo spavento, e la pietà mi strinse, che ha talvolta il pugno sì crudele. – Il che vuol dire che io ebbi, sì, pietà dell'amico a cui una massa di ghiaccio serrava il capo, ma – crudele ch'io fui! – io non corsi a liberarlo dalla stretta terribile di quell'attimo di silenzio creatosi nell'aria e che – come pareva – voleva il suo capo trasformare in un sorbetto.... – Si disciolse quel ghiaccio o non si disciolse? Ora non ricordo; solo ricordo che a me pareva che egli portasse sulle spalle tutto il peso della sua tristezza, tutta l'oppressione delle sue miserie..... intellettuali. – La sua fronte augusta.... – non somigliava egli a Piero dei Medici sovrano di Firenze? La sua fronte augusta s'era celata e non si vedeva contro il muro biancastro se non l'ingombro corporale vestito di panni che il lungo uso aveva fatti quasi dolenti... – Poveri panni! erano degni di un ben meritato riposo, e il tristaccio, anzi il taccagno li teneva ancora sottoposti a un indegno crudele servizio! E quei poveri panni si dolevano e protestavano spargendo attorno l'insopportabile sito di un antico e recente sudor concentrato e offendevano la mia vista con certi strappi, certe toppe e certo untume.... Ma basta! – Dunque dicevo che io vedevo di lui l'ingombro corporale sul fondo del muro biancastro, ed ora aggiungo che non rimaneva là se non la soma greve ove si intossica la vita, che non è se non il levame della morte. – Ah! il bel periodo che ho scritto!.... La soma greve, cioè, il corpo, ove s'intossica la vita, la quale è il levame della morte! – Bello! Bello! Bello! – Giovannino – non ostante la soma greve della sua pancia, in cui gli s'intossicava la vita, che è levame della morte – volle accompagnarmi fin sulla strada, sebbene io mi opponessi. La sua salute era già minacciata – ma non già a causa di quella massa di ghiaccio che gli aveva serrato il capo; la radice del male egli la portava nella pancia: beveva troppo, fin troppo, più del grande Giosue, ed è tutto dire; e già dubbioso era il suo passo, come quello di tutti i beoni. – Cadeva su noi, proprio, solo su noi, una.... – non due, non tre, una sola – di quelle sere emiliane umide e cenericce che sembrano generarsi laggiù, fra la foce del Reno e la bocca del Po di Goro, nella grande palude salmastra. E dico sembrano, perchè sicuro poi non sono, generandosi solitamente le sere dal movimento rotatorio della terra. – Soffiava su noi, e, pare, su noi due soli, un vento ambiguo che pareva dolce e poi ad un tratto ci dava il brivido con una folata fredda. Decisamente la natura l'aveva contro noi due... E dire che vi è un Dio dei venti, là, fra le isole Eolie. Ma Eolo deve essersi fatto decrepito, e Nettuno deve essere rimbambito, sicchè oggi, lasciati senza governo, i venti, come i poeti, si ubbriacano e ne fanno di tutti i colori. – La vettura mi attendeva poco distante, coperta e nera... – badate a ricordarvene: la mia vettura non era solo coperta, ma anche nera, circostanza, questa d'importanza altissima: nera – con due cavalli che mal reggevano la loro fatica su le gambe arcate. – Questo particolare, ne son certo, commoverà i critici venturi, i quali consumeranno, in mio onore, botti d'inchiostro per giungere ad intendere che bestie veramente fossero quelle che trascinavano quella sera la mia vettura coperta e nera, poichè avevano le gambe arcate. Io, sì, quelle bestie le ho chiamate cavalli, perchè facevano l'ufficio di cavalli...; ma erano poi cavalli se avevano le gambe arcate? – No, io e Giovannino, non parlavamo più. C'era d'intorno a noi una specie di silenzio soffice... tanto soffice, da potercisi seder sopra a riposare.
E c'era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi.
Vocìo strano.... di gatti selvatici, di jene, di lupi, di gufi? Vattelappesca. Ma noi due niente paura. Udivamo anche le nostre peste, e saremmo stati sordi se non le avessimo udite; ma – vedete caso stranissimo – le udivano, sì, ma nè vicine nè lontane. – Oh! come! Non lontane, sta bene, ma non vicine, poi, oh come! se erano proprio le nostre peste? – Ma pensate che io avevo subìto l'influenza del gran bambinone; pensate che – da quell'ora di contatto ch'io ebbi con lui mi accade di non potere scrivere di checchessia senza dar dentro a delle giovanninissime corbellerie. – Ma andiamo avanti. – L'uno chiamò il nome dell'altro, nell'addio.... – Scusate s'io mi arresto, ma emmi giocoforza arrestarmi per starmene un cotal poco in ammirazione davanti ad una proposizione sì bella: L'uno chiamò il nome dell'altro, nell'addio! – Infatti io esclamai: Giovanni! e Giovanni esclamò: Gabriele! E l'eco ripetè anni!... ele! – Ci abbracciammo. Come.... – è francese, lo so: italianamente dovrei dire siccome; ma non fa niente: non sono io il più gran mastro di nostra lingua? E dunque lasciatemi dire: Come sul viale il vento rinforzava ed egli pareva infreddolito dentro il bavaro, gli dissi: Va, va, rientra; non restar qui.... – Chè, se nol sapete, senza questa mia esortazione, egli sarebbe stato capace – sull'onor mio! – di restar là tutta la notte! – Si voltò per andare, e i cavalli – (bella connessione!) avevano messo le radici, tanto stentarono a muoversi. – Ammirate quell'e che unisce due cose che non hanno nulla da vedere tra loro! Non son io anche un gran mastro di grammatica? – Sicchè ebbi tempo di seguirlo con lo sguardo e con l'angoscia fino alla porta, per virtù, come ora vi dirò, di un prodigio: perchè lo stesso silenzio repentino che si creò nell'aria della stanzetta bianca – ricordate? – il quale serrò con una massa di ghiaccio il capo di Giovannino, quello stesso silenzio – dico – serrò ora il mio capo; e riconosco, quindi, il beneficio che a me venne dalla trasparenza del ghiaccio attraverso il quale i miei occhi poterono accompagnare Giovannino sino alla porta! – E come egli fu alla soglia si voltò ancora e levò il braccio verso me a risalutarmi.... Da quel fagotto di panni stracchi, sudici e rattoppati, s'alzó il braccio pesante che su per l'erta aveva brandito la piccozza d'acciar ceruleo, e più propriamente la zappa, giacchè egli era nato ed era rimasto sempre un po' contadino. – Una voce d'eroe – a modo mio – mi scoppiò dentro e franse il ghiaccio diafano che mi serrava il capo – Respirai! – Ed ora che son lontano da quella casa per me sì fastidiosa e insopportabile, pregna degli odori stomachevoli dello stabbio, del pollaio e della cucina, io che ho dovuto abbandonare la mia regal dimora della Capponcina e che ho ancora davanti agli occhi il mio ricco ed elegante boudoir di superfemina alla moda, io, nella gioia della presente mia liberazione dal pericolo di rivedere quella casa volgare, voglio – poichè non mi costa nulla il dirlo – dire sul conto di Giovannino due solenni sciocchezze, a mo' di vendetta: 1a, Egli s'era fatto degno d'incontrarsi con Achille e con Elena – 2 a, Egli s'era fatto degno di parlare sulla tomba terribile di Dante. – Ridete? Questa, sì, questa appunto è la mia vendetta. E vi dirò che tanto io l'ho amato ed amo che ancora non so come egli sia trapassato, benchè, sapendolo gran beone, io debba supporre che egli sia morto nel modo di tutti i beoni, cioè chiedendo da bere fin nell'ultimo rantolo. Ecco perchè a me piace immaginare che gli sia uscita di bocca qualche bella e semplice parola prima che la lingua gli si annodasse dietro i denti. Sì, fu pronunziando la bella e semplice parola vino che lo spirito gli si sciolse nel gran ritmo. – Che c.... sia cotesto gran ritmo veramente non so, ma so che esso chiude ritmicamente il mio periodo! – Ed ora vo' domandare: Aveva egli dato tutto il meglio di sè, o piuttosto tutto il peggio? Serbava egli ancora nel cavo della mano qualche ferace semenza per altre umili mirici? Certo mille e mille, (perciò due mila – un bel numero, neh?) – ancora speravano in lui. – Chi erano costoro? E perchè speravano in lui? E che speravano da lui? – Non so; solo so che essi erano due mila. – Agguagliandosi alla linea dell'orizzonte, egli avrebbe potuto dire ai suoi fedeli (che erano due mila) avrebbe potuto dire (ma sventuratamente non disse): Io vi mostro la morte compitrice, la morte che pei vivi diviene incitazione e promissione... – Belle parole neh?, che Giovannino avrebbe potuto dire e che, ahimè! non disse, per la semplice ragione che esse non contengono un senso purchessia, ma certamente le avrebbe dette se egli fosse stato Gabriele.... – Concepite voi la morte compitrice, cioè, la morte che compie – (che cosa?) – la morte che diviene incitazione – (a che cosa?) – e promissione – (di che cosa?) – ai vivi?–Sì, certo, queste belle vuote parole egli avrebbe dette – ripeto – se egli si fosse chiamato Gabriele anzichè Giovannino.... – Ed è ancor certo che i suoi duemila fedeli, nell'acciaio della sua ascia sepolcrale, potrebbero – solo che fossero un tantino più sciocchi di quello che sono – potrebbero vedere riflesse le stelle dell'Orsa...; ma soltanto le stelle dell'Orsa, giacchè solo alla mia ascia è riservato il vanto, allorchè io sarò morto, di riflettere il sole, la luna, le comete e tutte le costellazioni.
O cameretta, che già fosti un porto...
È questa un'omissione gravissima, la quale sarebbe solo ammissibile se il Petrarca non avesse scritto che un solo sonetto!