Gian Pietro Lucini
Antidannunziana: D'Annunzio al vaglio della critica

“La Ragione per cui....”

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“La Ragione per cui....”I

 

«Pourquoi rien n'est il que fraude!»

O Tizio, ti confesso di avere un pessimo carattere: – tu e li altri intorno assentite, sorridendo: – comunque, mi compiace: – il vostro sorriso scompare dalle labra dove lo sostituisce una smorfia: – anzi, vi dirò, che, per differenziarmi dalla palude borghese che tenta invischiare tutta la vita italiana, vado a coltivarmelo con gran cura di reattivi velenosi, di caustici esasperanti. Voi crollate la testa, commiserandomi, e, vista la mia pervicacia – che mi danneggia – mi raccomandate alla psichiatria.

Io devo infatti patire di qualche morbo al cervello: ostinarsi a prediligere alcune pregiudiziali che ad ogni muover di passo ti domandano: «Dove vai? In che modo vai?» – ad ogni giudizio che formoli: «Dimmene la ragione? Ed a che prò?» – ad opera compiuta: «Bada che tu devi sostenerla come parte dell'anima tua; è necessario che sia cordialmente gratuita; bisogna che sia esposta sinceramente». Con tali limitazioni, l'esercitare la vita diventa difficilissimo: tanto più se volete essere sempre responsabili di quanto fate, dignitosamente pronti a rispondere ad ogni e qualunque interrogazione vi si rivolga.

Perciò non si deve essere facilmente elusivo, elegantemente evasivo. In queste condizioni, voi sarete oppresso da una folla di pregiudizii, starei per dire di superstizioni: ed oggi, che queste vengono coartate dai giovani modernisti intonacati, rientrano a far parte della morale anarchica: vi portano, dalla antica umanità classica e stoica, norme di virtù dissuete e senza risposta pratica nel vivere attuale; sì che sono, come già le chiamai, superstizioni.

Volete sapere le mie, che, in precipitato, formano il nocciolo della mia buona coscienza, cioè del mio pessimo carattere? La coerenza – la sincerità – la probità. Gira intorno, Tizio, con acume di filosofo e di sociologo a questi tre vocaboli, che costruiscono un magnifico mondo morale: tu ti accorgi subito che chi li possiede ne è danneggiato. Son pur in questo caso: ti so dire che ne son contento; e, per manifestarti la mia lietezza, ecco a comporti un librattolo; il quale, suturando colli inediti d'oggi li già editi di un tempo – non li ricordi più, apparsi qua e a richiesta del giorno opportuno della attualità, su gazzette e riviste? – ti posso porgere racchiuso, in un solo blocco di carta di qualche sedicesimo, il panorama generale e particolare che mi si è dipinto dentro il mio cervello a riguardare, ora in sintesi, ora in analisi, le multiple attività ed i loro risultati di Gabriele D'Annunzio, senza tener minimamente calcolo di quanto possa essere la visione d'altrui ed il quadro relativo che ne ha dipinto.

E subito, sento rimproverarmi da un saputo con cui spesso concordo «Oggi1 si trovano forse più antidannunziani che dannunziani: e fanno più schifo quelli di questi». Gli è che il Borgese è tal critico da dire le perfette verità in modo da irritare anche coloro che gli danno ragione, mascherando con una lepida e maliziosa indifferenza, anche la sua passione; mentr'io, pur sopportando la disgrazia di fargli schifo, continuerò ad elogiarlo ed a professarmi antidannunziano: prova ne è il titolo di questo libretto, riproposto dalla mia coerenza, dalla mia sincerità, dalla mia probità; giacchè son queste sole mie virtù – o superstizioni – quelle che ne informarono le pagine. – «Male accorto! Carta, inchiostro, tipografia, tempo, ingegnaccio e coltura sprecati». Mi urli al fianco, Tizio: e mi sermoni a senno: «Svolta il sentiero sdrucciolevole; non vedi ch'Egli fa peso nelle questioni internazionali ed è il più vero e reale patriota, il più grande poeta, il miglior educatore? Ecco, che certo professore oscillante tra l'arteriosclorosi e la paralisi va pubblicando un lessico delle voci d'annunziane, come Egli ci avesse aumentato il vocabolario di nuove italianissime voci; come già l'Ariosto, a cui il Gerolamo Ruscelli2 aggiunse nel 1556, la prima volta, in calce ad una edizione dell'Orlando Furioso un Vocabolario di tutte le parole che sono nel «Furioso» le quali potessero essere oscure a quei che non sanno lettere latine o toscane. Ecco, che li scolari del buon tempo della Università bolognese, strepitano e scioperano delirando per essere insegnati da Lui, il sapientissimo in ogni arte e gesto di vita, cui l'ingrata patria ha bandito colla esosità de' suoi usurai e delle sue leggi oltre il Frejus. Ecco, che tutti i mocciosi, od appena smoccolati, i facinorosi e strepitanti mimmi e macellaretti del nazionalismo sbraitano a Lui, insultano il Governo – che è pur roba loro – Lo portano in trionfo, in effigie; accendono lampadine alle madonne trivie, concorrono nelle chiuse aule triangolari e massoniche, perchè, arbitro di eleganze, di amore al quadruplice spasimo ed espansione e di poesia inimitabile, perchè, invitato, ci venga ridonato, fresco di maggiori grazie francesi, scozzonato da maggiore considerazione parigina. – E saresti tu quel tale, proprio l'Orazio sol contro Toscana tutta? – Non farmi il ridicolo ed il pretenzioso: moderati....»

Modera e chiudi il rubinetto al tuo nojoso e prudente catechismo, Amico. Lasciami fare perchè mi è obbligo: se tu l'hai scordato te lo voglio ricordare.

 

***

 

Intanto, amico o nemico, cortese o rustico, Tizio interruttore, cominciamo ab antiquo. Tornare indietro è come ringiovanire; è rivederci in prospettiva, accomodato nel gesto sintetico più espressivo e migliore. Se si potesse tornare indietro, nella vita, per potervi cancellare una azione od una intenzione, che, nel complesso ti deforma, com'io faccio passare a ritroso queste carte, ormai documenti, per rileggermi e comprendermi meglio! Quanta baliosa indeterminatezza; quanta spavalda gioventù! Tizio, anche tu compiterai con me questa sdruscita pagella di giornale ed a stento mi riconoscerai nello stile; confessa che ho migliorato; ed, oggi, ho tanto rispetto dell'autentico da non farvi intervenire l'ortopedia della praticaccia di poi per farmi comparire migliore.

Quale ingenuità, Tizio! Pretestare delli amori, invocare delle attenuanti e farla da giudice troppo assennato. Hai mai osservato come i primi versi, che di solito si scrivono colla penna maldestra in male d'ebefrenia, siano una quintessenza di morbido idealismo, un neoplatonismo zuccherato? – una guardatina al Libro delle Figurazioni Ideali –; che le prime proposizioni critiche de' giovanetti abbiano quel certo che di sostenuto, di agghindato, di severamente accondiscendente? il tono che raffinò in catedra Borgese. Di modo che tu scambi questi imberbi, col lattime sulla boccuccia, come de' personaggi posati e canuti; e, quando la loro virilità è completa, li accorgi essere giovanotti esuberanti. Tal quale capitò a me.

Mi imbattei, faccia a faccia, con Gabriele D'Annunzio nel 1896, l'anno delle scoperte del Thovez: tutto il campo era a rumore; all'agguato delle rivelazioni, o pseudo-rivelazioni, invischiava ogni foglio, foglietto, fogliaccio; e la campagna di denigrazione, che voleva ricercare il valore-plagio nell'opera dell'abruzzese, si trasformava in suo puro vantaggio di réclame, perchè il suo nome, pur tinto di nero, ma a favore di questa tinta scandaloso, entrava anche nelle case, nei salotti, e nei cranii delli indifferenti a farvisi conoscere almeno come sonorità, a grafirvi le sue lettere, e con tale insistenza, da individualizzarvisi come facilità mnemonica.

Allora, anche una Domenica Letteraria, che si stampava a Milano e di cui i miei ripetuti regali in prosa ed in versi mi avevano fatto redattore, volle illustrarsi in una specie di referendo. Domandò, in fatti, ai saputi nostrani: «Quale posto assegnate oggi, a Gabriele D'Annunzio, considerato come poeta e romanziere?» L'inchiesta verteva sopra tutta l'opera sua, espressa dall'iniziale «All'augusto sovrano d'Italia Umberto I di Savoja, XIV marzo del MDCCCLXXIX suo giorno natalizio», – augurio e vale dei ginnasialini e già cortigiani mimmi Vittorio Garbaglia e Gabriele D'AnnunzioII – in cui si braccava alla regia ricompensa, ai sino allora appena stampati Trionfo della MorteIII, – Allegoria dell'AutunnoIV.

Comunque, l'irrequieto viaggiatore ch'io era di quel tempo, in cerca di mia strada, che desiderava far altra, in ricognizione delle altrui virtù, che non desiderava imitare, piuttosto emulare, – e pur confuso e ben carezzato, nella mia ingenua giovanezza, dai suoni dell'Abruzzese, stregato, nelli occhi, dal suo lussuoso caleidoscopio, compiaciuto dal vanto della sua purezza, cui già si accostavano i professori delle scuole secondarie, maestri de' giornalisti d'oggidì; – comunque, anch'io diedi nella ragna tesami dai vezzi della allettatrice sua feminea prestanza. E non pensava ch'egli l'aveva messa in mostra di sulla finestra, come la Talanta aretinesca, allo zimbello e per uccellare, specialmente i più giovani ed i più alacri, per nutrir, poi, del meglio delle loro scarselle il suo mignone, ed era tanto arida di cuore, da reale cortigiana, come doveva essere per le necessità del suo mestiere, imbellettata il volto e contigiata di vesti, il tutto per eccitare, come la Babilonese biblica, alla lussuria, cioè alla idolatria. Di modo, che, volendomi avvantaggiare di una certa precoce serietà, veramente disdicevole alla mia giovanezza, la posai da arbitro, e, con assai deplorazioni sul caso, desiderai ipotecar l'avvenire all'allora più biondo e meno calvo D'Annunzio.... per amor di patria, cui sentiva non dover menomare. Vedrete che c'era in me la stoffa di un perfetto nazionalista, avanti lettera e scoperta dei Sighele, dei Corradini, dei De Frenzi, se la filosofia ed il '98 non mi avessero tonalizzato a dovere colle argomentazioni di Max Stirner, col sangue concittadino sparso senza parsimonia dai plurimi ed immedagliati Bava Beccaris, solennemente premiati.

Ma eccovi infine quella mia prosa tra la saccente, la scolastica e l'impacciata:

A proposito della vostra inchiesta d'annunziana.

Se la quistione non appare sottile, molto intrica, nuova pure. Ora, dall'una parte e dall'altra trovo somma jattanza. E, nel D'Annunzio, perchè tale si è raffigurato davanti a e così si è posto davanti ai lettori, come l'unico e fragrantissimo fiore della novissima letteratura, fiore imperiale, dono a nari di principesse nascoste alli occhi profani e che perseguano un sogno splendidissimo nella ermetica funzione della loro vita: e creò il Superuomo, una mostruosità in codesti tempi di conquiste comuniste, un anacronismo; poi che l'assoluto regno dell'eletto ed il governo dei pochi migliori scomparvero colla teocrazia ed il feudalismo. La Storia non ricorre alle cose distrutte. – E, nel Thovez, perchè acremente insistè nella scoperta, (era da vero scoperta?) del plagio: molti sapevano, molti hanno taciuto. Suscitossi quindi una quisquilia letteraria. Letteraria?

Non vogliamo confondere la moralità delle Lettere colla Moralità. Certo credo, che, in assoluto, il D'Annunzio abbia mal fatto coll'appropriarsi opera altrui.

Ed allora, è scusabile? Se riguardiamo alli esempi passati, potremmo, a simiglianza di Pilato, farci apprestar il catino e l'acqua per l'abluzione: se riguardiamo all'autore moderno, noi ci dobbiamo un giudizio: «Egli si fece sua la roba che non potevagli appartenere». Pure, infirma la sentenza il valore del magico maestro della penna? Rimarrà egli? La sua fama è più tosto come colorista, come prezioso dicitore, come orafo cesellatore di periodi e di rime. Noi avemmo da lui un magistero d'arte quale, per ritrovarlo, è necessario assurgere alla rinascenza. D'Annunzio quindi per questo starà. Originale?. I contemporanei invidiosi, o da lui negletti, o da lui guardati troppo alteramente potranno negarlo. E pure noi riteniamo il Caro originale, se bene l'opere migliori da costui lasciateci, furono la traduzione dell'Eneide ed il rifacimento del Dafni e Cloe: aggiungasi che tutto era sincerità ed egli aveva detto di tradurre, non di poetare dal nuovo. Ma se li a venire, in patria, avranno molto più cara e stimata l'opera d'annunziana e non si ricorderanno delle sue fonti, se non penseranno mai che furono scrittori dal nome di Verlaine, di De Banville, di Péladan, di Maeterlink, di Goncourt e dell'altri, (scovai un po' per ogni dove idee e frasi francesi-d'annunziane); l'autore nostro potrà essere anche, nella futura Storia Letteraria, riputato originale. E di tutto ciò duolmi profondamente; poi che all'inizio d'esser letti nelle terre d'oltre Alpi, si sollevano tali quistioni, quasi a dimostrar la nostra insufficenza a produrre: legami e cortesie andavansi suscitando amorevolmente tra noi; tutto era nell'aspettazione di un buon risultato: certamente li amici francesi debbono molto essere scontenti delli amici italiani, da che questi si prendono la roba loro con molta disinvoltura ed il cemento della lealtà sfuggì a rinsaldare una nuova amicizia, dopo tali abusi di fiducia. Torneremo a Parigi col ramoscello d'olivo?

L'onesta università della Letteratura ne sofre e teme.

G. P. Lucini.

Milano, il XXIII di Febbrajo del'LXXXXVI.

 

***

 

Se non che, per iscusare, pur nolente, codesti peccati d'incontinenza nella roba altrui della mia bella d'allora, conveniva che la passione per lei mi fosse inciprignita dentro come una cattiva ferita purolenta. Tornando indietro d'un altro anno, voi leggerete che ero nello spasimo erotico completo per Talanta – D'Annunzio, sì da chiamarlo fratello: «E vidi», esclamava tra il profetico e lo storico, da pagina 5, de La Licenza, Dialogo tra il Padre e la sua Creatura, preposto a La Prima Ora dell'Academia, edita nel 1902 ma conservata sino dal 1895, nei miei cassetti, senza tema di incanutire – come le altre Due Ore, che sono più che fresche, pietrificate, in bellezza, gorinianamente: – «E vidi», allora, rassegnando le fortune e le speranze letterarie italiane: «e vidi, tra le rovine della città eterna, entusiasmato dalle bellezze passate e curvo ai misteri della venustà immarcescibile, un Cavaliere, che intendeva li occhi azzurri oltre le lapidi romane, oltre i cimelii infranti, alla rinascenza del Vinci. Egli produceva fuori un Andrea Sperelli, innamorato delle forme, tra un ciborio ed una statua pagana, tra un trittico del Botticelli ed una riunione di caccia, mentre non sapeva accordar l'anima alla femina od all'amore dell'assoluto. Poi, compose il Poeta tre Vergini, che lo racchiusero in una corona di gilii; così che gli fermarono, per poco, l'ora mortale indiandolo; egli cogliendo rose mistiche di voluttuose virtù in quei baci che sembravano spirituali».

Eh! come fervorino non c'era male; e vi prego anche di non interpretarlo male; leggete senza soccorso di ironia. Io, compatitemi, amava senza stima, ma amava. Vi auguro di non accorgere il risveglio di tal fatta di passione! Perchè non potete odiar voi stessi, terminate coll'odiar.... Talanta; la quale, proprio, facendo il suo mestiere non ne ha colpa. Di modo che io andai, da La Licenza in su, scioperando una serie lussuosa di citazioni dal Prologo delle Vergini delle Roccie, affatturato di tutto quel suo arteficio dentro cui vagellava uno spiritello perversamente anarchico; e voi le potete leggere ne l'Apologia preposta da me a I Modi, Anime, e Sìmboli del Quaglino, nell'anno di quel fervore 1896.

Doveva essere vicino il ravvedimento: la stessa Prima Ora dell'Academia avrebbe portato il contraveleno preventivo. L'Avvertenza preliminare, 1899, postillava subito, difendendo il verso libero, – musica dell'avvenire – (ogni volta che scrivo anni del millesimo scorso sono sempre preso da stupore e da paura: quanta inutile precocità mi vado scoprendo, mia!) parava alla precedenza ed a distinguere. «Di un'altra musica dell'avvenire, tra le tante inventate poco fa: lasciatela passare: perchè è mio obbligo rendere partecipe il buon Prossimo, dell'ultima mia scoperta, questa della lamina d'argento foggiata a timbro; ch'è mio dovere l'instruire dell'armonia preziosa di questi istrumenti, onde le danze si ballino sul ritmo campanellante. (Il Daimon, permaloso, mi tira il naso: dice: «Dove l'hai pescato quest'unico strumento, se la bellezza dell'unico è di marca speciale di un Gabriele e tu non sei andato da lui a comperarla?» – «Maligno», rispondo «tra li arcangeli io non conosco che Lucifero, non sei tu questi»).

Che era avvenuto nello spazio di tre anni, se il motteggio soccorreva ai belati dell'innamoramento? S'io aveva il coraggio di stampare, proprio dentro lo stesso volume (1902) e la prova dell'uno e la nota dell'altro, sfidando la facile pecca della contradizione? Era invecchiato, amico Tizio; mi sentiva in vena di confessarmi tacitamente per via di antitesi, anche, o Tizio malevole e dispettoso, che ridi e mi provochi: « la tua vantata coerenza

Sì; mi ostino a dirti in faccia: la mia vantata coerenza: leggi bene e le parole del 1895, e le altre del 1896, e le più recenti del 1899, e le nuovissime, queste, del 1912: capisci tu le parole mie, Tizio beffardo: non è un unico pensiero, una sola ragione, quella che le regge? Ti capacita? Tentenni, vagelli? Incominci a travedere. Ma torna a leggere dal primo capoverso sino a qui, con tutte le disgressioni, le note, i richiami: non ridi più, mi fai il broncio. Decisamente sei scontento di te stesso perchè hai finito per capire. Sì, hai capito; mi odii, Tizio; decisamente hai capito, perchè senti che tu hai torto.

 

***

 

Sfogato, passato l'amorazzo: l'incostanza di Talanta diè ragione e scuse alla mia; ottimo il dolore a ridurre sul retto sentiero. Questo poi ch'io aveva vissuto in bello e buono combattimento, – prima osteggiando e vincendo le mie fantasime, indi li uomini, che mi volevano ridurre alla loro più piccola proporzione – veniva con lena incessante tracciato e battuto, con opera di sincerità, attraverso tutte le insidie e tutti i divieti delle costumanze comuni e de' retribuiti tradimenti. Ero, di questo passo, ad essere padrone della mia coscienza ed a comandare ai miei atti; similmente, da qui, poteva presumere di maggiorarmi nel giudicare altrui.

Mi si pararono davanti due pericoli di differente aspetto. Il primo si apprestava come in una china di prato verde, fiorita, esposta al sole primaverilmente; ma, sotto, a mezzo declivio, mascherata da una siepe spessa e profumata di gelsomini, aprivasi in burrone spaventoso. Se tu, di buon passo, cominciavi la discesa, e, per forza d'inerzia, l'assecondavi, subito, il tuo andare si mutava in corsa, indi, in vertigine, e, balzando sopra le siepi, per l'impeto, trabalzavi anche nel baratro a sfracellarti. Questo pericolo chiamai del Conformismo. L'altro ti stendeva davanti un giardino incantato, ogni bellezza d'albero, di fiori, di frutta, di cacciagione, di statue, di laghetti; in fondo un palazzo di delizie, sfolgorante di luminarie, la notte; in pieno sole, nel . Solamente, tu dovevi trascorrere per i viali senza bisogno e necessità, senza voglie e desideri; non odorar fiori, non mangiar pomi, non bere acqua, non danzare nelle sale parate del festino; ammirare e nulla più, fuggire guardando. Di tutto che tu volessi assaggiare saresti stato avvelenato e quindi morto. E quest'altro era il pericolo del Superlativo. Fortuna mia che mi giovò la mia volontà a proibire; non la frigidezza, che non patisco, ma il ragionamento. – Letterariamente aveva compreso che il conformismo ed il superlativo si fondevano nella Retorica: cioè nella mancanza di personalità e di sincerità nell'opera d'arte e nella vita; e mi parve, e credo di non sbagliarmi – che appunto a rappresentare questa conglobata tendenza morbosa si postillasse in sulle gazzette, dai libri, dai teatri, Gabriele D'Annunzio.

Costui aveva tanto fatto e detto, con gesti e parole d'altri, che molti si erano abbassati a raggiungere, sotto il suo piccolo metro, il minimo comune denominatore letterario, mentre la loro schiettezza s'impaludava nel viscidume dell'acque limacciose e mareggiate di nafte e di olii iridescenti, tra le biscie cieche, le salamandre pezzate ed araldiche, i girini microcefali ed idropici, le rane schiamazzanti e cantatrici di batrace vacuità.

Stagno della Retorica! Se ne bevi, ne hai una certa ebrietà, un sollievo, un dimenticare; sì, qualche volta ci tenta, vorremmo beverne. Ma, subito, ce ne ritrae l'imagine sovvenuta alla memoria ed alli occhi del Duca di Clarence affogatosi in una botte di malvasia! Atroce supplizio! Asfissiarvisi prima d'aver raggiunta l'estasi della ubriacatura. Tal quale colla retorica.

Di notte, vagano spettri foggiati dai vapori della palude, animati dal soffio gabriellino, che spira grandezza, e fa d'ogni modesta casa comunale un Campidoglio; Iperbolismo. E viene la Donna formidabile: è appunto madonna Retorica. Si è fatta acconciatura ed abiti d'ogni sorta di rigatteria, un trono d'ogni mobiglio smesso, claudicante, sdorato, tarlato; ha con tutto che è vecchio senza essere antico, nuovissimo senza essere originale e personale. Vien fuori con una toga, che sembra una stoletta ricamata per la processione del Corpus Domini; con una pretesta, che è gallone medioevale trapuntato dalle Canossiane; con un lauro, che è latta dipinta in verde e bacche rosse di conteria; con un coturno, che è uno stivaletto del calzaturificio varesino. Con tutto ciò è seminuda come una cocotte dopo cena; e perciò dicesi MusaGabriellina. Essa fu già all'angolo di un quadrivio infestato dalla frequenza cosmopolita; la quale ha in lei lasciato traccia d'avarie. Si vende, accetta; ricambia lue e vizii internazionali, e vorrebbe, col concedersi a' suoi concittadini, inquinarli in modo inguaribile. Alla larga, Tizio, se ti pare, da questi abbracci, che ti avvelenano il sangue e ti pregiudicano la genitura!

Dopo quella scalmana, mi son ben premunito; niente cappelli piumati, niente sete e volanti, che sciaquano al passo come una peota sulla laguna a dieci remi; io venni ad amare la bella dignità, la sana bellezza, la fresca e giovane costanza del mio paese, proprio questa, la lariana, dove nacquero i miei, che fecero assai, dov'io son tornato, racchiusa la stirpe, a morirvi. No; ho dunque lasciato la grande3 arte di tutti a tutti, e mi son accontentato di volere la mia Arte per me: e mi pareva anche da galantuomo dire alli altri, che mi assomigliavano, risparmiando a loro la fatica e le difficoltà dei principii: «Sentite; siate voi stessi; ed, anche se mi volete bene, cercate di non seguirmi». Ciò che torno a ripetere qui.

 

***

 

Così fu, che alcuni de' più alacri si accorsero subito di queste mie prerogative, meglio, di questo mio bisogno d'essere in faccia al modo d'annunziano, un oppositore, non di progetto, ma di natura. Presto stesero de' paralleli, non so se esatti, ma certo, per me, compromettenti, tra quella moda ed il mio stile: naturalmente, li altri non li raccolsero li vagliarono, e finsero di non intenderli sicchè, Tizio mio, tu, che vuoi parere di tutti il più duro d'orecchio, lascia che te li enumeri in lungo ed in largo, citandoli senza ommettere sillaba. Ti piace?4 Poco m'importa. È necessario che tu li conosca, perchè mi danno la procura legale, non solo, ma mi insigniscono della autorità necessaria, senza la quale non avrei, scritta, riordinata la presente Antidannunziana.

1. Incominciò a strombettarmi, con animo e baldanza partenopea, DecioV Carli in coincidenza col da me risuscitato scandalo salesiano di Varazze; dove, appena giunto per svernarvi, riaccesi la zuffa, che mi fece considerare, italiano, tra i più alacri, straniero in terra di Liguria, donde mi si comminava l'ostracismo. Ridicolissime cose: giovommi il gesto amicizia anche di sacerdoti non salesiani; e clericali ed anticlericali ad un fascio non seppero considerarmi che al rumore delle parole, cioè malissimo. Il caso era di curiosità frenastenica e di qualche garbo letterario, – ti prometto, Tizio, di ritornarvi con maggior agio sopra: – minimamente di rumore politico. Del resto, Tizio, sai, che io sono un anarchico le cui dottrine saranno utili ai conservatori che verranno fra tre secoli, e.. lasciamo andare.

Dunque, Decio Carli si risovvenne, che, il per allora eroe di Varazze, il filosofogiuristaanticlericale era stato anche l'autore di una Prima Ora dell'Academia, virtualmente un capo scuola; ed egli mi vedeva centro «ad una plejade di belli ingegni in evidenza derivati da me». – Se non che continuava, «nessuno gli assegna un dicastero artistico; e i luciniani, pauci sed electi, costretti a dissimulare tanta genealogia, non vengono prosperati e collocati, auspice le commendatizie del duce sui quotidiani di maggior fama; e, ove mai il magnificatore di Eleonora riporti ancora un successo – di mondanità, di coreografia e di cassettaGian Pietro da Varazze sarà irremissibilmente perduto».

Perduto, finchè, poco dopo, non mi avesse dovuto ritrovare con parallelo di maggior evidenza: già la circonlocuzione non avrebbe più servito, e mi vedrebbe in armi, ben disegnato; perduto, no, certo, però che Decio Carli m'avrebbe fatto (1908) «l'amico5 grande di Benelli.. e di Notari», mentr'io andava millantando nella lingua di Cicerone: «Ad me dictum est verbum absconditum...»; mentr'io faceva dire a me stesso, in linea generale:

«più che amicizia eleggo odio palese».

Per intanto, mi incontrava «eredeVI magnifico di Giosuè Carducci» annunziandomi «con sigillo proprio. Il suo motto: «Sorpassare la consuetudine» suo capitale nemico: Gabriele D'Annunzio» – Il duello mi era comandato dai padrini, i quali se ne intendevano: le due persone erano armate, in faccia: «il duello segnerà il fatto d'armi più sensazionale di quest'alba di secolo. Il suo esito segnerà; secondo le mie previsioni di consumato bookmaker della letteratura recentissima e remotissima, l'avvento del lucianesimo». Un'altra, a mio parere, malattia violenta, se non di consunzione; però che que' microbi che la producono in me mi sono benigni, non solo, ma necessarii, essendone io mitridaticamente immunizzato: ma sarebbero, inoculati nelli altrui organismi – dei quali non rispondomortali, credo; ed io non pretendo alla virtù di Canidia e della Brinvilliers.

2. Indi, mi suase vicino la voce di velluto, espressione del suo cuore fragrante e sentimentale, d'Innocenzo Cappa, che mi vuol troppo bene e può osare una iperbole, che la mia, superbia ben accetta col suo augurio vittorioso: «È un'VII anima vulcanica fatta di sul Foscolo e sul Carducci. Dal Carducci l'odio, dal Foscolo il dolore e la solitudine. Offro agli italiani il caso spasmodico della sua letteratura, come un sintomo di vita nazionale. Possa la patria meritare che qualcuno si plasmi serenamente su questo aristocratico alunno di Stendhal. Tra gli Arlecchini e i Pulcinella della nostra letteratura sarebbero nati nuovi Bajardi».

Ma già aveva, più in su, anch'egli disegnato il campo chiuso, partito il sole e l'ombra, assicurato il terreno, chiamato spettatori al singolare cimento: «Io6 penso spesso che Gabriele D'Annunzio è il tipo del mentitore eroico. Or bene; Gian Pietro Lucini, che odia intellettualmente l'arte d'annunziana, è il tipo del sincero eroico». Ond'io non aveva che ad accettare la disfida, eccitatami per procura, mallevadore delle parole dell'amico; ciò che oggi assolvo.

3. Se non che dovevasi presto venire ai dettagli, a comparare il modo di fare d'annunziano col mio, a discorrere di tecnica, a far rapporti filologici. Comprenderete, che, trattandosi di letterati in lizza era un vederli armeggiare speditamente, di proposito; era un averli creduti degni di osteggiarsi nella onorevole partita, pari, con pari. Non so se l'avversario mio, tirato pei capelli dal mio primo, potesse chiamarsi contento, o non si credesse diminuito; dal canto mio, la mia generosità era certa di favorirlo con assai cavalleresca cortesia. Si può anche pensare, Tizio, che il mio primo sia assai giovane ed inesperto; comunque, Terenzio Grandi ha osato colla massima sincerità ciò che apparirà un insulto ad Ettore Janni; ma la ragione mi par dell'altro che diede la traccia di unVIII parallelo che può essere continuato e svolto integralmente dalla memore sottigliezza di qualche intenditore.

«Quest'impronta di spontaneità, di sincerità, di spregiudicata, spavalda, eroica sincerità è in tutta l'opera di Lucini. Ci viene alla mente un parallelo, forse non opportuno. Voi sapete che Lucini scrive «a modo suo». Ha, nella sua letteratura, cioè, vocaboli che non sono affatto dell'uso comune. Non già che vogliamo alludere ai vocaboli tecnici, che nelle sue digressioni ampie e frequenti egli sciorina con ricchezza di erudizione, sì da descrivervi, ad esempio, entro la traiettoria sviluppata da un volo di rondine i costumi antichi e recenti della terra d'Egitto, o, se parla del mare, da rievocarvi tutta la flora marina e la vita animale che in mezzo vi ferve, sì da esservi istruttore di botanica e di ittiologia; ma vogliamo dire di termini ch'egli usa con una certa frequenza, quali ipogei, moerri, sciamiti, gaschi, infibulati, affatturati, zagaglie, scede, ecc. ecc., parole scelte a caso, sfogliando; ed inoltre molte ne usa con ortografia propria o seguita da pochi: foliole, ciliato, labra, humorismo, l'immancabile j (i lunga) tra due vocali, delli altri per degli altri, la costruzione di nuovi verbi dato il sostantivo, ecc. Voi sapete anche come Lucini si sia scagliato sovente e violentemente contro il D'Annunzio, che, agli occhi del pubblico che non vuol faticare a studiare od è troppo frettoloso, è egualmente reo di creazione di voci nuove, di uso di voci dimenticate, di costruzioni poetiche personali ed originali. Notate come, per soprappeso, Lucini abbia l'aggravante, di fronte al pubblico misoneista – tutti siamo un po' misoneisti – di usare il verso libero, e dite se non riuscirebbe interessante il parallelo, alla nostra mente affacciatosi, tra questi due imaginifici della moderna poesia italiana. Qui accenniamo solamente di volo, pure affermando, che, per aver sottoposto al piccolo martello della disamina critica molti vocaboli a tutta prima ostici per la novità del suono, li abbiam trovati perfettamente resistenti ai colpi, e la loro composizione ed il loro suono ci parvero indicatissimi ad esprimere le cose ed i momenti psicologici per cui l'autore le usa. Sul D'Annunzio, in correlazione, non possiamo fare, mentre scriviamo, una saggiatura analoga; però il confronto sulle costruzioni generali di entrambi, e sulla intima ossatura della loro poesia, si delinea per noi assai evidente.

«Ricchissimi, entrambi, di lingua italiana; e di conoscenza profonda delle letterature antiche e straniere, e di tutti gli accorgimenti letterari, l'uno il D'Annunzio, ha la capacità, la virtù, la disposizione a sviluppare, con le più svariate tinte, l'atomo di poesia ch'egli afferra nel suo intimo: lo ingrandisce, lo storce, lo piega, lo arrotonda, ne fa un arnese per la pace, per la guerra, per scudo alla virtù, al vizio, indifferente ed elegantissimamente. Lucini, invece, di tutta la ricchezza ch'egli possiede si serve soltanto per manifestare lui, soltanto lui, continuamente: il suo pensiero, le vibrazioni dei suoi nervi, le contrazioni dei suoi muscoli. Egli non si smentisce: non sa, non può smentirsi: signore assoluto e senza riguardi per alcuno espone al sole il brillare delle sue perle di infiniti colori, i suoi «moerri» voluttuosi al tatto, egli grida, bestemmia, sussurra, prega, delira, filosofeggia, come più gli piace, in libertà piena, con sincerità assoluta (Badate: neppur manca la sincerità quando dal fatto reale trae le figurazioni ideali: queste sono semplicemente il fatto visto col diaframma del suo personale temperamento. Così pare definisse anche, il Taine, l'arte). Lucini non si cura di piacere o di non piacere al pubblico: egli non canta pel pubblico, come un'istrione di piazza: egli canta per , per soddisfare l'urgenza delle sue corde vocali, per sentirsi i polmoni alenare con ritmo sano e forte, per il compiacimento dei suoi timpani, per celebrare offici nella sua propria religione. Chi vuole lo segua, se può».

4. Di fatti, l'intenditore non si fece tardare; ecco risponde a battuta al mio ultimo Le Nottole e i Vasi, Enrico CardileIX dalla sua materna Sicilia, dove, giovane, determina tra i suoi, che lo sanno comprendere ed amare, il rinnovamento del gusto e della coscienza non solo letteraria, collo scrivere, ma, quanto vale di più, col vivere dignitosamente bello. Altri rapporti egli trovò e dispose tra l'Abruzzese e me, in determinazione di quella sincerità nel detto e nel fatto senza di cui non vi è poeta, poesia, ma trovasi una bardassa, che diverte, ed una farsa che solletica la comune sensualità de' grossolani.

«Abbiamo un altro vario poeta in Italia, che tutti ben conoscono, il D'Annunzio, multiforme se non multianime: cambia le apparenze di ora in ora, come cambia vestito. Ma, così pure notava il Thovez, la sua diversità di aspetti è soltanto superficiale, è varietà di truccatura; in fondo, quel supersensibile è rimasto sempre un perfetto indifferente, un bel tipo di egoista, innanzi alle profonde e tremende tragedie umane. Per lui misticismo equivale sensualismo, classicismo equivale simbolismo, perchè ha assorbito tutto, o almeno un po' di tutto, dagli altri. La sua cultura eclettica veramente varia e vasta, lo fa parere oggi un mite, domani un violento, oggi un ribelle esacerbato, domani un autocrate reazionario; quistione di momento opportuno, potremmo dire, ma ci limitiamo a concludere che è ben difficile determinare le tendenze autogenetiche o indotte di una psiche varia e superficiale e incerta come quella, a ciò varranno i molti volumi che tuttodì si pubblicano intorno all'abruzzese.

«Invece quest'altro poeta, che è sorto con proclama di onestà e sincerità, Gian Pietro Lucini, grande e misconosciuto avversario della cialtroneria e del farabuttismo letterario e politico d'Italia, è veramente colui il quale, non solamente, come il D'Annunzio, ha un suo guardaroba ben fornito per qualsiasi mascherata d'arte, ma sente tutte le diverse e svariate comprensioni di vita in modo tragico e profondo, e sa quindi rivelare dall'essenzial genio di nostra razza virtù ignote ed elette. In lui il sentimento è sincero e la variazione feconda; ieri come oggi, in tutti gli abiti e in tutte le figurazioni, questo scrittore è sempre uno, coerente, rigido, determinato nella sua opera ben netta, precisa, intesa a preparare l'avvenire».

5. Ora, Tizio, che vorresti di più? Sarebbero bastate molte minori attestazioni ed incitamenti per farmi persuaso del diritto di oppugnare con non magra speranza di vincere. Ma, per chiuderti la bocca, definitivamente, visto che non l'apristi mai, l'aprirai per darmi ragione, ti ho serbato per ultimo, contravenendo all'ordine da me voluto cronologico, il colpo di grazia al tuo mal volere verso di me, vibratoti in pieno petto da Carlo Dossi; l'autorità del quale, perchè morto, è oggi grandissima e di moda, dato che già riodo frasi sue, nel testo altrui, come commendatizie a' loro pensieri. Tizio, tu bofonchii: «L'autorità di Carlo Dossi che ti viene in secreto, privatamente e per lettera! E che non si loderebbe per letteraTaci, cinico, e riconosci in lui la sincerità fatta persona; chè quand'anche dovesse biasimare, o dovesse temere avrebbe pur sempre scritto di me questo. E leggiX.

«Dovrò io condolermi teco della nuova delusione che ti ferì nella tua generosità senza pari e nei tuoi affetti? Ma tu stesso hai superatovalorosamente le prove e te ne sei con tanta filosofia consolato, che le mie parole giungerebbero tarde ed assolutamente oziose. Come le dita di Re Mida, o il «lapis philosophorum», l'animo tuo cambia tutto in oro, e il disinganno e il dolore, stillando dalla tua penna, diventano arte, sapienza, letteratura: «whatever is, is right» ha scritto se non erro il Pope. E la Natura, negandoti il più appariscente de' suoi doni, ti ha acuito, per compenso, o necessaria conseguenza, le facoltà dello spirito; ti ha dato quindi assai più di ciò che ti ha tolto. Strana visione! Mi passano in processione, nel cervello, le imagini dei grandi pensatori, benefattori della umanità e non ne scorgo uno, salvo Gesù, che sia bello secondo il canone dell'arte greca; anzi, pressochè tutte esteticamente appartengono alla bruttezza, e, medicalmente, alla malattia. Ma l'esilità, la deformità, la tisi, l'epilessia, la follia furono le prime cause, furono le mantenitrici ed aumentatrici del loro genio sanissimo. – Se l'uomo va giudicato dalla sua arte, nessuno è meglio costituito e più forte di te. La tua chiara coscienza te lo ha già detto. Comprendo quindi la nube di malinconia ed il lampo di sdegno che ti debbono attraversare, vedendo sulla odierna piazza della Letteraturadove tu passi non avvertito (vero Sovrano in incognito) – i più sfrontati ciarlatani della poesia del giorno vendenti, da cocchi dorati e col «Tirazza» alle spalle e tra la folla che plaude, le loro chimiche combinazioni appena fatte, ma che già sentono il rancido, mercanti senzaI idee, cuore, benchè tengano questo dipinto in grossi colori sovra il panciotto e simulino le altre in una eufonica sonorità che però si arresta all'orecchio. Ma tu, amico, cammina sempre: esci dal mercato della contemporaneità, dove altre plebi, altri catabanchi prenderanno presto il luogo dei presenti, ed il tuo spirito, entrato nei campi dell'avvenire, si troverà circondato da un popolo di anime in te paghe e credenti».

 

***

 

Tra questi, Tizio, non sarai co' tuoi compari; è già troppo che mi ti veda qui, oggi, ai fianchi, amiconemico motteggiatore. Già, sorridi ancora.

Tizio, ti leggo in faccia il desiderio di mortificarmi, la voluttà in sul nascere di dirmi forte a rampogna: «Hai la cornea delli occhi verde d'invidia7; è solo per questo, che, pretestando dei motivi generali, una tua missione personale, ed un tuo millantato obbligo verso quelli che credono in te e ti si affidano, ti scagli contro colui che ti offusca, ti toglie, colla sua grande luce, dalli occhi dei contemporanei, in faccia a cui tu stimi competere, poverino! Confessa anche il tuo peccato di superbia».

Confesserò altro, se ti pare, oltre la mia superbia; e, se tu sei in buona fede, converrai di avere sbagliato ancora. No, non sono invidioso di Gabriele D'Annunzio, quand'anche la sua fortuna superi i suoi meriti, i suoi successi lo ajutano a crescersi e a mantenersi la sua dissipazione. E prima di molti altri verrò a riconoscerne l'ingegno grande e l'attitudine maestrevole, nativa di occuparsi e di maneggiare tutto che si presta all'arte delle parole: ma la sua erudizione è d'imprestito, non ha fatto corpo colla sua emozione; ma egli ci quanto ha ruminato altrove, ed è solo originale nella meridionale caldura e salacità dei sentimenti e delle passioni: imagine lucida per espressa sua sensibilità; ma, dalla serie delle sue sensibilità, dalle sue imagini, non estrae un concetto vitale, una sintesi d'universalità: l'opera sua è una collezione di frammenti senza conclusione, perchè il suo cervello è incapace di creare delle verità e dei concetti nuovi.

Vuoi tu dunque, Tizio, che davanti a questa riconosciuta inferiorità io sia invidioso? Fa il giro, viaggiatore curioso e sagace, di quanto io ho prodotto! Ho dotato la coscienza lirica moderna del suo nuovissimo mezzo d'espressione, non usato prima e pur disusato domani: ciò significa che ho reso possibile rispecchiarla in totalità e bellezza nell'epoca presente: col far ciò ne ho pur indicato il perchè e lo scopo; ho scritto le ragioni fondamentali dell'azione poetica nuova. Ne sorge una filosofia: avanti che il neo-idealismo riassunto, promosso dal Croce e dalle grandi attitudini venisse in sistema a commover li universitari, io aveva già posto le basi di questo nuovo bisogno dello spirito moderno; senza aspettare aura lusingatrice di Francia o di Germania mi era già reso capace di una mia logica etica ed estetica, oggi, racchiuse in formole, da me liberate, prima, in vita, e professate, sì che il mio gesto equivalse sempre alla mia parola. – Domani, lo studioso si imbatterà nella mia Academia, e gli parrà di trovarsi davanti ad un novello Faust disconosciuto dai contemporanei; dentro troverà tanto amore di libertà, e di sincerità, per cui non ho tollerato, tollero, tollererò meno la tirannide popolare la più legittima, come ammetto sacro il dovere alla rivolta, comprendendo umano il diritto alla reazione. Tizio, tu ascolterai allora alcuno pronunciare un giudizio sopra di me di tal fatta: «Fu un anarchico aristocratico utile ai conservatori, perchè solo ne compresero le finalità, che sono di incondizionato e cesareo privilegio». E chi potrà essere condotto al crematorio con seguito di bandiere rosse, potrà venir glossato come un Giuseppe De-Maistre.

O Tizio, vuoi tu dunque che colui, il quale suppone di tanto – e forse a torto – si metta ad invidiare il trionfo di una stagione di un semplice artista, di un uomo dotato di estetiche facoltà rappresentative, ma diseredato di quanto si chiama facoltà creativa ideologica, di pensiero e del modo di rappresentarlo sia in vita, sia in dottrina? Non lo credere; non ti conviene crederlo almeno per salvaguardarti la tua nomea di buon lettore e giudice: non è lecito confondere ed equiparare le virtù, per esempio, di Wagner, colle altre del tenore che si veste provvisoriamente della cotta d'argento del Lohengrin e ne canta le passioni sulle note del maestro. Tra questi e la Natura non v'ha nessuno intermediario; egli la rende con aspetto sempre nuovo alla mente delli astanti; ma il cantante istrione è un semplice mezzo, un magnifico fonografo, ripete, non scopre, canta da' nostri scritti, non trova; il trovatore non è il giullare; il filosofo, non è il gazzettiere; chi scrive per l'emozione di pensiero, non scande versicoli per preparare con maggiori prurigini il coito. O Tizio, sottile a distinguere come un confessore addottrinato di sul Compendium teologiae moralis di Hermann Busembaum, celebre gesuita, dovrai, per quanto restio, ammettere questa mia «Ragione per cui».

«Di modo che» ripiglia Tizio in sul dileggio, «tu ti avvantaggi sulla ragion critica; quanto alla pratica, al costruire, non t'intrichi; bella forza e bella facilità

Non insistere, non mi ci pigli a far catedra; a sermoneggiare non è mio pane; si costruisce mentre si distrugge, come il legionario romano combatteva e dissodava la terra conquistata; metter fuori programmi non è mio costume; li lascio ai futuristi i quali vi bestemiano dentro la logica ed il buon senso divertendomi assai. Oggidì, fare il Messia quando non è ridicolo diventa pericoloso. Posso invece costatare: pare a me che anche pel mio lavoro, i giovani che mi vengono presso possano respirare in una atmosfera più sana e più ossigenata, meglio idonea ai loro polmoni. Questi già vengono a determinare alcuni lati del mio carattere, a definire qualche gesto che aveva appena abbozzato, a completare una mia cadenza lasciata sospesa, o per fretta, o per incuria, o perchè altri, prevedeva, avrebbe meglio risolto.

Mi sembra, intanto, che, sotto altro titolo, con altra intenzione, con diverse ragioni, con talora opposte voci, si siano propagginate, in potenza ed in amore, queste armonie, questi pensieri miei, queste volontà, e si spargano in Italia, corrispondendo al tono della psiche più alacre attuale, perchè abbiano a significarsi, in qualche modo, come indici della nostra coltura, del nostro sentimento, delle nostre speranze. Non ch'io – e tanto meno qui – presuma di espormi, per bazzecole di tornaconto, a magnificar me e le fatiche mie; ma io mi vedo rispecchiato, non so per quale paradosso d'ottica morale, in assai coscienze; io mi sento risuonare in assai estranei istrumenti sull'egual timbro della mia lirica, quasi queste note fossero spiccate da altre campane di diversa capacità, ma forse di una stessa lava di metallo ardente; io mi sento produrre per trasposizioni, chissà anche per illusione soggettiva, in altrettanti cristalli che prendono l'essere ortogonico al mio e si polarizzano sullo stesso asse. E l'ora mia, vado esclamando; la mia lirica canta il momento attuale, che il mio pensiero ha fecondato: non chiedo che il posto più pericoloso, quello che mi fa precedere ad espormi di più, desidero che la gioventù italiana, la quale professa la più grande disciplina nazionale, la maggior arte libera, mi accetti come il responsabile e l'eccitatore per le sue pretese e per le sue conquiste. È contro l'oziosità, l'indifferenza, l'inerzia, la malizia interessata; è contro la viltà e le insaziabili ignoranze dei pensionati governativi e dei mignoni della folla, ch'io mi metto allo sbaraglio.

È necessario che alcuno faccia valere, come sa, il nostro secolo, perchè non sia diffamato dal venturo, se i suoi annalisti vorranno scrivere la storia dalle memorie che loro lasceremo: essi dovranno credere che le generazioni, nate intorno e dopo la conquista di Roma, non siano state semplicemente utilitarie, scettiche, manifatturiere, come appariranno dai volumi del D'Annunzio e del De Amicis, così vagellanti e flosce, come dai romanzi del Fogazzaro; così grette, come si intenderanno dalle concioni dei Ferri e dei Turati. Non solo le fabriche inquinano, oggi, d'utili veleni chimici l'aria sana d'Italia già attentata dai centomila microbii emanati dal dicterio del corpo e delle coscienze, della scienza e della religione tutte professionali; non solo si avvicendano con rosse e nere gagliardie le gesta antifisiche salesiane, ben protette da suggello regiofeminino, colle ferocie guerrafondaje del nazionalismo nostrano, brutta copia di quel francese del Barrès: ma è bene che l'epoca nostra, coll'opera nostra, dia testimonianza anche del gettito gratuito d'amore e di sacrificio, dell'azione costante e pericolosa della verità, della dedizione completa del pensiero e della volontà per le immortali ragioni del vivere nostro: «Alla Bellezza per la Libertà!» Facciamoci vedere nel continuo travaglio di voler esser liberi: ci faremo riconoscere nella funzione maggiore della nostra umana divinità: creare la bellezza immortale.

 

***

 

«Spegni l'entusiasmo, o Lariano guasconeggianteInterrompe Tizio, messo in buon umore, già che è fama sia il misto popolo che abita le sponde e le montagne del Lago di Como un quid di avventurose superbie e di letterarie prerogative da essere assomigliato ai cadetti navarresi: «torna in terra e considera con calma e pratica, come io stesso faccio. Vedimi intanto ben voluto da tutti ed anche da te, a cui sono necessario almeno per figura retorica in questa prefazione che si tramutò in dialogo».

Non mi rimane che accostarmi alla tua comunissima assennatezza ed abbassare il tono profetico del periodo, farmiti alla mano e cercar di invogliarti, con acconcio boniment, a parlar bene anche del presente librattolo. Tu mi farai imparare l'arte del mercante, poi che mi è impossibile usare quella del ciarlatano: tu, che trovi utile dar voti amministrativi e politici, e scrivere con profitto rimuneratore sui fogli informazioni commerciali, marziali e letterarie. Senti, dunque, senza inutile eloquenza: «Approssimativamente puoi, Tizio, presumere coi possibili lettori miei, che cosa mai possa essere questa Antidannunziana, cui que' valentuomini e la mia coscienza mi devolsero in diritto e per investitura, ch'io reputo dovere, non solo, ma incarico: sarà un cibreo di notizie, vecchie, canute e calve e di informazioni fresche ed inedite, di stantii giudizii altrui e nuovissimi e non conformisti apprezzamenti miei, di già letti articoli di gazzetta e di glosse industriose ed originali non ancora apparse in pubblico.

«Il tutto con salsa piccante al sapor rosso, pepe e mostarda pruriginosa, come l'urticaria, inglese; cibo per stomachi forti e palati adusati al tabacco di pipa ed alla grappa valtellinese genuina; qui niente reticenze, niente eufemismo; il dolce appostovi per accrescervi l'aspro e l'amaro, intendendo, più tosto d'essere insincero verso di me, farmi maleducato verso altrui, con evidente sfoggio di jattanza e d'orgoglio. Cosí mi pare oggi far un'altra volta onore alla mia firma il dichiararmi, con antipatica particella avversativa: Antidannunziano non riguardo a lui persona, ma a lui indice e tendenza: credo di obbedire passionatamente all'amore di patria, che, come posso, esprimo non coll'uccidere ma col far vivere; determinarmi, in modo più seguito e completo, in questa mia funzione per l'esercizio della quale mi hanno riconosciuto l'idoneità.

«Ma, per rimettere nello statu quo antea, ogni cosa, state sicuro, infine, ch'io non mi arrogo nessuna autorità nella critica, riputandola un altro e nuovo modo col quale posso rappresentare la mia storia. Andrò dunque a ripetervi com'io abbia vissuto diversamente di Gabriele D'Annunzio; con ciò non intendo di migliorare o d'istruire, azioni che rimangono fuori e lontane dalla mia competenza; bensì, desidero di commuovere8 rendermi, cioè, padrone della sensibilità del mio lettore, accumunarlo alla mia passione, farlo vibrare insieme; però che col godere e col gioire si vivono le opinioni, anzi si assolve senz'altro l'obbligo ed il diritto della nostra esistenza ».

Palazzo di Breglia – 20 Agosto 1912.

 

 





I Le cifre arabiche, che si trovano ad esponente nel testo, si richiamano e si dichiarano alle maggiori Note, che si pongono in calce ad ogni capitolo.



1 G. A. Borgese, Gabriele D'Annunzio, Ricciardi, Napoli 1909. pag. 178, – È anche l'opinione del Gabriellino quando fa al vero ed al nudo l'Ippolito, o il Sebastiano. Mandò a scrivere sui giornali. «Vi sono i Dannunziani e li Antidannunziani, cioè le persone intelligenti e le... altre.» Perfettamente: «Ci sono li sciocchi maliziosi e li Uomini di buon senso



2 Annotazioni et avvertimenti di Girolamo Ruscelli sopra i luoghi difficili et importanti del Furioso, etc, con un pieno Vocabolario per quei che non sanno lettere latine o toscane. – In Venezia, appresso Vincenzo Valgrisi, MCLXI. – Sarà bene che confrontiate questo libro antico, con quest'altro che odora tuttora di recentissima stampa: G. L Passerini Il Vocabolario della poesia D'Annunziana, 1912, Sansoni, Firenze. Ed, un anno dopo, – 1913 – questo buon uomo del Passerini, il quale deve aver proprio nulla di più utile per lui e dilettevole per noi da fare, torna a riepilogare un Vocabolario della prosa dannunziana. A quando il Vocabolario delle intenzioni gabrielline? – Intanto, sentiamone il boniment gratuito che ne fanno i grossi e grassi giornali del regno, trattandosi di un qualche cosa a sora il D'Annunzio.

«Il compilatore, accingendosi al lavoro, oltre allo scopo appunto di aiutare a intendere parola e forme del nostro idioma men consuete o adoperate nella loro meno comune accezione o derivate o foggiate da lui dalle lingue classiche o dalle lingue straniere, si era proposto anche di mostrare la ricchezza linguistica del d'Annunzio «magari agli Accademici della Crusca che ancora non se ne sono accorti». Egli non ha voluto dunque andare più in di proposito. E i due volumi dell'opera, così come sono, riusciranno veramente graditi agli studiosi, e costituiscono una veramente nobile fatica, specie in tempi come questi in cui ciascuno ha la pretesa di esser nato col vocabolario in testa e a chiamar le cose col loro preciso nome si corre ordinariamente il rischio di non esser intesi».



II Milano, Treves, 1894.



III Omaggio offerto a Venezia da G. D'Ann. Firenze, Paggi, 1895.



IV Lucini, Tavola Rotonda, 23 Gennaio, 1903, Napoli.



3 La vantata Grand'Arte, l'arte aristocratica del D'Annunzio, cercando di diventare l'arte per tutti, universale, ritorna alla plebe universitaria e piazzaiuola; egli, che vuol essere il purista ed il cruscante, torna a farsi conservatore. Giovano al fatto le parole di Scarfoglio nel Libro di Don Chisciotte «Chiunque prenda ad osservare le relazioni della nostra misera letteratura colla nostra vile politica, deve necessariamente notare questo fatto: che i moderati in politica sono, in arte, disordinati e plebei, e per contrario, l'aristocrazia delle arti è prediletta da quelli che politicamente fan professione democratica. Non avete mai pensato a questa dotta verità, versando la broda bottegaia della vostra prosa critica sulla poesia oligarchica del Carducci? Io son venuto a questa conclusione per lungo esame dedottivo, di cui la più sicura prova sta nella questione della lingua; questione per ora, sopita ma che non tarderà a svegliarsi con più caldo furore. In questa disputa i fautori della lingua unitaria, dal Manzoni al Bonghi, furono tutti codini, mentre, dal Guerrazzi, al Carducci e ad Alberto Mario, i repubblicani inchinarono sempre al regionalismo della forma.» Ciò vale anche per la lingua unitaria d'annunziana oggi scritta e parlata sulle gazzette e nelle caserme: altro che la vantata aristocrazia!



4 Mi affretto subito a farvi comprendere che questo librattolo è come un mastro scritto a partita doppia, col Dare e l'Avere, secondo l'ortografia computistica de' ragionieri, i quali trovano sempre, specie parlandosi delle amministrazioni governative italiane, il pareggio nel bilancio. Qui invece, tra il Testo e le Note avrete le operazioni della mia critica e le riprove di questa coi relativi documenti; sì che anche ai lettori meno attenti sarà difficile dire che ho mancato di diligenza. Comunque, potrò, secondo il loro pensiero, aver ancora sbagliato, chè voi sapete, come le cifre, quanto le parole, siano delle opinioni.



V Decio Carli, L'Erede, commemorando il Carducci, Tavola Rotonda, 23 febbraio, 1908.



5 Queste parole di Decio Carli, che manifestano il desiderio di volerne sapere di più, mi determinano ad una rettifica per la loro indiscrezione. – È troppo nominare amicizia la breve conoscenza ch'io ebbi col Benelli e col Notari, vanno confusi insieme. – Vidi e parlai con Sem Benelli, avanti ch'egli fosse il ricco e festeggiato trageda d'oggi , quattro o cinque volte, e quando condirigeva «Poesia» col Marinetti, di cui era, credo, il segretario. Poi, egli è salito, colli applausi, coll'onore di regali interviste e di popolari entusiasmi, a sedere sulla cronaca letteraria del paese, mentr'io mi limitava a camminare per una istessa via, col tracciarmela davanti, tra la savana selvaggia che è la odierna società e col percorrerla a tappe, postillate dalle mie opere: ma non tanto, parmi, fui sconosciuto da lui, se ne ebbi questa attestazione, che, come il solito, trascrivo certo non per mio imbarazzo:

«Conoscervi è la mia aspirazione più ardente, ora che ho scorso l'opera vostra bellissima, ora che il vostro carattere mi è balenato a lampi. Noi giovani vi daremo, amico e maestro diletto, quel conforto che nessuno vi ha dato.» Bologna, 14 febbraio 1906. – Chè egli aveva combinato col direttore della Nuova Antologia, un lungo articolo su me e l'opera mia (Milano, 20 marzo 1906) – cui attendo invano, ancora, più pretendo, oggi essendo enorme la distanza che ci separa, per lo meno nel successo di fatto.

Quanto ad Umberto Notari, ciascuno può sapere che non può avvicinarsi, alla sua rumorosità ed alla sua più sostanziosa fortuna, il mio deserto silenziosissimo, accompagnato dal mio costante insuccesso. Vero è ch'io nulla faccio per interromperne le conseguenze, cui non credo pericolose per me ma, altra volta, opportune anche a Notari. Difatti, ecco che il Maiale Nero, composto a Breglia in sul saccheggio sottile della mia biblioteca, ben fornita di quelle rarità bibliografiche, che stupiscono nel suo volume, porta per dedica. «A Vincenzo Morello (Rastignac) che mi spronò, a Gian Pietro Lucini, che mi sostenne; ai due invitti novatori di un Italia pagana e virile dedico questo libro di demolizione di un'Italia chiercuta e bozzotta.» Troppa grazia! Tanto più che quel Rastignac di sopra farebbe dubitare altrui ch'io amassi, come lui, l'assassino Corrado Brando. E però credo che Umberto Notari si sia sbagliato, anche quando nel successivo I Tre Ladri, inscrive sulla prima pagina, in penna: «A Gian Pietro Lucini, maestro di rivolta, con schietta, profonda ammirazione il discepolo Notari. 2-7-1908».



VI Innocenzo Cappa, Lucini, Il Viandante; Milano 27 giugno, 1909, N. 4.



VII Terenzio Grandi, Come canta il Melibeo, La Ragione della Domenica, Torino, 25 Novembre 1911.



6 Innocenzo Cappa, Lucini, Il Viandante, Milano 27 Giugno 1909. N. 4. Sì; l'appostazione è massima per quanto eroica, antica, pure. D'Annunzio e i suoi debbono correre ai ripari; uditelo il millantatore della «Contemplazione della Morte» ultima incarnazione del suo Vautrin poligotta di letteratura. Ha il coraggio di esclamare: «Sincero e puro non dubito della mia sincerità e della mia purità,»! Bum! Ha dietro il caudatario che commenta: il reggi coda è Ettore Janni: (peccato che debba nominar costui ad ogni periodo, quasi Gli faccio un regalo inestimabile in tanta réclame immeritata.) Eccolo l'avvocato di quella sincerità e di quella purezza del Corriere della Sera (e dalli!) 28 settembre 1912. – «Ma dubitarono altri in Italia; Gabriele D'Annunzio non è sincero. E che cosa è dunque la sincerità? Veramente, alcuni ne parlano e pensano come di un'attitudine burocratica (egli chiama burocrazia, l'onestà, tanto per renderla antipatica) che fa pensare a scrivani di notai, i quali credessero, qualche volta, in Dio, e, sempre, nella carta bollata. (Ecco a me non importa che in Dio l'Abruzzese abbia sempre creduto; non fabricava al bambino Gesù i più lussuosi presepi di Pescara? ma son certo che alla carta monetata si sia sempre inchinato; quanto la bollata sempre temette, (vedi l'esilio.) Essi dovrebbero istituire un archivio in cui fossero registrati i traslochi del pensiero dei poeti, (affè l'eufemista! chiama traslochi l'occupazione violenta dell'altrui casa, la violazione di domicilio, alias il plagio) domandare al Parlamento un articolo da aggiungere al codice penale per non lasciar impuniti, nei poeti, il reato di contradizione. (Ma no: bastano quelli che già si numerano, a loro posto, contro i falsificatori dei marchi di fabrica.) Perchè, per loro senza dubbio, ogni nuova disposizione d'animo d'uno scrittore deve essere accompagnata da un certificato di buona condotta (eccellente idea: certificato di moralità letteraria; veh! chi mi precede!) ed ogni diverso atteggiamento deve recar l'atto di nascita, colla prova vidimata d'un paternità leggittima e regolare». Precisamente: la vita di un poeta deve essere il documento storico della propria opera; deve attestarla. Aspetto dunque D'Annunzio alla Trappa: se gli gioverà, sarà frate irrequieto: noi notiamo che può giungere la sua sincerità anche a questo dopo aver bestemiato Cristo nelle Laudi. Ma non io lo imputerò di contradizione: si contradirebbe il che fosse sincero. «O rinnovarsi o morire» la formola gli il diritto di far il dilettante, su tutto e per tutto e di non credere nemmeno a stesso: per provarcelo dovrebbe scomparire. Ma che le bugie hanno le gambe corte, e se non la sa, dirò io al Janni la ragione per cui il D'Annunzio si è convertito, oltre all'altra da lui accennata ironicamente: «Qualcuno si è spinto ad accusare lo scrittore di aver, fiutando il passaggio della moda, dato un tuffo nella letteratura spiritualista, perchè, oggi, la prosa sollevata da un lievito di inquietudine religiosa è divenuta un buon «articolo» nel commercio librario.» Sì: il buon Pescarese, si sente approssimare a Cristo ed al cattolicesimo alla morte di Giovanni Pascoli e di Adolfo Bermond, perchè Maurice Barrès, l'antipaticissimo genialoide verde di bile e pallido di sussiego; il quale testò vociò l'inutile requisitoria postuma contro Rousseau, si era già convertito per la morte di Demange. È fatale, come il poeta italiano giunga sempre buon secondo nelle parole e nelle gesta. Ma i cattolici di Francia bevono meno grosso del Janni, e metton in quarantena l'involuzione dell'exanarchico di Berenice. Un amico intimo di Paul Claudel può scrivere a Bernardin una lettera che il fascicolo di Agosto 1912 di Les Entretiens Idéaliste pubblica; dove, parlandosi contro il Barrès è come si sermoneggiasse il nostro D'Annunzio: traduco: «Oggi giorno, quando per una sorta di bestemia, torna il cattolicesimo alla moda, bisogna aver paura delle conversioni letterarie. Fui io pure colpito dal mutamento di Barrès, avvenuto alla morte di Demange. Può darsi che da qui si possa partire, con saggia meditazione, a raggiungere il cattolicismo; ma la vita di Barrès non segno alcuno di fede. Alli occhi miei, che non sono angelici o non vedono che le apparenze, la conversione di Barrès (e di D'Annunzio?) è la cosa più difficile di questo mondo. Pensate che il primo atto religioso è rinunciarsi e noi abbiamo davanti a noi l'uomo del culto dell'io, di cui il volume recente (le Greco) magnifica i postulati. Quando Barrès sarà veramennte convertito, lo sapremo da questo semplicemente: avrà rinnegata tutta l'opera sua». Anch'io. «Quando D'Annunzio sarà sinceramente cattolico, avrà bruciato tutti i suoi volumi con spontaneo auto da : ed allora può essere sicuro che non avrà vicino nessun discepolo – come Boccaccio – che gli salverà dalle pie fiamme un esemplare d'ogni libretto; perchè anche tutte le mode letterarie non opereranno più, e, chi ha oggi torto, avrà ragione».



VIII Enrico Cardile, Arte di Decadenza, Cronache Letterarie, Genova, 15 Settembre, 1912.



IX Carlo Dossi, lettera inedita, Corbetta 8 Giugno 1903, a Lucini.



X Tizio, non si potrebbe meglio, con minori parole, determinare l'opera d'annunziana.



I Prato, Tipografia Giacchetti, 1879.



7 Il Borgese, il quale dice, come scrissi, delle cose assennate, in modo disagradevole a pagina 178 del suo Gabriele d'Annunzio messosi a lodarne si addestra anche all'ingiuria, non specificata personale, ma argomentativa ed in aspettazione. E qualcuno non ha vergogna di confessare pubblicamente, e in prosa, e in versi, la sua laida invidia e la sua ridicola speranza. «Ej? El parla con mi. Ch'el guarda che 'l se sbaglia.» Gli risponderebbe il Meneghino. Ma dove è bocca d'oro, è quando fa del D'Annunzio il succedaneo autore a quelli del Tempietto di Venere, ben accolto dai giovinetti che leggono (pag. 195) tra una pagina e l'altra di questo manualetto erotico, i capitoli de' I figli del Capitano Grant, perchè soddisfacessero alle imaginarie cupidigie dell'adolescente, alla sua libidine solitaria, alla sua inerte e sfacciata ambizione; passatempo onanistico ed ebefrenico. To', gli fa un gran bel servizio, gli fa! È più irriverente il Borgese presso il Divo, che il sottoscritto: sostituirlo, istrumento passivo di piacere, a quello rappresentato, pel ginnasialino incontinente, dalla baldracca tariffata? A quale conseguenza arriva, senza volerlo, lo stile d'annunziano, sotto la penna di un professore di letteratura tedesca. Sì che, contro di lui, un reggi coda un lecca piatti, proprio di casa editrice: «Impertinenteurla. Che?! E a me, lallino?



8 Sarà bene intenderci una volta per tutte, su quanto io intendo colla parola: commuovere, quando l'uso ad attributo specifico dell'humorismo. Commuovere significa, in questo caso, convincere, non coll'azione della logica e del ragionamento, si bene dell'affetto. È l'affetto che si fa ragione, che sorpassa stesso, e colla sua passionalità, rende chiarissimo alla mente un concetto astruso o nuovo. Commuovere = venire insieme a considerare istessamente un dato oggetto, un dato fenomeno. Qualcuno può usare, ed impropriamente, intuire. No: nell'intuire esiste lo sforzo non avvertito di una riflessione: nel commuovere si ha la funzione intellettiva e sentimentale. Del resto, anche il sentimento è un effetto della intelligenza, mentre appare una delicatezza ed una affinità, un potere insieme: azione riflessa del cuore sul cervello è qui nel sentimento, cioè, nel comprendere con amore; chè l'intelligenza umana, nel mentre aumenta le proprie conoscenze, le completa con un fatto di passione e le mette in movimento come efficenze cordiali, cioè si commove, opera, viene all'incontro del suggeritore, approva il suo consiglio. È questo commuovere che, co' miei fratelli humoristi, pretendo e non cerco di più da' miei lettori.



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