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«Il frutto primaticcio ha molte virtù, assai valori costanti; ma un inconveniente: è riconosciuto soltanto dal buongustaio sollecito ed attento. Quando tutti mangiano di quelle poma, alla stagione ad hoc, tutti ne parlano pure; della prima che maturò foriera, silenzio; sinchè il buongustaio non biasimi l'errore. – Avviene così dei precursori in critica; perchè facciano storia, debbono venir autenticati dalli altri, almeno, dieci anni dopo, quando più cauti, più pratici, più lenti, col ricopiarli danno loro ragione».
Oldrado, Quelli che verranno dopo.
... Quand'ecco la mia completa conoscenza col D'Annunzio di dentro e di fuori, senza sottintesi, senza limitazioni senza interessi che me ne potessero diminuire, o falsare, o corrompere la visione del generale e del particolare si trovò a corrispondere esattamente colla lettura attenta e seguita delle sue Laudi. Quegli, raccogliendo poesie e pagine sparse, assoggettandole ad un ordine ideologico vago, riempiendo il vuoto di descrizioni e di psicologie intime, riallacciando il tutto col vincastro di una speciale filosofia male assorbita, e che al poeta parve, allora, di moda e duratura, acconsentì a dar fuori in due volumi il suo maggior sforzo poetico ed a pretendere su questo la privativa eccezionale col primato della Lirica italiana.
Perchè due sono i volumi sino ad ora apparsi delle Laudi e formano Tre libri: il primo di Maja, venne pur accolto nel primo volume, ed uscì il 1903, il secondo ed il terzo di Elettra ed Alcione, formarono l'altro, apparso nel 1904. Sette in tutto, del resto, avrebbero dovuto essere, come furono annunciati, i Canti delle Laudi; Merope intanto, poichè si era già trovato questo nome, servì a coprire, poco fa, le nove-dieci nominative Canzoni delle gesta d'oltre mare: Taigete – Asterope1 – Celene si desiderano ancora. Io, naturalmente, subito a perseguitar quelli stampati, a mano, a mano, si facevano conoscere, con una serie di articoli su l'Italia pel Popolo milanese, in questa successione: – 25 giugno, 10 luglio, 24 luglio, 25 luglio 1903 – 29 febbraio, 1 marzo, 18 aprile, 19 aprile 1904.
Avventurate furono le Laudi; vennero scritte dal loro autore in un momento felice della sua vena e nella piena facoltà del suo orgoglio: egli si riteneva despota di poesia ed aveva di fresco vinto l'astiosità, che la democrazia gli aveva contra posto; di più, una armoniosa facilità di vita lo involgeva, in un ambiente che egli stesso si era fabricato, in un decoro suggestivo di paesaggi e di mobiglio a lui caro, accomandato dalla potestà di Eleonora Duse2 dalle bianche mani, Ninfa Egeria di questo Numa, giovane indigeto di Lirica, sicuro del trionfo. – Le scriveva, così, di lena, confortato, sicuro, in pieno orgasmo e voluttà di riversarsi nel verso multiplo ed amorfo, spesso, credendosi, pel secolo, un distributore di energia estetica, di filosofia lirica universale, di dionisiaca3 felicità.
Parvero alla critica ed al pubblico, grossi ambedue, un'opera audace, che rompeva colle tradizioni, e, nel medesimo tempo le autenticava; in ogni modo, una poesia oltre le consuetudini ed oltre lo stesso temperamento d'annunziano; il quale ci aveva abituati prima a ben altro di meno vigoroso e di più vacuo. I versi d'annunziani uccellavano al punto, colla loro venustà spavalda apparsa spontanea, li intenditori di superficie – cioè, i gazzettieri, quelli a cui è confidato il privilegio e la privativa di dirigere, colla propria ignoranza, l'opinione pubblica e accordar la fama ai contemporanei; – le grazie trucolente e nude dell'Abruzzese avevano fatto tal colpo sopra i sensi abusati dei diversi Areopagiti delle Academie nostrane, che, subito, per lui, corsero alle similitudini maggiori, ai raffronti massimi: per esempio: a Dante!
Essi avevano creduto d'aver a che fare con una forza giovane, fiera ed originale4. Vedevano in lui un rinnovatore; da lui, questa primavera nervosa ed impetuosa avrebbe miracolato in adolescenza la stanchezza della stirpe e della poesia, che languivano tra le minuterie fanciullesche di Pascoli ed il silenzio vecchio di Carducci. Si ritornava per lui al classicismo nascente del rinascimento, dopo che Carducci ci aveva rimesso nella romanità di imprestito; quest'angiolo luciferino annunciava, non solo l'aurora, ma il mezzo giorno, per quanto sfoggiato, ancora fresco e limpido come quello d'estate in sulle colline toscane. Già: costui aveva trovato, per la giovane nazione, in un febrile e grandiloquente ritorno al passato, la coscienza lirica italiana; oggi, lo si doveva udire, con maraviglia ed orgoglio, cantare per tutti; dalla sua bocca, nel suo inno, si dovevano percepire, fusi e composti, i motivi essenziali della lirica di un pieno secolo, rimessi in contatto colla necessità attuale; noi avevamo il continuatore esatto di Foscolo, di Monti, di Leopardi, di Manzoni; il discepolo puro di Carducci; e tutti questi egli aveva superato, virtuosamente, con una straordinaria elasticità, con una ricchezza malleabile e duttile all'infinito, riassumendoli, riproponendoli con tono ed indole personale, con determinazione universale.
Questi poveri uomini universitari, ben pagati dai giornali dove si può, non si accorgevano di aver torto: di aver cioè davanti a loro un piccolo specchio di Murano antico, col mercurio dietro screpolato e rappreso, dal cristallo qua e là fluorescente e verdastro; il quale, a capriccio della sua poca levigata superficie, rifletteva le evoluzioni poetiche che andavano succedendosi oltre le Alpi: Parnassiens – Symbolistes – Intimistes – Verslibristes – Esthètes – etcc... – Noi qui avevamo davanti un bel campione di virtuosità; dalla culla, si poteva dire, egli aveva avuto l'esperienza della prosodia; li accenti necessarii e tonici dell'endecasillabo classico gli erano famigliari dalli incunabili; l'abitudine dell'orecchiare una frase su di un tonoII d'ottonario si era fatto sentire ad ogni risposta alla madre od alla nutrice; egli sapeva domare la rima pericolosa al giuoco del sonetto; allineare, una dopo l'altre, le parole insigni alla felicità di poter dire l'inesprimibile, tutte le cose che esistono e quelle altre che non vivono che nella imaginazione; egli, sopra tutto, era ebro della lettura de' suoi colleghi di altra patria e lingua; tanto ubriaco e pieno, che ne doveva, senza sapere, dionisiacamente recere, se volesse, per avventura, emularli, ed intinto, sentiva di tutti i vini generosissimi e famosi che conserva la fresca cantina della letteratura indoeuropea. Intanto, egli – il Poeta – sapeva anche – il romanticismo; ma se ne era, invano, contagiato oltre alla spessa epidermide del naturalismo infrancesato, – intanto il Poeta pretendeva di sapere che cosa egli rappresentasse: egli era colui che pensava, sofriva, difendeva un ideale, adorava la Bellezza; era colui dalle massime ed ottime pretenzioni, il forsennato della chitarra, il modesto oltre la superbia; il signore che viene, per cui il Maestro aveva incitato il popolo d'Italia a preparare le vie; il ricalcatore, cioè, avido del genio delli inventori; sicchè, non potendone avere, cercava di imitarne i risultati maravigliosi col, semplicemente, impadronirsene.
Munito, adunque, di codeste facilità, presumendosi tal uomo genioso ed universale, creduto appunto dalli altri che subito si lasciarono uccellare dal suo apparato; l'industriale di poesia, sollecito, rispose al luogo comune del suo tempo, col luogo comune della sua lirica; si espose con Le Laudi. Gabriele d'Annunzio ha volto qui la sua preoccupazione al titolo delle sue distinte composizioni: ha creduto che il titolo e le grandi e ricche parole contenute nei versi bastassero a rendere eterni alcuni momenti transitorii e comunissimi dell'animo suo poetico, come dovessero illustrare la più plateale delle modernità col darle tono classico, o falsa ingenuità primitiva.
Egli, che aveva sottoposto alla prova del minimo comun denominatore della propria e mal nutrita intelligenza – filosoficamente parlando – le cose ed i sentimenti di un eclettismo di maniera, racimolato nei verzieri e nelle arti della letteratura indo-europea, aveva pur creduto di essere suscettibile di donare una fusione omogenea, un timbro speciale e personale a tutti i suoi imprestiti, non onerosi ma violenti, sì che vi risultasse la maschera del Signore che viene. Aveva presunto troppo dalle sue forze; aggravò, col fatto, l'inutilità fondamentale della sua produzione, scegliendo, e, dall'una parte, dei soggetti che esorbitavano al nostro tempo ed alla sua competenza, quindi erano lontani dal nostro interesse: e, dall'altra, col prendere dalla vita moderna materia all'ispirazione nei fatti più caduchi e meno nobili, quelli, cioè, che si riferivano alla sua vita propria, stimolata e dal desiderio e dalla lussuria e dalla sua morbosa frigidità passionale, che, per aver pace, ricorre all'inversione. Sicchè un poeta; il quale, ricorrendo alla ambiguità dell'Androgino, là, pone la bellezza, non solo attesta la sua patologia fisica, ma la sua incapacità; però che non sa dire la bellezza più sana, che ha uno scopo ed una retta funzione, quella che attesta l'immortalità della specie umana, per essere la generosa, che, fecondata, produce, e, colle sue nuove creature, inesausta, raggiunge, dal finito, l'infinito.
Da tutto, D'Annunzio, senza saper scernere dove tributare la sua copiosa versabilità versajuola, fece o credè fare l'eternità; ma i soggetti disparati e spesse volte ignobili contagiarono della loro caduca decadenza questo onore del perenne, come le moltissime canaglie decorate de' molti ordini cavallereschi, passeggianti per la patria, infamano le insegne d'onore che son divenute il marchio di una viltà, di un ruffianesimo, di un reato felicemente eseguito in barba alle leggi e profittevole a coloro stessi cui le leggi amministrano. Il Pescarese non ha, nè poteva avere, fondamentalmente, il dono meraviglioso per cui si assicura al poema una significazione sul mondo unica e topica, per la quale è certa la immortalità, ossia la sequenza operante e fattiva del suo esempio e della sua influenza nell'avvenire. In lui, simile in ciò alli altri suoi colleghi dell'epoca, fu sempre morto l'Eterno poetico didimeo, senza del quale non può esistere, in Italia, ragione di lirica, soferenza di poema, divinità di poesia, a risposta del cittadino, dell'italiano, dell'uomo contemporaneo, fratello nostro, amico e nemico.
D'Annunzio aveva creduto, argomentando sull'esempio dei maestri passati, ch'egli conosce in superficie, di abbarbagliarci colla forma, di non illuminarci colle idee: cadde nei due eccessi contrarii, e, nella esagerata nomenclatura nobilissima per cose, fatti, sentimenti minimi per loro stessi trascurabili, quando non ignobili, e, nel ritentare i temi frusti e logori della grande poesia, senza una novissima ed originale forza di invenzione, ripetendo i luoghi comuni della prosodia, che i nostri maggiori avevano già tutti perfetti e conchiusi.
Donde Le Laudi furono una raccolta di poesie d'occasione, in cui il sonetto funerario si gomita colla ballata, scritta in onore di un quadro o di una amante; dove l'azzardo della vicinanza è voluto dalle assonanze capricciose, o da un viziato giro di pensiero; dove è nulla la concezione generale, per cui vive un poema, si determina una azione viva, si avvicendano ragioni e volontà, si esprimono originali psicologie; ma è tutto una certa sequenza melodica e monotona, un certo metodo mecanico e dialettico, una certa didattica verbosa e precisa, e per quanto preziosa e realistica, superficiale: dove, infine, nè la compattezza di una sintesi, nè la acuta misura di una analisi, nè l'erompere vaticinante della intuizione, fatta visione di prescienza, possono scusare le ineguaglianze, le disformità, l'imparaticcio, la mole indigesta della accozzaglia, che di quell'opera vantata come un effettivo poema, fuso in una colata di bronzo unico e preziosissimo, fanno un centone secentesco, se non uguale, certo inferiore a L'Academia in Brenta di un faticoso Arcade operante, e meno nobile di le mariniste Zampogna e Galleria.
Ma tant'è: i nostri e suoi contemporanei, in sulle prime sviati, intontiti dal pum pum e dalla gibigianna, lo presero sul serio: ed il poeta ad esserne, prima di loro, persuaso: sì che al primo fischio, con cui si accolse Più che l'amore, il Dante novellino insorse contro l'audacia vergognosa ed attestò di sè stesso e delle Laudi «Il primo poema totale ecc.., che dopo la Comedia...» non accorgendosi di essere egli stesso, nel pronunciar la sentenza, un deplorevole svergognato per eccesso di vanità. Con questo paradigma egli dava il la ai suoi critici migliori, dopo d'averlo, a sua volta, ricevuto dal Croce, di sulle pagine di La Critica5.
Furono ne varietur, le parole sacramentali; G. A. Borgese6 le seguiterà, svolgendone il significato: «Come la Divina Commedia, è il più sublime proclama dello spirito, così la Laus Vitae è la più colossale dichiarazione dei diritti della materia. Ecco, è una Divina Commedia capovolta; nella storia della letteratura moderna essa occupa incontestabilmente l'altro polo». Sè, è la Bestialità trionfante a parole. – Non diversamente credeva di catalogarla Enrico Thovez: «Il poema della Laus vitae è il maggior sforzo di ingegno, che, dalla Divina Commedia in poi, sia stato compiuto nella poesia italiana; perchè, in arditezza formale supera anche la riforma del Leopardi. Gabriele d'Annunzio attuò ciò che il Leopardi non potè che iniziare, ciò che il Carducci non comprese, ciò che nessuno cercò, se non qualche seccatore, che la critica si affrettò a stroncare ed a sopprimere, perchè non desse noia: vide che la lirica moderna, che volesse aver dignità tragica, doveva rifarsi dai greci. Ma il D'Annunzio se ne accorse a quarant'anni, per svegliatezza ed irrequietezza di intelligenza, non vi giunse per bisogno irrefrenibile del cuore e per istinto; tanto è vero che vi arrivò dopo essersi beatamente compiaciuto per vent'anni di tutte le forme più retoricamente ornamentali di cui possa gioire un virtuoso del meccanismo. Aveva tentato tutte le vie: non è meraviglia che abbia, per ultimo, scoperto la buona, e compiuta la riforma che avrebbe attuata il Leopardi, se fosse rivissuto ai nostri giorni» pag. 348.7
Ed anche il più misurato il più compito e sicuro critico d'annunziano, Alfredo Gargiulo, si lascia sviare dal già detto prima dalli altri; perde la sua fredda compostezza, viene ad essere riscaldato, per induzione, dal giudizio favorevole delli altri, pronuncia, in fatti, dopo aver condannato in dettaglio il suo autore, l'assoluzione generale; contrastando, così, colle premesse termìna, nella Conclusione8, il suo libro: «Il grande lirico – paesista Gabriele D'Annunzio andrà collocato nell'ambiente immenso della storia universale della poesia9». Le parole del Gargiulo vanno, forse, oltre l'intenzione di lui, perchè il paesista contrasta col lirico: ed io ben volentieri, mi affretto a mettermi a fianco di Carducci, il quale odiava i parrucchieri in poesia ed i descrittori in prosa: un lirico paesista di tono d'annunziano rientra, in fatti, in queste categorie e le riassume.
Naturalmente, dai libri, questo giudizio decorse subito nelle conferenze; ed ora è Uberto Lagardelle, uno de' capi del socialismo intellettuale francese, che appaja, in un suo discorso tenuto nella sala della Società di Geografia, le Laudi alle Leggende dei secoli di Victor Hugo, però che quelle sono, per l'oratore, l'espressione totale e completa del genio10 di D'Annunzio; ed ora, è l'avvocato Enzo Ferrari, che, terminando un suo ciclo di conferenze all'Università popolare milanese sul nostro, nel febbraio 1913, esaltò Le Laudi come quelle che costituiscono il centro poderoso della sua creazione.
Se non che vi furono dei taciti, per prudenza, precoci e de' precocissimi chiacchieroni, per ispavalderia, che non furono e non sono della opinione generalmente accettata sulle Laudi. I chiacchieroni – tra cui il sottoscritto – lo dissero subito e non se ne pentono. Essi avevano meglio strologato il tempo velocissimo, che corre ed incalza, e saggiato a questa vertigine la resistenza del bronzo d'annunziano: l'attrito lo roventava, indi, lo liquifaceva; la bella plastica si sformava; le altre ingiurie di una decrepitezza insolitamente rapida terminavano per danneggiarlo irreparabilmente. L'indice nobile e generoso dell'anima nazionale italiana segnava altri viaggi ideali, si volgeva per altre vie più difficili e meno egoistiche; anzi, in nome dello stesso egoismo della felicità, si adattava alla gioia maggiore e più produttiva del sacrificio. Questo valore si determina in possanza di lirica, che, al solo apparire, aveva fatto, come le trombe a Gerico, cadere la turris eburnea del dilettantismo cronico ed estetico. Oggi più importa dir fatti e cose, cantar la propria grande passione, con urla e strida, necessarie perchè sincere, che lambiccar, sui modi cruschevoli, il sonettino. Nell'impresa d'azione venivano rimessi lontani anche li ingombranti paradigma di Carducci e di Pascoli; a maggior diritto i poemi d'annunziani non rispondevano più all'anima nuova d'Italia, piena di più intensi bisogni, compresa di tutt'altro lirismo disordinato, d'altri orgogli creatori, di più esigenti energie libertarie. Ogni cosa si è, al nostro contatto trasformatore, umanizzata; e noi abbiamo ritrovato, più tosto che un panteismo, la plurima ed immortale divinità di tutte le cose; le quali formano un'unica coscienza, in un unico vivente. Che importava a noi codesto prete di vecchissimo rito, venuto poco fa ad officiare, nel suo tempio meticoloso e translucido, le sue dubie e tormentose divinità minutine e trasparenti? Come tutto ciò è lontano: oggi, la messa d'annunziana è deserta; o più tosto accorresi dove urla e schiamazza il futurista; il quale per quanto venuto da lui, ha, senza forse averlo voluto, deviato verso il meeting della piazza tumultuante, per bagnarvisi e confortare il suo egoismo, coll'egoismo di tutti; pel qual battesimo può comprendere molte cose che turbarono sempre, ma non furono mai comprese dal D'Annunzio, superato.
Ecco i giovani: le vie preparate per il signore che viene sono occupate da questa falange confusa ed in rissa, ma che si avanza. Le Laudi non sono più; i giovani hanno ripreso i loro temi fondamentali, in nebulosa nei versi del Pescarese, per metterli al contatto della realtà; il risultato è La lirica dell'Energia che è ben oltre della Energheja: D'Annunzio accorse il momento pericoloso e sferrò Le canzoni della gesta d'oltremare, dove tutto ha perduto ed anche la rima. Il tedio di lui è palese; e, mentre lo sopportano come merce sul mercato dei libri, lo si è bandito dalla nostra consuetudine: le sue Laudi sono orribilmente vecchie e grinzose, e tanto più ridicole, in quanto vestite così lussuosamente sopra le antiche ed usate grazie della persona sfatta e macilenta. Quando poi vennero saggiate dalla prova più severa e più pericolosa, per cui possa trascorrere un poema, apparvero, come sono, on nigottin d'or ligaa in argent.
È la traduzione pietra di paragone della poesia: qui la sua essenziale bontà è riconosciuta, quando i versi che la esprimono, tradotti in altra lingua, conservano tutto il sapore della commozione, della ideazione, del tumulto genuino, e per quanto più smunti e più sciapi nella forma e nelle imagini, chè nel sermone non proprio mal li vestono, si fan sentire colla medesima intensità nativa. Che accade, se per esempio, la poesia d'annunziana in genere e qualche laude in particolare è volta in francese? Si dà luogo ad una breve polemica tra Ricciotto Canudo e l'ottimo Hérelle.
Lamentò Ricciotto Canudo di sul Mercure de France 1 luglio 1912 N. 361. «Si notò con istupore come l'apparire di un volume di Poësie d'annunziane, tradotte dall'HérelleIII non abbia arrecato, in Francia, nessuna nuova gloria all'autore di Canto Novo. Egli, che era stato quasi sconosciuto, come poeta lirico, al di qua delle Alpi, tale rimase. Se ne può imputare l'insuccesso al traduttore, M. Hérelle; che è infatti un traduttore assai libero di ritmi lirici, per quanto sia eccellente per i romanzi del suo autore. Ciò accorgemmo già dalla Fille de Jorio, in cui la nobiltà lirica del D'Annunzio disparve nella trasposizione francese. Ora, M. Hérelle, che è più tosto un erudito che un poeta, non ha accorto che il lirismo d'annunziano ha profonde radici evidentissime ed irrefutabili con tutta la poesia francese contemporanea, la quale l'inspirò di continuo, e, che per questo, avrebbe dovuto essere reso in francese da un poeta in comunione intima e diretta colli ultimi quarant'anni letterari e poetici di Francia. Sarà, un dì, facile mostrare come e quanto M. Hérelle si allontanò dalla lirica d'annunziana. Intanto, è triste dover constatare, come, oggi, questa già attesa con ansia pubblicazione, non dia per nulla la rivelazione del poeta italiano, come pretendevamo di averla. Per ciò, non reca maraviglia il sapere che M. D'Annunzio sia divenuto librettista di Mascagni».
Se non che l'ottimo Hérelle non volle rimanere sotto l'accusa di aver diminuito, colla sua inettitudine, l'opera dell'amico. Nò; la ragione della mancata rivelazione di grandissimo poeta universale non dipendeva da lui. Così, il traduttore mostrò a richiesta il ben servito del poeta e se ne vantò: come è logico e giusto risposeIV:
«M. Ricciotto Canudo, fa sapere, con una notizia pubblicata nell'ultimo numero del Mercure de France, (N.ro 361) com'egli non apprezzi affatto la traduzione mia delle Poesie di G. D'Annunzio. Ne ha il diritto. D'altra parte mi consolo con piacere, pensando che l'autore – poeta fu più indulgente di lui; da che egli mi scrisse: «La vostra traduzione mi incanta... Voi avete potuto far questo prodigio: dare un'idea dei ritmi in alcune liriche difficili del Poema paradisiaco».
«M. Ricciotto Canudo prosegue «accusandomi di essere un traduttore assai libero».
«Di questo rimprovero io avrei maggior dolore se credessi di meritarmelo. Ma, al contrario: le traduzioni mie delle opere di G. D'Annunzio sono letterali, e, se si riscontrano qua e là delle parole mutate, qualche riga soppressa o cambiata, ciò venne fatto dall'autore medesimo. Ed anche son certo, che, se si aggiungessero l'una all'altra le eliminazioni fatte nei dieci volumi delle mie traduzioni, non farebbero insieme dieci pagine».
Ma perchè Ricciotto Canudo, che in fondo è buon estimatore di poesia sia francese che Italiana, non trova più il suo D'Annunzio quando è tradotto? Hérelle si è messo fuori causa coll'elogio indiscutibile che gli ha dedicato l'autore; non vi è ora che quest'ultimo sulla pedana. A lui dunque la colpa, egregio Canudo: la prova della traduzione aveva operato anche sulla lirica d'annunziana; in francese essa risuona ben altrimenti: non è più, nè meno, che «onI nigottin d'or ligaa in argent»; è quella tal lirica degna da far da libretto d'opera alla musica di Mascagni; di quel tal Mascagni, che l'aristocrazia intellettuale del Pescarese chiamò un dì sprezzantemente «Il capo banda». Ma tutti e due, in grande odierna amicizia, hanno tanto stomaco da struzzo da trangugiarsi reciprocamente questo ed altro.
Ed allora, se ritorniamo a noi, cioè, se leggeremo queste, che seguono, pagine, in cui si dissero, a richiesta delle Laudi appene uscite, le nostre opinioni, non vi troveremo già scoperte – e ci tengo – otto e nove anni prima – queste verità d'ordine generale, che oggi solo, a poco a poco, vengono ad applicarsi sulla poesia d'annunziana, in azione di reagenti e di depuranti, di perfetti lambicchi critici, di distillativi squisiti per essenze nobili e profumi?
Sì; anche per me i due volumi delle Laudi rappresentano il maggior sforzo lirico ed il maggior risultato intellettuale di D'Annunzio; e però, passandole a giudizio, ed avendone abilitato alla vita poetica e futura ben poche poesie, pur implicitamente, credo, a forziori di aver formulato un giudizio negativo su tutto il resto dell'opera sua. Oggi, collazionando que' miei articoli, in sulle critiche maggiori de' valentuomini che se ne intendono, noi ci incontreremo spesso in accordo; ciò che mi fa piacere, avvalorando la ragionevolezza del mio assunto da quelli partecipato.
Voi li avete inanzi come furono scritti allora: le lunghe note, che li accompagnano, sono di questi giorni e non vi dispiaceranno, aggiungendovi un maggior contributo di notizie e di varietà; per le quali, spero si maggiorerà il mio saggio, vero piatto forte di questa trucolenta imbandigione d'annunziana.
«All'ora del pasto, Rocco suonava la campanella – un'antica campanella di bronzo che aveva forse segnato, in qualche vecchio chiostro, l'ora della preghiera per chiamarci a tavola. Qualunque cosa stessi facendo, io mi precipitavo nel refettorio al primo squillo; ma il mio Ospite, assorto nel suo lavoro, quasi sempre indugiava. Allora Rocco, con infinita cautela, si accostava all'uscio dello studio per vedere, dalla faccia del padrone, se fosse il caso di ripetere o no la scampanata, «Scrive!» egli diceva voltandosi verso me, che seguivo con impazienza i suoi approcci prudenti; e dopo un poco sapendomi capace, quando l'appetito mi stimolava, d'ogni più irrispettosa trasgressione della regola monastica, picchiava qualche timido colpetto sull'uscio nella speranza che il suo signore intendesse. Non di rado anche questo appello era vano; ed io finivo con lo spazientirmi; mi afferravo alla corda della campanella, e giù, a distesa, mentre il povero Rocco, facendo un viso stralunato, mi supplicava con grandi gesti di desistere dal sacrilegio.
«Finalmente l'Ospite interrompeva la sua fatica. Uscendo egli dallo studio, pareva essersi svegliato allora allora da un sonno profondo: la sua faccia era quasi velata, i suoi occhi non avevano sguardo. Ma non appena seduto a mensa, quella specie di nebbia, da cui sembravano alterate le linee normali del suo volto, si dissipava, ed egli, che aveva fin lì rivissuta l'età omerica a tavolino, sapeva riviverla anche a tavola, divorando le sue costolette di vitello con lo stesso formidabile appetito con cui divorava Aiace i pingui capretti nei pasti, lungo il risonante mare.
«Terminato il pranzo si passava in una sala detta della musica, dove si faceva un po' di conversazione, distesi su un ampio divano coperto di cuscini: e in quella comoda giacitura, egli stanco del lavoro, io dei giuochi, si finiva a poco a poco con l'addormentarci. Riaprendo gli occhi dopo un poco, ridevamo d'esserci assopiti e ridestati nello stesso tempo e di ritrovarci, l'uno di contro all'altro sul divano, nella medesima posizione. Poi, mi congedavo dall'Ospite con un abbraccio, e salivo a continuare il sonno nella mia stanza. L'Ospite rientrava lentamente nello studio, per rimanervi a vegliare fina all'alba su le sue carte». – Vi è da fare una piccola osservazione d'ordine interno, famigliare; è curioso come un figlio non nomini mai suo padre col proprio e caro nome di padre: voi vi incontrate sempre nell'Ospite, naturalmente, coll'O maiuscola. – Che il poeta si sia trovato benissimo alla Capponcina non dubitiamo; oggi fuoruscito insabbiato vi ritorna col pensiero ed il ricordo: rammenta cani e cavalli, il suo animale amore per la venaria donde si comprendono molte strofe delle Laudi; a commento delle quali posso mettervi questo brano di sua prosa tolto dal Proemio della Vita di Cola da Rienzo, Treves 1913.
«Respiravo in quella calda bestialità, con tutti i miei pensieri concitati come nel furore della poesia. Vedevo, nel forte delle faccende, sorgere le figure segrete che si disformano quando l'arte le tocca. V'era luogo per qualche piccola divinità nella posta occupata dall'importanza del cavallo che aveva fatto il suo sforzo e che doveva essere ben governato... Sapevo come i fantasmi da me veduti fossero più veri dei corpi e dei movimenti che li cagionavano. Tuttavia non mai accadeva che la mia attenzione esterna si interrompesse o si rilasciasse. La cigna sfibbiata, la sella tolta di sul dosso fumante, il riflesso d'una lanterna sopra una groppa lisciata dal torcione, la voce data dall'uomo per far poggiare o per calmare l'impaziente, uno sbuffo strepitoso, un nitrito più tenue che un fremito di gazella, l'odore della canfora, l'odore della farina nel beverone caldo, un bel guizzo di luce sul viso, acceso d'un mozzo, la strana cifra segnata dai peli bianchi in un mantello rabicano, ogni gioco delle apparenze mi commoveva come la rivelazione d'una novità che in me solo toccasse il sommo del suo pregio».
Come leggeste, l'Oliva è dolce come l'olio di Sasso, spremuto dalla medesima: e, se nel recentissimo suo: Il San Sebastiano e le Canzoni d'Oltremare di Gabriele D'Annunzio, Napoli, Ricciardi 1913, continua a ripetere queste baggianate, può darsi che alli occhi del collega resecontista del Corriere della Sera manifesti una nuova tendenza critica; ma, ai miei, rimarrà quell'annebbiato – ha mai visto bene; l'ho mai visto bene? – che fu mai sempre, finchè si squaglierà in sudore.... acqueo.
«Ad intendere bene la posizione ed il valore del libro del Gargiulo, giova frattanto una rapida traccia delle principali soluzioni offerte, finora, del problema letterario D'Annunzio. Già venticinque anni fa, al tempo del Canto novo, lo Scarfoglio aveva avuto una intuizione sufficientemente esatta del carattere, dell'elemento costituente la personalità dannunziana; e aveva definito questo elemento come un erotismo naturalistico, facendolo consistere nella gioia di un amore che si spande sul grande letto della natura. Interpretazioni nuove, degne di ricordo, si ebbero soltanto quindici anni più tardi; e le dettero G. A. Borgese e Benedetto Croce. – Il Borgese allargò il concetto della sensualità naturalistica del D'Annunzio nel concetto di un vero e proprio panismo, e mise la poesia del D'Annunzio in relazione con quella dei cantori del rinnovato umanesimo europeo: i lirici dell'età di Wordsworth, Goethe, Foscolo, Carducci. Per contrario, Benedetto Croce umiliò la tesi del naturalismo erotico dello Scarfoglio, e, dunque, ancora più, quella del panismo Borgesiano; e dette una definizione del temperamento del D'Annunzio a base di semplice sensualità; esprimendo sensualità, per lui, quella verginità percettiva, quella facoltà di guardare il mondo con occhi mattutini, che nessuno disconosce al D'Annunzio, non meno che le qualità negative del suo egoismo quasi animale, e della sua totale indifferenza rispetto ai problemi dell'intelletto e della carità.
«A questo punto, bisogna inserire, cronologicamente, il libro del Gargiulo, poichè, sebbene esca oggi, fu composto, come l'autore avverte, avanti la pubblicazione del volume nel quale, nel 1909, G. A. Borgese concluse le sue sparse fatiche intorno alla poesia dannunziana, limitando la sua prima interpretazione panica con un parziale accettamento del sensualismo crociano».
– Per conto mio, aggiungerò che le critiche del Croce, del Borgese e del Gargiulo sono le migliori apparse sull'argomento sino ad ora, e veramente degne di attenzione e di studii, per chi voglia interessarsi del caso D'Annunzio. Se non che quella del Croce, ha, a parer mio, il difetto d'origine d'uscire dal metodo semplicemente estetico desactiano, il quale si ferma alla forma e poco ragiona della sostanza, accontentandosi di trovare nell'artista li elementi per far un bello con cui diverta senza richiedergli il «come procedi? – sei tu libero? – sei tu sincero? – quanto esprimi ti rappresenta nella tua passione?» Si che un fenomeno di decadenza può anche essere di bellezza ma è pur di malattia, ed allora è necessario soggiungere: «Badate, è un magnifico fiore velenoso: vi raccomando di non odorarlo:» ciò che il Croce non ammonisce, anzi sembra abbia piacere, che appaja così sgargiante, perchè putrescente.
L'altra del Borgese è saltuaria; determina, non da sintesi, ma da analisi; rinviene prerogative e distintive d'annunziane in episodii stilistici o passionali; ma ha la grande dote di impostare la figura principale nel suo tempo, di circoscriverla nel suo ambiente; donde il poeta emerge come il rappresentante e l'indice indicativo, ed è norma di giudizio nel condannare l'epoca, che lo ha prodotto e cui inversamente produsse (Nel suo tempo, cioè nel nostro: apro una parentesi per incastonarvi una necessaria osservazione di Scarfoglio. La traggo dal Don Chisciotte: «L'organismo della vita spirituale di un popolo, quando l'arte non è più libera e necessaria emanazione del suo genio, ma una produzione artificiale per diletto estetico o per mezzo di educazione, rassomiglia assai a un gran congegno meccanico; e se non si dirugginiscono e non si ungono tutte le ruote, molta parte dell'energia e del lavoro si disperdono vanamente». Pag. 117. – Bisogna assaporarla con molta riflessione; pensateci su: quindi traccio il claudite). La terza del Gargiulo è una critica metodica, se classica, scolastica; scompone assai bene sia lo stile che la materia e li vaglia, si giova di tutti li istrumenti che la filologia e la filosofia, alleate al buon gusto, gli hanno fornito, ma si è dimenticato del tempo e della società in cui il suo autore vive; sì che vistolo isolato, categoria aristotelica senza attacco alcuno coi suoi contemporanei, senza il colore dell'atmosfera in cui respira, D'Annunzio appare più colpevole e più grande, di quanto è realmente nella connessità e necessità dell'epoca sua.
A questi tre saggi aggiungiamo, non ad abbundantiam ma ad substantiam: «La Superfemina abruzzese», pagine se pur eccessive arditamente coraggiose di Fr. Enotrio Ladenarda – al secolo Lo Forte-Randi – Palermo, Pedone Lauriel, 1914. L'autore opera a suon di nerbate sul vario corpo d'annunziano, «perchè è necessario che i galantuomini riparino al difetto delle leggi, inchiodando alla gogna la genia dei ciurmatori». E, dopo d'aver assolto così a sè stesso la promessa ed il debito, Ladenarda confessa che può serenamente morire. La sua critica di mordace humorismo è, più che letteraria d'azione, e rappresenta lo sdegno di un galantuomo d'ingegno e di cuore di fronte al successo immeritato d'annunziano.
E noi lo sentiamo, come in molti passi delle Laudi, anche falso stilisticamente; ed è appunto quando si presume universale, che la sua vanità ha fatto il vuoto torricelliano, in cui egli stesso sparisce. Tentò il Nietzsche? Tenterà San Francesco col medesimo risultato. Più tosto si sentirà, nella sua impotenza, il bisognoso costante: ed è qui che la superbia lotta colla necessità; ma il cozzo è puramente d'atti, fisico: chi fu il signore democratico della Canzone di Garibaldi, sarà il nazionalista della Nave, perchè la sua superbia torni a persuadere ch'era stato lecito correre su pista falsa ed anarchicamente conservatrice per le Laudi, come le sarà permesso disturbare i Bollandisti, od infarinarsi di Goethe per San Sebastiano. Così egli, che non si è mai conosciuto, ma che, terminata un'opera in un senso, non dubita mai, incominciandone un'altra nel senso opposto; che fu ingannato da sè stesso e per necessità organica ingannò li altri: non ha potuto accorgere la serie di sconfitte che subirono i suoi disparati tentativi verso il meglio, perchè tutti considerò come capolavori, cioè successi, oltre che economici, d'arte. È solamente il critico che può informarlo dell'errore perchè compara; è il Gargiulo, che può attestargli e costruirgli la bellezza di una tragedia ch'egli non avvertì, nè sentì, perchè cieco interiormente. A D'Annunzio sembra sempre e continuamente di ascendere; avendo incominciato a camminare da un alto monte, ed, in sulle prime, salendo sempre, di necessità s'imbattè col picco impervio della cima. Egli credè di sorvolarlo; ma gli è proibito il volo, – vola solamente il pensatore – poeta che crea: – lo ha contornato: perciò, non potendo star fermo compostamente, un passo dopo l'altro si ritrovò sulla china opposta a discendere. Ma cammina, cammina, cammina! gli ordina la sua inquietitudine nevrastenica: navigare necesse non vivere – «per non dormire» e, camminando indefessamente, tornò in giù.
– Torno a fare la stessa domanda al sindaco di Lione e senatore Eduardo Herriet; il quale, in un suo libro: L'Arte nel romanzo di Gabriele D'Annunzio, va confondendolo con Shelley. Sì, da Shelley, ha il Pescarese molto tolto, ma non gli è nè figlio, nè fratello; e chi vorrà sostenerlo dimostrerà insieme di non sapere che cosa sia poesia, confondendo rimatore con vate. Quanto a Gastone Dechamps del Temps, che suppone aver l'Abruzzese risuscitato le magnificenze omeriche e vergiliane per parlarci, nel latino di Francia e di Italia, d'areoplani, essendo egli uno dei nostri più grandi inventori di bellezze verbali, preferisco Deutsch de la Meurthe; il quale, applaudendo al Forse che sì forse che no, si fece mecenate di volatori, come a dire l'istigatore – per via di bene – al suicidio di coloro, che, pur avendo il desiderio di spaziar nell'aria, non desiderano di accopparvisi cadendo. Ma il tenente Bagne che precipitò in mare, tentando il viaggio aereo da Nizza alla Capraja, meglio d'ogni altro ha trovato la giusta parola dell'elogio, se, conversando col D'Annunzio lo esalta così:
«Avete avuto la magnifica prescienza, la più perfetta sensazione della poesia che l'uomo può provare nel librarsi fra cielo e mare. Avete dipinto il miraggio che ho avuto nei miei occhi, la tensione vibrante dei miei nervi, l'emozione profonda del mio cuore».
Ah, sì, prescienza, intuizione! Ma fare? Perchè il poeta non si sostituì al Bagne nell'ultimo viaggio che ebbe tomba nei flutti del Mediterraneo e si riservò – a tempo calmo – per un Icaro meno temerario e più sportivo del Beaumont?
«il piccolo nulla d'oro incastonato d'argento».