IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Con una non disprezzabile e proficua abilità, in questi tempi d'utilitarismo, il D'Annunzio ha saputo postillare la cronaca ed il pettegolezzo attuale di alcune sue gesta che saranno, credo, domani, raccolte ad encomio dai suoi apologisti in cerca del non comune, e dai suoi glossatori, intenti ad annotare le imagini e le similitudini originali, e no, trasfuse nell'opera sua.
Egli fu e rimane un fortunato. Già di lui un compatriota entusiasta e parente, Garibaldo Bucco, racconta l'infanzia prodigiosa e principesca; (il mirifico non si chiama forse, nel Laus vitae, porfirogenito?). Ed i Presepi D'Annunziani1 incominciano la serie che seguiranno Le Celebranti ed il Mare, nelle pagine dei quali, la voluttuosa e molle figura del poeta abruzzese, bambino, dà per sè grandi promesse di avvenenza sgargiante e di superiorità, non rifiutate dai comuni e celebrate dai facili ad ammirare le cose che meno afferrano.
Dicesi, fra tanto, che assunto ad alto destino bianco vestito, sopra cavallo bianco, dai bianchi arnesi, fermo, glorioso in sulle staffe, procedesse, nelle domeniche dorate dal sole, verso il concerto musicale di un piccolo comune di Toscana; e, Commendatore vivo, non statua di Carrara discesa dal piedestallo per malia di scongiuro, commensale di Don Juan, ascoltasse, tra le meraviglie dei rustici, immobile, tutto argento, le stonature della musica espresse dai gaschi piumati e comici dei filarmonici.
Così, s'egli si compiace d'uscire per i boschi e le vigne fiesolane in caccia di sogni, armato d'arco e di faretra, come un Pelli-Rosse; di farsi vedere, ad ostentazione, intento al lavoro, ritto davanti, ad un leggio gotico, sulla terrazza della Capponcina, mentre gli fumano e gli profumano davanti, nelle rosate turgidezze dell'aurora, due grandi incensieri di metallo lavorato a sbalzo ed a cesello; può anche, se gli fa piacere, essere anfitrione della Duse dalle bianche mani e dell'Editore, che si rivale della sua vanità e della goffaggine del pubblico, in una sala tappezzata di foglie di rose, riservandosi, alla tavola imbandita, il posto d'onore, catedrando da un trono scolpito e dorato, sotto un padiglione di scarlatto, gran pontefice ed imperatore.
E però, se altra volta, interpretando e traducendo modernamente da Elio Lampridio, da Dione Cassio e da Erodiano un inimitabile Eliogabalo, vorrà, sulle spiaggie riscintillanti di Viareggio, nudo, cavalcando la saura Fiammetta, bagnarsi, a rito, nel mare, figurando Poseidon suscitatore od Elios sposo, dall'orizzonte piegante alle braccia innamorate di Anfitrite spasimata; o pure, a pena, uscito dalle salsedine ristoratrice, farsi accogliere dalla porpora ampia e sciorinata dall'attrice illustre ed amica, forse in uno scorcio assai dubio d'efebo, Adone; noi ben volentieri gli concederemo questi svaghi d'involuto re barbaro, purchè non influiscano sopra la sua letteratura.
***
Invece ed appunto, per queste presentazioni plastiche di una discutibile estetica, per questa rinomea, che non trascura di spargere ai quattro punti lo snobismo disoccupato, le morbose curiosità della borghesia, senza comprenderlo, traggono a lui. Li Homais del Flaubert, inalzano (goccioloni!) li occhi al prodigio; le vere e false damine svengono di voluttà; o sia che scandano le ottave di Venere d'acqua dolce, per cui insistente il Chiarini, sostituitosi all'Indice, sferrò fulmini di buona morale: o sia che leggano la prosa del Piacere; o sia, che più efficacemente ricordino le dolcezze ricche di spasimi, soferte sopra un prestigioso guanciale di sciamito, cui il poeta predispone nell'alcova delle trascelte.
Ed a lui si avvicina, sorridendo e promettente, Lyane de Pougy (qui s'y loge voit le ciel): esclama con una smorfia tutta parigina: «ah, quel joli visage!» e le si fa promettere un mimo unico e speciale alle esposizioni delle sue grazie, tentando la réclame che si affievoliva intorno al suo nome caro alle bocche arciducali di Russia, sgranando una sua collana di perle, mezzo milione di lagrime espresse e cristallizzate dell'alchimia manifatturiera internazionale e proteso ai suoi piedi snelli, incomparabili.
Ecco, che i suoi romanzi si traducono in francese; ecco, Sarah Bernhardt recitargli la tragedia moderna La città Morta.
Poi, sfoggia la sua oratoria davanti alli elettori di Ortona2 a mare; dalla bocca le imagini corruscano; vi convoca li Ospiti dalla marina e dalla Montagna; vi officia la Bellezza nella liturgia di Platone; elogia la latinità della stirpe; si fa eleggere e dà pretesto al visconte Melchior de Vogüé, giglio d'oro sbocciato anacronisticamente sul rosso campo della repubblica, di osservare: «voici le député de la Beauté».
A Montecitorio, il letterato tace, appare raramente: solo si scuote alla lotta disinteressata e pervicace dell'ostruzionismo, per cui, gettando il rinnovarsi, o morire, come impresa di battaglia, ascende la montagna parlamentare e siede in alto, aspettando di battere3 La Canzone di Garibaldi sul palvese d'acciajo d'Orlando, dedotta da Jessy-Withe Mario, suscitatrice di folle; di costruire il teatro d'Albano; di provarsi nella Francesca e d'essere battuto, a Firenze, dalla lega di un Shylok e di un Tartufe nelle ultime espressioni della volontà popolare.
I sovversivi si compiacquero del;
«donato un regno al sopraggiunto re»
e fecero ovazioni: chiara, al popolo, la epopea del risorgimento parve classica ai dotti ed agli esteti formosa.
Nei salotti dorati e patrizii, nelle riunioni plebee, nelle conferenze, Gabriele D'Annunzio assunse la maschera ed il porgere imperatorio del conquistatore; egli deve aver creduto di aver posseduto l'anima della patria, come lo Stellio Effrena4 l'anima della folla nel palazzo ducale a Venezia, come il Claudio Cantelmo l'anima delle Tre Vergini delle Roccie: ed egli non s'accorse d'ingannarsi e si trastullò, così, nel suo orgoglio immenso e nelle sue inattitudini a creare veramente per sè e da sè solo il pensiero e le imagini.
***
Giovanetto, erudito di classicismo, dotato di una squisita sensibilità, sorretto dal buon gusto, venne apprezzato dal Sommaruga5, esperto conoscitore e troppo lesto commerciante; e, proteso da lui, apparve la prima volta originalmente: Canto Novo, Terra vergine, Intermezzo di Rime, Il Libro della Vergini. Ma tale piana e lunga letteratura non gli parve sollecita al fine. Avido di godere, sapendo che un nome acquistato non vale se non per supremazia e per mezzo di ricchezza, si diede all'ampio oceano, perchè non è necessario vivere, ma navigare. Provò; le onde astute gli si appianarono. Dalle novelle, uscì ai romanzi; dal sonetto, all'ode, al poema. Visitò con industria e perspicacia il parnassianismo francese ed i decadenti meno da noi conosciuti; e si ebbero L'Isotteo e La Chimera; non fu inutile lettore del Journal des Goncourt e della Ethopée di Peladan se alcuni motivi loro troviamo nel Piacere6, non fu indifferente all'arte slava, se Tolstoi e Dostojewski, rimaneggiati, entrarono nel Trionfo della Morte, nell'Innocente e nel Giovanni Episcopo; comprese a mezzo Nietzsche, se nelle Vergini delle Roccie, nel Fuoco ed in quest'ultime Laudi squilla la fanfara della volontà esasperata al godimento ed al potere: non fu schivo un giorno dal fraticello d'Assisi, e trovò dalla Antigone sofoclea e dal Filottete d'Eschilo, le angoscie divine ed orribili degli Atridi fatali, suscitando nella Città Morta, un incesto mortale.
Ha scelto e bene; aggemminò la sua forma polita colle scabrosità rutilanti di gemme barbare; qualcuno ha qui avvisato di plagi e di palesi contrafazioni; ma lo scandalo suscitato meglio gli giovò che le lodi, per quanto il plagio, normalmente, indichi una infeconda debolezza.
***
E a poco a poco D'Annunzio, l'abruzzese, che poteva essere il rappresentante poeta della sua terra e del suo popolo, che poteva rendere in modo insuperabile, e, più che Verga regionale stesso, l'anima calda, appassionata, fosforescente della sua Pescara, dell'Adriatico, della foresta del Sila, suscitare l'heimathkunst – l'arte della piccola patria, del luogo natale – si disperde, si confonde; annega la spontaneità del sentire, la freschezza della impressione sotto le molteplici e disparate cerebrazioni, in quelle tendenze universali e letterarie, che perseguono la moda, senza anticipare il bisogno, che divulgano, in modo anodino e formoso, il pensiero avvenirista altrui, senza averlo fatto proprio.
Ed, irretito, si essica nel sentimento: «È necessario conservare a qualunque costo la propria libertà completa, anche nell'ebbrezza» diceva all'Huret, quando lo intervistava, a Parigi, nel 1898. Creatosi da sè stesso un idoletto famigliare, per esporre nelle solennità sull'altari pubblici, l'inchina e s'adora. Egli ha rinunciato alla sua essenza di uomo, per ridursi un personaggio favoloso; simbolo, credutosi fattore di un nuovo mondo plasmato argutamente dalla disposizione di elementi non suoi ed eterogenei, luccica, ai ceri della sua celebrazione e affascina di lontano e per udita.
Ma quale ferruminazione ha costrutto l'idoletto! creta, vetro, ambra, piombo, ferro, argento ed oro. Ogni metallo è palese; ogni sintesi visibile; ciascuno sa il numero delle parti e le varietà delle cose che lo compongono. Non importa; nelle pubbliche solennità egli veste la sua statuina; la veste è sua; sarto e sacerdote, ha curato che l'abbigliamento corrisponda al rito; e rito ed abbigliamento corrispondano ai vaghi desiderii del giorno.
Onde, i più curiosi, che non siano i sapienti e li eruditi, in cui la curiosità è anche inurbana, non si permettono di sollevare il lembo della clamide ricamata per scoprirvi sotto le varie e pezzate nudità ed accettano, come unico plasma, fuso da un'unica matrice ignivoma, questa bastarda falsificazione, applaudendo ancora.
***
Perchè D'Annunzio non si deve pontificare? Fu già, di volta in volta, riflesso di sua parte, ed Andrea Sperelli, e Tullio Hermil, e Giorgio Aurispa, divorati di un ardore implacabile, che li trascina a vivere perdutamente, ma non ancora volontarii a piegare l'avvenimento al loro appetito. Fu quindi Claudio Cantelmo, ebro di volontà contenuta, per cui il poema è la vita; vibrò più lungamente e più veracemente in Stellio Effrena, quando nel Fuoco, racconta una recente passione, avido ed egoista, e, credutosi conduttore di popolo, vuole che ogni sua opera sia un messaggio ed un insegnamento. Ora vorrà dire: «Penso, che lo scopo supremo dell'uomo libero e combattente, sia la gioia, non il dolore, la gioia vera ed unica nobiltà».
Di tal modo, pur confidando all'Huret che tutte le sue preferenze erotiche vanno meglio alla donna bella ed ignorante che non all'erudita ed all'intellettuale, s'affaccia, in questo punto, col primo volume delle Laudi (Gabriel Nuncius carmina deduxit), e, dalla prima pagina, vi avvisa colla epigrafe grecamente incisa a circondare la settemplice siringa del Fauno: «Voglio insegnare al modo d'Ellade»; per cui comprenderemo il perchè e lo scopo della vita, e, sopra tutto, le meraviglie della vita d'annunziana.
«Mi fanno rilevare l'articolo genialmente capriolesco che quell'amabile... Anticristo di Giampietro Lucini scrisse per favorire Laus vitae di Gabriele e i miei balzani Presepi di cui ancor nel mondo si favella e si scrive....
«Grazie tante a Giampietro! Il quale, però, mi faccia il piacere e la cortesia di non darmi dell'«entusiasta» e del «parente»: due cose che i Presepi, per sè soli, non autorizzano ad affermare.
«Io, poi, non sarò del numero di que' «facili ad ammirare le cose che meno comprendono!» Fatta eccezione, s'intende, per Giampietro, che meno comprendo, e più ammiro.
«Salute a voi, caro Cappa, e al simpatico Lucini.
Ma, poichè abbiamo in mano queste pagelle, alle quali fa, prendendo la palla al balzo il proprio autore un rispettivo boniment non vi sia discaro di sfogliarle meco, opportuno lavoro di revisione in cui i non grossolani appunteranno, in margine, delle utili notizie a vie meglio essere persuasi del carattere d'annunziano posteriore. Qui noi troveremo e dalla stessa infanzia, quelli indici e que' sintomi, che col crescere del corpo del poeta, si estenderanno ad occupargli tutta l'indole, avvisandone le principali passioni, e, qualche volta, le psicopatie delle quali soffriranno, coll'autore, anche i personaggi del suo romanzo e del suo teatro.
Ci duole che fino ad oggi, 15 novembre 1912, le altre due parti del trittico – Le Celebranti ed Il Mare – siano desiderate; però che il Bucco stesso in quelle avrebbe completato il Trittico dell'Annunziatore. Garibaldo Bucco è pur pescarese – e ci avrebbe ritratto la fanciullezza e l'adolescenza così piena di quelle promesse che si realizzarono poi, in anima ed in corpo di Gabriele D'Annunzio. – Ma veniamo ai sintomi indicativi:
1. Il mimmo Gabriele D'Annunzio fu il primo della scuola sempre: «Gabriele D'Annunzio non era forse, una testa più aguzza del prisma diamantino? Non faceva la barba a Salomone in persona? E lo negava forse, don Giovanni Sisti? Era maestro sì, o no, lui?» pag. 21. Lo ammetteva anche il sopraintendente scolastico... Bontà nostra! Il tema è della Class di Asen ferravilliana, o, meglio, della Famiglia dei Cilapponi dossiana. Perciò, essendo stato il primo della classe nelle elementari del 1870 a Pescara, ha anche il diritto, per titoli e per meriti, di essere nel 1912, il primo poeta d'Italia... all'estero per dissapori coi propri creditori.
2. Il mimmo Gabriele D'Annunzio è ottimo praticante cattolico, perchè riordina ad ogni Natale, il Presepio in casa sua con assai sfarzo di lumini e di melarancie: «Il Presepio grandeggiava, nell'aula vasta e profonda, come la fondazione d'un regno. Pensate, tutto il mondo in uno scatolino!» – pag. 48 – Quando poi ne avrà disposto a tono e jeraticamente i personaggi, il demiurgo biondo di questa mitologia iconografica andrà a dormire angelicato. «La sua bella testa di fanciullo, fine come un cammeo, viva come un ritmo febrile, spiccherà sul bucato de' lini sotto l'imagine di San Luigi della Verginità. Egli sognerà iridi balenanti, giubilanti spiritelli....» pag. 49 – Caro quel san Luigino! Il suo santo protettore glielo hanno scelto bene; vero è che, allora era riccioluto! Ma da qui si comprende, – dalla imagine di San Luigi Gonzaga e dal Presepio – come in definitiva, la sua tendenza lo dovrebbe tirare al San Sebastiano ed a quella prosa: In morte di due amici che sarebbe la protasi del suo proponimento ad avviarsi, verso la cinquantina, per nuovissima via; forse per quella facilissima di Molinos, gesuita, praticata del padre Gaufridi colla tessitrice di Lione alla santità. In ogni modo conservando la propria dirittura nella coerenza, il poeta abruzzese ci fa vedere che tal nacque, così vuol morire, cattolico, apostolico, romano.
3. Ippofilia, od ippomania: saliva a cassetto «di una diligenza sgheronata che stava su l'inquadro delle ruote, come un epilettico su la barella. Gabriele era un Automedonte spietato: stringeva le redini e tirava a sè urtando nelle bocche, due ronzacchioni stracchi dimessi, che pareva volessero inginocchiarsi e inchiodarsi». – pag. 43 – Così, nel tempo futuro, i cavalli più modernisti e più bizzarri se ne sarebbero vendicati: ma, lui, il poeta, Filippo sempre. Oh povero e bianco Malatesta oggi ronzino sfiancato alla carretta! E mi sovviene di un aneddoto, che può trovar posto conveniente qui, detratto dal suo originale, che si era stabilito tra una illustrazione umoristica, ed una sciarada:
«Avanti alla villa di un gran poeta e gran cavallerizzo, sulla marina.
«Il poeta doma un cavallo, che gettatolo a terra, se ne va tranquillamente sulla spiaggia. Il cavalcante lo riprende per ricondurlo alla scuderia. Il poeta corre con lo scudiscio levato per punire il cavallo.
– «Non ci die, boie de la.... altrimende succede un sfacele...» –
«Spettatore: (Chiede conto dell'accaduto al cavalcante che governa il cavallo).
– «Saie, el cavale, che ti crede, nun ha ragione? Sangue de.... me lo tormenta nco la voce, me lo tormenta ncol sprone, me lo tormenta nco la frusta.... El cavale, saie, sono puledre, sone di sangue gentile. Quando je faie perde la pacienze, nun sta mica a vedere se è el pueta d'A.; me ti dà una groppata e me lo stramazza come un portoualle... Stai bono! Ti pigli un accidente a te e 'l tuo patrone... Pare impussibele, boie de la... Li monto io, ed cavale va come una saiette, li monta lui, duvente puete anche la bestie!»
4. Megalomania: per le feste Natalizie il bambino D'Annunzio era munifico con tutti: «Casa D'Annunzio, un porto di mare, i «socci» e le «socciarelle» vi rovesciavano dentro tutto quello – non mancava nulla – che si potesse vedere con gli occhi, desiderare con la gola sul mercato dei frutti della Terra. I Marinaj altrettanto co' frutti di Mare. E qui Gabriele, non se ne contentava. Lui era il «primo Signore» di Pescara e voleva essere trattato da «primo.» Capite? Oh, era fatto così, lui! Da quella Casa di Dio, poi, usciva la processione gaudiosa di quasi tutto quello che di buono e di bello vi era entrato» – pag. 66-67 – Doni, munificenze! Più tardi, sarebbe stato magnifico anche della roba altrui, specie se letteraria, e della sua, specie se manoscritta: il tenace colono italico Del Guzzo può ricordarsene.
5. Precocità, Messianismo: al primo caso ritorneremo, – c'è tempo –: si svolge dal plagio all'erotismo, in modo costante, dell'età di sett'anni a quella cui giungerà finchè avrà fiato. Quanto al Messianismo, non era il biondo Gesù? A Pescara c'era una cantina, quella di Schiantielle «dove per grazia di Dio, non si era mai visto la grinta di un carabiniere; una cantina ch'era come andare a Benedizione» – pag. 83. – Là, una Zingarella raccontava anche delle fiabe; vi conveniva il Signorino: «E si sedeva vicino a Palmarosa: una adolescente bruna e fulgida, piena di capelli, piena di carni, piena di sangue, piena di desiderio precoce. L'aveva guasta un poco un «Sargentiello» dell'esercito e... s'era fermato» – pag. 84-85. – Proprio la Maddalena adatta a questo Cristino d'amore: ma chi si lasciava convertire? «Ora, la Palmarosa passava il braccio per la vita di Gabriele; lo appressava a sè tutto, sotto l'ascella forte. Gli fissava in faccia l'occhio nero, cupido, la bocca muta, tremula, ed affondava la mano, vellicando nella selva de' capelli crespi, così... Gabriele stava rovescio, colla testa emersa da l'onda musicale del piacere e sentiva, sentiva l'inconscia delizia del tatto feminile....» – pag. 86 –. Altro che il San Luigino in imagine, incorniciato ed appeso al verginale lettuccio! – Da qui crebbero Le Vergini – Venere d'acqua dolce – i vari e pur sempre identici trastulli dell'incesto: e Palmarosa precedette, iniziatrice, la Linda Pomarici – novella Bice o... Laura – La Marietta Ciccarini, molto più spiccia a donar baci, dietro il luccicare di un anelluccio, facile alla dimenticanza: non le scriveva il D'Annunzio il 27 novembre 1883: «Che fai, mia bella biondina? Nella tua testolina, non frulla mai un piccolo pensiero per Gabriele lontano?» Come vedete l'intonazione di questo epistolario non arieggia il classico di Abelardo ed Eloisa, ma troverà modo, per cura de' d'annunziani, di entrare nelle Antologie.
Infine, a completare le nozioni sulla prima giovanezza del Poeta, leggete un articolo di E. Campana, Giornale d'Italia, 6 maggio 1909. Vi compariranno innanzi. Padre Filippuccio di San Eusanio, che è Filippo de Titta maestro di gramatica del D'Annunzio, e i broccoli dell'orto: – L'adolescenza e la giovinezza del Poeta – L'Editto di Sculambia Re del Fuoco – di quel fuoco duseggiano che s'accese e svampò a Venezia, dove la sciccheria delli amanti celebri va à coucher, secondo l'espressione di Verlaine, avec la lune – La Riforma generatrice della specie umana – La calvizie e F. Michetti – Versi, dediche e lettere lontane. Ma, in sulla calvizie, dovete fermarvi, – la prima ragione di questa la dirò poi – e su meriti suoi inerenti: udite Don Filippo: «Mbè, quando steve a ecche isse (Gabriele) e cull'aldre bregandone de Michetti, Gabriele si incocciò a dimostrare che la mancanza di peli, come di capelli, è segno di compiuta evoluzione, di raffinatezza, di perfezione. – Allora, Michetti, che lo aveva lasciato si avanzò verso la parete e conchiuse con un tratto di matita: «Sicchè, il girino è l'essere più perfetto.» Distinsi, sul candore non immacolato del muro, una grossa testa glabra con un'appendice penzolone e lievemente ricurva. Inconsapevolmente Michetti aveva schizzato la più bella caricatura dell'amico». Trovata geniale: girino = D'Annunzio: e pure irriverente! Non ci sono che li amici....! Io rispetterò assai più il Poeta delle Laudi. Ma non precediamoci. Per intanto si ha un altro grande ritratto nuovissimo di Gabriele D'Annunzio, quello che il Viganò, e maestro di scuola, gli andò delineando per cattivarselo, dopo morto Pascoli: Viganò, il ritrattista – pittore dei massimi uomini di poesia! Oh, se almeno anch'egli sapesse disegnare: ma di lui un altro dì.
Di fatti, avete veduto: cessi la gente di comperare i suoi libri, di pagare le entrate pel suo teatro, e costui l'insulterà di nuovo come un becero... Ma... Scipio Sighele è uno psicologo della folla al suo modo... d'annunziano, tanto che inventò, in quest'ultimo tempo, coi Corradini, i De-Frenzi, i Castellini, i De Maria, i Gray, quell'ineffabile ed inesprimibile Nazionalismo. Al punto, il Sighele, cercandogli di dare contenuto ed espressione democratica, ha dovuto togliersi dalla compagnia: «perchè a me pare che questa Associazione Nazionalista si orienti verso una tendenza conservatrice reazionaria». – Il Nazionalismo giudicato etc., Genova Libreria editrice moderna 1913. – Pag. 223. Donde è lecito domandare a questo irredento – semita, ammalato di popolarismo: «Se vi siete sbagliato in un assunto in cui foste magna pars, non sareste per caso in errore su ciò che ci andaste dicendo di Gabriele D'Annunzio?» Capacissimo il Sighele di ostinarsi a negare: gli è vedete ch'egli più che nazionalista è d'annunziano.
Poi che abbiamo citato Le Vergini delle Roccie a distesa, più su, vogliam fare anche il pedante, non perchè ci garbi, ma perchè ci faccia ligi i medesimi, che son molti, in Italia. L'accurata bibliografia, che il Borgese mette in calce al suo saggio Gabriele D'Annunzio non considera come prima edizione delle Vergini delle Roccie quella che si avvicendò sui fascicoli del Convito, dal suo primo numero, Gennaio 1895, al sesto, Giugno 1895, completandola. Si può dire che il Convito – il quale ebbe solamente sette numeri, di una ricchezza insolita, con tavole fuori testo di Wedder e dei prerafaelliti inglesi, specialmente D. G. Rossetti, carta a mano filogranata di Fabriano, impressa a secco di un bollo cinquecentesco – una diota eleusina tra le spire simmetriche di due vipere, svettanti bifide lingue e la leggenda Convito – sia stato espressamente stampato per dar modo di far conoscere Le Vergini. I plagi di lui, messi, poco prima, in circolazione con insistenza dal Thovez, gli avevano procacciato qualche diffidenza tra li editori nostrani, e dopo Il Trionfo della Morte, 1894, non si aveva letto che l'Allegoria dell'Autunno, breve atto dramatico; sicchè per spacciare quella ultima opera – caricatura del suo stile, occorse foggiar organo speciale di gran lusso e raffinata, quasi morbosa aristocrazia. Scrissero sul Convito: Adolfo de Bosis e Pascoli con frequenza; disegnò il Sartorio, pittore di garbo dannunziano: ma, in fondo, quella rivista fu una celebrazione costante e nojosa dei meriti del poeta abruzzese: e, in sulle sue ultime pagine, col pretesto di Le Cronache, si diluiva e si ripeteva tutto quanto la critica, specie francese, andava dicendo su quell'argomento con insistenza ridicola, per mezzuccio povero di rinomea, che non ingannò che li interessati. Colla solita petulanza, poi, che infirma tutta l'opera d'annunziana e quella de' suoi settatori, essendosi fatto pagare l'abbonamento alla rivista pei dodici numeri, si assolse alla promessa con sette appena, continuando a protestare che dodici ne sarebbero usciti. L'ultimo numero, fu, dal Luglio '95 al Marzo '96, il settimo; li altri cinque mancano sempre: il sistema è il solito. Chi ha mai ascoltato una tragedia classica nel promesso Teatro d'Albano per cui ci fecero collette internazionali? Gli è che oltre a danneggiarci ci si dà pure la soja; sì che è prudenza fingere di non trovarsi tra quelli che furono con tanta estetica gabbati. L'arte è da Calandrino e da Cagliostro.
In punto alle ommissioni, che ho riscontrate nella bibliografia del Borgese si possono aggiungere queste altre: Piccolo canzoniere della Nonna, Pistoia, Nicolai, 1880, – Per le Nozze di Elvira, sorella molto diletta, tre sonetti, una cantata ed un madrigale, Tipografia della «Tribuna», 1888 edizione di 29 esemplari numerati.
«Fra i sottoscritti si è oggi concluso il seguente contratto:
«Il signor Gabriele D'Annunzio dà facoltà al sig. Angelo Sommaruga di pubblicare i due volumi dal titolo «Canto novo» e «Terra Vergine» (alienando e trasmettendogli i diritti d'autore, contemplati dalla legge sulla proprietà letteraria, 25 giugno 1865 e 10 agosto 1875) contro il corrispettivo dei 15% sul prezzo di vendita e per ogni copia che si pubblicherà».
«S'impegna, inoltre, di cedere ad Angelo Sommaruga i diritti di cui sopra anche per i primi cinque successivi lavori, che egli credesse di pubblicare dopo i due suddetti, e ciò mediante il corrispettivo 20% sul prezzo di vendita per volumi di versi e del 15% per quelli in prosa.
«Qualora uno dei cinque volumi fosse romanzo, il Sig. Angelo Sommaruga ha facoltà di concederne il diritto di pubblicazione a qualche giornale, obbligandosi però di corrispondere al Sig. Gabriele D'Annunzio il 65% su quanto percepirà per tale concessione.
«I pagamenti saranno fatti in due rate. La prima, il giorno in cui sarà messo in vendita il volume, e l'altra tre mesi dopo.
«Il Signor Angelo Sommaruga si obbliga far noto al Signor Gabriele D'Annunzio di quante copie si comporranno le relative edizioni ed a qual prezzo saranno messi in vendita i volumi.
«In fede».
. . . . . . . . . . . . . . . . . . teste
«Manca nell'originale, la firma del secondo teste».
A questa munificenza, Gabriele D'Annunzio rispose col calcio del mulo. – Non ch'io desideri di riabilitare il Sommaruga; ma esso vale più di quanti la sua condanna rese impuni e sicuri. Oggi costoro sono delle eccellenze incordonate ed immedagliate; allora, avrebbero dovuto occupare, con lui, il panco delli accusati al tribunale romano come ufficiali pubblici corrotti. Non è qui il caso di dilungarci, ne parlerò a distesa, con documenti alla mano, nell'Istoria anedottica e sentimentale di Desinenza in A, nelle sue tre e diverse edizioni; basti l'accenno. Angelo Sommaruga, che Luigi Lodi, – il quale sa molte cose e tace – si compiace di chiamare L'Editore della Crisi edilizia, vedi il 2° numero delle Cronache Letterarie, anno I – è stato qualche cosa di più; fu Mecenate favoreggiatore de' maggiori letterati italiani dal 1880 al 1884. Senza la sua réclame ed il suo ajuto sarebbero stati ignorati ed avrebbero dovuto compiere un lungo tirocinio di anzianità: Carducci, Carlo Dossi, D'Annunzio; con ciò significo l'importanza sua, come editore, nella storia della letteratura e del pensiero italiano. Uno dei primi a riconoscerlo, fu ventisette anni dopo, lo Scarfoglio, nella prefazione al proprio Libro del Don Chisciotte – II edizione, A. Quattrini, Firenze 1911 – «Questo quarto d'ora, che durò tre anni, è ormai classificato sotto la denominazione di periodo sommarughiano, ed è stato narrato in tante diverse versioni che non mette conto di raccontarlo da capo. Esso fu il prodotto necessario dell'incontro, o se meglio vi piace, dello scontro di due elementi radicalmente opposti ed apparentemente inconciliabili, la cultura della scuola e della biblioteca e «il bluff». Potete anche leggere, con beneficio d'inventario, D. Besana, Sommaruga occulto e Somraruga palese, Roma Giovanni Bracco 1885, uscito a dispense ad invelenire contro di lui, durante il processo, pagato dai compromessi sfuggiti alla legge per magnanimità sommarughiana; e perciò libro più tristo, per quanto interessantissimo. «Intorno al processo Sommaruga – ripete lo Scarfoglio – molte cose si sono scritte anche recentemente, nè generose, nè vere. Esso fu una delle più grandi infamie del nostro tempo, ed io posso, dopo tanti anni, affermare, che, se di una cosa, nella vita, porto rimorso e non so in alcun modo assolvermi, questa è, nella furia inconsapevole dell'età, l'aver contribuito alla mostruosa iniquità». La confessione fa onore al Tartarin, ma è assai troppo postuma: Giosuè Carducci fu l'unico delli autori sommarughiani che seppe difenderlo, in Tribunale, a viso aperto; e per ciò quel sicario di letteratura Davide Besana lo andò infamando nel suo libello. Se tutti furono vili davanti all'accusa, è perchè, forse, si sentivano tutti accusati, e peggio, dallo stesso Sommaruga. Tra le carte dossiane, nella cartella che si riferisce alla Desinenza in A, trovai una lettera inedita di Scarfoglio che qui faccio conoscere:
«Voi mi diceste che volevate comminare a Sommaruga, per mano di usciere, l'ordine di cancellare il vostro nome dalla lista d'infamia dei suoi giornali. Io, dunque, per risparmiarvi le spese mi son preso la libertà di inserire il vostro nome, insieme al mio, di Matilde Serao, Gabriele D'Annunzio, Giulio Salvadori, Capuana, Verga etc. a piè di questa dichiarazione pubblica che sarà stampata sui giornali. I sottoscritti dichiarano di essersi da più mesi sciolti da ogni vincolo letterario e commerciale, con A. Sommaruga, coi giornali da lui pubblicati, con ogni emanazione della sua casa editrice. Ho fatto male? spero di no. Una stretta di mano cordialissima dal
vostro Scarfoglio»
Francavilla al mare 26 settembre 1884.
Egli stesso doveva accorgersi, ventisette anni dopo, d'aver fatto malissimo.
Povero Sommaruga e fulliginosa ingratitudine di romanzatori e poeti! anche Carlo Dossi si credette in dovere di conservarci alcuni aneddoti che innocentano Sommaruga e di cui mi varrò a suo tempo: ma, allora, fu la corsa all'abbandono quando non alla calunnia; il meno scusabile ed il più strepitante D'Annunzio, ch'era stato proprio messo al mondo dall'Angiolino, figlio a sua volta genialoide di un ricco sciostrée di Milano, innamorato di belle donne e di belle lettere, due passioni che costano caro. Se non che, egli con garbo squisito ed acutissimo, se ne vendicò sfoggiando «in tribunale, freddo, tranquillo, inalterato, quasi ingenuo, trasognato dall'accusa con quella sicurezza calma e serena che vuol derivare dal sentimento profondo della propria innocenza», documenti compromettenti per i suoi propri accusatori. Sì che ne vedemmo uno anche di proprio pugno del D'Annunzio. Cito il Besana, senz'altro, alla pagina 197 del suo volume libello: «Chi vedendolo presentare al Tribunale un biglietto di due versi, scrittigli da Gabriele D'Annunzio, per avvertirlo, che, non avendolo trovato in ufficio, mentre erasi recato da lui per chiedergli parte, almeno, del molto che gli era dovuto aveva preso sul suo scrittojo, come glielo permetteva l'intimità loro, quattro lire, avrebbe osato supporre che Angelo Sommaruga si fosse valso del nome dell'opera e degli errori del poeta abruzzese per far quattrini a josa per accreditare i propri giornali e la propria casa editrice? – Biglietto, con iniqua quanta previdente perfidia, gelosamente conservato e custodito anni ed anni?». Non so che possa rispondere il chi: il Besana, poi, non avrebbe dovuto formalizzarsi di tanto, pur egli abituato a falsi letterarii in quantità: quanto a me, mi ostino a credere, modestamente, che l'atto d'annunziano sia una indelicatezza, a meno che non appaja, ai novissimi conseguenzari, il gesto imperialista di una coscienza nuova, spoglia di tutte le superstizioni. Ma l'Angelino, come lo chiamava Carducci, fu fatto condannare dal Vinattiere di Stradella per delitti non suoi: e Gabriele D'Annunzio, oggi, porta la magnificenza del suo bizantinismo in tutto il mondo: con buona pace di E. Scarfoglio il mio rispetto va al primo, poco al secondo.
Ma ho qui sotto le mani lo Scarfoglio e non voglio lasciarlo in libertà se non a conti fatti. Non so per quale assonanza morale la coppia Scarfoglio – Serao, mi si presenti davanti nelle ottave del Capitolo quarto della Atlantide di Mario Rapisardi, e, se ci penso credo sia per opera di allucinazione. In quella terra sommersa, son pur annegati e vivi diversi personaggi indicativi, favolosi, quando non mitologici. Uno di questi te lo vedi
«. . . . . . . . . . . .
.guizzare,
Un losco mostricciatto agile e gajo,
Ch'un di quei vermiciattoli ti pare
Nato tra il fermentar d'un letamajo;
che finge, alla mercuriale educativa di un Partenopeo, prender cappello.
«Quando irruppe tra lor la
Selemita
Che di maschio sortì muso e cervello
Ma più che femina è giù dalla vita»,
col seguito.
«. . . rivolta al bieco mostricciatto
(O sia drudo, o marito, o ver bertone:
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Come, gli dice, e stai qui a fare il matto
Ovveramentesia l'asin cordone?
E non pensi che in casa abbiam l'usciere
Che sta per sequestrarci anche il sedere?»
Ma come vi dico, è un delirio ed io ho torto. Se poi volete conoscere in lungo ed in largo quelle ottave, e ve le consiglio sotto molti riguardi anche di poesia, vanno dalla pagina 456 alla susseguente nella edizione di Poemi etc.. di Mario Rapisardi edizione definitiva, Remo Sandron – Volume unico.
Infine, alcuno ha voluto assomigliare il mio Verso Libero al Libro del Don Chisciotte, ma l'errore è massimo. – Certo, lo Scarfoglio è assai destro e profondo maneggiatore di strumenti critici; –ma, non avendo ideali, non sapendosi astrarre oltre la voluttà intesa nel senso più lato e più spregiudicato, insegnava dal Libro del Don Chisciotte a perseguitare il successo non il capolavoro. Per ciò il termine di paragone, su cui saggia l'opera, è il gusto del pubblico, cioè l'appetito della Magna Bestia. Si capisce, dunque: per far divertire il pubblico, che paga, si allenano li istrioni; e vi fu un tempo che anche Carducci si acconciò a quelle pratiche: ma allora si crescono i D'Annunzio e si diminuiscono i Dossi come improprii a solleticare la follaccia. Quando si rivedranno invece, come incominciò a rivederli il Verso Libero codesti valori letterarii, dovremo accorgerci che l'ideale, sempre inteso come sincerità, forza e grandezza, assente dall'opera dannunziana, la manderà in discredito, sì da metterla al sesso ed alla coda, dove sta bene, della letteratura contemporanea.