Gian Pietro Lucini
Antidannunziana: D'Annunzio al vaglio della critica

“Le Laudi”

I due primi Volumi delle "Laudi”

II. IL GRAN PAN ETERNO IMMORTALE STORIA RETROSPETTIVA.

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II.
IL GRAN PAN ETERNO IMMORTALE
STORIA RETROSPETTIVA.

In un crepuscolo basso e sospettoso, crepuscolo d'anime e d'epoca, per cui fermentava nell'umanità una nuova ed opposta coscienza, mentre la liburna egizia barellava, stanca, sull'onde dell'Egeo e tra le capigliature bianche dei marosi; Thamos1 navarca, ritto al castello di poppa, da Paxos, udì, dopo un rombo, chiamarsi. Tre volte esclamò la voce ignota il suo nome; il pilota rispose: ed a lui ancora la voce in un comando: «Quando tu sarai giunto all'altezza di Palodes, annunzia che il Gran Pan è morto!» Con lui, i navigatori intesero ed il fatto apparve reale: la critica lo può spiegare come una suggestione ed un contagio di isterismo maschile, dopo lunga e travagliosa navigazione; ma, in ogni modo, nell'ansa di Palodes, Thamos gridò: «Il Gran Pan è morto».

Epitherses, tra i passeggieri della liburna, aveva un figlio retore a Roma, dove, recatosi, sparse la novella. La quale, giunta all'orecchio di Tiberio Cesare, non ancora passato alla Villa Iovis di Capri, ma già dilettoso del triplice nodo e lavoro erotico, che li sfinctria di palazzo, a ricrearlo dalla sua noia e dal fastidio dell'impero, riproducevano, con bella plastica sul mosaico istoriato del Palatino, invogliò il despota di maggiori dettagli e fecesi chiamare Thamos.

L'egizio con una intricata e sottile psicologia, con un astruso raccontar di teogonie, per cui l'Adone di Siria s'intrometteva sotto il nome abolito e fenicio di Thammoz, raccontò la leggenda ed il miracolo.

Divinità tellurica e solare ad un tempo, Pan, forza operante della materia organizzata, energia del mondo, se pure simbolo agonizzato tra le rovine dei miti spodestati, non poteva essere sequestrato assolutamente dall'eucologico delle religioni dell'avvenire. L'alta filosofia ellenizzante, in quei giorni, venuta a contatto coll'indifferenza e colla critica atea di Luciano, doveva inradicarsi nelle future coscienze, incubate dal caldo sole, uscite sopra alle nebbie barbare del mille. Se Lucrezio aveva già assegnato al positivismo il suo posto nella poesia, Seneca, corrusco di imagini e sottile di argomentazioni, dallo stoicismo, estraeva un principio non dissimile a quello che il distruttore politico Paolo esponeva dalle inferriate, non strettamente custodite, della carcere mamertina. Tacito ed Epitetto stavano per : Apollonio di Tiane, Cristo alessandrino e taumaturgo, facevasi corteggio di folle entusiaste; e Gesù, il Nazareno esseno, biondo e fascinatore, si faceva proclamare, lungo i villaggi della Tiberiade e del Giordano, re e profeta, da una turba confusa di pescatori, di falegnami, di cortigiane e di pitocche, contro la ritagliata potenza di un principe semita, in ostaggio dei Romani e della legge livellatrice del pretorio, occupato da un filosofante Pilato.

Vollero il torbido delle anime, lo scompiglio del grande impero, la stessa ragione di stato imperiale, che la predicazione di una morale comunista e di un vago e misterioso teismo orientale; vollero la necessità del tempo ed il bisogno delle novità, siano pur rudi e miserabili, in quel diuturno sforzo troppo sopportato, che una critica, più che una ricostruzione, venisse proclamata fondamento di disciplina religiosa.

Li Evangeli, raccolta apocrifa di tradizioni orali, divennero fede e documento; i collègi delli Auguri, dei Saliarii, dei sacerdoti di Dodona e di Eleusi passarono nei concilii di Alessandria e di Nicea, vescovi cristiani, disputando sulla grazia, sulla divinità, sulla umanità del Cristo, riplasmando le teogonie e la mitologia. Fra tanto, i monaci empivano il consiglio della Santa Saggezza a Bisanzio, e per le vie si scannava a pro di un jota aggiunto, o levato, o per le formole, o pel colore dell'abito rituale, o per il numero delle genuflessioni davanti alla icone ed alla panaghia. Dopo, Roma creava il Papa, ginnosofista latino, ed instaurava il Barbaro del sacro romano impero, dispositore della terra, dell'acque e del cielo, di tutto il mondo, soffocato sotto li scudi di corame bollito e blindati di rame dei Franchi, oppresso dalle scomuniche, lutulento nella ignoranza.

Ed il Pan vigilava.

Anima delle carni, esasperazione dei sensi insoddisfatti, nelle ore oscure e tormentose della Tebaide, apparve all'Antonio eremita, sotto le languide e promettenti figure delle femine ignude, a sogguardarlo dalle asperità della caverna, a sbucare rosee e promettenti, dalle stuoie irsute del giaciglio, succube deliziose. Nelle lande di Bretagna, nelle foreste dell'Alpi, nei dumi ancor sacri dell'Appennino, attorno al Noce di Benevento, fu Astaroth demonio bicornuto, caudato, Fauno cinico ed ironico. Insegnò alle fattucchiere la scienza dei semplici, dell'erbe mediche, maligno e benigno archiatra ad un tempo, cantastorie di prodigi; e servì per il sesso e per lo spirito, evocato dalla triplice sequenza delli scongiuri. Fu, tra li Albigesi non dimentichi di Manete: e Simone di Montfort si insanguinò al sacco di Tolosa invano uccidendo, perchè sempre rinasceva dal sangue. E con Giovanni Huss, in Boemia, con Giordano Bruno, in Italia, ambo sacrificati ed arsi, rutilò, nelle fiamme del rogo, per la libertà delle coscienze.

Svolse, ad encomio de' principi della chiesa, poichè la Rinascenza aveva smagato dal cuore, alacre al bello, le paurose imposizioni del sopranaturale, un Pomponazzi, il materialismo, e Giovan Battista Vico, la seguenza dell'epoche, nei ricorsi sopragiungenti dell'istoria.

Arte2, in un cammeo di agata, su cui Adone e Venere si baciavano nell'amplesso, incastonato nel centro della croce pontificia, venne, erta e benedicente, protesa realmente, in faccia a Roma, dalle scalee vaticane, simbolicamente, in faccia al mondo, dalle pallide mani di un papa Borgia; mentre il Toro di Api e di Mytra rosso s'inalberava sopra al suo palvese, e il Valentino, non ultima speranza di Machiavello, tentava di ricostruire un'Italia, riflesso grande della romanità.

Leonardo da Vinci confuse, per lui, nell'Androgino, e Bacco giovanetto vincitore e San Giovanni Battista, il dilettissimo di Cristo; ogni fede, ogni religione si plasmarono nelle tele; e Venere rinacque sotto il nome di Maria.

I simulacri delli dei, scoperti nelle cripte, conservati dalla terra madre, costante e pia protettice, si nominarono cattolicamente e riebbero l'incenso delli altari; e rise, ancora il Gran Pan, quando, dalle ottave dell'Anguillara, si facevano conoscere le Metamorfosi, e dalle Comedie del Bembo, del Lasca, dell'Ariosto, il traffico del prete e l'impudicizia del monaco.

***

Ai miti settentrionali, alle gelate e troppo lunari figurazioni della Scandinavia, ai Trolls, alle assiderate Ondine dei fiumi e dei mari del nord, vennero le spumanti, le leggiere, le ardenti creature della Grecia, risorte per il mondo in festevole abbraccio. Ronsard, all'incanto del Mediterraneo, ritrova le grazie d'Anfritite; Spenser, Sydney, Shakespeare incoronano di gemme orientali, per un molle canto uscito dalla latinità e vago di prodigi d'amore, il secolo dell'«Old merry England», rose cercando nei giardini di Roma e di Venezia per trapiantarle lungo il Tamigi, sulle rive troppo verdi e troppo brumose. Tutta la letteratura si vestiva di colori lucidi e caldi; tutta la letteratura era un festino di nudità e di baci; tripudiante incubava e fruttificava, ai soli dell'Ellade, ed insegnava, contro al crocifisso pendente ed agonizzato, dolore e rinuncia appesi al legno del patibolo, una necessità: la gloria del piacere, il dovere della vita gioconda.

Il Gran Pan trionfava.

Quindi, volle perseguire l'opera colla industre pervicacia, colla inesausta curiosità del sapere. Fiammeggiò, in una vampa azzurra e rossigna, lingua rabida e solfurea, se Schwarz, nel mortaio alchimistico, rinviene la polvere; se Guttemberg moltiplica il pensiero colla stampa ghigna Pan nel cigolio della vite che rinserra il torchio sulle pagine e sui caratteri mobili: fischia all'uscita del vapore dal pertugio, per cui si muovono i cavalli di metallo, sulle guide d'acciajo; risplende, vibra, incita, spumeggia, gorgoglia, percorre, sui fili di rame, colla parola, colla luce, colla energia, con tutto, se, dalle turbine, cascata compressa e serrata, torna l'acqua le ruote e si trasforma in fuoco ed avvicina i poli, ed accosta li uomini, e supera i confini, e trapassa i mari, e rimuta la terra.

Fu già Gran Pan nei giorni rivoluzionarii, scorrente sulla fronte delle turbe, squassando la bandiera di porpora: fu, per tutto, il grido della vittoria se la gente latina prevalse contro alla barbarica del diritto divino e del feudalismo, instaurando il diritto nuovo. Dalla Enciclopedia, alle purgazioni settembrine; dalla unificata Italia, all'impeto delle coscienze volontarie verso la felicità degli universi, incondizionato, per filosofia, per arte, per scienza, il Gran Pan.

Gravido di sua semenza, profondo di suo sentire, ecco l'uomo moderno. Goethe rima una leggenda gota ai soli della Grecia; Shelley esplode La Regina Mab e Prometeo contro il cant borghese ed il presbiteranismo ipocrita d'Inghilterra; Madach, magiaro, del primo Adamo ripete l'origine e le seguenze nella Tragedia dell'Uomo; von Grabbe ride coi suoi demoni addomesticati, Asmodei d'ironia e di sarcasmo; repubblicano e marmoreo, estrae l'eroica paganità Leconte de l'Isle coi Poémes antiques; Carducci ha l'Inno a Satana ed il Ça ira, allora maestro nostro, impaziente e fervido per tutte le libere audacie del volere umano. Per Nietzsche e da Stirner la confusa materia operante, l'energia ormai disvelata, ebbe consacrazione ultima; e, nella benigna crudeltà della sua legge concreta, fugati tutti li Dei, Pan, uomo, divinità tellurica e solare, pretende di vivere al suo scopo meraviglioso, senza paure e senza rimorsi, senza rammarichi e senza limitazioni; vivere pacifico con stesso e i fratelli, non disgregato, ma socialmente.

Il panteismo scientifico fermentò in Baruch de Spinoza; l'ateismo proteso da Büchner, il positivismo di Ardigò, la materialità dello spirito e del pensiero stabilito da Moleschott, l'edonismo repubblicano da Giuseppe Ferrari, il volere cosciente ed illimitato da Stirner libertario, hanno rispondenze colle filosofie classiche; poichè importa, per vivere, conoscere, amare e godere e sapere, dal fatto della vita, tutto quanto il nostro desiderio pretende, senza stanchezza e senza inutili ritorni; convien per vivere, viaggiare senza sazietà.

***

Così, si comporta, in questo principio di secolo, la nostra psiche. Un poeta, Gabriele D'Annunzio, ha creduto di riassumerla ed ha piegato il suo verso a cantarla: nulla ha ommesso? Ha inteso la virtù civile del suo annuncio? Ha voluto scoprire quanto, per due millennii, instantemente si rivelava senza interruzione? Per la sua forma nuova, o creduta tale, dice delle cose nuove?

Ha sorpreso, insomma, nella collettività ondivaga, l'espressione di una filosofia generale e da tutti accolta, ratio vitae, od è singolo cantore di stesso, ad invidia di quelli, ai quali espone bellezza ed utilità per loro inaccessibili? È opera universale, o di privata soddisfazione? Distrugge? Fabrica?

Ancora, ingenuamente e sinceramente, Gabriele D'Annunzio s'illude del suo valore e cesella, sopra una lunga lastra di bronzo, ripetendosi, molti suoi ritratti stilizzati e collegati con li svolazzi capricciosi di una erudizione3 speciale, complessa e speciosa: ancora, egli si fa centro di un universo distinto e favoloso, rappresentazione de' suoi appetiti, projezione de' suoi sogni amorali e splendidamente inutili, donde fiato, e noi lo seguiremo al poema.

 

 





1 Thamos, pilota egizio e allucinato, nelle pigrizie dell'acque morte di bonaccia e di nebbie, in sull'Egeo, dalla liburna bruna, accolse una voce menzognera e volle spargerla al mondo romano:

«Morto è il Gran Pan, è morto!»

G. P. Lucini, Per tutti li Dei morti ed aboliti.



2 Posso qui permettermi una delle solite definizioni dell'arte: solevo dire: «L'Arte è il modo speciale d'espressione della vita sentimentale e cerebrale, secondo una sincerità soggettivatorno a ripetere: «L'Arte è la rappresentazione della Natura attraverso una sensibilità ed una volontà passionale e razionale». Le due formole non si elidono: se non che il capolavoro dev'essere piacere e salute: creato, con dolore, che si sofre spasimando di gioja, deve essere accolto, colla soddisfazione colla quale, chi è in possesso di un aumento, sente di vivere di più. Il capolavoro allarga l'orizzonte virtuale alla vita di chi gli è in contatto, e questa si accresce contro le asperità della esistenza: in ciò solo è utile, rispetto all'individuo ed alla società; per quanto egoistico ed asociale, perchè è elemento rarissimo e gratuito della pienezza umana.

La maggior parte delli uomini vivono bene, mi direte, senza essere mai stati a contatto intimo coll'opera d'arte: – ammetto; vivono ottimamente anche le piante ed i bruti; che, se mi tenete per buona l'espressione; «l'Umanità è il sistema nervoso del mondo» – ripeto: «Ma la coscienza creatrice della Umanità risiede nell'Artista-Poeta che fabrica il Mondo e li Uomini, autenticandoli nell'immortalità colla sua bellezza». – Vi domando, tornando ad hominem, se l'arte d'annunziana sia stata creata con piacere e salute, e, reciprocamente, se il suo pubblico diventa più lieto – cioè più compreso del proprio valore; e più sano – cioè più disposto a manifestare il proprio aumentato potere, – quando ne va scandendo la prosodia, ne ode e vede la dramatica, sfoglia i suoi romanzi, sbadiglia alle sue conferenze. Non pensateci su, rispondete, o voi, tra il pubblico scelto dell'Imaginifico!



3 La sua coltura è quel tanto di cognizioni che bastano per fare, dei molti libri altrui, che hanno poco corso in piazza, un piccolo suo proprio, che si vende con fortuna. G. A. Borgese: «Il cervello del D'Annunzio si mantenne quasi immune da leghe di meditazione filosofica e critica, realizzando, press'a poco il tipo astratto del puro poeta, in un'epoca nella quale l'indagine degli astratti penetra pure i temperamenti più alieni dall'esercizio del raziocinio. Chi lo conobbe intimamente sa come la sua conversazione, sfavillante d'immagini ed ebbra di una instancabile sensibilità, tronchi con un'aforistica conclusione il filo, appena iniziato del pensiero. Ricchissimo di genialità, egli difetta di quella più comune virtù, che, per una comoda antitesi, potremo chiamare intelligenza» – pag. 121 – Parlare di genialità, qui, è troppo; più tosto battezzo le attitudini mentali d'annunziane come istinti illuminati: dobbiamo sempre considerarlo fenomeno di virtuosità naturale, nella serie esatta dei tenori e delle ballerine di cartello. – «La sua appariscente cultura si rileva senza lacune dalla lettura dei suoi libri» – pag. 122 – è varia ed antietetica, non formò mai sistema a nocciolo; «è un ricettario di dottrina che trovò grande fortuna tra le signore. Manca dell'essenziale carattere che contradistingue la vera dottrina, la vera coltura; l'intimità, il disinteresse. Tutti i libri che D'Annunzio ha letto, tutte le opere d'arte che ha ammirato furono immediatamente decorati dal timbro, non già di una personalità inconsapevolmente assimilatrice, ma d'una energica volontà infaticabilmente raccoglitrice di materiali per il solo libro, per la sola opera che veramente le stesse a cuore: il suo libro e la sua opera» – Pag. 122 – Si può, da qui, dedurre facilmente il dolo specifico ed operante del plagio; ne discorreremo, con più agio, altrove. «D'Annunzio non legge e non studia per amor dello studio; che, se improvvisamente venisse a mancargli la frenesia creatrice, gli si estinguerebbe di colpo anche la pazienza e l'attenzione necessaria a percorrere un volume. La sua cultura è un arsenale d'arnesi del mestiere, visibile, palpabile, calcolabile, numerabile di primo acchito, come un fondo di cassa, in metallo sonante» Pag. 123 – Egli assorbe come spugna ciò che gli è in altri simpatico, che gli si addice; rifiuta le espressioni e le idee idiosincratiche col suo temperamento. «Perfino Platone, nelle Vergini delle Roccie è d'annunzianamente truccato. Questo metodo tirannico ed usurajo di lettura non toglie pregio come pretendono gli esploratori di fonti ed Enrico Thovez, fra loro, che è senza dubbio il più diligente ed acuto all'opera, ma spoglia di ogni serietà la coltura del D'Annunzio». – Pag. 125 – Quando a non diminuirgli l'opera vedremo; certo è che essa, imprestando da Tolstoi, Dante, Baudelaire, Maeterlinck, Verlaine, Tomaseo, Swinburne e da mille altri, rimpicciolisce il loro concetto severo, sereno e sincero, nella carezza meretricia, lusinga d'annunziana. Fate di ciò le proporzioni, anticipando quelle che farò io pure un po' più avanti.



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