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Or dunque, come avesse ignorato la istante, continua, profonda efficacia (nelle avventure sanguinose e infiorate, tragiche e gioconde della umanità) di questa forza, di questo desiderio, per cui fu possibile la figurazione del Pan mitologico, il poeta abruzzese, quasi destatosi da un lungo sonno comatoso, riapre li occhi alla evidenza di lui e lo scorge accolto, partecipato, assimilato, ed anche, dai migliori, personificato nelle attitudini del tempo presente.
Egli sente intorno delle parole, le quali affermano l'indirizzo agnostico e non mistico della società, che si dirige praticamente alla conquista di sicure e positive efficienze.
Un buon vento di critica, un buon sole di persuasione, fugarono le ultime caligini dalle coscienze turbate; il positivismo non ha potuto contradire alla scienza, ma scienza e positivismo, usciti a perfezione dall'empirico tentativo del sensismo, si opposero, trionfanti, alle religioni ed alla metafisica fumigosa: donde il paradiso, l'al di là, le gioie eterne di una seconda vita immortale di puri spiriti dissoluti dalla materia, od i tormenti artificiosi ed esasperati della lussuria sadica dei troppo casti, fabricati dalle imaginazioni ossesse dei monaci del mille, caddero nel ridicolo, fandonie bambinesche, e ciascuno si industriò di produrre per sè, in terra, la felicità, poi che il paradiso doveva essere di questo mondo. Felicemente, l'uomo ha presto imparato a distinguere il pregiudizio teologico dal pregiudizio morale, osserva Nietzsche; ed egli non ha cercato più oltre al mondo, l'origine del male e del bene; ma ha voluto sapere quale contenuto reale, positivo, ponderabile potessero racchiudere queste due valutazioni assai spesso soggettive, estraendone una radice comune di necessità ed un comune sentimento operante, per l'uno fuggire e l'altro possedere.
Ed ecco che, formulata con sicurezza categorica, con esteriorità letteraria, con superbia filosofica, D'Annunzio ode la parola capitale: «Il più importante delli avvenimenti recenti – il fatto che Dio è morto, e che la fede nel Dio cristiano è già scossa – comincia a proiettare sopra l'Europa le sue prime ombre». (Nietzsche: La Gaja Scienza). E, commosso di subito entusiasmo, dalla formola, estrae il corollario; il Gran Pan è vivo. Ne sia egli l'Araldo; verità millennaria già espressa sotto innumeri imagini, in breve anello di frase od in larga collana di periodo, verità continuativa, ora solo potrà essere conclamata alla gente, perchè, crede il poeta, che egli solo abbia compreso realmente e realmente operato secondo quell'indice infallibile e da lui scoperto sotto le scorie del tempo.
«Udite, udite, o figli della terra, udite il grande annunzio ch'io vi reco, sopra il vento palpitante, con la mia bocca forte».
«Il mio canto vi chiama a una divina festa.
La bellezza del mondo sopita si ridesta come ai dì sereni».
«Mentì la voce
che gridó: «Pan è morto»!
Dall'alto delle terrazze che dominano, egli getta il grido anfigoricamente, come un retore alessandrino; giuoca coll'Annunzio e col D'Annunzio e rassomiglia in punto a Péladan, quando, dal semplice suono delle lettere costrinse una caldaica parentela, risalì a Beladan, ed, illustratosi di Sar, volle comparire, in cospetto a Parigi, mago di scienze esoteriche, signore del fluido, della Kama-roupa, volontario dominatore delli elementi e delle plebi universe. Per il letterato di Pescara, oggi, nell'anno 1903, a mezzo primavera, cioè nel giorno in cui il primo volume delle Laudi appariva al pubblico, il Gran Pan cominciava a riesistere.
Noi gli vorremmo prestar fede per opportunità poetica, dimenticando quanto l'ultima volta vi abbiamo detto, in quella nostra erudita cicalata forse a molti noiosa; noi, qui, vorremmo, attenti, credere in tutto a lui, ed aspettiamo che turgide di fiato le guancie e rubiconde, allo sforzo, diano note alla tromba, per la gloria del mondo, della materia e dell'universo piacere nel ditirambo rivelata; ci accontentiamo del suo messianismo predicante, se ai meno profondi, come avvenne poco fa, (un monsignore romano lo ha preso sul serio, e, dal pergamo di una basilica, ha contrastato, ottimo banditore, all'ateismo poco pericoloso dell'opera) qualche profitto indiretto ne riesca.
Ma, invano abbiamo cercato, per entro la sequenza dei versi battuti a fuoco in modo insolito, l'apoteosi del divenire, la didattica del pervenire, l'impeto fatto armonia delle successive vittorie del pensiero umano, l'epirema al sacrificio utile, il peana per le passate e future libertà.
Il Gran Pan si è ridotto ad essere genietto personale al servigio singolo del poeta; il Gran Pan si diminuisce, gli si mette accosto, come un angelo custode, o come un daimon benefico; anzi, non so se più scempio, o più vano, gli suggerisce
«O figlio,
canta anche il tuo alloro».
E D'Annunzio ubbidisce. Grata fatica e simpatica; cantare sè stesso, dimostrazione semplicistica delli Eroi di Carlyle; incensare sè stesso, il cervello e la sensibilità massima che si imprime di tutte le vibrazioni del mondo, che crea tutte le maggiori cose. Si riassume: le sparse membra di Sperelli, dell'Hermil, d'Aurispa, di Cantelmo, di Stellio Effrena, si ricongiungono e si riplasmano; le divise coscienze loro ritornano alla coscienza iniziale del padre; tale breve umanità si concepisce in un uomo solo, nel poeta delle «Laudi», l'unico, l'universale.
Canta li amori, i molti amori suoi e le molte positure; golosità morali, cerebrazioni, degustazione estetica formano la teogonia erotica. L'anima sua vorrà compiacersi anche del sadismo e vi si illanguidisce, sul ritmo della strofe. Canta, Tiberio nuovo, il desiderio per la Plejade, da cui attratto nella notte fiorentina, sentivasi ossesso, come quegli, dalla cima della torre romana, spasimava per Ecate triplice e ginandra: canta i viaggi, lungo l'Ellesponto e per il mare mitologico, sapiente di antichità già celebrate, non una inedita, visitatore meritorio di musei internazionali, buon mnemonico di calchi, di statue, di quadri e di aggettivi omerici, eccellente intarsiatore di frasi peregrine rilevate dalla Antologia greca.
Viaggia e fa il mitografo; perchè ogni cosa vive, sente e partecipa del grande movimento cosmico, ogni cosa deve essere divina, ed a ciascuna assegna nello spazio il nome di una figurazione pagana; perchè egli riduce alla bellezza greca, alla purezza sopra-vissuta dei cimelii, la pietra di paragone dell'arte, ogni cosa verrà ad essere confrontata con un modello, con uno stampo, così cercando il nuovo fa nuovo imitare.
Le lunghe enumerazioni catalogano il suo bello permesso. D'Annunzio le esprime categoricamente; egli, amante del moto, fervido della vita, ha dei preconcetti retorici ed academici, pone delle dighe, delle limitazioni al manifestarsi; permette e no; rifonde uno sterile classicismo, ed, indirettamente, statuisce sulla proprietà ed i requisiti della estetica. Contrariamente, ricordomi di un Vecchio, che, sotto il platano, in sulle porte d'Atene, intrattenne Taide, venuta da Corinto e da Mègara per sfoggiar le sue grazie; e so, che Wieland socraticamente (ed il Vecchio era Socrate) lo fa diserto così: «Che, sebben ciascuno ami il bello, pur non v'è forse un solo che sappia dire a sè stesso o ad altri ciò che egli sia». Onde meglio mi accontenta questa non definizione che tutte le approssimative riduzioni aforismatiche, per cui si voglia sostituire un concetto fondamentale, sicuro ed universale, ad un vago fluttuar di sensazione.
Comunque, viaggia, assapora, s'inebria principalmente. Non è il buon filosofo1 d'Andrè Gide (Nourritures terrestres) che insegna a Natanaël il breve e capzioso viaggio della vita, e che lo prega ad interessarsi più alle cose che a sè stesso, umile ed entusiasta prodigatore di gioia; ma è un falso padrone, un illuso despota, che passeggia, calpestando, costringendo, violentando la natura perchè del suo sangue, del suo vino, del suo umore fermentati vi abbia a bevere calici ripieni, sino alla feccia: o pure, veramente, vuole, costringe, violenta?
Formule! È Nietzsche, che ancora bulica nel suo cervello (vedi:2 L'Umanità dell'avvenire – Vita Femina – Socrate morente – Noi che siamo senza paura). Ed il D'Annunzio vi si comporta come un bambino irrequieto, bramoso, eccitato; ogni paesaggio, ogni veduta, ogni urto o fremito esteriore lo tramutano; pensa, in quel punto, col colore dell'erba di quel prato, col profumo di quel fiore, coll'armonia di quel gorgheggio. È l'atomo vagante, che si commista col tutto; non è una cellula pensante e volontaria, è la cera che si imprime d'ogni suggello; e, se crede d'emulare l'eleatico Aristippo (Sibi res, non se rebus submittere) il quale coltivò il suo ingegno per accrescere la somma dei piaceri, signoreggiando le passioni, per scemare le pene, cercando, nell'amabilità, nuovi mezzi e nuovi strumenti di gioja; riducendo l'amor di sè stesso a principio, fuorvia e s'allontana, nella passione disordinata, dalli ideali e si lascia trascinare.
Egli è la barca fragile che barcolla, barella e cavalca sui flutti, séguita le altitudini, le sinuosità, o li abissi dell'onde; è la foglia da poco spiccata dal vento da una rama e caduta nell'acqua, carreggiata nel fiume verso la foce. Non impedisce al defluire, non ostacola al mareggiare, non impera; crede d'essere felice, perchè si adagia e si confà a sfuggire li scogli, a cercare le mollezze delle curve, per cui scoscendere, la tiepidezza della corrente, per cui lietamente estuare. Non combatte, non si ribella; piuttosto accomoda il suo volere, che è il suo capriccio, alla teorica di Zarathustra, già che le proposizioni furono prima enucleate ed a lui bastava di conformare la sua legge morale a quella presentazione di amoralismo, per dirsi «Vivo filosoficamente e della vita faccio un poema».
Riflesso: lastra simpatica, s'imprime dell'Odissea, dell'Iliade, di Eschilo, di Sofocle, del bassorilievo del Partenone, dei plinti sfasciati, delle colonne doriche abbattute del tempio di Dodona e del delubro di Eleusi, a volta colla atticità di Aristofane, a volta colla grazia di Teocrito, a volta coi mimijambi di Arondas, sempre rispecchiatore, sempre derivazione.
Solo, con una povera ingiuria, egli vide Elena ultima nel dicterion, sottoposta alli oltraggi promiscui dei marinai, internazionale venditrice di amplessi, e, dalla classicità d'un balzo (oh ricorrente Heine!) ritrova l'ironia romantica e la simbolica inversione:
«Vedo, tu
desti la dramma
a Elena figlia del Cigno,
che è fatta serva millenne
d'una meretrice di Pirgo;»
egli, il meno competente a sermoneggiar di patria in faccia ai mani dei bruni Palicari e molle per gioventù dimentica. Invece generoso l'altissimo, ch'egli crede emulare e strisciargli presso senza farglisi accorgere, Byron, quando Italia, più misera e disperata, era oppressa da congiure imperiali e da some d'armati stranieri, le si volgeva, ed al canto quarto di un suo poema, pellegrinaggio di bellezza sicura, inscriveva «longing after immortality – the immortality of indipendance» per la passione già mai estinta della immortalità, immortalità d'indipendenza, noverando i nostri nomi più chiari, dal Foscolo al Mai.
Comunque, D'Annunzio viaggia, postremo, per l'Ellade.
Altri e migliori prima di lui condussero sè stesso e i loro eroi tra il Cefiso e l'Eurota, tra Delfo ed Eleusi, tra il Parnaso e le Termopoli e lungo l'Egeo trasparente ed instabile. E quando le verdi Lorely del Reno vennero a bagnarsi nei fiumi sacri, pellegrine di Germania, a Roma e ad Atene, mentre Hegel ritrovava la distrutta armonia tra la ragione e l'imaginazione, Schelling esponeva la idea fondamentale della filosofia di natura e della libera investigazione; Federico Hoelderling traduceva in azione letteraria i loro perchè e dava L'Iperione eremita della Grecia, entusiasta: pure Martino Wieland, da Biberach, scendeva al Partenone, più molle e più grazioso, Voltaire tedesco, attendeva all'edonismo e coll'Aristippo opponeva voluttà dignitosa dell'arte, contro l'austera frigidezza protestante del Cristo di Klopstoch; e, per altre vie, a riforma di una ragione sociale, Barthelemy abate orientalista, risparmiato dal Terrore, che in parte aveva suscitato e conservato alle lettere ed alla numismatica, inviava Anacharsis, desideroso di rivoluzioni: discepolo alacre alli Stoa ed ai Giardini filosofici, Le Voyage du Jeune Anacharsis en Grèce. Ma, sommo, volse disincantato le prore, sibarita satollo e fastidioso, un Giorgio Gordon, sotto la maschera del Childe-Harold; vi si ritemprava, armandosi sopra la gelata ironia del Tamigi, di strali d'oro e di luce solare.
Donde il sarcasmo, che lo accompagnò in sul partire (ricordate la seconda stanza del canto primo del Pilgrimage): «No3 waiter but a knight templar», non giovinastro bagascione, ma cavalier templaro, doveva consacrarsi verità ed elogio, se, a Missolonghi, combattendo, per quanto non morto di spada, chiuse la vita di poeta e d'uomo, rara specie di vizii grandi e di grandi virtù. Forse invidiati dall'ardente Foscolo, persecutore di gloria e di libertà, già mai soddisfatto: Foscolo, che ha segnato la più alta vetta dell'eloquio nostro integrato e il più nobile pensiero insofferente di dispotismo, lirico repubblicano; Foscolo, che meglio fece di tutti, quando nei Sepolcri, nell'impeto panico di pochi versi, riassumeva l'anima greca, e nella visione del navigante che veleggiò quel mar sotto l'Eubea, personificava (oh piccolo D'Annunzio!) riti, amori, guerra, passato e divenire della stirpe pelasga e dell'arte immortale.
E bene, nessuno di questi stipiti di propaggine e di nome nell'istoria, che hanno agitato pensieri ed azioni, portarono il loro orgoglio, nell'incontro con l’astuto Odusseo, a colloquio; nè per tre volte gridarono e nominarono una loro forza gigante ed impersonata, ascrivendola alle Castalidi:
«Euplete, Euretria, Energeia»,
decima tra le Muse. Convinti fecero, non si volsero solitari alle lodi autoctone. Smisurato di superbia l'ultimo schivò la modestia ed è più basso in paragone.
***
Di tal modo ritorna alle sponde italiche e rivede le città terribili. Nella canicola, nel vespero primaverile, nelle notti minacciose e torbide ritrova la civiltà conglomerata dentro le fortezze, nelle ergasterii, nelle torri fumanti e rossigne delle officine, nelle vie fervide di carri elettrici, di locomotive catrafatte, rischiarate dalla chimica dei gas e dal costante globo della luce voltaica.
Avvenivano frequenti le sommosse; spumeggiava l'oceano delle folle nelle piazze: reclamavano un diritto a lungo negato i ventri; spirito e carne: a badalucco correva la cavalleria, ultima sanzione di governo e rideva, scheggiandosi, la sassaiuola dalle improvvise barricate, costrutte dai bambini affamati e dalle donne4 convulse.
Vide le miserabili città per una sciagura necessaria di rivolta, processionare; e il Demagogo precederle, vicino alla bandiera: vide, fors'anche, i morti, i moribondi, i lacrimosi, i sacrificati, ed egli l'Araldo, che recava dalle origini della stirpe nostra, quale il balsamo alle ferite, quale predicazione di guerra, e di pace, o di vittoria per coloro che chiama Li Effimeri, l'Araldo di albagia, per i fratelli? Ha trovato un Profeta coprofago:
«Foggierà egli
il fango?
Smuoverà il letame!»
E si ritira e si balocca colle imagini e si annubila di sogno e ricanta il suo io.
Un principio confuso gli fermenta in capo. Assegna alli Effimeri una comparsa di lontane ombre, lustranti, per varietà, sul fondo della scena tragica. Saranno i vinti dalla fortuna, dall'oppressione, dall'ingiuria, dalla nequizia delli uomini, saliti senza merito alle cime, cose da mercato, ingombro gemebondo; egli, l'Egoarca della inutilità, potrà destinarli nel tempo e nello spazio, pedine di giuoco, come al suo piacere talenta, sopra il pezzato scacchiere della vita.
Con altre intenzioni puramente formali e da dilettante (lo spinge la moda), dà l'inno alla imperiale straccioneria della suburra: la glorifica, pezzenti sanguinari, fulvi animali indomesticati, nell'ubriachezza, brandendo il coltello, atleti di sobborgo, rigonfi di muscoli, le braccia pugnaci, escrescenze velenose del delitto e della miseria, mantenuti dall'amore anormale delle quadrantarie e dalla paura dei custodi dell'ordine.
Scende con loro nei lupanari; e gli rappresentano antiche ginnasiarche e recenti lotte, ritorno alla bestialità primordiale. Con altra partecipazione, con altro sereno amore di compassione e di redenzione, evangelizzano i selvaggi, che vivono nelle fervide cerchie delle città attuali, Eeckoud e Gorki; e, l'uno dalle praterie e dai boschi delle Campine, l'altro dalle steppe ucraine portano li eroi refrattarii e sequestrati dalla comunità, scoprendo, a chi vuol ignorare ed a chi teme, i tesori nascosti nelle fonde, semplici e fruste coscienze rudimentali.
Il D'Annunzio, che non si cura dello spirito, si afferra alla materia, perchè, occupandola di lui è persuaso di un possesso; ama invece che rimangano come sono, liberi e maleficenti, rappresentanti della forza barbara, della sua forza, cui, s'egli non fosse stato poeta, avrebbe usato, potendolo, nella lotta per l'esistenza, a pervenire.
Tal sia, condottiere d'appetiti: tal sia, nell'arrovellato pretendere a sempre nuovi godimenti. La pace è per i deboli; la vita è la ebrietà continuata del moto: Energia! Ed allora, perchè ammirare l'ordine divino e statico e preistorico, la susseguita gerarchia da Zeus; rammaricarsi della detronizzazione:
«O Zeus,
Tiranno più grande,
sei tu dunque caduto per sempre?»
E non riconoscere la sequenza di lui, in un Jehova, in un Cristo, condannati del paro:
«Gli Effimeri
onorano il canto
ribelle, obliosi del tuo
ordine puro, che solo
generò l'Universo?»
Ammesso un despota, tutti si ammettono. E perchè anche il Prometeo sfigurare, nell'ingiuria al Dio? Come un anarchico amorale, d'Annunzio, nelle complesse e confuse teorie che gli fermentano dentro, trova la soluzione ed il motivo dell'operare, del fare il bene per tutti, quel bene, che sia un piacere per tutti?
Gli basterà assegnare ad un vago socialismo alla Saint-Simon papismo industriale, dopo la teocrazia di Giove e prima dell'esplosione delle forze brute delli indisciplinati barabba, una funzione remissiva alla fatica umana, una azione intelligente sulle machine produttrici, a favore dell'uomo che vigilia?
«Il supplizio
carnale era bandito
per sempre, il dolore assumendo
l'aspetto di un re soggiogato:»
per ciò, figura come già cominciata l'esperienza buona; ma in quale parte ha cooperato, colla vita, coll'insegnamento, ad affrettarne il corso? Egli non lo sa dire, nè lo può dire; osserva, non incita se pure voglia farsi credere agente; dimostra ancora qui la sua insufficenza a creare.
Vivere, creare, produrre nuove enti a propria simiglianza significa, prima, rettificare la propria coscienza, mondarla dai depositi carreggiativi dentro, infiltrativi dalla imitazione del conformarsi; poi, esprimere dal proprio genio, sotto le ambienti richieste delle attualità, quanto che meglio corrisponde al bisogno dell'ora. Ed in questo, come nel resto, come nelle Laudi eclettico, se da Marsilio Ficino della magica di natura trascorre al Darwin della evoluzione, egli si sarà imbevuto di tutto e di tutti, credendosi personale.
Virtù della illusione: ecco la falla larga ed aperta, mascherata a lui dal presupporsi, rattoppatura spessa ma poco efficace. Così un bambino scolaretto, nei giorni lieti delle vacanze, accetta, nell'esiguo orto famigliare, la favola di Robinson Crosuè; imagina in un'aiuola l'isola deserta, nell'ombria di una pianta la grotta; si accomuna e si immedesima nella finzione, e, se è solo, è, ora il pioniere, ora il selvaggio Venerdì, eccesso esteriorizzato di recente lettura.
Di fatto, la psicologia del carattere d'annunziano è, almeno da quanto appare dell'opera, per nulla complicata. In fondo, sotto le incrostazioni, sotto i sedimenti sopraposti e distintissimi, che la coltura, la raffinatezza, il trionfo, le lodi e la jattanza hanno depositato intorno al nucleo della coscienza prima e sincera, questa facilmente ed ancora si scopre. Semplice, entusiasta, squisita permane: si meraviglia, con orgasmo fanciullesco, delle bellezze ed eccita la volontà ad emularle; continuamente in fremito, in agitazione, vibrante minuzia temprata ad ogni soffio di brezza, credesi produttivo di armonia e presume proficuo l'agitarsi sul posto ed il contemplare i diversi aspetti suoi successivamente acquistati nei diversi momenti della sua lunga crisi. Certo il D'Annunzio può dire, perchè lo crede ed ha fede di credere il vero ed il reale, col maestro: «No; la vita non mi ha ingannato. Anzi, d'anno in anno, la trovo più ricca, più desiderabile, più misteriosa. Oggi non mi si rappresenta più come un dovere, una fatalità, un inganno».
La vita è così un mezzo di conoscenza; con questo principio nell'anima, non solamente si deve vivere coraggiosamente, ma ancora con gioia, ridendo di gioia. Ma egli sarà come il maestro colui che ha sopportato la soma delle miserie, che ha vinto nelle sere di battaglia, all'ultimo raggio di sole, le estreme vittorie; sarà l'uomo che si lasciò dietro un orizzonte di mille anni, per portarsi sul margine, erede di tutto lo spirito del passato, foriero dello spirito del futuro? L'uomo il più antico ed il più a venire, carico delle conquiste, delle scoperte, dei desiderii, delle disfatte di tutta l'umanità; l'uomo-umanità, simbolo riassuntivo di tutto questo, in un solo sentimento? No, egli s'aggira intorno alla tavola famigliare imbandita nella sala da pranzo, leggendo l'imprese di Magellano e del Kooch navigatori; egli perciò crede di aver circumnavigato con loro; perchè passionalmente ne seguiva dal volume l'avventure.
Bene si ammirano, tra i paradisi artificiali, e si gustano assai viaggi non intrapresi. A che dunque ostinarsi in una lunga raccomandazione? Più che il proprio talento fuorviato, il quale ci poteva conservare integro il D'Annunzio originale, vogliasi ringraziare della deturpazione lo stuolo e la corte che gli sta attorno e che, ad ogni nuova pazzia, frenetica di meraviglia e d'ammirazione. Per ciò volete lamentarvi, se, in sul lasciarci, dopo settemila e novecento versi, recita l'Encomio dell'opera?
«Noi abbiamo
un canto novello
perchè tu l'oda, questo grande
Inno che edificar ci piacque
a simiglianza d'un tempio
quadrato......»
E l'ascoltiamo magnificare il numero impari, oscuro e inimitabile, e scandere il verso per l'elogio del verso. Nuovo, oscuro, inimitabile? L'adotta dalla strofe pindarica e dai cori aristofaneschi, con larga partecipazione della metrica comune.
Di solito l'incomincia con un'arsi fortemente accentata, per scivolare nella tesi ripidissima; con tonalità maggiori, come se una schiera di Menadi venissero agitando sistri e crotali per ballarvi davanti, rumoreggiando quasi a mostra d'impeto orgiastico e ditirambico di cui s'infiamma.
Poi, ad interrompere, mentre il rumore si avvicenda e si propaga, un arresto di dissonanza: un urto, un colpo di gong chinese tra li strumenti classici, anacronismo, vi percuote in petto e vi fa sospesi sulla fine del periodo musicale; rara la patetica bemolizzata.
Questo è il suo verso libero, ch'egli vorrebbe imitatore e plasmatore del tutto. Ma a convenzione antica, opporre convenzione sua e recente è pleonasmo; e quando si abbia l'audacia di una riforma prosodica, cioè di una lunga e logica parola poetica, si deve essere indifferenti della sua misura, nè devesi spezzarne il significato nè dividerla in più tronchi d'espressione, se eccede d'in sulla pagina.
Il verso libero deve suonare, imitando, la cosa, il pensiero, l'azione che rende; deve essere continuativo sino al completo sviluppo della frase, sia di una sillaba, o di cento.
Con ciò il concetto si ferma e si certifica; lo si riguarda nella idea, nei sentimenti, nella storia e nella mitica, come esistente in sè poeticamente. Donde sequenza sinfonica vuole, che ogni parola sia proporzionata al suo ufficio, che le armonie imitative e morali v'abbiano la loro maggiore espressione per l'udito; che ogni attributo sia un plasma concreto per li occhi e per il tatto. Diremo di più? Non è il caso di un trattato di metrica; accenno che altri, meno fortunati, in patria, già osarono un loro numero personalissimo, creduto, pazzia od originalità di cattivo gusto; e che, in Francia, tutta la poesia simbolista ha snodato, dall'alessandrino, quelle forme di ritmica, per cui l'espressione inesprimibile si fa certa ed evidente, da quando un Manifesto del 18 dicembre 1886 ad Anatole France, compose dal Figaro il geniale Moréas spiegandone il bisogno.
Ma vale il dolersi? A nulla riescono le mezze misure, il timido concedere, li empiastri oppiati d'algontina, che allievino un poco, temporaneamente e lasciano il male, la cattiva abitudine, la falsa opinione, le innumeri sciocchezze ancora inradicate. Così, per quanto noi nel caso presente, non si abbia ricorso a lenitivi euforici e miserabili, pure, davanti ad una fama consolidata da quei mille fattori, che l'altro giorno avete saputo, non crediamo di aver raggiunto, con profitto, scopo mediocre o meritorio, ma solo di aver parlato secondo il nostro intendimento. Perchè coloro che se ne intendono hanno molte ragioni presso di lui per non andargli contro e sono per ciò i manutengoli della errata estimazione: altri, che non hanno prestigio catedratico, ma che sanno, se anche preferiscano la franca censura alle lodi supine, parlano ma si procacciano invidie ed inimicizie, che meno aiutano alla lealtà del giudizio, o si dirigono a chi schiva di udire.
Il resto poi della folla, la quale accorge solamente il rumore delli applausi, anch'esso batte le mani e fa coro; ama d'essere grossolanamente ingannato e non si lamenta; che anzi, alla torpida ed infantile coltura, alla affrettata e superficiale conoscenza, alla estemporaneità del gusto di parata, servono le contrafazioni, le borie bambinesche, le vuote magniloquenze di chi ha creduto procedere di capolavoro in capolavoro, proclamandosi l'unico e l'universale, non so se con maggiore e deplorabile superbia di millantatore, o con più astuta abilità di trafficante verboso e spregiudicato.
In ogni modo, per fortuna prodiga ed irriflessiva, Gabriele D'Annunzio persiste e si distende sulle nuvole gonfie della rinomea contemporanea, demiurgo operante l'eroica e l'erotica, in cospetto delli Effimeri, straniti e sorpresi, greggie di buona e pingue tosatura.
CONTRO LA VANITÀ.
«Non enfiarti, altrimenti
la puntura più piccola ti farà crepare».
Crepare, nel senso latino: Crepo, mi spacco, facendo rumore, donde quel dio post conviviale, il Crepitus, oggi, rifugiatosi, paganamente ne' villaggi, dove si fa sentire nelle ragunate dei villani dopo cena.
«Ancient of days! august Athena! Where
Where are thy men of minght? thy grand in soul?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
Quanta maestà e quanta magnifica e solenne malinconia snodasi, cantando, e si insinua in noi da queste stanze invano prese ad esempio dal Pescarese; scandetele sull'originale: Dick's Byron poeple's edition, with life and portrait, London: J. Dicks, 313, Strand. Vedi la buona traduzione del Pellegrinaggio del genovese Giuseppe Gazzino, che segue da presso il testo in un sonoro e ben ribattuto endecasillabo foscoliano.
«Taci,..... bestia
da macello e da soma!
Porta su la tua schiena il peso
di colui che ti doma,
e, poi, senza gemito spira
sotto il coltello tagliente.
Silenzio! Silenzio! Sol degno
è che parli innanzi alla notte
chi sforza il Mondo
a esistere e magnificato
l'afferma nelle sue lotte
e l'esalta su la sua lira.
Taci tu, cosa da mercato,
ingombro gemebondo!»
Quanta grazia magnanima per il popolo, non è vero, avvocato Gasparotto, che scioglieste l'inno al battezzatore della Università popolare milanese, ritornato all'abbraccio fraterno delli umili! – E, per mettere a pari un da Verona con un D'Annunzio, ripeto quelle conclusioni che vi promisi più in su: credete, si equivalgono i due poeti e poemi civili.
Per le orribili giornate di quella primavera, che ricordano re Bomba ed i Croati, e tutte le soferenze, e tutte le vendette astute e gesuitiche, e tanti lutti, e tante lagrime di vedove e di madri, il Verona vide la plebe,
«con le sue donne macilente e
i figli
precoci nel delitto, uscir briaca
per le strade, imprecando una vendetta.
Erano cento
erano mille!.....»
E vide i:
«giovani perversi,
ubriachi di vino e tormentati
di una sete di sangue».
E vide una:
«pietra lanciata da una mano inconscia,
contro la forza della patria legge».
E udì:
«qualche tinnio d’armatura e qualche
nitrito di cavallo».
Mentre, ahimè! sciagura e blasfema e delitto, qualcuno, (chi in verità?) concionava:
«Urla, e domani
non avrai sofferenza!»
oh, tribuno sbracato e imaginario, a vociare!
«Nell'arche dei patrizii
Sono tesori per comprarti il pane»
(che è forse vero, se non fosse apocrifo).
Poi vi conferma, per filosofia, che:
«Una legge vital vuole, che l'uno
accenda il forno e l'altro mangi il pane»;
per quanto non mi paja una legge molto equa e niente democratica.
Di questo passo trascorre per il sei, il sette, l'otto ed il nove di Maggio. Peripateticamente avrà campo di sobillare qua e là al giudice,
«che il popol ami, venerando il trono,»
d'incrudelire su quelli,
«che del
sangue versato han la coscienza
lorda ed abbietta».
Per cui la responsabilità è assai pericolosa e tende ad una minaccia dubia, secondo il punto di vista dal quale si considerano le cose.
Peripateticamente, avrà nella foga del coraggio lievitato in paura, un nobile incitamento alle cariche dei cavalleggeri, davanti alla casa Saporiti, teatro di caccia al monello, sui tetti:
«Avanti
perchè altro non sia più sciagurato
avanti, o belli moschettieri avanti!»
Così raccoglie nuove menzogne:
«Giunge alle porte il popol del contado,
con salde falci e ronche ed archebugi, (!!)
per assalir la preda di Milano:»
così, non dice il vero, seguendo le gazzette pagate, quando racconta che li studenti pavesi:
«vengon, recando sotto i foschi ammanti,
armi da fuoco ed armi da ferita;»
così insozza e percuote la donna milanese, quando, per sedurre i soldati, la fa, con una irritata imaginazione da satiro, sciogliere i lacci del corsetto e nude mostrar le poppe con lusinga oscena.
In fine, «snidati dai covi gli ultimi atleti del delitto civile,» posa la sua trepida pancia, ripara il suo cervellaccio astioso e frollo nel silenzio della città, perchè la città è morta, e grida: «Deh! respira bella Milano!» plaudendo alla sfilata dei prigionieri, «come ladri torvi nei loro aspetti», lungo le vie, circondati da lancie e da fucili, verso le carceri e le galere, per la gloria delle libertà civili e del conquisto assodato. Vi è un corteggio allegorico di Astuzia, Lucro, Odio e Viltà, che fanno seguito alli incatenati.
Applaudiamo, amici. Così si fa la Storia e si scrivono i Poemi. A farla a posta, la spugna ha voluto imbeversi nei rigagnoli nauseosi, che distillano dalle corti intime delle questure; carta bibula, ha assorbito il rapporto dei poliziotti. A farla a posta, ha ritratto la sua originalità dalle menzogne dei confidenti e dalle infamie dei processi marziali. Che la paura, spugna, abbia a calmarsi; non tremi gelatinosa la pancia; l'alba di regno amoreggia coi galeotti di ieri; governo e sovversivi, per le placide conquiste delle leggi economiche, (dicono) si sono sposati, morganaticamente infecondi. – Sì che fu allora, ed anche oggi, provvida necessità l'essere anche per il popolo clandestini, sparare le proprie Revolverate e vecchie e nuove, nella apatia e nella sorpresa maraviglia dei più vicini: rispondere ancora, per essere almeno compresi da chi ci dorme a fianco, colla Necrologia:
«Ma per tutti i morti che giacciono insepolti, pei morti disperati, per tutti li annegati, che vanno alla corrente e imputridiscono nelli stagni fumanti di malaria;
e per tutti i dolori sconosciuti della canaglia, e per tutti i livori delle ferite sulle membra forti;
e per queste coorti di morti, di uccisi, di appiccati;
pei languenti in le mude, pei sudanti ne' porti a vuotar dalle draghe il detrito e la melma dei commercii;
per tutti questi orrendi senza patria,
senza famiglia, senza nome e pane,
un cencio han ritrovato le olimpiche fierezze,
le regali ricchezze, le soavità muliebri, le nobili bellezze;
le mani bianche e fragili han deposto
un cencio, un cencio solo, onde si copra l'oscenità pietosa,
percossa, lacerata, estenuata,
un cencio, un cero, un fiore?»
Chi conosce tra voi questa strofe? Vedo; nessuno.
Gli è che quando un Cavalier Marino va in esilio per ragioni... economiche, la vera poesia civile è tuttora esiliata da coloro cui può giovare, e la retorica immedagliata e nazionalista trionfa e ingrassa.