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“Le Laudi” I due primi Volumi delle "Laudi” IV. PRIMA D'INCONTRARCI CON «ELETTRA» CI AFFACCIAMO IN CRISTO. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Provvido, aperitivo e geniale, un piccolo scandalo istrionico e d'alcova dischiuse testè la via alla rinomea sopra la nuova pubblicazione del secondo volume delle Laudi. La Figlia di Jorio1, proclamata, avanti che si conosca, come la più completa, squisita e modernamente italiana delle tragedie passate ed a venire, porse il destro alla attrice dalle bianche mani ed allo imaginifico di suscitare una baruffa in famiglia di qualche sapore estetico, per ricondurre l'attenzione dei troppo distratti borghesi sui casi della letteratura e della bottega d'annunziana. Non vale qui la pena d'insistere sulla pretesa disavventura comica; ma giova constatare, come in parte, per conclamare le Laudi, profitti in qualche cosa.
Abilità di merciajuolo in proprio consiste, primamente, nell'accrescere valore nominale e commerciale a quanto fu già in uso: a biglietti di dubbia scadenza, ad operazioni di mala riuscita. Banchieri in mora e coscienze, che obbligano ad un presto salvataggio morale, avvertono ed accettano i mezzucci rappresentativi dello sfarzo pubblico e della réclame, per allontanare sospetti di rovina prossima e per vivere ancora sulla buona fede, con queste forme di astuzia, cui la facile ipocrisia dei bacati, e la remissività dei goccioloni permettono.
Così lo scandalo grave, (molto spesso la sincerità è un mal fare) non viene ad interrompere d'un subito l'azione dell'inganno e la credenza dei babbei; ed, in modo non diverso, così può avvenire nella intermessa letteratura.
Chè anzi, giova una egregia presentazione tipografica che ricordi Aldo e Bodoni, giova la veste sciorinata ed alluminata delle carte al già saputo; giova un rimaneggiamento nel compilare, il quale abbia ad esporre come logica una serie di poemetti staccati antietetici e contradditorii in uno spesso volume; sì che a questo abbiasi a gabellare per eroica completa e pensata sopra una diretta ragione di vita e di filosofia.
Tali mi apparvero Elettra ed Alcione, li altri soggiungeranno «per malizia o per invidia». Perchè i critici, in generale, con larga superficialità li sfiorarono amichevolmente, un dopo pranzo cortese di profumati avana e di liquori confortativi, per trovarsi, al riguardo, molto compiacenti.
Un già ex-dannunziano (perchè è di moda non volerlo sembrare, ma in fondo esserlo) ci ritorna i due libri circonfusi da un'alta esegesi: ed a traverso la sua glossa li osserveremo tumidi della coscienza atavica di razza nostra, da che il poeta, ha il sentimento storico ed archeologico in atto di vita e di bellezza, quasi da informarne l'opera sua rispetto ad una irrefrenata necessità messianica del dire e dell'evocare. Ed un neo-d'annunziano, (vi sono, oltre che in botanica, famiglie d'arrampicanti ad erigersi sempre più in su, verso il cielo, in quanto più in su si estolle la pianta intorno alla quale convolgono e stirano le loro fragili liane) un neo-d'annunziano, ripeto, non si formalizza delle disparate opinioni che si aggirano sulla di lui poetica; ma si assicura che riguardandolo, come un idolo o come un nemico, incensandolo o demolendolo, parteggiando pro o contro, l'Abruzzese può ormai scrivere tutto quanto gli piaccia con franchigie più che costituzionali. Mirabile larghezza di libertà in patria, dove l'ignoranza di un funzionario e la libidine soppressiva di un magistrato si oppongono alla voce ed allo scritto con un numero di codice penale, rimaneggiato a favore dell'astuzia mediocre; libertà, in questo, otrajata spontaneamente dalla vigile critica, custode del patrimonio artistico nazionale, verso chi, più delli altri, doveva venire invigilato per la sua maggiore espansività e quindi per il maggior contagio morboso; già che il male dall'alto più nuoce e più si riversa.
***
Ma tutto ciò è lungo proemio d'idee generali per breve nota bibliografica. Più tosto, si sfogli il centone. Ed Elettra incomincia:
«Candide cime, grandi nel
cielo forme solenni,
cui le nubi notturne
stanno sommesse come la gregge al pastore, ed i Vegli
inclinati su l'urne.
. . . . . . . . . . . . . . . .
o Montagne, . . . . . .
ed avvisiamo l'alpinista di prosodia a scalarle.
Farà per Dante una similitudine di scoglio scaturiente dal mare: gli porrà vicinissimo un Re giovane che torna al regno dopo un fatto di cronaca passionale e transitorio per quanto rosso: verranno per Trento e Trieste, fregola d'irredentismo, quando li scolaretti vi hanno pretesto per tumultuare e il governo protegge le spie absburghesi al confine, le memorie risuscitate dai fratelli Bronzetti; e, poco dopo, per falso amor di patria, sul bizzarro intrico delle molli rime, che nascondono la fluida vena personale di Pascoli, l'epinicio ai marinai sfortunati, soppressi in China dalla ragione patria cinese.
Con lunga lena, Roma invocando, e ripetendo l'eroica dei Mille, viene, chiamando verità nel carme, a ripetere la Notte di Caprera, il miglior risultato del suo stampo, che poco fa ci illuse di un rinnovamento civile sulla voluttà barbara e spumeggiante della sua poesia, onde l'accogliemmo come primo ma unico gradino di libero e spontaneo riconoscimento.
O, volgendosi ai grandi trapassati nel secolo, che ultimo si aboliva al tempo, ma non alla storia, a mo' di un Marini2 raccoglie una altra Galleria: eccovi Giovanni Segantini, pittore di ghiacciai insuperabile; Giuseppe Verdi romantico musicista, che accentrò in sè uno sforzo ed una prova nella lirica tragica; Vincenzo Bellini rugiadoso ed ardente siculo di crome melanconiche; Victor Hugo, colosso caotico di imagini indefinite e paradossali, profondità burrascosa di ambizione e d'umanesimo, di libertà repubblicana e di aristocratico sentimento.
E, più in giù, per Federico Nietzsche, a cui la povertà del suo pensiero non difficilmente chiede prestito; al maestro distruttore che ci si presentò sorridente e sereno, mentre lenta pazzia lo turbava a morte, ha l'ode capitale dell'addio, ed in lui si specchia:
«. . . Questi è mio pari».
Bene da qui, pagano rivissuto, potrà chiamare Cristo3 gnostico un capolavoro; bene, lo potrà sepellire, morto e non più ingombro colla sua categorica predicazione di un altro paradiso opposto al suo.
E, non ch'io mi trovi di essere tenero oltre il bisogno per un Esseno mistico e doglioso, che soprafece di narcotico sapiente la vigilia de' Giudei ausiliari davanti la sua tomba, cui Giuseppe d'Arimatea, gli aveva apparecchiata d'intesa; non che io pieghi verso quel suo messianismo dubio e favoloso di paradisi sociali a rimunerazione delle angoscie, per cui la coscienza semita, pratica lo condannò, invece di Barabba, alla croce; ma dal fatto stesso che per venti secoli, or mai, perdura la sua dottrina, questo capolavoro che muore in cospetto alla scienza ed alla libertà universa, è troppo piccola parola, parola d'esteta, per significarlo.
Religioni e credenze, in quanto sono necessità psichiche di coscienze inferiori, non possono venire cassate dalle rime di un poema; troppo piccola è l'anima di chi lo detta, e troppo lontana dalla collettiva per farci credere ad una sicura rinascita ideale, suscitata dal suo verbo. Troppo piccola e troppo gonfia: un limpido, grande e sacrificato maestro, Blanqui, che seppe, per il suo dolore, il dolore di tutti, provò agitando, da una rivoluzione di popolo, certo più coerente e più efficente di una strofe, il rinnovamento, e si ripiegò sopra la teorica. Sta oltre la superstizione e la liturgia, in noi, un desiderio che non si discute, a sapere le cause prime: l'uomo, animale-metafisico, sta tutt'ora per l'indagine logica, ordinata, faticosa e turgida di sacrificio, per una pace certa di conoscenze a venire, quindi per il campo illimitato dell'inconoscibile o del sopra umano. Ed io, considerando, io, non religioso, non credo di poter fondare, sull'egoismo dei sensi o delle semplici dilettazioni, un principio di fede; ma per questo ho bisogno di martiri e di profeti al caso, e, con più sangue è sparso a battezzare il cranio dei contemporanei, sangue nostro ed altrui, così meglio, credo, alla vittoria definitiva della idea. D'Annunzio, si asside invece tra le rose, in un giardino di primavera, o sul divano soffice di un salotto profumato; là, convoca Cristo alla disputa; facilmente lo convince d'essere, tra il nuvolo dorato della sigaretta, improprio ai moderni; lo vede discendere dal legno del patibolo e confondersi colle altre divinità che gli stanno intorno venute dall'Edda e dal Mahabarata, dal mare di ghiaccio e dal mare di sabbia, simboli ed astrazioni, a recitargli un invito pastorale, mascherata di ripiego, ultimo rinascimento alluminato dai tenui colori del nuovo stile.
«Teodula di Cinzio.
Ohè, chi guarda il ponte?
Favetta ed Ornella.
Amore e Ciecamore.
Bisticci, ripetizioni, cantilene, col pretesto del folk-lore.
«Che cosa volete? – Che cosa mi darete?»
Tutti rimbambiscono; li attori fanno il giuoco dell'infanzia; e questa è novissima tragedia.
Nella Scena II dell'Atto III, si ritrovano le Laudi pel Venerdì Santo trecentesche:
«O madre, o madre, perchè sei venuta:»
ecc.
un po' più avanti, si riode La Lépreuse di Henry Bataille – Mercure de France, 1898.
Alla Scena I dell'Atto I, dalla fine toccando al bel principio, sento risuonare al mio orecchio meneghino:
«Ara bell'ara,
discesa cornara
dell'or del fin,
del cont marin,
di tri pitocc
strapazza bordocc»
o vero sia:
«Enchete, penfete, pufitinè
fabele, fabele, dominè»,
sulla canzonetta di Ornella;
«Tonta e pitonta,
la pecora pel monte,
il lupo per la piana
va cercando l'avellana,
l'avellana pistacchina!»
Affediddio! E codeste son giovani da marito, che parlano così, per quanto d'Abruzzi molti anni fa! Quando invecchieranno queste giovani e metteranno giudizio? – Comunque, anche Carlo Dossi si lasciò uccellare dalla Figlia di Jorio e così mi scriveva: «Sono lieto del bel successo della Figlia di Jorio del D'Annunzio, perchè lo merita – Milano 26 aprile 1904.» – Certo, da questo suo drama, il Dossi avrà veduto venirgli incontro maturo e vizzo quel Gabriele di Terra Vergine e di San Pantaleone, suo collega – autore sommarughiano, verso cui aveva già tentato di piegare una prosa di critico elogio. Duolmi, qui di non potervela offrire, tanto più preziosa, quanto più inedita; ma chi vi darà li inediti dossiani, se la clericale malignità ostacola al sottoscritto il suo dovere verso l'amico desiderato? Carlo Dossi, allora in quello scritto: Risorgimento dell'Abruzzo, ne dava l'onore ed al D'Annunzio ed al Michetti. Vi è da discutere se l'Abruzzo sia mai risorto e quale abbaglio prendesse l'autore della Desinenza in A, dopo aver conosciuto Rovani e Cremona, di aggiunger merito spiccato di nuova coltura regionale a Gabriele D'Annunzio ed a Francesco Paolo Michetti. – Subito cercai di rettificare l'opinione dell'amico, che, nel caso, non mi pareva esatta; e gli risposi:
«Mi hai detto che ti piacque la «Figlia di Jorio» del D'Annunzio. Io non l'ho vista rappresentata col seguito del cabotinage e della presentazione artificiale e studiata della scena e dell'apparato. L'ho letta soltanto, e, come sempre, mi è sembrata un centone molto abile, com'egli è costumato di ammanirci. Perchè ho letto molto e specie di quel genere novissimo che l'abruzzese si compiacque di portarci in patria, ho rilevato qua e là: sapore di Maeterlinck, derivazioni dalle tragedie filosofiche e mistiche di Claudel; contrafazioni della Lépreuse, del Bataille e di Tom sang. Aggiungivi un andatura lirica e passionale, che va da Shakespeare, alle bambine rappresentazioni de' nostri misteri del XIII e del XIV secolo; qualche rude impeto, rilevato e lucidato dalle farse cavajole, ed una gran faccia franca. Se mi occuperò di «Figlia di Jorio» pubblicamente, ti manderò copia della mia critica: nulla di più facile che lo sprezzarla e il farne vedere le troppo palesi derivazioni; nulla di più comodo e che meglio si presti ad una parodia per un grottesco letterario ed artificioso.
«Palazzo di Breglia, 28 Aprile 1914».
Di fatti, se daranno, nel sabato 16 Dicembre 1911, al Nazionale di Roma «La Lebrosa di H. Bataille, il critico dramatico della Ragione, il giorno dopo, scriverà: «Lungi da noi l'idea d'accusare di plagio Gabriele D'Annunzio; ma è certo che il grande poeta esule, doveva, per lo meno, aver sentito parlare di questa tragica leggenda medioevale sceneggiata dal Bataille, una quindicina di anni or sono, quando si mise a scrivere «La Figlia di Jorio». – A parte la differenza d'ambiente, i punti di contatto tra i due lavori sono molti ed evidenti, non soltanto nella struttura complessiva dell'opera, ma anche nello svolgimento di alcune scene e nel carattere di alcuni tra i personaggi». – Se poi mi sono ben addotto, scrivendo al Dossi: «che quella Figlia meglio si presta ad una parodia per un grottesco letterario ed artificioso», ve lo può dire lo Scarpetta – Sciosciamocca, che ebbe guai per averlo tentato, come vedremo più in là».
Nè lasceremo da parte, nella ricerca delle fonti della Figlia: «Flor de Sanidad» dell'originalissimo scrittore galliziano Don Ramon del Valle-Inclan; dramma che apparve due anni prima della tragedia pastorale abruzzese. Qui la simiglianza è evidentissima, uguali personaggi, medesima azione, medesimo scioglimento. La lettura di «Flor de Sanidad» è assai dimostrativa per lo studio delle derivazioni d'annunziane.
Pure, il Borgese ritiene La Figlia di Jorio opera del culmine vittorioso d'annunziano, per quanto si diverta, nello spiegarvelo, di curiosissimi giuochi di dialettica: «La Fiaccola sotto il Moggio» è «La Figlia di Jorio» capovolta – pag. 102 – «La materia della «Fiaccola» e della «Figlia di Jorio» si ritrova tutta quanta nei «Violenti» ed in «San Pantaleone», e non era mai stata messa in completa dimenticanza». – pag. 102 – «Ciò che seduce, ora come allora, D'Annunzio è lo spettacolo scenografico del popolo vestito di stoffe luminose, e il gesto di chi stupra ed uccide». – pag. 103 – «C'è nella «Figlia di Jorio» lo spirito studioso e paziente di un collezionista di stampe rare ed ingenue. I personaggi si inginocchiano, pregano, piangono, si scannano, diretti dai fili di un artista-burattinajo, meticoloso come un monaco scultore di sacri avorii, o come un vecchio orologiajo fabbricante di orologi musicali ed amoroso dei suoi vecchi pupazzi fino ad intenerirsi per le loro immaginarie sventure». – pag. 105 – Se ciò si chiama lodare un'opera, che si dice espressa da un autore al vertice della sua felice creazione; se ciò, di cui si parla con queste imagini, riesce ad essere una tragedia, cioè una crisi eroica di vita, liricamente ed epicamente esposta per azione scenica al popolo, certamente io non prenderò per modello il fare borgesiano per dar conto del Filottete, del Re Lear, delli Spettri, perchè sarei sicuro di tradirne ed il motivo e la sostanza e la forma. Ma qui, invece, non vi accorgete come la critica allegra del Borgese si attagli e serva bene l'opera dannunziana? Gli è che l'ironia del primo, forse da lui stessa non voluta, è acutissima, e la facile abilità del secondo ingannevole assai, anche per chi la mette in atto e se ne approfitta, cercando di sorprendere l'altrui ingenuità.
Si può aggiungere il resto per La Fiaccola sotto il Moggio: – il Guerino del tempo soleva chiamarla La Fiascola sotto il Moggio. – M. A. Garroni, in un fascicolo della Rivista d'Italia ricorda le curiose concordanze di questa con una novella, la ventiduesima nel Novellino di Masuccio Salernitano. Anche qui si racconta di un orribile omicidio commesso, afferrando come in una tagliuola a tradimento, sotto il coperchio di una cassa, la povera vittima per soffocarvela.
L'affinità continua parallela nella disposizione de' caratteri: l'eroina della novella, la femina di Aguito, è la bieca imagine di Angizia Fura; Aguito ricorda Tibaldo: nella novella, come nella tragedia, poi, ci è dato osservare, fra servi e padroni, un'amorosa corrispondenza che li fa complici, conducendoli al delitto.
I° Cristo di Fiandra, Mistero per i Bimbi del secolo Venturo, il mito di Gesù, determinato dalle diverse coscienze della Folla
LA MAMMA.
Occhi di cielo in gran serenità,
bocca scarlatta in tutta maestà,
volto divino e bionda umanità!
Ho paura del fascino insistente
ch'emana questa carne fatta simbolo.
IL BAMBINO.
Mamma, il fratello Gesù ha vicino
il Bove e l'Asinello.
IL FILOSOFO.
Or sta tra li Animali in compagnia,
similitudine
detta veniente e pia sublime carità.
L'ASTROLOGO.
Dà congiunzione tra il caldo e l'umido;
questa ci esprime la figurazione della coppa d'argento
piena d'acqua cui attorce un serpente.
E il Sangue di un Bambino tra le azzurre Pietre di un Mar lontano,
le Corna dei Narvali e tre Penne di stridule Civette,
dentro la storta, fumano, bruciano e danno....
Che danno? Ah! ah! una Pepita d'Oro dentro il fegato
del Basilisco torbido!
IL BORGHESE.
Santo, santo pel cuore e per la mente,
santo, figliuola, all'arcano passare!
LA RAGAZZA.
E il riso della bocca piccolina!
LA FOLLA.
Passa, passa che le Angiole cantano,
a stuolo, dentro all'aria che trema.
II° Cristo e i Pescatori; il mito di Cristo determinato come vendicatore libertario:
«Sono il Cristo Gesù di Galilea:
come un dì per le rive patrie e apriche,
lustro per la plebea
gente disconosciuto alle nemiche
avidità d'imperio.
Venni tra voi,
poi che in cuor mi portate;
ed io son tutto voi;
ne l'anima indagate,
mi vedrete morire e benedire.
Conosco il Pietro, il Paolo, ed il Giuda,
ma il Giuda non prevalse e n'ebbe scorno.
Ho nepente pel corpo che vi suda
nel diuturno lavoro ingrato al pane,
per l'anima che sofre, ho la parola.
Nessuno s'impauri e mi respinga;
la grande idealità
il capo vi recinga
di un diadema pungente,
se questa pargoletta Umanità,
che mi attende sperando,
lieta sommette e dà
fiori e sorrisi al redentore.
Oh, ma il sorriso è smorto
ed una spina è il fiore.
Non importa!
Le febri e l'agonia
incoronan la Morte,
come Me sopra al Golgotha,
d'un cerchio siderale;
e non v'ha poesia e fine nella vita
se non nella squisita
pena del perdonare,
poi che li altri sorridano.
Oh! Bambini! Vi bacio sulle gote:
domani il vostro braccio
rinnoverà la terra:
ho infranto le catene secolari
ed ho vinto l'oblio,
per sempre, Uomo-Dio!»
No; il D'Annunzio ha abusato di Cristo come un dilettante e come un bigotto, cioè da perfetto utilitario; nella ascesa della sua virilità compreso e pieno di sè, ne abusò disprezzandolo; nella discesa verso l'età sinodale, verso il raffreddamento del sangue, la metallizzazione delle arterie, ne abusa accostandoglisi con importuna frequenza. Ma D'Annunzio è troppo piccolo vicino a Cristo, e se ne vendica coll'insulto e la preghiera. Tutto questo, che può servire di norma ad uno psicologo sperimentale, per definire la curva biologica e mentale del suo soggetto, gli conferisce anche il diritto di saggiare la poca resistenza dell'organismo psichico e poetico d'annunziano. D'Annunzio diventa vecchio: vi è un proverbio veneto che suona: «quando el corpo se frusta, l'anima se giusta». Giuseppe Rensi, in Coenobium dell'Ottobre 1912, in un suo articolo Conoscenza e Volontà, lo avvalora col fatto, che, invecchiando, la mente ritorna «alla ricerca ansiosa intorno alla possibilità di una forma di vita futura. Queste preoccupazioni, che sono gli elementi fondamentali della religione ed anche di una elevazione morale, sono, nello stesso tempo, un segno non dubbio che la vitalità va dissolvendosi ed avviandosi alla estinzione, sono la premonizione della morte». Mi par che il Rensi ragioni all'inversa: e che il fenomeno religione sia invece da ricercarsi nelli organismi o società bambine, cioè incomplete o barbare, ed in quelli in dissolvimento, cioè rimbambite od in decadenza. Torniamo al «mens sana in corpore sano»; nè i bimbi, nè i vecchi sono cerebralmente sani; la religione è un fatto di inizio, o di pervertimento, non di sanità; all'uomo operante e responsabile basta il concetto del dovere kantiano, senz'altro, dove il Dio non esiste più, sostituito dalla Ragione. Più tosto, quando,
....i vegliardi che ai casti pensieri
della morte già schiudon la mente,
si incontrano compunti nei salotti, oggi della prudibonderia, se una vecchia gentildonna lombarda, che di Carlo Porta fece il proprio Omero di franca parola e di pensiero schietto, ne avvisa alcuno, che, a sua conoscenza, pazzerellò alquanto in gioventù, non può resistere dal tirarmi per la falda dell'abito, se le son vicino, ed additatomelo, dal susurrarmi all'orecchio, con molta sottile malizia: «Quand el cu l'è frust, el paternoster el diventa giust». Oh sì, a lei credo: la massima è singolarmente salace ed opportuna anche nel nostro caso.