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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Abbiamo veduto, divagando da idee generali ad osservazioni minime – non inutili e non contradditorie però per chi bene le osservi –, quel che è stata la preparazione sentimentale e poetica del nuovo florilegio d'annunziano.
E sconfinammo, perchè così il poeta, in Cristo ed in un problema che potrebbe essere di ontologia.
Comunque, il D'Annunzio, non si impaccia troppo nelle ontologie. Più tosto, sul ricordare e sopra l'aspettare,
«il sole
declina fra i cieli e le tombe;
ovunque l'immane caligine incombe»;
vengono a lui le molte Città del silenzio, colla spessa ombria delle catedrali e l'erba spessa sul lastricato delle vie. Baedecker, più osservante di cronache e d'arti speciali, distende, nel buon sonetto impeccabile, colla poesia geografica già accolta un giorno dal Carducci, le avventure dell'età di mezzo e del quattrocento, le specialità monumentali del luogo, le vicende delli amori e delle stragi. A quando, dalle brumosità, la luce viva e sana del sole? A quando, dopo le lotte fratricide troppo a lungo funeste, l'amore grande e lucido, per ogni e qualunque uomo d'ogni e qualunque razza?
«Torbidi
uomini, usciti dalle porte,
disertate le mura ove il tribuno
stridulo, ignaro del misterioso
numero, che governa i bei pensieri,
dispregia il culto delle Sacre Fonti!»
ma si scorda di dirvi: «per quanto fervida e ripullulante, badate, che l'acqua è tutta rossa dell'anima vostra, che in vano avete gettata all'ordine d'armati baroni e di assai lucenti arcivescovi, perchè costoro godessero del frutto delle vostre battaglie;» ma si scorda di pregarvi e di convincervi: «questa terra è vostra, completamente, e se voi volete, come ne avete il bisogno, prendetela ed usatela perchè è il vostro diritto». Vi saranno, domani, le marmoree, chiuse e spopolate città del Silenzio? Ed è questo l'aspettare?
No, egli invita a colui
«se ascoltato
abbia il canto glorioso
dei secoli e con gli occhi suoi sinceri
contemplato il fulgor degli orizzonti»,
perchè bisogna glorificare in noi la Vita bella!
Retorica ansimante, la sua e fors'anche la mia. Ma per indole e per costume, io abborro l'Epulone che in piazza imbandisce il banchetto, perchè la straccioneria odori i profumi dell'intingoli ed intenda, dalla gioia golosa di lui, la voluttà della mensa; straccioneria, incatenate le mani ed i piedi al supplizio delle altrui soddisfazioni. Ma per ragione e per convincimento, se alcun poco mi dilettano le burle di Elagabalo, che convita la Suburra, porgendole cibi di pietra e di vetro, ond'egli se ne rida, mi sento sulle labra l'impeto della bestemia e la parola della vendicazione, certo troppo nobile e troppo pura rispetto al giuocherellare maligno di costoro, rispetto alla tarda viltà dei bene costoditi, mentre si prendono piacere. Retorica bolsa.
Non diversamente,
«Italia,
Italia,
sacra alla nuova Aurora,
con l'aratro e la prora!»
balzerà dalla canzone emula, nell'orgoglio, a Petrarca ed a Leopardi. Non diversamente, dopo di aver gingillato per i fatti del secolo, aggiogando il suo piccolo carro al trionfo funerario degli Eroi, abbraccierà la patria, ch'egli ama interruttivamente e con diverso affetto, a seconda dell'aura che volge.
Qui, vorrà, il cantore del Giovane Re, ricordare il remo e l'aratro e con questo e con quello ringiovanire la schiatta; qui, troverà lontani accenti dal maestro, se ricorda una Rivoluzione ed il ça ira di cui deve temere; e, proteggendo il trascorso ed annunziando il venturo, pianta qua e là, ritornato coltivatore, allori per sè; pallide copie del jingoismo che con migliore accetta spicca, per la rapacità delli Anglo-Sassoni, il trombetta Kypling, a più sicura esperienza ed a più solido guadagno. Cesare di poesia, vedremo le fronde apollinee sopra le sue ampie tempie? E prenderà l'Italia per mano, come un guerriero del Frugoni, impalmandosi di Vittoria? Tenta imprese, Italia:
«così veda tu,
un giorno, il mare latino aprirsi
di strage alla tua guerra:»
così applaudi allo imperialismo, che uno statista geniale, impetuoso, ma fuorviato ti inoculava, ed evoca una legione al tuo domani, se hai trovato Adua in fronte e l'ambe scheggiate: i cotonieri lombardi intanto ingrassano colli schiavi del Benadir.
Accettiamo dunque il novissimo poeta nazionale; come Ovidio ci racconta i Fasti e non distingue. Non cerchiamogli la ragione di un
«donato un regno al sopraggiunto re»
e come si completi con quest'altri:
«o tu, della
porpurea sorte
erede, che navigavi il mare,
Giovane, che, assunto dalla Morte,
fosti re sul Mare!»
(non soffermiamoci alle allitterazioni bizantine del Mar e del Mor graziose a ripetersi), non vogliamo chiedergli coerenza, chè al poeta ogni cosa è lecita (Ars poetica) e scriva di tutto, in quanto gli piaccia; ma, con opportunità, confessiamo che Foscolo, integro, aveva ragione d'inalberarsi all'impudenza aulica del Monti e di bollarlo tra i cilii a fuoco. E se Foscolo fosse, od alcuno potesse rappresentarlo, aggiungerebbe un nome recente a scherno, nella sua Ipercalissi.
Non facciamone però caso; D'Annunzio dà quanto può. Egli vuole meravigliare e piacere coll'arte traditrice dei paradossi estetici; sente il bisogno di far grande rumore e la voluttà di costruire grandi monumenti di arena e di vento.
Rifugge dalla scienza e sembra odiarne la aridità operante delle formule matematiche; l'erudizione lo ha immiserito; le pinacoteche, i musei, le antologie mitologiche sono le sue case, mentre la vita grande, fluttua e batte contro le mura di questi palazzi, onda immane ed irrefrenata. Egli sa di rimanere inerte e si scuote, si punge, si pizzica per provarsi che fa; egli comprende che altri sono i risultati della civiltà e delle officine, dei campi e delle scuole; ma vede il Pegaso balzare alato di sopra Siracusa e col battere del piede suscitar Cyane l'azzurra. Egli dice di essere moderno perchè, in fondo, mitografo, se dare la spiegazione delle sue figure, le quali rappresentano varii aspetti eterni, ma non giunge a trovare la divinità reale sotto la giacca ed i cenci del lavoratore o del pezzente come Paul Adam, Stirner, Tailhade e Gorki lo seppero.
Per degenerate metafore, compila un mondo; non è forte abbastanza, come lo Gide, il Laforgue ed il Rimbaud, d'aggiungere la ironia disincantata e passionale o per non credere alla sua fabrica, perchè inganna e vi si inganna; ma con troppa ingenuità presta fede ai suoi fumi di sogni e protesta d'aver agito mentre dormiva. È, o si crede d'essere, un classico, ed è la sintesi di tutte le buone cose letterarie uscite da tutte le scuole, senza per conto suo incominciarne una, ma traendosi dietro dei grotteschi imitatori. In fine si acqueta, insinuando che nulla vi ha di più nobile, che la dolce armonia della frase, che le carezze di una etera, che la rosa di Pesto ed il vino dell'Isole, pur gridando alla patria, scoliaste di dopo pranzo, quando il di più si rece o si rigurgita nella strofa del brindisi, collaudato da similitudini, per rinnovata e stramba epistemologia.
E qui termina Elettra ed incomincia Alcione.