Gian Pietro Lucini
Antidannunziana: D'Annunzio al vaglio della critica

“Le Laudi”

I due primi Volumi delle "Laudi”

VI. UNA PARENTESI PER I SOCIALISTI, UNA TOCCATINA ALLA «FIGLIA DI JORIO» E IL POEMA DI «ALCIONE».

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VI.
UNA PARENTESI PER I SOCIALISTI, UNA TOCCATINA ALLA «FIGLIA DI JORIO» E IL POEMA DI «ALCIONE».

Or dunque, collo svampar del successo della1 Figlia di Jorio e coll'augurarmi che l'entusiasmo delle prime città diminuisca nell'altre, alla rinnovata superstizione cattolica di San Laimo navigatore ed all'antico Abruzzo del Trionfo della Morte, ricorro un poco ancora alla opposta paganità del terzo libro di Laus vitae, per raffronti e per rapporti.

Ma, prima, concedetemi, se non vi dispiace, una parentesi per fatto2 personale.

Ho avuto l'onore (locus communi sermonis, che Léon Bloy può, senza derogare, inscrivere nella sua Exégèse des lieux communs, «ho l'onore» come a dire «ciò non mi interessa» o «ciò mi annoia!») ho avuto l'onore dunque d'aver la mia citazione, in due periodi terminali delle mie già apparse d'annunziane, sulla Giustizia, giornale quotidiano socialista di Reggio Emilia.

Codesto foglio mi si fece vicino con un Per finire; e, trovata occasione di esprimere la sua dura ricettività e la sua blanda ignoranza, (stampa: per quel poco che abbiamo potuto capire) dopo d'avermi parafrasato non integro, compendia: Non pare una di quelle parodie dello stile di Bovio, che si leggevano sul Don Chisciotte dei bei tempi?

Bontà di Giustizia! Ecco, veramente all'assunto, io concedo a tutti i giornali socialisti presenti ed avvenire, ed a tutta la grande schiera de' loro lettori e correligionarii, di prepararci, nella speranza del sole, quel tale, il miglior assetto politico ed economico, morale e filosofico, cui l'uomo moderno desideri. E li ammiro pel loro studio indefesso sopra ai numeri, non sempre esatti, della statistica (le cifre qualche volta sono una opinione) e per la loro facile duttilità e pieghevolezza ai bisogni dell'ora, remissione profittevole che fa loro scambiare una corona, più o meno costituzionale, con un berretto frigio, più o meno purpureo.

Ammiro ch'essi possano catalogare, con molta disinvoltura, ogni atto dell'uomo, e che in omaggio alla biologia, richiamino dal parlamento una legge, ahimè sfumata nel crogiolo oscuro di una secreta votazione, per assicurarci un giorno d'ozio completo, come al Demiurgo dopo d'aver creato il mondo.

Essi sanno così, con bella regola aristotelica, diminuirci di questo, aggiungerci di quest'altro per comma tassativi a salvaguardia della mediocrità.

E permetto, che, sotto li sguardi tutelari della burocrazia regia, un'altra ed immensa se ne minacci a pro dei lavoratori e di tutto il resto.

S'abbranchino al regime, pensino quanto sia breve l'ambito dell'individuo e sempre più lo restringano; pongano angioli custodi, o daimones monturati, due, al fianco d'ogni persona, perchè quello di sinistra gli suggerisca: non devi far questo, mangi troppo; e quello di destra; devi far questo, non mangi abbastanza.

Si preoccupino del ventre, del centro, che borbotta, che chimifica ed ingurgita, dove si involgono le budelle e riposa il sesso; e cerchino, per questa via, la felicità.

Ma, quando, ad esempio, una Giustizia, vuol giudicare di letteratura, io credo, che esorbiti dalle sue competenze; perchè meno intende dell'orecchiante o dell'indifferente, i quali riescono, almeno, ad esprimere qualche volta un pensiero con sincerità.

Giustizia, e li affini, toltane qualche egregia eccezione, sanno di lettere come il fu Umberto di Savoja, che si annoiava ai melodrammi di Verdi e che, udendoli sotto l'aulico baldacchino nelle sere di gala, non s'accorgeva di sbadigliare. Stiano dunque in calma sopra il D'Annunzio e sopra di me; fatte le debite differenze, chi per una parte, chi per l'altra, ci presentiamo alla ghiottoneria dello snobismo come due focaccie appetitose: provateci: siamo invece assai duri e molto amari, forse avvelenati; vi rimetterete denti e stomaco. Che, del resto, nella mia umiltà pedissequa (pare che sia molto deferente all'opinione dei maggiori?) amerei più tosto parodiare Giovanni Bovio, che presentarmi come un grottesco di Filippo Turati. La parentesi è chiusa.

***

Elettra, come fece, si è stancata di brillare tra le cinque sorelle della Plejade, bionda e pallida come un'ambra, sulle cime ghiacciate e risplendenti di argento della genialità latina.

«Italia, Italia,
sacra alla nuova aurora,
coll'aratro e la prora»;

tenti il viaggio meraviglioso ed avventuroso. Remis velisque è la divisa, augurio.

E non sia vano: non vano, come prima, il periplo di un Odysseo moderno: se ha dovuto nell'Egeo, tra il pericolo nascosto delli scogli ed il tormentar della tempesta, dimettere il fragile ed elegante yacht di Scarfoglio-Sciosciamocca, giornalista di molto ingegno e di nessuna probità, per confidarsi ai più solidi fianchi dei piroscafi della Navigazione Generale; sì che il ben amato da morte Guido Boggiani e l'arguto ed ottimo Hérelle traduttore, soli, tennero il mare sul guscio e giunsero, vincitori dell'onde, ad Atene, ospiti della Legazione Italiana; che un personalissimo uomo di lettere, allora diplomatico, ed ancora desiderato dai Greci dopo la burla di Silvestrelli, rappresentava e teneva con decoro d'arte e d'alti pensieri generosi. Non faccia Italia nel caso, per paura o prudenza, grande sfoggio di vele e di canzoni in sul partire, per tornarsene, meglio assicurata, sopra le navi inglesi, vergognoso e miserabile asilo interessato: e stia in casa sua.

Più tosto Alcione, colei che nel mare concepisce e nidifica, ἐν ἀλὶ κυέιν, figlia d'Eolo, rimutata in uccello, riassunta nella costellazione, spicchi il suo volo fermo, pugnace e sicuro.

Perchè Alcione il terzo libro?

Il poeta della sua stirpe non ha dimenticato l'aggettivo greco. A mezzo inverno, durante quindici giorni di tregua e di serenità, nei quali il mare sulle rive dell'Ellade alena e sospira, li alcioni fanno il loro nido. Insperata felicità di dolce raccoglimento, i giorni d'alcione, ἀλκιονίδες ἠμέραι, venivano accolti col significato di un epiteto magnifico ed assicuravano, sotto li ulivi bigi e tiepidi, sieste beate. – O pure, tornando al suo maestro, quando Nietzsche appostilla in fondo al Viaggiatore e la sua ombra capitoletti d'intima psicologia, D'Annunzio ha forse rubricato in margine un racconto di lui, se il filosofo si sia incontrato in imagine con Dionysos e l'abbia eccitato «gran dio equivoco e tentatore», a cui aveva offerto, prima, come voi sapete, in tutta venerazione umana, l'opera iniziale, vero olocausto di giovanezza, più fumigoso che vivido di fiamma.

Qui, il poeta nostro si fermò; apprese e fece sue, in questo momento di lirica, le parole che egli non scrive, ma che si rivelano sotto alla trama dell'ode: «e fors'anche verrà per me un giorno di tale calma, di tale alcionica felicità, nella quale le mie labra lasceranno prorompere tutto quanto io so, per raccontarvi, o amici, la bacchica filosofia».

* * *

Egli qui bene sta, e noi ve lo lasciamo bene.

Non si conturba, ci turba per le speranze ed i fati della patria; è tornato a stesso; è molto più logico, molto più sincero, per quanto millantatore. Ma codesto difetto può essere anche una virtù; ed io non ho stoffa di moralista per richiamarnelo, peccando spesso di quel peccato.

È nella Tregua, nella soddisfatta pienezza del suo organismo e dei suoi desiderii. Ha combattuto ed ha vinto. Debole vittoria, davanti a quelli che si inchinarono, non per ferite, ma per lo spauracchio ed il fragore dell'arme barbariche, parata d'osteggio e tale da compiacergli nell'animo di fanciullo inquieto.

«Despota, andammo e combattemmo sempre
O magnanimo Despota, concedi

al buon combattitor l'ombra del lauro,
ch'ei senta l'erba sotto ai piedi nudi.

Dagli le rive, i boschi, i prati e i monti,
i cieli ed ei sarà giovane ancora!

Eterno giovane, se per altra chimica fattura egli ritrova e distilla, come un BrownSequart, l'elisir di lunga vita ed il ricostituente da iniettare nella sua poesia!

A lui la Terra madre. Egli ha bisogno di ritornare, dopo li esercizii natatori e cinegetici, in grembo al greggie, nel riparo del presepe. Darà meteore di lirica senza pensiero, questo forte che plasma la creta del lessico sorridente, questo volontario di voluttà spicciole, che, passando dal mare di Athena alle Città del Silenzio, suscitatore di larve armate e risuonanti, non sdegna imbragarsi. Starà nella terra, sui prati ed intorno alli angiporti della Suburra,

Vede il Fanciullo figlio della Cicala e dell'Olivo e lo fa vergine ancora, cantatore perpetuo di una immensa plenitudine vivente; – discende alle rive dei fiumi verdi, lungo l'Africo: – dall'alto della sua Capponcina gli appare La Sera fiesolana (qualche stornello trecentesco a battuta vanisce nell'aria) – e fa la sua Georgica.

Meno VergilioI e più retore della bassa latinità, si ferma all'ulivo, alla spica, all'opere ed ai giorni (Esiodo è lontano e le sue mitologie non sono più di moda); si piega al bidente ed alla marra, ed afferra la stiva dell'aratro cantando. Ma Pascoli è presente e gli guida la mano e gli fa il solco avanti; e l'antico Columella gli sorride vicino mormorando: «Ottimo poeta, se ritorni alle glebe:» e l'Arici gli porge opportunità di belle imagini, di aggettivi repleti e carnosi; ed il lavoratore non suda, e per ispasso, canta, ricanta, ricanta ancora.

È calmo, è compreso, alla sera, della fatica: nella Beatitudine, sul motivo di una perla:

«color di perla quasi in forma quale
conviene a donna aver non fuor misura».

(non vi pare che qualche volta petrarcheggi?) ha una meditazione.

Poi il Ditirambo sobbalza sulle groppe dei cavalli che scalpitano, sulle groppe delle baccanti che fremitano e brandiscono il tirso; e voi vi domandate: «A che? A che prò questo invasato si eccita? È una burla?» No: egli ha trovato il suo tripode fumigante nella terra grassa e gonfia di umori; e di invoca Dionysos per essere in carattere, perchè Dionysos vuole il ditirambo e Nietzsche, un giorno, uno gliene aveva promesso.

Seguono piccoli poemi, di piccoli versi, innocente puerilità di ripetizioni, ritornelli di eufemie per ingannare e per stordire; madrigaletti secenteschi d'occhi lunati ed aurini, di calda piova che scroscia sulle mani nude d'Ermione: bazzeccole brevemente ripetute, fluorescenti ed iridate come bolle di sapone; le quali se scoppiassero contro una pietra, nel loro volare che è una caduta, saprebbero che sia realtà. La numismatica gli è pretesto a similitudini; domani l'agiografia avrà da lui un trattato, non cosa nuova se sfogliamo le raccolte bizantine.

E le ricchezze della terra, i fieni e le biade, il tralcio ed il tronco e l'acque irrigue, i segni delle stagioni e tutti li animali che portano some, che barriscono, che urlano, che galoppano, che fuggono e che si appiattano, son dietro all'Orfeo novissimo, corso oggi a disturbarli nelle fratte delle foreste, nelle frappe dei boschi, nelle radure solatie e silenziose in riva ai fiumi. Su, con lena: spesso il volume, non denso, ma le pagine da riempirsi sono innumeri ancora: importa fare molto, quanto al far grande è un'altra cosa.

 





1 Svampò in breve e con molte ragioni: incominciarono le critiche più esatte e meglio informateAlfredo Gargiulo: «La Figlia di Jorio» fu una specie di esperimento storico – Vi trovò esplicazione specialmente quel fondo cupo, ferocemente sensuale, oscuramente superstizioso e violento, che si era così ben incontrato altra volta col poeta, in un momento di sensuale tristezza. «La Figlia di Jorio» ha quindi anch'essa e gravissimi gli errori ed i difetti che abbiamo già incontrato nella «Francesca». Se è il miglior dramma del D'Annunzio, «non è punto un capolavoro, tutt'altro. Abbiamo qui stonature linguistiche, proprio come nella «Francesca» da una parte, la lingua imitativa e realistica, dall'altra, la lingua del poeta. – pag. 316-17 – Ciò che dovrebbe essere il nucleo della «Figlia di Jorio» l'amore di Aligi e Mila, è la parte più falsa dell'opera. Vi è, insomma, la solita mancanza di fondamento storico, è la solita arte d'annunziana fondata sulle astrazioni. Astrazione, superumanità, assurdo! E lasciamo stare l'Abruzzo antico e moderno, che poco c'entra, Aligi e Mila non sono figure umane». Gabriele D'Annunzio, Francesco Perella e C: Napoli 1912. Anche F. T. Marinetti ha codeste buone osservazioni generali: «Debbo però sfortunamente costatare, che Gabriele D'Annunzio non ha afferrato il gran pubblico che per sorpresa, valendosi di violenti e grossolani colpi di scena, e, tanto più inattesi ed esplosivi, in quanto preceduti da interminabili pistolotti lirici. «La Figlia di Jorio» che rassomiglia un po' troppo a la «Lépreuse» del Bataille, ha evidentemente grandi qualità teatrali. Ma si domanda perchè l'autore abbia voluto prolungare oltre misura la scena violenta dei falciatori ebri di lussuria, di sole e di vino, mentre cercano di dar l'assalto alla casa, in cui la disgraziata prostituta del villaggio venne a rifugiarsi interrompendo i preparativi delle nozze di Aligi» – pag. 60-61 – Il teatro d'annunziano non è tipico, generalizzatore... Ebbi più tosto l'impressione che fosse un tentativo di drama violento, improvvisato da freddi esteti, innamorati di delitti passionali. Qualche volta, vi si trovano de' magnifici saggi di eloquenza; ma li recita un oratore ammirabilmente provveduto, mentre si prepara, davanti allo specchio, di affacciarsi alla folla; la quale dal canto suo, fors'anche, gli spezzerà semplicemente la parola in bocca» pag. 176-77. Gustave Khan, nella Plume può dunque riassumere: «I personaggi d'annunziani non esistono; a loro l'autore presta sovente l'eloquenza; ciò che gli serve per insinuarvi un'ombra di drama». Vedi Les Dieux s'en vont etc...Le théâtre de Gabriele D'Annunzio – Ecco il capolavoro del teatro d'annunziano, questa tragedia pastorale, esulare da scena in scena. Prima è il maestro Franchetti che l'orna della sua musica e la fa cantare per la prima volta, sulle tavole scaligere milanesi, poi, è lo Scarpetta che ne fa una parodia: Il figlio di Jorio. D'Annunzio vede in ciò un plagio, una contrafazione; per amor de' quattrini intenta causa al comico napolitano; si convengono davanti al magistrato. Qui noi udiamo Giorgio Arcoleo e Benedetto Croce dichiarare, nel più reciso modo negativo, che nella parodia dello Scarpetta manca del tutto lo spirito della frode. L'imaginifico insiste; lo scandalo diventa maggiore; il Tribunale assolve lo Scarpetta salutato da una calorosa dimostrazione di simpatia. Questi successivi intrugli d'arte e di soldi, di versi e di comma di codici come sono antipatici; come è evidente l'avidità commerciale del generoso D'Annunzio; come pretende di essere l'Unico, come si affacciano alla nostra ragione i motivi esasperati ed esasperatiti della sua megalomania! Ma se tutti coloro, dai quali egli ha imprestato senza permesso, lo avessero convenuto davanti al giudice, facendovi valere le proprie ragioni per danni ed interessi a che si sarebbe ridotta la sua vantata unicità? Lettore, puoi aggiungere questa nota ad un'altra precedente, che pur si intrattenne su La figlia di Jorio: di fatti non è che la continuazione. – Ah! mi dimenticava: Irma GramaticaOreste CalabresiRuggero Ruggeriartisti di vigore, di sapienza, di colorito, di misure efficaci – quelli che furono i collaboratori del rinnovamento dramatico italiano e moderno, per aver creata La Figlia di Jorio nella lezione genuina, sul palcoscenico, hanno avuto la finezza di farci sapere sulle réclames dei giornali «che per uscir vittoriosi da tanta fatica hanno dovuto, con vigile mente e cure incessanti mantenersi in uno stato fisiologico di cotanta eccellenza: però sperimentarono del Tot» – e lo trovarono efficacissimo. Pare invece che di solo «Tot» non potesse vivere La Figlia di Jorio; perciò soggiacque.



2 Per essere esatto e severo e perciò responsabile di quanto dico, – come invano, qualche volta, lo richiedo dalli altri – eccovi precisamente quel brano di La Giustizia, giornale quotidiano di Reggio Emilia, 2 Marzo 1904 N. 53. Leggetevelo per disteso: vi troverete anche una ommissione capitale; cioè, tra mentre dormiva... ed In fine si acquista vi è un periodo completo che già leggeste nel testo di spiegazione e di sutura tra il primo detto e quanto vi dirà poi. Ma vedete, sulle dolose ommissioni vi ragione e a Meternich ed a Carlo Marx, cioè in linea generale, logicamente, si ha sempre torto.

PER FINIRE.

«Il critico letterario dell'Italia del Popolo finisce un suo articolo sulle Laudi del D'Annunzio (nel quale, del resto, per quel poco che ne abbiamo potuto capire, il giudizio complessivo ci pare esatto) con questo periodo di meravigliosa chiarezza e semplicità: «non è forte abbastanza, come lo Gide, il Laforgue ed il Rimbaud, d'aggiungere la ironia disincantata e passionale o di non credere alla sua fabrica perchè inganna e vi si inganna; ma con troppa ingenuità presta fede ai suoi fumi di sogni e protesta d'aver agito mentre dormiva... In fine si acqueta, insinuando che nulla vi ha di più nobile, che la dolce armonia della frase, che le carezze di una etera, che la rosa di Pesto ed il vino dell'Isole, pur gridando alle patria, scoliaste di dopo pranzo, quando il di più si rece o si rigurgita nella strofa del brindisi, collaudato di similitudini, per rinnovata e stramba epistemologia».

«Non pare una di quelle parodie dello stile del Bovio che si leggevano sul Don Chisciotte dei bei tempi



I Giovanni Rabizzani: «Victor Hugo ha parlato in una sua ode del «geste auguste du Semeur», ispirandosi al magnifico quadro del Millet; e Gabriele D'Annunzio lo ha ripetuto, gesticolando più volte co' suoi versi ed in alcune buone pagine d'un suo romanzo», pag. 44, Giovanni Pascoli, Pagine di critica letteraria.



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