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“Le Laudi” I due primi Volumi delle "Laudi” VI. UNA PARENTESI PER I SOCIALISTI, UNA TOCCATINA ALLA «FIGLIA DI JORIO» E IL POEMA DI «ALCIONE». |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Or dunque, collo svampar del successo della1 Figlia di Jorio e coll'augurarmi che l'entusiasmo delle prime città diminuisca nell'altre, alla rinnovata superstizione cattolica di San Laimo navigatore ed all'antico Abruzzo del Trionfo della Morte, ricorro un poco ancora alla opposta paganità del terzo libro di Laus vitae, per raffronti e per rapporti.
Ma, prima, concedetemi, se non vi dispiace, una parentesi per fatto2 personale.
Ho avuto l'onore (locus communi sermonis, che Léon Bloy può, senza derogare, inscrivere nella sua Exégèse des lieux communs, «ho l'onore» come a dire «ciò non mi interessa» o «ciò mi annoia!») ho avuto l'onore dunque d'aver la mia citazione, in due periodi terminali delle mie già apparse d'annunziane, sulla Giustizia, giornale quotidiano socialista di Reggio Emilia.
Codesto foglio mi si fece vicino con un Per finire; e, trovata occasione di esprimere la sua dura ricettività e la sua blanda ignoranza, (stampa: per quel poco che abbiamo potuto capire) dopo d'avermi parafrasato non integro, compendia: Non pare una di quelle parodie dello stile di Bovio, che si leggevano sul Don Chisciotte dei bei tempi?
Bontà di Giustizia! Ecco, veramente all'assunto, io concedo a tutti i giornali socialisti presenti ed avvenire, ed a tutta la grande schiera de' loro lettori e correligionarii, di prepararci, nella speranza del sole, quel tale, il miglior assetto politico ed economico, morale e filosofico, cui l'uomo moderno desideri. E li ammiro pel loro studio indefesso sopra ai numeri, non sempre esatti, della statistica (le cifre qualche volta sono una opinione) e per la loro facile duttilità e pieghevolezza ai bisogni dell'ora, remissione profittevole che fa loro scambiare una corona, più o meno costituzionale, con un berretto frigio, più o meno purpureo.
Ammiro ch'essi possano catalogare, con molta disinvoltura, ogni atto dell'uomo, e che in omaggio alla biologia, richiamino dal parlamento una legge, ahimè sfumata nel crogiolo oscuro di una secreta votazione, per assicurarci un giorno d'ozio completo, come al Demiurgo dopo d'aver creato il mondo.
Essi sanno così, con bella regola aristotelica, diminuirci di questo, aggiungerci di quest'altro per lunghi comma tassativi a salvaguardia della mediocrità.
E permetto, che, sotto li sguardi tutelari della burocrazia regia, un'altra ed immensa se ne minacci a pro dei lavoratori e di tutto il resto.
S'abbranchino al regime, pensino quanto sia breve l'ambito dell'individuo e sempre più lo restringano; pongano angioli custodi, o daimones monturati, due, al fianco d'ogni persona, perchè quello di sinistra gli suggerisca: non devi far questo, mangi troppo; e quello di destra; devi far questo, non mangi abbastanza.
Si preoccupino del ventre, del centro, che borbotta, che chimifica ed ingurgita, dove si involgono le budelle e riposa il sesso; e cerchino, per questa via, la felicità.
Ma, quando, ad esempio, una Giustizia, vuol giudicare di letteratura, io credo, che esorbiti dalle sue competenze; perchè meno intende dell'orecchiante o dell'indifferente, i quali riescono, almeno, ad esprimere qualche volta un pensiero con sincerità.
Giustizia, e li affini, toltane qualche egregia eccezione, sanno di lettere come il fu Umberto di Savoja, che si annoiava ai melodrammi di Verdi e che, udendoli sotto l'aulico baldacchino nelle sere di gala, non s'accorgeva di sbadigliare. Stiano dunque in calma sopra il D'Annunzio e sopra di me; fatte le debite differenze, chi per una parte, chi per l'altra, ci presentiamo alla ghiottoneria dello snobismo come due focaccie appetitose: provateci: siamo invece assai duri e molto amari, forse avvelenati; vi rimetterete denti e stomaco. Che, del resto, nella mia umiltà pedissequa (pare che sia molto deferente all'opinione dei maggiori?) amerei più tosto parodiare Giovanni Bovio, che presentarmi come un grottesco di Filippo Turati. La parentesi è chiusa.
***
Elettra, come fece, si è stancata di brillare tra le cinque sorelle della Plejade, bionda e pallida come un'ambra, sulle cime ghiacciate e risplendenti di argento della genialità latina.
«Italia,
Italia,
sacra alla nuova aurora,
coll'aratro e la prora»;
tenti il viaggio meraviglioso ed avventuroso. Remis velisque è la divisa, augurio.
E non sia vano: non vano, come prima, il periplo di un Odysseo moderno: se ha dovuto nell'Egeo, tra il pericolo nascosto delli scogli ed il tormentar della tempesta, dimettere il fragile ed elegante yacht di Scarfoglio-Sciosciamocca, giornalista di molto ingegno e di nessuna probità, per confidarsi ai più solidi fianchi dei piroscafi della Navigazione Generale; sì che il ben amato da morte Guido Boggiani e l'arguto ed ottimo Hérelle traduttore, soli, tennero il mare sul guscio e giunsero, vincitori dell'onde, ad Atene, ospiti della Legazione Italiana; che un personalissimo uomo di lettere, allora diplomatico, ed ancora desiderato dai Greci dopo la burla di Silvestrelli, rappresentava e teneva con decoro d'arte e d'alti pensieri generosi. Non faccia Italia nel caso, per paura o prudenza, grande sfoggio di vele e di canzoni in sul partire, per tornarsene, meglio assicurata, sopra le navi inglesi, vergognoso e miserabile asilo interessato: e stia in casa sua.
Più tosto Alcione, colei che nel mare concepisce e nidifica, ἐν ἀλὶ κυέιν, figlia d'Eolo, rimutata in uccello, riassunta nella costellazione, spicchi il suo volo fermo, pugnace e sicuro.
Perchè Alcione il terzo libro?
Il poeta della sua stirpe non ha dimenticato l'aggettivo greco. A mezzo inverno, durante quindici giorni di tregua e di serenità, nei quali il mare sulle rive dell'Ellade alena e sospira, li alcioni fanno il loro nido. Insperata felicità di dolce raccoglimento, i giorni d'alcione, ἀλκιονίδες ἠμέραι, venivano accolti col significato di un epiteto magnifico ed assicuravano, sotto li ulivi bigi e tiepidi, sieste beate. – O pure, tornando al suo maestro, quando Nietzsche appostilla in fondo al Viaggiatore e la sua ombra capitoletti d'intima psicologia, D'Annunzio ha forse rubricato in margine un racconto di lui, se il filosofo si sia incontrato in imagine con Dionysos e l'abbia eccitato «gran dio equivoco e tentatore», a cui aveva offerto, prima, come voi sapete, in tutta venerazione umana, l'opera iniziale, vero olocausto di giovanezza, più fumigoso che vivido di fiamma.
Qui, il poeta nostro si fermò; apprese e fece sue, in questo momento di lirica, le parole che egli non scrive, ma che si rivelano sotto alla trama dell'ode: «e fors'anche verrà per me un giorno di tale calma, di tale alcionica felicità, nella quale le mie labra lasceranno prorompere tutto quanto io so, per raccontarvi, o amici, la bacchica filosofia».
* * *
Egli qui bene sta, e noi ve lo lasciamo bene.
Non si conturba, nè ci turba per le speranze ed i fati della patria; è tornato a sè stesso; è molto più logico, molto più sincero, per quanto millantatore. Ma codesto difetto può essere anche una virtù; ed io non ho stoffa di moralista per richiamarnelo, peccando spesso di quel peccato.
È nella Tregua, nella soddisfatta pienezza del suo organismo e dei suoi desiderii. Ha combattuto ed ha vinto. Debole vittoria, davanti a quelli che si inchinarono, non per ferite, ma per lo spauracchio ed il fragore dell'arme barbariche, parata d'osteggio e tale da compiacergli nell'animo di fanciullo inquieto.
«Despota,
andammo e combattemmo sempre
O magnanimo Despota, concedi
al
buon combattitor l'ombra del lauro,
ch'ei senta l'erba sotto ai piedi nudi.
Dagli le rive, i boschi, i
prati e i monti,
i cieli ed ei sarà giovane ancora!
Eterno giovane, se per altra chimica fattura egli ritrova e distilla, come un Brown – Sequart, l'elisir di lunga vita ed il ricostituente da iniettare nella sua poesia!
A lui la Terra madre. Egli ha bisogno di ritornare, dopo li esercizii natatori e cinegetici, in grembo al greggie, nel riparo del presepe. Darà meteore di lirica senza pensiero, questo forte che plasma la creta del lessico sorridente, questo volontario di voluttà spicciole, che, passando dal mare di Athena alle Città del Silenzio, suscitatore di larve armate e risuonanti, non sdegna imbragarsi. Starà nella terra, sui prati ed intorno alli angiporti della Suburra,
Vede il Fanciullo figlio della Cicala e dell'Olivo e lo fa vergine ancora, cantatore perpetuo di una immensa plenitudine vivente; – discende alle rive dei fiumi verdi, lungo l'Africo: – dall'alto della sua Capponcina gli appare La Sera fiesolana (qualche stornello trecentesco a battuta vanisce nell'aria) – e fa la sua Georgica.
Meno VergilioI e più retore della bassa latinità, si ferma all'ulivo, alla spica, all'opere ed ai giorni (Esiodo è lontano e le sue mitologie non sono più di moda); si piega al bidente ed alla marra, ed afferra la stiva dell'aratro cantando. Ma Pascoli è presente e gli guida la mano e gli fa il solco avanti; e l'antico Columella gli sorride vicino mormorando: «Ottimo poeta, se ritorni alle glebe:» e l'Arici gli porge opportunità di belle imagini, di aggettivi repleti e carnosi; ed il lavoratore non suda, e per ispasso, canta, ricanta, ricanta ancora.
È calmo, è compreso, alla sera, della fatica: nella Beatitudine, sul motivo di una perla:
«color di
perla quasi in forma quale
conviene a donna aver non fuor misura».
(non vi pare che qualche volta petrarcheggi?) ha una meditazione.
Poi il Ditirambo sobbalza sulle groppe dei cavalli che scalpitano, sulle groppe delle baccanti che fremitano e brandiscono il tirso; e voi vi domandate: «A che? A che prò questo invasato si eccita? È una burla?» No: egli ha trovato il suo tripode fumigante nella terra grassa e gonfia di umori; e di là invoca Dionysos per essere in carattere, perchè Dionysos vuole il ditirambo e Nietzsche, un giorno, uno gliene aveva promesso.
Seguono piccoli poemi, di piccoli versi, innocente puerilità di ripetizioni, ritornelli di eufemie per ingannare e per stordire; madrigaletti secenteschi d'occhi lunati ed aurini, di calda piova che scroscia sulle mani nude d'Ermione: bazzeccole brevemente ripetute, fluorescenti ed iridate come bolle di sapone; le quali se scoppiassero contro una pietra, nel loro volare che è una caduta, saprebbero che sia realtà. La numismatica gli è pretesto a similitudini; domani l'agiografia avrà da lui un trattato, non cosa nuova se sfogliamo le raccolte bizantine.
E le ricchezze della terra, i fieni e le biade, il tralcio ed il tronco e l'acque irrigue, i segni delle stagioni e tutti li animali che portano some, che barriscono, che urlano, che galoppano, che fuggono e che si appiattano, son dietro all'Orfeo novissimo, corso oggi a disturbarli nelle fratte delle foreste, nelle frappe dei boschi, nelle radure solatie e silenziose in riva ai fiumi. Su, con lena: spesso il volume, non denso, ma le pagine da riempirsi sono innumeri ancora: importa fare molto, quanto al far grande è un'altra cosa.
PER FINIRE.
«Il critico letterario dell'Italia del Popolo finisce un suo articolo sulle Laudi del D'Annunzio (nel quale, del resto, per quel poco che ne abbiamo potuto capire, il giudizio complessivo ci pare esatto) con questo periodo di meravigliosa chiarezza e semplicità: «non è forte abbastanza, come lo Gide, il Laforgue ed il Rimbaud, d'aggiungere la ironia disincantata e passionale o di non credere alla sua fabrica perchè inganna e vi si inganna; ma con troppa ingenuità presta fede ai suoi fumi di sogni e protesta d'aver agito mentre dormiva... In fine si acqueta, insinuando che nulla vi ha di più nobile, che la dolce armonia della frase, che le carezze di una etera, che la rosa di Pesto ed il vino dell'Isole, pur gridando alle patria, scoliaste di dopo pranzo, quando il di più si rece o si rigurgita nella strofa del brindisi, collaudato di similitudini, per rinnovata e stramba epistemologia».
«Non pare una di quelle parodie dello stile del Bovio che si leggevano sul Don Chisciotte dei bei tempi?»