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Ritorna oggi, il poeta alla salace festività che un giorno fece applaudire e con ragione Canto Novo ed Intermezzo. Con abilità più temprata e più rotta all'esercizio, nei versi impari, ricorda1 Meriggio. Sa di arsiccio e di tormentato; così le legna da molto tagliate e lasciate al bosco, senza raccoglierle in casa, odorano, tra i muschii, di fradicio, o, se vi batte il sole, d'esca solfurea e sfilocciata. Nel ritorno passeggia sulla spiaggia del mare, vicino a Porto-Venere consacrata; dove e una morte tragica e non voluta, ed un rogo e Prometeo discatenato, e l'altro claudicante a lagrimare e potentissimo che ebbe a burla opinioni di nobili e di razza per essere sè stesso, lo irritano e lo pungono a riflettere Shelley, senza arrossire in volto.
Glauco centauro e semidio non sofre rivali. Sorge inopinato solendo ribagnarsi nell'onde salse ed amare; sorge, coll'endecasillabo plastico e vivo gemello all'esametro d'Ovidio, che l'Anguillara emulava traducendolo, ogni ottava un ducato pagata dal papa e che vien preso a modello nella presente trasformazione; la quale non è simbolo d'eternità od allegoria di cose attuali, ma schermeggio di parole maravigliose. E tra il voler essere marino e silvano ad un tempo Ardi e Glauco cacciano Il Cervo.
«Non odi cupi
bramiti interrotti
di là dal Serchio? Il Cervo d'unghia nera
si separa dal branco delle femmine
e si rinselva».
In altre mattinate memorabili;
«Era già rosso
tutto l'oriente
E le cime dei monti parien d'oro».
pei boschi di Camalduli frondosa e nobile, o lungo l'Ambra, o per l'estuario dell'Ombrone, dentro ai biondi canneti svettanti alla brezza, o nelle brevi e basse paludi, un'altra caccia correva di maggior lustro e di più grande ricchezza che rappresentava la genialità italica a convegno. Era il Magnifico che la guidava: con apparecchio di mute esperte, con
«.... Tamburo,
Pezzuolo e Martello
La Foglia, la Castagna e la Guerrina»,
animali da guerra coi falconi incappucciati; seguivano il corso il Landino, ed Alamanni Renuccini, e Pietro e Donato Acciajuoli, e Leon Battista Alberti, e, qualche volta, sorridendo a Giuliano de' Medici troppo bello e troppo molle, promesso alla vendetta dei Pazzi, Lionardo enciclopedico divino, critico ed artista alla morte del capriolo sotto l'assalto dei carri, all'agonia della starna sotto l'artiglio del falco. Fra tanto, glabro e compreso il Poliziano, Masilio Ficino platonizzante in disputa, e Pico della Mirandola mirabile portento e giovanile di dottrina, li aspettavano al ritorno, in lieti ragionamenti col buon priore Marcotto, raccolti in torno al pozzo garrulo del chiostro. E Firenze attendeva il suo despota.
Ora più inglesi, per uno sport meglio misurato, ma non a fatto divelto d'ogni classica abitudine, egoisticamente Ardi e Glauco conoscono le piste e sanno l'orme, seguono il cervo in sul far dell'alba e nei crepuscoli della sera lenti e stringendolo da presso, lo dettagliano coi termini di venaria. Odono, a notte, le sue lunghe mugghie: odono
«.... la voce
sua di toro
sorgere al grido della sua lussuria
.... nei silenzi della luna».
Così Glauco sta, misto anfibio, tra la terra e l'onda: questa in sua favella,
«sciacqua,
sciaborda
scroscia, chiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda e discorda;
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute profonde,
libera e bella;»
questa si rinnova e si rimuove, agilissima o pigra nel numero di giusta prestanza sonora della strofe lunga. L'altra calma e verde, solatia ed oro gli appresta la dolcezza delle sue pingui grazie e de' suoi favori, e di sette creature e bionde e brune, partecipe ad artifici di voluttà, gli regala in corona un gineceo, Venere d'acqua dolce di un tempo, perfezionata e multipla nel puro cammeo dei sonetti. Glauco è molto stretto parente di Andrea Sperelli se vuole suggere per diverse bocche, diversi sapori di voluttà felice.
Il poeta non si ferma, altius agit iter, anela a più sublimi altezze, Icaro, in paragone, vuole emulare.
«O Despota....
è l'antico
fratel mio. Le sue prove amo innovare,
io, nell'ignoto. Indulgi, o invitto, a questa
mia d'altezza e d'abissi avidità»
In sul principio, raffrena il quarto Ditirambo, poi lo scudiscia perchè sobbalzi alla meta, disordinato. Non si squaglia la cera all'ali conteste dalla dedalea mecanica?
L'estate superba incendia il cielo; l'eroe ed il poeta cadono in mare, ma questo ha il nome del primo più fortunato in superbia. L'estate declina colle sue ore turgide e lunghe; la maturanza impende; convien raccogliere e preparare L'Otre.
***
Molti di buon gusto e di giusta coltura si fermano alle quartine dell'Otre con piacere e rispetto. A mo' di un poema difficile alessandrino, la pelle del becco sordido e bisulco racconta le sue avventure e la sua storia. Per li evi, obeso, contenne acqua di fonte ed acqua piovana, latte caprino e liquido d'olive spremute, sangue di grappoli e sangue umano, ultimo e divino battesimo.
Certo l'evocazione è speciosa ed evidentissima; ma l'umanità siziente, o di latte, o d'acqua, o di vino, o di sangue, esula. Qui è un singolo appetito, comunque rinnovato, che ha il suo peana; e per l'individualità di un fatto solo l'ode è prolissa e si ripete più che non conviensi, e la mitologia impaccia. Assurge la famigliarità del vaso primitivo ad una grandezza che gli è sproporzionata e la sua metamorfosi in zampogna è una callida costruzione voluta, per ripetere la favola di Marzia e lunghi aggettivi omerici, più che una logica sequenza di pensiero. E però l'Otre può dirci, con qualche gloria:
«O uom che
m'odi fu laboriosa
la mia sorte. Non fecero grandi ozii
a me gli iddii».
Onde sta fresco ancora e tenderà domani il suo ventre rugoso alla vendemmia, già che il desiderio dell'uomo è eterno e rinasce ad ogni stagione.
Confesso che io non mi accomuno in tutto coi lodatori. Avendo molto letto, secondo il mio cattivo costume, mi sovvengono vicini dei rapporti che ad altri sfuggono e mi sembra che il ricordato meglio valga del presente.
Avrò forse torto, ma, se non vi è noia, vi porgo qui in breve tre raffronti, per non sembrarvi a corto d'argomenti.
I. L'antico. – Quando li Dei vivevano ancora, o stavano per agonizzare dignitosamente tragici sulle rovine del loro gran mondo, che una parola di pace e di guerra aveva suscitato, i poeti erano meno orgogliosi e più semplici, il gonfio otre diveniva il vaso, l'orciuolo figulino e famigliare, estetica pura di giocondi conviti ed utile recipiente dimesso nel fresco e nella sabbia della cavea a temperatura costante. Allora, per cantarlo Filippo (è in dubbio se sia quello di Macedonia, re quinto di nome, debellato dal console Quinto Flaminio; o l'altro di Tessalonica, caro ai Tolomei, gramatico purista e compilatore di una Ghirlanda poetica); un Filippo dei due, non calza il coturno, ma bocca a bocca, ode le confidenze della cava creta e le trascrive:
«Io2, vaso d'Adria, dal collo un giorno gorgogliante ed armonico, quando custodiva il tesoro di Bacco, ora fesso alla pancia, eccomi pronto, qui, a proteggere la giovine vite, che fra poco coprirà, tappezzando, i pali di questa bella pergola. Sempre noi onoriamo Bacco di qualche servigio: o sia che vecchi gli siamo fedeli per le radici; o sia che giovani, solleciti, lo rendiamo migliore ed annoso».
II. L'attuale. – E quando, come ora, tutti li dei sono morti ed il vero Dio vagisce ancora incompreso o condannato nell'uomo, un ignoto ed un disconosciuto (il citarvelo è pleonasmo) si arresta sorpreso, davanti ad un vaso archeologico, che il piccone demolitore e cittadino, per risanamento di vie, gli mette davanti, tra le scorie di una fogna, e lo sente venustà greca e di patria, carico della storia di sua gente; non intorbida il ditirambo sadico, per quanto l'orciuolo abbia visto e guerre e stragi ed incendii, e giacque sotto le macerie che l'Hohenstaufen Barbarossa disseminava; ma lo assicura, calmo di sua virtù millennaria, accarezzandolo con mani pie e sicure.
«Volle tuo
Padre che tu fossi ventreI,
ventre a similitudine di femina,
onde il ricolto del tino gonfiasse la creta all'assetato:
ventre a comprendere e a concepire,
sonno per la stanchezza, sogni per la speranza,
brindisi rosso per l'esultanza.
E volle l'ansa come il braccio forte
di una bulgara e fiera gladiatrice;
il pugno fermo sull'anca e stante,
a sfida e a guardia del tuo liquore.
E volle benedirti, sullo smalto, in un segno di pace,
azzurra croce sul ventre suggellata;
volle, alla croce, aggiunger glauchi olivi,
e, pel martirio, rosse palme doppiare:
pace pel vino, martirio pel vino,
biondo o porpureo, Bakchos reincarnato sulla mistica mensa,
Jesus alla postrema cena della Vita,
pei clivi scendenti, a vittoria, in sul mare,
divinità solare, divinità cristiana,
ad Eleusi ed a Sophia».
III, Il Recentissimo. – E meglio dei precedenti, se Henri de Régnier si fa artista vasaro, eccovi Le vase3. – Egli in cospetto del fiume, delle praterie e dei boschi, da un blocco di marmo conforma un'urna per l'acqua di una fonte vicina. L'anima di tutte le forze di natura, involge a spira nel bassorilievo che la circonda, ed il suo pensiero suscita le immagini vive delle deità che vengono a confortarlo.
Qui sono a consigliarlo ed a posargli davanti Fauni e Centauri, non indifferenti all'Egipane d'annunziano; e vi leggiamo:
«Un jour, encore
Entre les feuilles d'ocre et d'or
Du boi je vis, avec ses jambes de poil jaune
Danser un Faune;»
(e nell'Otre:
«Era l'aurora
quando in mezzo ai salici
mi rinvenne l'Egipane biforme»)
ed anche:
«Et je sentis sa bouche tiede sur ma joue;»
(da compitarsi insieme a
«Pieno fui del divino afflato...»)
ed ancora più in giù:
«Le tourbillonement des forces de la vie».
(da non disgiungersi da
«Dalla giovane
forza alla nascente
luna tu m'empierai queste mie cuoie»)
qui verranno con loro nude canefore sorridendo, finchè l'artefice terminata la scoltura, silenziosamente tornerà alla capanna, sorpreso dall'aurora e rimpiangendo l'ombra, come L'Otre
«discisso tornerà nel gran meriggio»,
pio e svuotato, sacrificando di vino, mentore d'ultima religione, alle ombre del paganesimo.
Ma a che indugiare nelle quisquille dei gramatici?
Filippo si gode la tranquillità millennaria dentro le pagine non rimosse della Antologia epigrammatica, cui turba qualche volta la curiosità arcaica di qualche ellenista di provincia; l'altro è al tutto oscuro e non è lecito che noi l'abbiamo a trar fuori dalle tenebre: Henri de Régnier è uno dei migliori poeti contemporanei di Francia di cui, in Italia, si conoscono, in poca parte le novelle ed i romanzi, ma non le liriche, mentr'egli non si inquieta di venire in italiano glossato con sotterfugi: invece L'Otre rimarrà santificato nelle raccolte classiche delle bellezze officiali della letteratura nostra.
Non vi invito quindi a dichiararmi se io abbia più o meno ragione sopra coloro che vogliono catalogarlo, venerandolo: chè L'Otre è truculento.
***
Settembre ed Ottobre, tra i mosti fragranti e ribollenti, tra le mute avide e latranti, trascorrano nel corso più breve del giorno. Plenilunio di Settembre fa dormire nelle
...bianche
braccia,
quando amava quel pastore,
giovanetto Endimione
che tra le bianche braccia
dormiva sempre;»
ed odoroso di resina e di alloro, di miele e dell'ultime rose, declinato all'ombra dei voli, accompagna l'esodo delle rondini. Queste stridono e volgono al Sud: «Alio hyemandum», esclama il poeta; anch'egli cerca clima migliore per isvernare col quarto libro delle Laudi.
La4 sua avidità di conoscere, per godere, non è saziata dalle precedenti peregrinazioni: ma quale frutto per noi ha tratto? Ci ha in parte medicati o guariti dal dolore che sofriamo, dalla smania che ci assale, dal desiderio nostro di voler abbracciare d'uno sguardo solo quanto ci è necessario per la vita interiore e fisica? No: egli ha complicato assai anni nella sua superficie, identici nella sostanza; si è trasformato nell'aspetto sempre giocondamente: egli è ora nella tregua d'Alcione e pure sente la voce della sua inquietitudine a comandargli: «Su, avanti, ancora avanti. Che fai? Hai tu scoperto tutto te stesso e l'uomo? Vi sono ancora dei paesi e dei mari ignoti alla tua esperienza e delli esseri che tu potrai, incontrandoli, amare: non è necessario vivere ma navigare».
D'Annunzio, sulla soglia della partenza sta in dubio, si riguarda ancora: ha un ultimo scrupolo lodevole. Non è il solo ottimo tra i poeti d'Italia; qualcuno, dall'altra parte della collina, ascende, ultimo figlio di Vergilio che canta l'ora di Barga, che si affida e si confida alla sorella amata, che all'ombra cruenta di suo padre assassinato, con rime preziose e serene, compone il monumento della pietà filiale, che all'ombra vagante ed equivoca e fatale di una imperatrice ha chiamato la pace, pace per i delitti della sua casa, pace per il delitto di chi li aveva vendicati, grande istinto per piccola coscienza armata di coltello.
E salgono insieme. L'Ode si rivolge a Giovanni Pascoli5, dignitosa opera buona, a lui custode delle più pure forme, a lui ed alla sorella
«che vedrai di dolcezza lacrimare;»
perch'era necessario, che, avendolo incontrato prima e spesso senza volersene accorgere, pure ripetendo le sue voci sorprese nel ritmo dell'aria mossa, ora gli facesse onore e si mettesse di un grado più basso.
***
Il poeta dà la sua imagine ed il suo riflesso, esteriorizza il proprio organismo in forme di bellezza. Egli è una coscienza avvertita o no, punto centrale da cui la visione abbraccia l'universo intiero. Ciascun episodio, ciascuna inframettenza rende una imagine, in iscorcio, del tutto: e perchè la disposizione di quella non può essere rigorosamente identica nella espressione di due individui diversi, così il poeta, che vi si manifesta integralmente, dice nel medesimo tempo tutte le cose secondo una prospettiva di un valore soggettivo ed esatto, in quanto la si consideri dal suo punto di vista speciale. – Nelle Laudi il D'Annunzio è un visivo intenso ed un passionale di voluttà: è sopra a tutto un voluttuoso esasperato alla ricerca del piacere fisico ripetuto e rinnovato colla scienza sicura del suo valore e della sua virtù.
Egli vorrebbe essere il despota di un erotismo universale, vorrebbe amare ed essere amato, idolo di una folla, spasimante nella crisi di un amplesso; desidererebbe estendere questo minuto, per lui solenne, a tutti e protenderlo alla storia.
Cerca la bellezza in ogni luogo, la bellezza sempre; vorrebbe possedere tutte le armonie del bello in un solo abbraccio. A lui le labra golose e rosse; le corolle dei fiori e li splendori delle gemme; a lui la saggezza di fabricarsi, dietro la scorta delle sue memorie e delle sue letture, l'apparato scenico, il contorno e l'ambiente nel quale possa veramente godere. Il raffinato si fonde coll'emotivo semplice; è il magister elegantiarum che si sovrapone all'uomo di larghi e voraci appetiti primitivi; il quale si sazia comparando, nell'atto, le voluttà imitate, li ozii delicati, li ardori, le acconciature, i paesaggi, le ipotesi erotiche, i gesti d'energia, di abbandono o di rifiuto, le improvvisate soluzioni della passione ed i significati più aperti o più chiusi delle cose, risvegliati dal mistero, da un sottile raggio di sole.
Il suo verso e la sua prosa sono dunque la sua vita ed il suo desiderio incessante. Ma sono sinceri, e fino a quando, e dove? Finchè egli non si infagotti, mascherotto geniale, in abiti che non gli convengono; o creda di fare, mentre ozia, o speri di darsi come un ideologo mal riuscito alla fabrica delle idee, mentre d'idea e di pensiero è incapace; chè per quanto dica, non ci tramanda che una serie di emotività particolari, stati d'animo, non concetti fondamentali ed assoluti. È sincero fin qui, fino a quando non si presume demiurgo.
Bella virtù, grande coraggio la sincerità; dolorosa prova di forti caratteri; ora che ogni uomo cerca di arrivare, o per favore o per ambizione, mascherando come meglio può sè stesso o facendosi peggiore per ricatto, o mostrandosi minore per avere aiuti di compassione. Leopardi si regge vicino a Foscolo per questa semplice e nativa persuasione di non tradirsi; ed è spontaneo, è verginale dolorando, disincantato sull'angoscia del mondo: li ultimi e più discussi poeti di Francia, Verlaine e Mallarmé, rimangono oltre alla loro formalità perchè non diversamente avrebbero potuto esprimersi, senza fughe e senza ritrattazioni e si sarebbero diminuiti, se, l'uno semplice vagabondo intellettuale, l'altro involuto e complesso studioso di sintesi personificate, avessero tagliuzzata la loro poesia, rimpastata la loro metrica, abburrattata la loro strofa in un altro pasticcio mezzo parnassiano e mezzo decadente, di inferiore qualità, ma più adatto ai palati dei loro contemporanei.
D'Annunzio, invece, che ha qualche impeto, qualche ragione personale cui potrebbe sfruttare legittimamente, senza che alcuno lo possa rimproverare, vuol chiamarsi l'aureo, l'universale, megalomania isterica che gli torna a tutto danno. Per ciò, nessuna delle sue imagini è inedita, perchè o teme il rimprovero del purista, od è poco sicuro del suo giudizio per ammetterla senz'altro. Ed il letterato di maniera eccelle nella abilità del centone che sembra opera personale.
L'ingegno in questa sorta di lavori è spesso nocivo, la lunga pratica è miglior custode ed insegnatrice. Si ricamano graziosamente, sui veli, delle trapunture copiate dai manualetti ad hoc; si animano con brevi soffi grandi palloni periclitanti; si infilano delle perline di vetro diversamente colorate. Tutto ciò, in fine, si presenta con una certa speciosità laccata e fresca: così, una donna pallida si mette del rosso sulle guancie; ma il belletto si screpola, si stira, a squame, sulla pelle, si scrosta; inganno perfido del liscio che sciupa la pelle e che non vuol tenere come una vernice incorporata a fuoco sulla creta; inganno della retorica, bella copertura di seta, che coll'uso si sdrusce, si ammacca, si fende, si sfilaccia, e, slabrante, lascia vedere sotto quanto voleva nascondere.
In questo lavoro d'epurazione formale, sopra una trama leggiera di fenomeni intimi e di fatti individuali, si usa la forza di chi pretende d'essere l'instauratore della Energeja latina.
Due esempii contemporanei potrebbero insegnargli che altra è la via dei volontarii efficienti; Gorki e Kipling.
Il primo: un garzone prestinaio, vagabondo, falegname, impiegato di ferrovia, segretario d'avvocato, ostile alla polizia dello Tzar, ribelle che parla ai ribelli col loro linguaggio, colle loro speranze, colle loro imagini; che loro dice: «Prendete, prendete tutto quanto di cui avete bisogno, perchè v'appartiene dal momento che siete bisognosi»; fecondo romanziere, poeta delle steppe e delle lunghe strade gelate del centro di Russia, rapsodo sulle rive del Volga, psicologo della anima piccola borghese e delle grandi aspirazioni popolari: Gorki che sarà il vero instauratore del carattere russo, se domani vorrà il popolo suo comprenderlo ed uscire dall'atonismo superstizioso e bigotto che lo dà genuflesso ai piedi del Piccolo padre delli impiccatori.
L'altro: il giovane Kipling di razza mista, nato nell'India e più inglese di chi sia stato confirmato a San Paolo; colui che conosce la grande strada pei mari, da Londra a Bombay, i docks di Tillbury, la gioia del piroscafo che scivola sul Mediterraneo favoloso di tutte le Mitologie; che sa le osterie famose di Marsiglia e le vie strette ed incendiate dal riflesso delle mura bianche di Porto Saïd; che passò per i torpori del Mar Rosso e le chiare distese dell'Oceano Indiano; che fu ad Aden ed a Pechino, passò da New-York e San Francisco, coi rapidissimi nord-americani: che ha fortificato la sua personalità, precisato e metallizzato il suo orgoglio di conquistatore; che ridusse la vita ad una serie d'atti necessarii, uccidendo il piacere che snerva e domandando alle sensazioni compartecipate le subite veemenze, le aggressive e brutali ebrietà del sapere reprimersi e dell'obbligare altrui alla sua obbedienza. Costui, Rudyard Kipling, vi può dire:
«Ho centocinquanta milioni di sudditi inglesi che vivono in me, ed io rappresento ora, nel 1904 tutta la patria, dal Lord dello Scacchiere, a Tommy Atkins, il soldato di ventura bravaccio; dal bramano bianco e pensieroso, al grosso operaio di Sydney; dal giallo malese mezzo nudo e suonante di conchiglie in collare, alla bionda miss del lawn-tennis, giuocato sulle montagne del nord dell'India, aspettando il fidanzato, in missione pericolosa, al paese delle febri e del colera».
Ora, l'energia d'ambo è ciò che determina nell'arte loro e la loro sensibilità e la loro imaginazione: è quanto plasma i loro personaggi, riflessi del loro carattere, e figli morali; è ciò che a traverso il mondo, cercando la resistenza, provocando alla lotta la difficile impresa solitaria, li fa raggiungere insolentemente, brutalmente, senza riguardo la meta. Questa informa lo stile o freddo, o rigido, od acuto, o rumoroso di grandi gioie animali o cinico, o nuovo, di una compassione ragionevole verso la fatalità della vita che è golosa di morte; questa è nella loro lirica magniloquente, fantasiosa, alata, biblicamente orientale, uscita fuori dalle tende dei bivacchi arrampicati sulle soglie dell'Himalaja; squillata sulle praterie ucraine al ritmo impari del trotto dei cavalli stanchi, liriche di gioia, di desiderio, d'allegrie animali profonde e sorde, per li appetiti atavici di loro gente; la quale ha già per loro consacrata una leggenda ed una apoteosi.
Noi abbiamo, tra coloro che si interessano, una leggenda d'annunziana, ma è ridicola6 e sciocca.
«la mia forza supina
si stampa nell'arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la nube il mio sudore....»
Conviene abbondare nelle citazioni del Gabriellino che ci dà le ragioni animali delle Laudi «Tutto il terzo libro delle «Laudi» cioè l'«Alcione» – è pieno, per me, di quel tempo. Le funzioni che vi suscita il poeta, le viveva intensamente prima di fermarle nel verso; le vedeva in una realtà effimera, creata dalla sua esaltazione; e colla forza della sua parola, comunicava anche a noi la facoltà di viverle e di goderle». Il delirio, sì come suole, è contagioso. «Talvolta, essendo soli in barca, al largo, sperduti nel mare, immaginava ch'egli fosse Ulisse e noi i suoi compagni». Vi ho già citato il simile caso de' passatempi bambineschi: fingersi Robinson Crosuè. «Il giuoco, divinamente infantile, ci prendeva». Perfettamente! E che cosa sarà mai stato, è, e sarà Gabriele D'Annunzio se non un fanciullo capriccioso, perverso e furbo, che seppe far valere la sua falsa spontaneità e vendere i proprii vizii estetici per opere d'arte?
Gli è che trovò, in torno a lui, de' bambini ignoranti e babbei che si lasciarono ingannare e delli uomini interessati e crudeli, che, col convincerlo della sua non grandezza, lo sfruttarono e si arricchirono, col suo esibizionismo, sulla sciocchezza de' babbei lussuriosi. Badate, però: tra la prosseneta e la cortigiana, la parte più laida viene sempre officiata dalla prima.
Di codesta seconda Antologia le briciole vennero raccolte da Agathias, da Costantino Cephalus e da Massimo Planuda: i resti della quale si trovano, in fine, se li volete conoscere, nella nota «Anthologia graeca ad fidem codicis olim palatini, nunc parisini, ex apographo gothano edita, 3 vol. 1813».
«in omaggio alle verità dell'articolo: Leggendo ancora le Laudi – nel N° 1191 dell'Italietta e ammirando il coraggio dell'autore.
«Alessandria, 21 Aprile 1904».
Rubricai sul calendario, a festa, quel dì in cui ricevetti questa attestazione, e la conservai per nominarvi la persona ed il caso onorevole raro e perciò assai più commendevole. Mi viene talvolta in mente, e ve lo voglio anche confessare, che se molte signore italiane partecipassero della signora Guenna – ch'io mai vidi, nè conoscerò – si lamenterebbero meno Commendatori Cifarielli uxoricidi, poche Contesse Trigone assassinate. «Che esagerazione!» esclamerete voi. Che volete! Non è qui il caso di ripetere tutto il ragionamento, del resto semplice, che fa coincidere un gesto di lussuria e di sangue come quello del Paternò, coll'arte lussoriosa di alcune pagine del Forse che sì, forse che no; nè io son così ingiusto da farne risalire le conseguenze all'autore. Data questa società è logico il suo poeta: ma pure il cerchio è doppio ed anfigorigo: il poeta, insistendo sul fatto meno nobile di questa società colla sua arte che altrimenti non gli sarebbe rimunerativa, ripropone e coonesta le virtuosità di questa sensualità per il fornice e l'oro, sopra cui guatano, giustiziere, l'assassino, più barbara ed inutile, la legge, misericordiosamente feroce, la lue e la pazzia. Ma voi tornerete a dirmi: «Oh che esagerazione: non complicate... D'Annunzio!» Che volete: io sento che è così.