Gian Pietro Lucini
Antidannunziana: D'Annunzio al vaglio della critica

Phaedra e del "Plagio"

Del "Plagio"

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Del "Plagio"

Ragionamento gratuitamente filosofico
col «Mastro de' plagi d'annunziani».

Adde quod quidquid alteri simile est, necesse est minus sit eo quod imitatur: namque iis quae in exemplum assumimus subet natura et vera vis; contra, omnis imitatio ficta est et ad alienum propositum commodatur».

Seneca, Epist. XXXIIj.

Ed eccomi, un passo dopo l'altro, alla Fedra, dove m'imbattei, senza troppo cercare, in un novissimo plagio d'annunziano, sul quale è bene discorrere, sia in generale, che in particolare. Vi dico subito che non mi vanto della scoperta, e ben volentieri la lascerei ignorata in questo libretto, se non giovasse come pretesto, a maggior speculazione, e, se presso al pubblico minuto, come evidenza tangibile ed irrefutabile, non facesse colpo. Queste grossolane ed empiriche dimostrazioni convincono assai più che non facciano i sottili ragionamenti filosofici e le più acute psicologie critiche intorno al carattere ed all'opera risultata del nostro autore: in fondo, noi dobbiamo sempre rivolgersi al pubblico con argomenti solidi e capaci che sforzano, colla loro evidenza meridiana, anche le più chiuse intelligenze: il lettore italiano è rimasto sempre latino, anzi romano: esso non sa capire, gode, della elegante difficoltà per cui le astrazioni si fanno verità, tanto meno sa applicarle al concreto ed all'assunto: tutto che in genere è chiarissimo ai greci ed alli inglesi, per lui, è oscuro e pericoloso e vuole il fatto. Ecco il fatto nel plagio documentato; ma a me non togliete il piacere di destreggiarmi colli universali e di, non solo, dare un particolare, ma anche una ragione più vasta e forse poco conosciuta di questo fenomeno letterario e delle sue conseguenze.

Domandiamoci allora: Che è Plagio? E per cercare di sbagliar il meno possibile rifacciamoci alla etimologia. Plagio = Plagium, deriva da Plaga, piaga, percossa, battitura: Cicerone: «Dico in illo supplicio mercedem vulneris atque plagiae constitui nefas fuisse»: e plagium significa latinamente quell'atto, o meglio reato, con cui alcuno compera per ischiavo un libero, o lo sostiene, o lo vende come tale; o persuade ad un servo fuggir dal proprio padrone, per venderlo, donarlo ad altrui1.

Il plagio è dunque, secondo la legge penale romana, una fattispecie del furto, che ha attinenze coll'abigeato aggravandosi nel caso, col ridurre, senza alcuno, un libero in servo, usando la violenza, esercitata contro la volontà di un cittadino, per cui questi diventa mancipio del proprio ingiusto possessore. Plagio è azione degna di piaga, condannevole sopra ogni riguardo; e, se vogliamo accostare i due concetti, ecco che: la piaga maggiore che si possa infliggere ad un libero è privarlo della sua libertà. Donde similmente: «Il maggior danno e spregio, che un artista può recare all'altro, è rubargli le idee ed il modo con cui sono da lui espresse, per rivolgerle al proprio tornaconto»: il reato è, nel primo e secondo caso, turpissimo2. Facile allora comprendere, come il plagiarius sia chi vende e compera per schiavo un libero, e più latamente, secondo l'opinione di Ulpiano: chi vende ciò che non gli appartiene. D'altra parte, Marziale, con felicissimo translato, è il primo e designare con plagiarius colui che ruba le opere altrui e se le arroga come sue. – Di rimando, plagiger è chi è fatto per essere bastonato; ed i due vocaboli si assorbono; perchè il plagiario scoperto è appunto colui che deve essere – come il ladro trovato colle mani nel saccobastonato. Di fatti la Lex Fabia de plagiariis, la quale proibiva di celare, legare, o tener legato, o vendere, o comperare, sciens dolo malo, un cittadino romano, od uno schiavo di cittadino romano, indebitamente sostenuto nell'ergastolo d'altri; interveniva, con sanzioni penali, nell'occorrenza di questo reato commesso e confesso, con la multa di cinquantamila sesterzi, prima, poi, durante l'impero, coi lavori forzati, ad metalla, in metallum.

Decaduta la schiavitù, svoltosi, maggiormente rispettoso del diritto umano, anche il giure; plagio è ora: «Il furto letterario, scientifico, artistico; essendochè, la proprietà delle opere dell'ingegno e di tutto quanto ne scaturisce, prima non considerati dalle leggi, oggi, sono riconosciuti a far parte patrimoniale, personale, sia come modo di acquisto di proprietà, sia come proprietà stessa»3.

Ma povera e vessata proprietà intellettuale, i di cui prodotti si riducono ancora, press'a poco, ad essere res nullius! le legislazioni particolari nazionali, li accordi internazionali si sono ufficialmente determinati a stabilire, con norme fisse e veramente moderne, la durata, la intensità, la qualità, l'efficenza di questo capitalissimo diritto, creato, dalla più nobile delle attività umane, alli autori, per interna volontà e fervida espansione di cervello. Si che è molto più facile trovare sanzioni contro la contrafazione delle cose – cioè modelli di fabrica, disegni, secreti con brevetti d'invenzione – che non la protezione necessaria contro il plagio letterario, contro l'incursione a mano armata di penna e di forbice nell'opera altrui, per iscanso di fatica, per ajuto facile alla ignoranza, per dolo di vendere, come proprio, l'altrui. Anche il nostro codice zanardelliano, veramente e romanamente realistico, si accontenta di comminare pene nel Cap. V = Delle frodi nei commercii, nelle industrie e negli incanti = Titolo VI = Dei delitti contro la fede pubblica = colli art. 296-297, ai contraffatori di marchi e segni distintivi dell'opere dell'ingegno, od alli alteratori di nomi, ecc... dentro cui si deve includere, con assai difficoltà, la fattispecie del plagiario, essendo, del resto, la prova del plagio, come vedremo, davanti il magistrato, difficilissima; però che il Giureconsulto non può essere, a mio parere competente in materia, ma bensì un Collegio di Probiviri tecnici della partita4. I quali, stabiliti l'inganno, la frode ed il risultato del plagio, ne dovrebbero deferire solo allora la causa al giudice per quei provvedimenti penali e per quei risarcimenti scaturiti ipso modo dal fatto determinato e riconosciuto dal tribunale speciale di quei nuovi scabini delle lettere, delle scienze e delle arti. Inoltre, è bene osservare che il plagio vien da noi considerato un delitto contro la fede pubblica, e cioè un reato più affine alla spendita di biglietti di banca falsi che non al furto vero e proprio. Inversamente, io lo determino come uno dei delitti contro la proprietà individuale, perchè questa artistica è l'unica che possa essere anche immune dal peccato di origine lamentato dal Proudhon: «La proprietà è un furto»5.

Evidentemente, il Filosofo della Miseria non vuol confondere la facoltà del possedere, che si determina da noi colla stessa vita, col possesso, stato di fatto. Si che, pensando io romanamente, posso ammettere come il possessore tipo sia il ladro: ma gli contrappongo il proprietario tipo, che è il lavoratore, non potendo limitare il campo umano, col togliergli l'esercizio di quel diritto, che deve rimanere nel utendi, sopra cui si inalzano le determinazioni della società, libera dispositrice ed usufruttuaria di quanto sa l'uomo produrre in sopra più della natura.

L'opinione del Proudhon è singolarissima in fatto di proprietà letteraria; egli ammette che si accordi alli autori una sovvenzione senza che costoro però, abbiano il diritto ad una rimunerazione: argomenta, che, non essendo l'Arte una utilità ma un quid inestimabile, non può essere soggetta a precisa valutazione e sia fuori commercio; il giusto, il vero, il bello non possono essere venduti, ma distribuiti gratuitamente; alla collettività rimane l'obbligo di sollevare dalle contingenze dolorose della vita l'artista, il sapiente, lo scienziato che li produce o li aumenta; ma l'artista, il sapiente, lo scienziato non possono, d'altra parte, usufruire come proprietarii, vendendo l'opera loro; la quale, per la sua portata etica ed estetica, esorbita dalle loro egoistiche facoltà, e bisogna che si riversi, integralmente, sopra la comunità umana. È pur questa la teorica di Giulio Lazzarini: non si può trafficar della bellezza, della scienza, della virtù, che sono patrimonio nostro comune: premiamo coloro che sanno lambiccare, dal fondo limaccioso, che appartiene a tutti li uomini, in quanto vivono, il giusto, il vero, il bello, in magnifici esempii, con perfetti dettagli messi in azione e commoventi; ma non paghiamoli: essi hanno, è vero fatto cosa che li avvicina alla divinità; non per questo erano meno obbligati, fratelli nostri più puri e migliori, di dotarci delle loro scoperte gratuitamente: nel caso contrario, sarebbero delle infere divinità. E Kropotkine instituisce all'uopo, non Academie privilegiate, ma Teatri magnifici, in cui l'applauso basta alla gloria delli inventori; mentre l'universa fratellanza li dichiara oltre e franchi l'obbligo del lavoro, che non sia il loro; quel tal lavoro che oggi par vagabondaggio ed ozio alla borghesia mecenatessa tirchia e corruttrice.

Non eguale ragione ha il Carey, se contesta il diritto della proprietà letteraria, il più umano e naturale esercizio di vita, da che il padre si aumenta della propria creatura, usandone idealmente come un pater familias romano, con profitto suo, utile e vantaggio generale. Sostiene che li autori pescano le idee nel comun fondo delle conoscenze, e sono giardinieri che colgono, di sui prati della proprietà collettiva, i fiori più vividi e profumati per farne un mazzo egoisticamente singolare. Tutti hanno diritto a questo mazzo, esclama il comunista, senza doverlo pagare! La bazza è per il plagiario, che potrà confondere facilmente il mazzo già composto coi fiori in istelo mentre attendono, sui prati, d'esser colti; essendo la prima operazione assai più facile e meno faticosa della seconda. Ma l'errore è capitale: perchè il lavoro del raccogliere, cioè la spesa di energia umana nel determinare, dal discreto e dall'amorfo, il concreto e la forma, implica un acquisto di proprietà ed un aumento di capitale estetico, etico e scientifico per la società, che pur deve essere riconoscente a chi glielo ha procurato, e che deve premiarlo coll'impedire, almeno, che ad altrui, il quale volesse possederlo senza averlo fabricato, fosse lecito di osare la sua tentata espropriazione. Col Carey, Louis Blanc e lo Chévalier si accordano a meraviglia; e codesti novatori si mettono di tal passo in sul gradino filosofico del De-Maistre, tanto per dar ragione alla saggezza popolare: «Li estremi si toccano».

Ma, scendendo dalla teoria alla pratica, dalla filosofia alla vita, ci incontreremo col Pouillet, giurista principe e specialista, che severamente dichiara e definisce: «Il y a contrafaçon toutes les fois qu'on prende une oeuvre qu'on n'a point faite soi-même, et que, sans permission de l'auteur, on la fait tourner a son profit. La contrafaçon partielle est défendue au même titre que la contrafaçon totale; prendre un peu du bien d'autrui n'est pas plus exsusable que le prendre tout entier». Sotto questa sanzione, quali opere moderne avrebbero potuto chiamarsi originali e come tali essere ingenuamente e sicuramente esposte in vendita senza pericolo di contravenzione? Certamente nessun libro d'annunziano. E su questa severità mostraronsi, in un tempo non troppo lontano, difficili e scrupolosi i tribunali parigini; tanto che, per citarvi una sentenza ad hoc, eccovi questa col suo caso: il 12 marzo 1827, il Tribunale correzionale della Senna giudicava esservi contrafazione nel fatto d'aver inserito, in un Manuel du Veterinaire, una lezione sur l'âge du cheval appartenente ad altro che non era l'autore di quel volumetto didattico.

Si applicava ad litteras l'esegesi del Pouillet; faceva stato l'adagio di Lamothe Le Vay, citato da Nodier: «On peut dérober à ta façon des abeilles, sans faire tort à personne; mais le vol de la fourmie, qui enlève le grain cutier, ne doit jamais être imité». Domandiamo a D'Annunzio s'egli si comporti in ape o formica: non risponderà. Per lui io: è tanto formica che fa scorta, nel proprio granajo, delle spighe piene d'altrui; e, quando nella fretta di parer dovizioso non le trebbia, ve le con paglia e crusca commiste, sì che subito ne accorgete la provenienza.

Ma i tempi, sotto la temperata pressione del determinismo indulgente, si fanno più miti anche coi plagiari condotti inanzi al magistrato, e qualche saputo eloquente difensore può chiamar in causa pur la Natura6 – con l'N majuscola – la quale, per quanto possa improvvisare stampi nuovissimi ad ogni cosa, senza fatica, pur si compiace di plagiarsi in copie più interessanti dell'originale. Perchè dunque il metabolismo, legge precipua in biologia, non deve esserlo in letteratura? E la maggior scienza acquistata dal giudice e dal critico li più soliti al perdono.

Incominciarono a distinguere. Certo, non rappresenta plagio quella informazione, quel dato esatto che si attinge da un'opera specialista, da un manuale; ed un romanziere, per esempio, sfugge a qualsiasi rimprovero, se, per descrivere un cielo stellato, si munisce di un trattato di astronomia per non errare; ma sempre l'imprestato deve essere accordato per ragioni tecniche e non di imaginazione. D'altra parte, è precisamente plagio quanto si toglie da ciò che costituisce l'opera generale; cioè, quello che si intende essere essenziale in creazione diretta, risultato dalla personale fantasia ed imaginazione di un autore, disposizione speciale nell'ordine di una materia, determinazione plastica di un'opera. Allora, tutte e qualsiasi sottrazione di questo genere non possono essere difese come necessarie documentazioni al soggetto, bensì riguardate come non leciti debiti incontrati di nascosto e dolosamente, colla sottintesa intenzione di non pagarli mai.

In fine, se è permesso usare di una notizia, che, per la sua divulgazione si possa ammettere di pubblico dominio, si deve proibire l'appropriazione indebita dell'opera personale di un terzo. Questa fa parte della sua proprietà e va salvaguardata come un titolo di rendita; anzi, è esclusiva proprietà ed unicamente deve servire a colui che l'ha creata, a sua imagine e simiglianza, così. Perchè, quando appunto l'uomo fa opera divina e crea pressapoco dal nulla, volete ch'egli s'industrii come uno schiavo privo di attributi legali, che gli si vincoli la sua creatura in modo che non gli profitti? La statua, il quadro, il disegno di un edificio, la sinfonia, il libro, una rappresentazione mimica non sono res nullius, che tutti possono ricopiare, ripubblicare, contrafare, saccheggiare, rivendere per conto proprio. L'esclusività della proprietà deve essere concessa all'autore, non solo, per la forma esteriore, ossia per il modo con cui l'idea in genere è manifestata; ma, sopra tutto e precisamente, per il concetto vitale e generale, per il piano del racconto, la condotta di un libro, la scelta delle imagini, le considerazioni personali suggeritegli dalli avvenimenti e dalle riflessioni sue, cioè, anche per il tono esclusivo dell'opera, dal quale si avvisa un carattere estetico, che non può essere corrotto e sciupato sotto li imprestiti violenti, cui l'abile pigrizia altrui sa imporgli, senza diminuirsi; mentre mal si cementa il troppo prezioso mosaico di pietre dure, nel resto del pavimento di rozze selci, che formano, di solito, la sola fabrica genuina del plagiario.

Se non che, suole oggi commettersi un puro artista, in sulle pedane delle pubbliche aule della giustizia, con un abile pratico, che gli ha scomposto l'opera, gli ha tolto i segni più evidenti della propria individualità, indi, da quelle macerie, l'ha depredato? Nel caso d'annunziano, vorranno convenire, i cinquanta e più grandi letterati vivi e morti della internazionale letteratura, il Poeta Abruzzese, per ripetergli, collo scandalo, quanto loro appartiene? Quale il giudice specialista, che si muti in critico, e soppesi le ingiurie morali, i danni ed il risarcimento? Il pubblico a questi dibattimenti di academici accorrerebbe per sfoggiare la propria ilare ironia; ed i depredati avrebbero le beffe: perciò, tutti tacciono ed il magistrato, sollevato dal maggior lavoro, si felicita del buon senso collettivo che non lo viene a disturbare colle irritanti querele dei poeti. Ciò si continua a fare in Italia; in Francia, si è meno corrivi.

Qui, pure, la giurisprudenza oscilla e non segue un'unica norma. Mentre il 9 Febbrajo 1911, la Terza Camera del Tribunale Civile della Senna statuiva, che l'imprestito non autorizzato di sedici battute d'una partitura musicale, in una Rivista da Cafè-chantant, è causa di un nocumento all'autore di questa ed ai terzi che ne hanno legalmente acquistato il diritto di riproduzione; la Sesta Camera dello stesso Tribunale, il 14 Novembre dello stesso anno 1911, chiamata a giudicare su querela del Dottor Hacks, a proposito di un suo volume A bord du Courrier de Chine, ch'egli credeva parafrasato da Jules Bois, in un di lui più recente Vaisseau des Caresses, rispondeva; non potersi procedere contro il Bois per plagio, pur ammettendo la fragrante e patente somiglianza di alcuni passi del suo romanzo con quelli dell'opera del dottore, uscita prima. «Il ne peut être contesté que le «Courrier de la Chine» ait été utilisé par Jules Bois = souvent les mots employés ne permettent pas de douter, que lorsqué J. Bois composait son roman, «Le Courrier de la Chine» était sous ses yeux:... ma, per tanto, non sembrava al magistrato di dover esser severo, però che l'affare meglio importava alla critica7 che alla giustizia positiva».

Comunque, pubblico e magistratura sorridono volontieri da auguri ben avvisati, quando vien posta loro davanti la questione del plagio; ed è per l'autore derubato una crudele ironia il vedersi commisurato con alquanto dileggio della sua sciagura, che fu quella di imbattersi in grassatori di letteratura. Gli si dice piacevolmente: «Dovevi vigilare da te la roba tua»! come il giudice spartano a chi gli si querelava di un furto patito. Un ladro è sempre un furbo, tanto più professi, con disinvoltura ed eleganza, l'arte di rifondere le argenterie sacre e profane furate, in un suo secreto crogiuolo, donde esce pel suo successo una verga di metallo al suo presunto marchio. I cento e mila plagiatori di professione non vantano la sentenza di D'Ulbach, per quanto giureconsulto: «L'idea è di tutti; la forma è di ciascuno in particolare»?

A questo dettato si sarebbe fatto solidale il nostro Croce; se non che, per quanto più comunista, è meno equo e lascia campo ad attribuzioni, le quali, se possono giovare alla teoria hegeliana del professore di Napoli, contrastano colla idea generale che si ha intorno al plagio, comprovato assolutamente, come nel caso del Bois. Così ammettendosi, che, per evitare il biasimo e la condanna di plagio, basta produrre un'opera, che, nel suo totale, non assomigli all'opera copiata, si è troppo semplicista; donde i sartori delle casacche d'arlecchino saranno sempre considerati in buona fede ed avranno sempre indisturbato il diritto di esercitare la propria professione... sulla roba altrui. È facile inoltre vedere come, con questo giudizio, la proprietà delle opere dell'ingegno sia esposta ad ogni e qualunque malandrinaggio ed aggressione dall'intraprendente e disinvolto predatore dell'arte e delle scoperte d'altri.

È sufficiente, per innocentarli, raffazionar idee, imagini, sviluppi depredati sopra uno scheletro nudo e diverso, per rendere originali un romanzo, un quadro, una statua, una sinfonia, un edificio? A me non parrebbe: che anzi, l'opera d'arte vive anche per la forma; ed è questa che individualizza il pensiero e l'essere.

Per ciò mi affido, con maggior fiducia, al Montenuis: «Il plagio incomincia quando un autore, inconsciamente o coscientemente, produce un'idea già emessa specificatamente da altri, sì da non potersi accogliere nel fondo comune de' materiali ideativi pubblici; ossia, quando si rifà o si riscrive un oggetto od una frase già usati o noti coi loro specifici particolari da non essere ritenuti a far parte delli oggetti e delle espressioni generali ed indispensabili, ma invece da farsi conoscere per quel tono speciale, nativo ed essenziale a questi stessi come opera di quel singolo, cui apertamente dichiarano».

Certo, Montenuis eccede oltre per scrupolosità di Catone intrattabile in sui principii. Di questo passo si dovrebbero condannare Chateaubriand, che, nelle Memoires d'autre Tombe, si ricorda troppo spesso del Voyage del Pere Charlevoix; Anatole France, che si ajuta col Moreri; eccetera. Ma saggiate al diapason le opere di Chateaubriand o del France rispetto alle altre che li insegnarono, vi daranno un suono speciale, un tono di metallo prezioso; sarà suono d'onesto ottone quello dal Charlevoix; ma squillo argentino di preziosissimo bronzo caveranno le nostre nocche dalla bella campana Chateaubriand.

Percuotendo D'Annunzio che udiremo? Egli, come in genere i Bizantini ed in specie i Turchi, riabbassa il titolo dei metalli altrui, impiegati da lui nella sua lega che mal si fonde, perchè li elementi spesso sono idiosincratici l'uno all'altro: suona dunque falso; giacchè egli, per contrafare, peggiora e sciupa li elementi, in quanto li dota di menzogna. È allora dalla sonorità di un'opera che si indica il plagio in modo evidente, oltre che morale, fisico; e bisogna essere in genere, ben poco sensibili, aver minimamente educato l'orecchio letterario, se, facendo il critico di mestiere si arriva a giudicare che D'Annunzio, occupando violentemente l'altrui, lo migliori col suo. Basta vedere da chi prende, ed è facile stabilire come non sia possibile, ma assurdo, reputare che il maggiore diventi più piccolo del minore, e Tolstoi, ad esempio, si rifaccia nano davanti il pigmeo D'Annunzio.

Un'altra volta ricadiamo nella questione ad hoc.

I pensieri di tutti li scrittori, da cui attinse d'Annunzio, hanno perduto la loro originalità di nascita, non si possono più riconoscere per quelli di Flaubert, di Maupassant, di Zola, di Tolstoi, di Maeterlinck, ecc. ecc., perchè amalgamati e rifusi nel crogiuolo unico della forma d'annunziana? Mai no; chè nessun lettore delle fonti d'annunziane, leggendo D'Annunzio, si sarebbe accorto del plagio: anzi quegli ha notato dalla diversità di tono, dal diverso suono del metallo, prosa o poesia, che ciò non gli apparteneva; e, messo in allarme dalla sua memoria, ricercò, sui testi, le ragioni e le trovò, a convalidarlo, nella sua diffidenza, dal dubio in certezza. D'Annunzio ha bisogno delle idee in e della forma delle imagini, con cui li autori suoi patroni le vestono; se le appropria, perchè gli convengono; la sua caratteristica consiste appunto nell'arlecchineria; ed il suo merito nell'essersi ricucito un abito, che lo avvolge abbastanza bene con pezze e pezzuole varie, raccattate per ogni dove. Ciò significa fare il mosaicista riproduttore sopra cartoni celebri; essere un eccellente operajo, dotato da natura di buon gusto e virtuosità rara; non rappresentarsi come poeta originale, tanto meno, come l'indice lirico ed estetico di tutta una razza, una nazione, che, proprio, merita e può aversi, senza molta fatica, procuratori di maggiore potenza e dignità. «Ma egli è il letterato italiano che ci ha portato all'estero: con lui, i nostri libri sono entrati nel mercato europeo e diventano, se non seminarii di bellezze, almeno merce. Questo è quanto importa». D'accordo; egli ha saputo condir la sua produzione colli svariati e saporitissimi sbruffi della réclame, non nego; indi la fortuna lo protesse: ed un'altra volta il mio vecchissimo Aristotile mi insegna: «Dove è assai dell'intelletto ivi è poca8 ventura»: che, nel caso nostro, si applica colla proposizione dell'inversa.

***

Nel discendere, dal generale al particolare, non vi ho esagerato: per sincerarsene, il lettore corra più giù al Mastro de' Plagi, dove le ricerche di altri, ch'io impiego qui in sintesi, gli risparmiano la fatica delle sue. Così, fattosene una convinzione da risultati che non potrà eccepire, può aggiungere un'altra caratteristica principale a definir l'arte d'annunziana con un indice che le appartiene in proprio e la distingue dalle molte altre: il Plagio. Con ciò io non danno il nostro autore: egli, pur troppo, è obbligato alla falsità organicamente; lo ha dimostrato dalla sua più tenera giovanezza.

Al Convitto Cicognini9 di Prato, ingannò, nel 1887, quand'egli era in seconda o terza ginnasiale, il suo buon maestro de Titta, il quale crede tuttora l'abbia burlato, per saggiargli la propria erudizione, che, al punto, fu in difetto. No: fu non il primo l'ultimo saggio del modo con cui soleva comporre e comporrà, in seguito, il D'Annunzio; anche la sua precocità doveva indicare la nota: Plagio. – Da allora, l'impunità acquisita, la facilità aumentata col buon gusto e la lettura copiosissima di libri poco noti in patria, la piega del suo carattere si fanno abitudine; indi, seconda natura; poi, funzione: egli scriverà originalmente nell'interlinea dell'opere che legge non disinteressatamente, e per usarne in vista di quello ch'egli vuol comporre. Adatterà situazioni, personaggi, descrizioni al suo assunto; impiegherà materiale già definito, polito, squadrato dalle cure altrui alla sua casa; perchè per cercar nuovo e originale, si fa più fatica, quando non sia più difficile od impossibile alla mente d'annunziana.

– È ancora lo scolaretto, che bara col falso bel compito d'italiano, il buon de Titta; rimarrà sempre colui, che, lucrando sulla buona fede e dell'editore e dei lettori, metterà in circolazione, come proprii, prodotti alieni, intonati più o meno bene alla ragion generale di un suo lavoro. Egli non potrà mai vincere, con altra e maggiore volontà, la piega della facilissima abitudine, la forza di inerzia, che lo ha confitto ad usare di un metodo troppo spiccio, in arte; perchè le trovate di questa sono di bellezza, ed in quel genere son perfette, che, col tornarci su, – come inversamente accade nelle scoperte scientifiche, che, meglio elaborate, danno altre nuove applicazioni – si guastano e si rendono imperfette: e D'Annunzio, così, ha abituato la sua mente a far senza della necessaria ginnastica del creare per : donde, disimpiegata di quella funzione, ne ha atrofizzato l'organo, che, pur nobilissimo, doveva funzionare, scattando automaticamente, a richiesta delli urti esterni. Il cervello d'annunziano, che sembra dalla esteriorità tanto alacre a fucinare ed a plasmare, si comporta, invece, con irriducibile neghittosità: sì, lavora, ma nel suo modo che è di adattamento superficiale, di risveglio mnemonico, di ricerche verbali. Perchè? Troviamogli la scusa, non solo attenuante, ma discriminante. Non ne può fare a meno. Osserviamo il suo mecanismo psichico in movimento.

Gabriele D'Annunzio è dinanzi allo spettacolo della natura e della vita, e davanti ai libri altrui che lo descrivono, nell'attitudine dell'esteta passivo: ha piacere. Quanto gli suggerisce però la realtà non diviene in lui che emozione di sentimento; ciò che prova invece dalle pagine che legge è già emozione estetica: cioè, emozione sentimentale lambiccata, svoltasi già in bellezza, capace di comunicare non solo col senso, ma pur colla mente; insomma emozione elaborata dalla fatica psichica altrui in grado superiore. Al fatto: egli sarebbe stato capace di dire ciò che aveva sentito davanti al tramonto di una bella giornata di maggio, se non avesse anche letto la descrizione di un tramonto di maggio? Quella descrizione autentica la sua percezione; il tono al suo proprio sentimento, provato davanti allo spettacolo: se dovrà descriverlo, dovrà, per forza, ricorrere alle parole dette da altri prima di lui. La lettera ha avuto più facile impronta sulla sua coscienza che non la diretta esperienza.

Perchè vi sono due modi d'acquisto delle idee: per esperienza propria, o per coltura. L'idea può essere il risultato di una concezione personale, ed allora ci appartiene veramente e porta l'impronta originale nostra; ma può essere acquistata per sopraposizione e non per elaborazione diretta, e ci apparirà velata come nozione venuta d'altri. Essa non ci rappresenta in totalità, non è fatta a nostra simiglianza, figlia nostra; ma darà di noi quel tanto che può combaciare colle linee generali della nostra percezione; la quale, del resto, non può trovare, per altre manchevolezze organiche, il modo di dimostrarsi completamente, originalmente, intiera. A Gabriele D'Annunzio è più facile il secondo mezzo d'acquisto ideologico, che non il primo, per difetto essenziale.

Ognuno sa come la sensazione sia un mezzo termine, una crisi che deve terminare in una reazione: la reazione è di due sorta atto o pensiero: ed il pensiero è un riflesso ridotto a tre quarti. Vi è un istante, in noi – dopo l'urto sensazionale torbido ed inquieto – di dubio, in bilancia, se l'energia nervosa, messasi a vibrare, risponderà con un atto muscolaregesto – o con atto psichicoidea: – se volge da questa parte, si è perchè, accidentalmente, per ragioni di polarizzazioni speciali ed eccezionali – quelle tali polarizzazioni da cui può desumersi nasca la genialità efficenteteratologicamente – l'energia nervosa si trasforma in pensiero. Il pensiero si manifesta, dunque, come luce nella corrente, non come moto: voi sapete che la luce elettrica è il risultato voluto e dosato di un corto10 circuito; similmente, il pensiero, che dona noi l'esperienza, e che ci fa capace di esprimerci originalmente.

Nella psiche di Gabriele D'Annunzio, non ci sono, o ben raramente si producono, dei corti11 circuiti; la sua sensazione va indisturbata al moto, al gesto, alla reazione diretta. Egli concepisce, esteta passivo – e desidera emulare l'esteta attivo per il piacere che, non solo gli ha recato, ma recherà alli altri col far loro leggere una bella descrizione di un tramonto di maggio; – scorge solamente la bellezza di quella scena da quando se la vede davanti ben dipinta da altra mano, per cui, in riposo, epicureamente il suo godimento è grande. Come reagire? Quale il suo riflesso? Come superarne il piacere? Davanti alla visione del tramonto reale si è formato in lui il piccolo circuito, che lo ha illuminato, l'idea? No: vi fu al suo posto un gesto mecanico di memoria. La sua coltura è stata risvegliata, pagina tale, pagina tal'altra; si descrive ecc...

D'Annunzio accorre; sopra il modello lavora; fa più grande o più piccolo, a seconda di chi ha scelto a dirigerlo: poichè la trasformazione teratologica dell'energia nervosa non avvenne in lui, succedette quella più comune ed ovvia della reazione, della risposta fisica. Nell'applicare la descrizione dell'autore X... al posto assegnatole sulla pagina, è più sicuro D'Annunzio di non errare, perchè vi è guidato da un esempio scritto. Per lui non vale la formola di Bourget: «Ogni straordinaria sensibilità ha una visione particolare e personale dell'universo»; egli non può dire, come Schopenhauer: «Il mondo è un fenomeno cerebrale12 – il mondo è la mia volontà». Si sforzò di voler pronunciare queste parole nelle Laudi, ma non le ha capite e rimase il poema un centone da materialista mentre doveva essere una fanfara di idealità; sì che non può, come Jules Laforgue, affermare che la filosofia è la negazione dell'egoismo, insegnando la bellezza della pietà; ma deve ricadere, per quante ali posticcie si metta al dorso, a magnificare stesso, il superuomo, l'egoismo, la negazione della pietà.

La condizione sua di essere poeticamente è condizionata alla mancanza di ideazione diretta: codesto modo, per cui sente e fa, gli deve togliere: la possibilità di creare ex novo: l'indifferenza, l’amoralismo davanti al plagio, ch'egli non riconosce come spogliazione di roba altrui, ma più tosto come legittimo mezzo di acquisto di proprietà letteraria; tal quale il diritto romano considerava la ferruminazio, l'accessione e l'alluvione. Fermiamoci sull'alluvione, che è il tipo esatto del suo aumentarsi letterariamente: al punto, lo ammette anche il Croce, che definisce, e già vi è noto, il plagio d'annunziano come: una nuova conferma della invadente personalità artistica di lui. È il fiume d'annunziano straripato, che, quando si ritira, carreggia con anche il campo di coloro che hanno la sfortuna di aver possessi lunghesso i suoi greti; per dove passa si sovvertono i confini, si confondono le proprietà; il provvisorio impera colle leggi del primo occupante; tutto il coltivo d'intorno, che fu già patrimonio lavorato con cura e speranza da alcuni, è res nullius: su queste terre può sorgere, pel solo fatto dell'occupazione d'annunziana, l'allodio barbarico ed indisciplinato.

Va data lode ad Enrico Thovez13 se per il primo, e nel lontano 1895-96 dalla Gazzetta letteraria di Milano, ci ha fatto conoscere i plagi d'annunziani: vi tornò sopra Enrico Panzacchi, in Morti e Viventi. Catania, pag. 15-32, 1898. Le facili scoperte invogliarono molti ad imitarli; oggi, se ne è fatto specialista diligente Gustavo Botta, che insiste sull'argomento, quando potrebbe darci di più, essendo le sue facoltà, almeno a mio parere, non unicamente riposte nella erudizione: d'indi in poi La Critica raccolse il materiale e va tuttavia raccogliendolo come «fonte d'annunziana». Io, qui, riordinando cronologicamente, ed aggiungendovi di scienza mia propria alcuni altri dati, le note apparse sino ad oggi, 20 Dicembre 1912 in su quella rivista, e precisamente ai volumi ed alle pagine relative seguenti:

Volume

VII

1909 = pag. 165 – 177;

»

VIII

1910 = pag. 22 – 31;

»

IX

1911 = pag. 413423;

»

X

1911 = pag. 257263; 423430;

ho potuto disporre un interessante Catalogo, ovvero Mastro de' plagi d'annunziani; perchè schivo con piacere l'eufemismo con troppa gentilezza dallo stesso Croce prediletto di: Reminiscenze14 e imitazioni, essendo mio appannaggio mancare più tosto all'educazione che alla verità. Ma abbiate l'avvertenza di non credere che la lista si fermi qui: essa implica sempre un continua: e cioè qualsiasi buon lettore, fornito di dottrina e di coltura, nel corso delle sue letture d'annunziane, può cogliere l'imitazione e la reminiscenza a rimargli in cervello, facendogli risuonare, in risposta, qualche altro passo di qualche altro autore, che, nel susseguente specchietto non è nominato, perchè forse ai riveditori sfuggito, o semplicemente ignoto. Ricordate perciò le parole del Borgese (op. cit. pag. 123). «Ma ciò che sopratutto importa notare è che il D'Annunzio non legge e non studia per l'amor dello studio15»;... ma perchè egli ha bisogno di sapere quanto hanno già fatto li altri, appunto per usare, a suo personale profitto, la fatica loro: poi, egli ne vestirà, traducendo, con abiti proprii, le trovate, le idee, i concetti, incapace di trovarli, ma avveduto è pratico nell'applicarli violentemente dopo che un qualsiasi Colombo ha scoperto per16 lui.

Di modo che, senz'altro, passiamo alla lettura del:

MASTRO.

1. Primo Vere, Ia Ediz. 1879IIa Ediz. 1880 = Imitazioni del Carducci e dello Stecchetti, cif. La Critica, II, pag. 176-7.

2. Terra Vergine, Ia Ediz. 1882 = Per la novella delle Campane e del campanaro Biasu, cif. la novella: Il Campanaro di Wladimiro Korolenko.

3. Intermezzo di Rime, Ia Ediz. 1884IIa Ediz. come Intermezzo 1894 = IIIa Ediz. col Canto Novo 1896, cif. Il Sangue delle Vergini è in parte tradotto dal Calumet de la paix di Baudelaire, che l'imitò a sua volta dal Song of Kiawetha del LongfellowLa Venere d'acqua dolce si ispira, pel titolo, alla Vénus rustique e pel contenuto è ricalcata sull'Au bord de l'eau della raccolta Des Vers del Maupassant. Dalla stessa poesia sono tolte le più calde e lascive imagini del Peccato di Maggio. Nella Venus rustique si trovano pure li originali del bagno del IV Studio di Nudo: – il II Studio di Nudo, – Il Sonetto di Primavera hanno imagini tolte dall'Au bord de l'eau. – Nel Preludio della seconda edizione dell'Intermezzo risuona il Flaubert dalla Tentation de Saint Antoine. – Per le copiose derivazioni dal Maupassant sarà pur utile rivolgersi ad un articolo del E. Meynial: Guy de Maupassant et Gabriele D'Annunzio di su un fascicolo del Mercure de France, 1904. – La Tredicesima fatica deriva anch'essa da Vénus rustique. Questa, ritagliata in minuti frammenti, offre, non solo, la condotta a moltissime frasi del citato poemetto, ma si lascia mutare, da femina protagonista, nel maschio protagonista d'annunziano. – Dai brani poi, di Vénus rustique, pazientemente interpolati si hanno le pietruzze che compongono buona parte del mosaico di Intermezzo. – Offerte votive, cif. l'ode All'Autunno di Keats.

4. Il Libro delle Vergini, Ia Ediz. 1884IIa Ediz. in parte, nelle Novelle della Pescara, 1902: la prima novella, che venne abbreviata nella Vergine Orsola di Novelle della Pescara, ha reminiscenze dello Zola, Curée, Assommoir (Giuliana è l'Abbé Mouret fatto donnavedi La Faute de l'abbé Mouret) cif. Rivista Critica di Letteratura italiana, anno , 2 agosto 1884, G. Mazzoni.

5. San Pantaleone, Ia Ediz. 1886IIa Ediz. sotto il nome di Novelle della Pescara, 1902; le quali contengono pure I Violenti, Gli Idolatri ecc. Vi si accorge evidentissima l'ispirazione del Maupassant, e, precisamente, le seguenti novelle citate col nome assunto ne Le Novelle della Pescara, rispettivamente alle francesi:

Turlindana ritorna = Le rétour

Il Cerusico di mare, – Le Hero = En mer

Il Traghettatore = L'abandonné

La Fine di Candia = La ficelle

La veglia funebre = Le regret

quest'ultima, poi, attinge pure da Aprés la bataille di Paul Alexis. – La Regina Anna sorge da Un Coeur simple del Flaubert; dallo stesso racconto esce qualche tratto di San Laimo navigatore, che si informa su La légende de St. Julien. – La Fattura rappresenta, modernamente, la novella II della VIII giornata del Decamerone di G. Boccaccio.

6. Isaotta Guttudauro ed altre poesie, Ia Ediz. 1886IIa  Ediz. sotto il nome di L'Isotteo e la Chimera, 1890. Alcuni dei Sonetti delle Fate sono inspirati da Jean Lorrain colla sua Forét bleue, e, propriamente:

Melusina = Mélusine

Oriana = Oriane

Morgana = Morgane

Due strofe del sonetto in dedica a G. Cellini derivano dal sonetto Viviane del Lorrain: Mirinda riaccosta quattro brani della Tentation; L'Asiatico deriva dal Don Juan pipé del Verlaine e della Tentation; Hyla, Hyla! da La Forét bleue al sonetto Hylas. L'Esperimento, dalla stessa raccolta del Lorrain con Le beau fils: L'Invito alla Caccia, dal Léver di De-Musset; Romanza da alcune pagine di Les Confessions d'un enfant du siècle dello stesso;

Ballata delle Donne sul Fiume, cif. Les Tentations ect.; Cantata di Calend'aprile, cifr. una didascalia e Verlaine Les uns et les autres;

Donna Francesca, VIII sonetto, cif. Coppée, Premiéres Poésies.

Un bel caso di traduzione che spuderatamente vuol passare per invenzione nell'Isotteo e la Chimera mi vien segnalato da Enrico Cardile, mi questi dieci versi d'annunziani che sono la visione di Immortalitè d'Armand Silvestre

Ove tendono gli astri in lento coro?
Tendono per la via de l'ombre al Giorno.
Anima, ti congiugni ai raggi loro!

La via de l'Ombre sale ad auree porte:
fiumi d'oblio fluiscono d'intorno;
sta su le soglie fulgida la Morte.

Sta su le soglie, pronta ella ad aprire.
Anima, segui gli astri in lor cammino!
Dolce ti sia con loro impallidire:
segno che il novel Giorno è omai vicino.

Immortalitè.

vont les ètoiles en choeurs?
Elles s'en vont vont nos coeurs
Au-devant de l'aube éternelle.
Mélons notre âme à leurs rayons
Et, sur leurs ailes d'or, fuyons
A travers la nuit solennelle.

L'Ombre n'est, dans l'immensité,
Qu'un seuil au palais de clarté
Qu'ouvre la Mort comme une aurore.
L'ombre n'est que l'obscur chemin
Qui mène d'hier à demain,
Du soir au matin près d'èclore.

Suivons donc ces astres sacrés;
Qui du jour montent les degrés,
Des ombres dèroulant la chaine.
Comme eux, vers la Morte nous glissons
Et, comme eux, quand nous pâlissons,
C'est que la Lumière est prochaine.

7. Il Piacere, Ia Ediz. 1889. Spunti ed imagini dalla Initiation di J. Péladan (Vedi, Thovez. Gazzetta letteraria, anno, XX n. 3). – I concetti di Andrea Sperelli intorno al sonetto sono le idee che Théodore de Banville, colle stesse parole, ha esposto nel suo Petite traité de poésie française – Per la situazione risolutiva del romanzo, cif. Madeleine Férat, Cap. XI dello Zola. – La figura del marchese Mount Edcumbe è copiata tal quale da un'altra che rappresenta un baronetto inglese conosciuto dal De Goncourt, il quale lo rende con molta vigoria nel suo Journal di molti volumi: non solo D'Annunzio vi prende lo spunto, ma ben anche colle parole, li episodii: ricorda la collezione di libri erotici, la descrizione delle rilegature ed altre particolarità che si possono leggere al cap. XIV del Piacere da pag. 359 in avanti. Se rileggiamo l'Eros del Verga, vi troviamo alcune situazioni principali che saranno impiegate nel Piacere.

Il Marchese Alberto è il fratello maggiore di Andrea Sperelli; Adele è Maria Ferres, se non perfettamente simile nel carattere, però germana. Che differenza tra la principessa Metelliana e donna Elena Muti? Anche nel titolo dei due romanzi si accorge la parentela: ed il D'Annunzio dovè aver sott'occhio l'Eros ed in certi punti seguirlo a passo a passo, cercando di superarlo, o di essergli diverso, invano.

8. Elegie romane, Ia Ediz. 1892IIa Ediz. 1906, con versione latina di C. de Titta. Pel Sogno di un mattino di primavera vedi le solite TentationsElevazione, ricorri a: A Maria, frammento del 1819 di Shelley, tradotto dal Rabbe in Oeuvres poetiques complétes Vol. III, pag. 348Villa Medici, è suggerita da Les exilés di Théo. de Banville.

9. Giovanni Episcopo Ia Ediz. 1892. Cifr. Krotknia del Dostoiewski e Delitto e castigo del Marmeladoff.

10. Poema Paradisiaco, Odi Navali Ia Ediz. 1893, delle Odi Navali si erano già pubblicate, in un opuscolo dal Bideri alcune, il 1892. – Per il Poema paradisiaco vedi: Pamphila = dal Novembre di Flaubert;

Incurabile = dal Ame di Maeterlinck;

Le Mani = Attouchement dei Maeterlinck, e da Les doigts et les bagues di Marie de Valandre;

La Sera = da Suor Dolorosa, nel volume Soirs moroses di Catulle Mendès;

Il Messaggio, ricorre a Dostoiewski, nei Fratelli Karamazoff, tradotti da Verdinois in italiano;

Sopra un adagio di Brahms è ispirato da E. Pöe col Palazzo abitato dagli spiriti; vedi Il libro dei poemi, tradotto in italiano da Ortensi:

O Giovanezza, sonetto, dal Journal intime dell'Amiel. Inoltre si compone di molte reminiscenze che vengono dal The collected Poems di Mary Robinson: e Pamphila, oltre che dal Flaubert, è attinta dalla Imitation sentimentale del Péladan.

La Passeggiata, vedi Cantico del Cantico; «Hortus conclusus, soror mea sponsa».

Sopra un «Erotik» di E Grieg «Voglio un amore doloroso e forte» vedi: Cantico dei Cantici: «Fortis est, ut mors, delectatio».

Lai.

«Ma quello ch'io bramo
Non meco si giace,..
O cuor senza pace
Ed occhi miei lassi

Moriamo».

vedi Tommaseo, Poesie, pag. 120:

«Vorrei... Ma che bramo
Un bene negato?
O cuor vedovato,
O occhi miei lassi.

Moriamo».

Per Le Odi Navali ricorri alla Storia marinara del padre Guglielmotti, in genere; nei dettagli: per quella del 26 Novembre 1892, vedi Atti della Camera 27-11-1892, orazione di Rocco de Zerbi: – per l'altra All'armata d'Italia per la morte dell'Ammiraglio Saint Bon cif.: «Ma non nel consueto letto, in mura anguste» un altro passo dello stesso discorso.

11. L'innocente, Ia Ediz. 1892. Vedi, come motivo generale, La confession del Maupassant. Particolarmente, per il parto di Giuliana e la morte della moglie del principe Andrea: Guerra e Pace del Tolstoi La Terre, dello Zola: per la descrizione del neonato: La joie de vivre dello Zola: per le pagine dell'usignolo: Un partie de campagne, del Maupassant.

12. Trionfo della Morte, Ia Ediz. 1894. Buona parte della sua prefazione è tolta dalla prefazione del Gautier ai Fleurs de Mal del Baudelaire. L'Episodio della casa paterna, cifr. coi Ricordi di fanciullezza del Tolstoi; – l'episodio del fanciullo morente coll'Intruse del Maeterlinck; – il pellegrinaggio di Casalbordino con Lourdes dello Zola; – per la digressione intorno alla musica del Tristano ed Isotta ricorri alla Victoire du Mari del Péladan.

13. Le Vergini delle Roccie, Ia Ediz. del «Convito» 1896 IIa Ediz. 1896. Influsso del Nietzsche e del PéladanInitiation e Courieuse, per la figura del Cantelmo. – Vedi Ante lucem di Guido Fortebrani, specie le poesie Gli Sciti, Sogno regale.

14. Sogno di un mattino di primavera, Ia Ediz. 1897, – IIa Ediz. 1898. Il fondo è ispirato a una di quelle storie erotiche e sanguinarie del cinquecento, cui lo Stendhal amò narrare nei Contes: vedi in ispecial modo, quella di Violante Carafa: ed anche Shelley, The Sunset.

15. La Città Morta, Ia Ediz. 1898. Come in tutti li altri suoi drami e tragedie reminescenze dell'Ibsen e del Maeterlinck evidentissime.

16. La Gioconda, Ia Ediz. 1899. Cif. un drama giovanile di Enrico Corradini, Dopo la morte; d'Ibsen, Quando noi morti ci destiamo. – La Canzone della Sirenetta proviene dalla poesia di A. C. Swinburne, La Figlia del Re.

17. Il Fuoco, Ia Ediz. 1898. Dicono, che, in questo romanzo, si trovino parecchie pagine derivate da scritti della Duse, lettere di lei, etc; e pur da lettere di Angelo Conti. Ripetono, che, quando l'autore nostro componeva il Fuoco, solesse invitare a cena un artista argutissimo, imaginoso ed imaginifico; il quale rifocillatosi dalla penuria, al fomento del cibo e dell'ottimo vino, sturava a piene tazze il suo ingegno e la sua facondia davanti all'anfitrione, a cui serviva la memoria ottimamente e le note, che prendeva, come un reporter dalla viva voce del suo insospettato contribuente generosissimo.

18. Francesca da Rimini. Ia Ediz. 1902IIa Ediz. economica, 1903. Il sogno narrato da Francesca è la versificazione di un brano della Novella VIIIa, della Va giornata del Decameron.

19. Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi, Primo Volume, Ia Ediz. 1903Secondo Volume, Ia Ediz. 1904. Cif. I Canti di Walt Whitman17, per certe mosse e motivi: per Le Città terribili, Les villes tentaculaires del Verhareren. Per il poeta coprofago, Victor Hugo nel suo studio sopra William Shakespeare, Capitolo su Ezechiele ed altre reminiscenze dal Capitolo su Giobbe. – Pel brano La potenza della parola:

«O parola, mitica forza
della stirpe fertile in opre»

cfr. Maurice Barrès, Les déracinéspag. 449. Ediz. 1892dove parla di Victor Hugo.

Nella Laus Vitae, dal verso 85 in avanti, primo volume pag. 24 senti risuonare, non interrottamente, Les nourritures terrestres di André Gide. – Byron si fa sentire più sommessamente. – L'epiteto di Effimeri imbelli, troppo usitato, è comunissimo nei Discours civiques dell'anarchico Tailhade, grande poeta. – Verso 1469-1470

«densi e violacei come
il crine sul collo di Saffo»!

vengono di lontano dalla Antologia greca. – Shelley è una vecchia conoscenza del nostro e vi ricorre spesso; anche qui, non dimentica il suo Prometeo. – Verso 3613 e seguenti:

Fumano ancor sul Cirfi
i roghi? ecc.»

«. . . Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l'Eubea»?

Verso 5387 e seguenti:

«Ah! Ah! Udite, udite,
lo scalpito dei cavalli
ecc.». . . . .

ancora i Sepolcri, Foscolo. Al Verso 5605 troviamo la parola: doghi per dir cani mastini: l'inglesismo è evidentissimo e riprovato anche da me che non sono cruscante. – Nel brano di La via romana, verso 5965 e seguenti, ansimano le Mes Communions di G. Eekhout; La Campine diventa la Suburra e l'Agro romano con quale approssimazione ognuno, che sappia l'indole dei barabba della Fiandra barbantese e l'aspetto di quella campagna, può giudicare. – Le Laudi, Vol. II, nell'Inno a Roma, sono trasportate alcune belle quartine di Cybele Madre di R. Quaglino. Ne Le città del Silenzio, chi materia alla descrizione è il Baedeker.

La sera fiesolana s'informa sopra il verso saturnio dei Fioretti di San Francesco. – Ne L'opere ed i giorni risuonano le Georgiche attenuate dal Pascoli, i Poemetti didascalici del settecentesco Arici in prima riga, anche De re rustica di Columella. – In stabat muda aestas, ricopia stesso da l'Intermezzo, che proviene da Maupassant, plagio di secondo grado. – L'Otre ha versi che richiamano versi de Le Vase di H. de Régnier. – Quanto alla Canzone di Garibaldi ricorrete all'opera ormai classica del A. Mario, la cui bella prosa venne ricalcata nel verso eroico d'annunziano quasi letteralmente18. Al qual proposito puoi vedere un pieno volumetto della Biblioteca Rara, curata da Arcangelo Ghisleri e cioè: A. Mario, La Canzone di Garibaldi del D'Annunzio documentata.

Vi troverai le fonti più autentiche di quella, decorrenti dalli Epistolari del Bertani, dalla Storia dell'Anelli, dalle Lettere del Cattaneo. Da Alberto Mario, poi, trasse a piene mani di sulla Camicia rossa e i Mille, due scritture assai rare, di cui i brani più interessanti vengono ristampati dal Ghisleri a raffronto della Canzone.

Ancora Laus Vitae, verso 6149 «come in nero marmo sepolto – nell'orrore de' miei pensieri»: = Baudelaire, Remords posthume: «Lorsque tu dormira, ma belle ténebreuse» etc. –

Verso 6732:

«Perchè maculato io era
più profondamento del nato
della pantera»;

Cifr. Swinburne, Phaedra.

Le Città del Silenzio: Bergamo: vedi Anatole France;

L'Orme du Mail.

Laus Vitae, verso 8162 e seguenti Saluto al maestro:

«. . . E per tua
virtude risorsero quivi
gli antichi iddii della patria...»
etc. . . . . . . . . . . . . . . .

Carducci, Discorso su Virgilio.

La Morte del Cervo: vedi Prati Iride e il Satiro, nell'Iride, pag. 176.

La Notte a Caprera, verso 278 e seg. verso 368 e seg. – verso 401 e seg...: – ricordatevi di Giuseppe Cesare Abba: Da Quarto al Volturno.

20. La Figlia di Jorio, I. Ediz. 1904. Somiglianze colla Lépreuse di H. Bataille notate dal Nozière sul Gil Blas, contestate dall'Ortis su La Rivista Teatrale italiana, an. V. fasc. 4-1905, pag. 97-108. – Vedi: Henry Bataille, Ton sang, précédé de La Lépreuse, Mercure de France, 1898, e, precisamente, la Préface in cui vi è il naturale e l'importazione generale della Figlia di Jorio in modo tale da vincere le difese, a favore di questa, dell'Ortis. Evidenti reminiscenze, ancora, dalla Vénus rustique del Maupassant.

Puoi anche aggiungere che La figlia di Jorio si è infarinata a sufficienza, dalle Tragedie di Paul Claudel, del suo fare tra il mistico e l'esaltato, e, come stile, trasse l'impronta dalle rappresentazioni arcaiche del nostro teatro balbettante tra i Misteri e le Farse Cavajole; vedi al proposito Il Teatro italiano dei secoli XIII, XIV e XV, a cura di Francesco Torraca, in Firenze, G. C. Sansoni editori, 1885.

21. La Fiaccola sotto il Moggio, Ia Ediz. 1905 M. A. Garrone, ne La Rivista d'Italia, Giugno 1908, pag. 1047-51, mostra la derivazione del tema dalla 22a Novella di Masuccio Salernitano. – Poi le solite influenze ibseniane ed anche dal Fuhrmann Henschel dell'Haussmann.

La figura del Serparo merita d'essere confrontata con quella dell'Incantatore della Cleopatra del Cossa.

22. La Vita di Cola di Rienzo, Ia Ediz. N.° II, III, IV, di Rinascimento, 1904, – IIa Ediz. con un Proemio ad Annibale Tenneroni, 1913. Nella prefazione vengono sfruttate Les vies imaginaires di Marcel Schwob (1906). – L'episodio della morte di Fra Moriale è poi simile, e nella sostanza, ed in alcuni dettagli, e nelle singolari espressioni, a quell'altro che si trova al suo posto logico nel romanzo storico del Bulwer: L'ultimo dei Tribuni19, bellissima concezione romantica tradotta, da assai tempo, in italiano, nella cui veste ebbe una edizione che ho qui davanti «Rienzi, l'ultimo de' Tribuni di E. L. Bulwer, seconda edizione intieramente riveduta e corretta sul testo inglese per cura di Francesco Cusani, Milano, Tipografia Manini 1847». Le pagine del Rienzi si devono nominare anche perchè dal Bulwer: A. Alessandro Manzoni – come – al genio del luogo – questi fioriraccolti – sul terreno della invenzione italiana – sono dedicati». Noto di più che la bizzarria di redigere questa Vita in istile arcaico e cruschevole non proviene da pensiero originale d'annunziano, bensì perchè tra le altre fonti di questo suo libretto si imbattè in quella Vita di Cola di Rienzi di un Anonimo, ediz. di Forlì 1828, su cui par leggere il modello del periodo qui impiegato dal Pescarese. «Fu da sua gioventudine matricato di latte di eloquenza; buono gramatico, megliore rettorico, autorista buono. – Oh, come spesso diceva: «Dove sono questi buoni romani? Dio è la loro somma giustizia? Poterommi trovare in tempo che questi fioriscono?..» Era bell'omo... – Accade che uno suo frate fu occiso, e non ne fu fatta vendetta di sua morte; non lo poteo ajutare; pensa lunga mano vindicare 'l sangue di suo frate; pensa lunga mano dirizzare la cittade di Roma, male guidata».

23. Più che l'amore con discorso e preludio, con intermezzo e un esordio. Dove alla bell'e meglio si ripetono frasi del Nietzsche, Crepuscolo degli Dei e Zarathustra. Partitamente, poi, da altri come segue:

Ciò che Virginio Vesta e Corrado Brando sanno di Beethoven hanno conosciuto dalla Vie de Beethoven di Romain Rolland.

Il titolo Più che l'amore si deve a Jean Rameau: Plus que l'amour.

Nella Prefazione incontri: L'Arbre di Paul Claudel – il solito Flaubert della Tentation – Nel Drama: Crepuscolo degli Dei, – ancora L'ArbreOltre il bene ed il male Così parlò ZarathustraVie de BeethovenLettres d'amour d'une Anglaise, traduites par Henry D. Davray Jaufré Rudel del CarducciPoémes et Ballades, A. C. SwinburneEducation sentimentale, FlaubertLa gaja Scienza, Nietzsche.

Tenendo mente al carattere di Corrado Brando, si rileggano Delitto e Castigo del Dostoieswski dove trovasi il tipo di Raskolnikoff: – indi, alcune Illuminations ed Une saison en enfer di A. Rimbaud: – il romanzo di E. M. De Vogné, Le mâitre de la mer. – La scena, in cui Corrado Brando parla dello staffile con cui vide battere un negro e parla dello strozzino, etc... deriva, dal Kipling: Quando la luce si spense, ed anche dalle sue poesie soldatesche.

24. La Nave, Ia Ediz. 1908. Influsso della Salomè del Wilde, della Salambò del Flaubert: reminiscenze dantesche per la Fossa Fuja nella sua struttura, Inf. XII: per l'invettiva del monaco contro Basiliola, vedi Les Tentations des Saint Antoine del Flaubert: continue reminiscenze dal Nuovo Testamento; tutta la profezia della Diaconessa è ricalcata sui Libri dei Profeti. – Il Critico della Frankfurter Zeitung ne , al proposito, la seguente ricetta: «Recipe; Salomè 15 gr.; Profeta di Meyerber, 3,6 gr.; Theodora di Sardou 3 gr.; Crepuscolo degli Dei 0,4 gr.; Cappella Sistina 0,8 gr.; Mac-Beth 1,2 gr.; Re Lear 2,8 gr.; Rienzi alla Bulwer 4,3 gr.; Coro delle Tragedie greche 2,7 gr.; il tutto diluito in un litro d'acqua distillata. – La situazione di Basiliola al episodio, quando interviene nel duello tra Sergio e Marco, in favore del primo, ricorda la situazione di Brunilde; Wagner Die Walkirie. – «Arma la nave salpa per il mondo» si foggia sul verso carducciano nell'Ode a Roma

«Nave immensa lanciata ver l'impero al mondo».

E tutti e due vogliono dire veramente:

«Arma la posa e va a gabbare il mondo»

25. La Fedra, Ia Ediz. 1909. Si veda di Umberto Silvagni la Fedra svelata, «Avvenire d'Italia» 18 aprile 1909 e G. P. LuciniL'Indimenticabile risciacquatura etc. in questo volume. – I versi 274-6 del atto sono dedotti da un frammento di Teognide (Lirici greci, tradotti dal Fraccaroli): i versi 1972-3 riproducono i primi versi della terz'ultima strofe dell'Ode al Re Giovane d'annunziana. – La parlala di Fedra ad Ippolito (versi 2270-2275), oltre alla parantela collo Swinburne, dichiarano anche quella di Wagner in Tristan und Isolde.

26. Forse che si forse che no, Ia Ediz. 1910. La canzone che Miss Imagen, nella terza parte del romanzo, legge a Lunella e che Vana, già decisa al suicidio, ascolta è una traduzione non intera di quella intitolata The Bloody son nei Poëms and Ballades di Swinburne. Il titolo Forse che sì forse che no si trova nella prima riga del principio di un romanzo di Jean Bertéroy, Les delices de Mantua, pubblicato qualche anno fa.

27. Le Martyre de Saint Sébastien, Mystère composé etcc. Ia. Ediz. in francese 1911, con lettera dedicatoria a Maurice Barrès, – IIa, tradotto da Ettore Janni in italiano, senza la dedica, 1911 – Il maggior contributo a questo pantomimo fu –dato dai Bollandisti; altro si attinse dal Beato Fazio di Varagine, (Leggenda, o Acta Sanctorum). – Alcune speciali movenze poi derivano da Salomè di Oscar Wilde e dai nostri arcaici: Il pianto di Maria – La Devotione del Giovedì Santo – La Rappresentatione di un Santo Padre e di un Monaco, dalle Farse cavajole, che apparvero così nuove tradotte in francese al pubblico parigino e datano del nostro XIV secolo. – Partitamente, poi, in uno studio: Faust et Saint Sébastien, – Mercure de France 1 Febbraio 1903A. Rémond de Metz e G. Soula, collazionano, pagina per pagina, il pantomimo d'annunziano sul poema goethiano, con evidente ingiuria a quest'ultimo, per quanto l'avvicinamento de' due autori, in una loro comune inversione, presa da quelli come virtù, possa anche far scordare l'irreverenza di accostar un toxota ambiguo ed ibrido ad un ben formato e maschile filosofo. Comunque, a noi interessa di vederci di fronte le Madri goethiane, prototipe delle sette maghe d'annunziane, – il tripode di Faust, accosto alla Sindone, che la ragazza malata di febri nasconde nel suo seno, uno e l'altro feticci. Si trovano inoltre due scene che terminano in modo simmetrico: nel Faust, coll'apoteosi della bellezza pagana; nel Sebastiano, colla protezione della Vergine; accompagnate tutte e due dal movimento identico della folla che s'agita intorno a Mephisto, dall'una parte; della turba delli schiavi e dei liberti, dall'altra, che urlano nella camera magica. – La parte dell'Imperatore, in San Sebastiano, raddoppia quella di Mephisto; il primo salva il martire come taumaturgo, un'altra volta; il secondo affranca il filosofo dall'imprudenza che volle tentare nel separar Elena da Paride, evitandogli l'accusa di stregoneria. – L'Imperatore tenta Sebastiano, offrendogli la divinità e questi quasi cede; Mephisto ha regalato a Faust l'impero del mondo, ma lo ha popolato d'illusioni: indi la morte di due eroi si caratterizza egualmente con una medesima elevazione mistica; colla differenza che Goethe è obbligato, per ricondurre Faust nelle vie della redenzione, a ridotarlo di nuove e migliore bontà; mentre il Sebastiano rimane sempre crudele ed egoista, senza altruismo, nell'amor puro di Dio, e muore martire sì, ma pagano, cioè cattolico: Faust saggiò Lutero e cristianeggia: Sebastiano i gesuiti e paganizza: perfettamente: «San Sebastiano vale quanto gli possono permettere le due decadenze delle due Rome pagane e cristiane: Faust, pagano, cristiano, domina tutte le teocrazie colla critica, che è la suprema manifestazione della umana libertà».

28. La Pisanella, mentre io scrivo, in corso di stampa e di rappresentazione. Ma, ad affidarsi alle indiscrezioni dei giornalisti sembra che anche qui D'Annunzio ricopii stesso, portandovi in iscena i mercanti della «Francesca e di Fedra». – Indi, la sua lirica dipinge il volto e la figura della Rubinstein; convien leggerne il ritratto, in cui Blancheflor, la chamberière, loda la Pisanella:

«Elle a la tête étroite,
semblable à celle
de je ne sais quel doux serpent. Ses yeux,
je les ai dits. Ses cils
retiennent la douceur
du monde comme une feuille nouvelle
garde la larme
de la première pluie.
Souvent elle respire
par ses cheveux. Sa bouche
semble souvent redemander son souffle
à l’âme qui l'a close.
Et il n'y a rien d'autre.
C'est la cause de tout.

«Parfois elle renverse
sa tête; et il suffit
qu'elle mouille ses lèvres
du seul bout de sa langue
pour que soudain tout son cruel visage
semble tremper
dans une eau merveilleuse
qui efface ses traits.
A l'instant sa figure
n'est plus que le miracle
de cette eau vague nage
ce brin de rose.
Et il n'y a rien d'autre.
C'est la cause de tout».

Ma conviene scandere appresso anche quest'altro Inno ad una bellezza formidabile e sacra, che Kritias mio nelle Nottole ed i Vasi non può nominare, sì bene descrivere: (pag. 254-256Edizione Puccini, Ancona 1912) «Il Sole nasce. – Il Sole muore: – compie la vita d'amore in un giorno: – veli di sangue piange all'occidente. L'officina celeste d'amorespira, nel vespero, lagrime rosse; – l'officina raffina nel sangue la varia vita nostra. – Tutte le cose muoiono e trapassano: – ogni cosa si trasforma nella sventura, o nella gioia; – ed ogni vita nasce da un sacrificio e da una morte rossa. – Una rosa, – un calice di vino, – indi, una coppa azzurra e fragilissima di fiore di palude, poi, un fiume azzurro; o verde, o cupo, – e nubi in cielo, – e i veli bianchi delle danzatrici. – La danza è in ogni cosa; un sospiro di vento sommuove i veli, – come spinge le nuvole sul cielo. – Ogni creatura – ed ogni ombra, – la morte della vita, – la vita della morteProteo, Proteo! – Erba, corallo, serpe, la luna falcata, – sulla chioma di KorePersephone che lagrima piangendo. – O impassibilità del marmo! – tutti i misteri della antichità dei tempi, – rivolti all'oriente, ballando, salutano il Sole, – adorazione, sacrificio. – Proteo, egizio che dell'acqua imiti la loquacità, – ora, volgiti, col soffio del vento, ed onduleggia come la chioma delli alberi – e sia tutto ed ogni cosa – ed abbia mille mani, – mille occhi, – mille sessi, – e sappi morire, conoscendo quello che è, sarà e fu... la vita, che è tutto ciò che vuole»!

Quale strana rassomiglianza di concetti, spesso di forma, di vocaboli! quale incontro fortuito! Ambo sono ballerine, la meno sacerdotale è la moderna; ma tutte e due pregano dio, o la palanca, coi piedi per poterne dispensare altrui le grazie. Comunque, il più avventurato è Kritias, ed il papà suo che nacque duemila anni dopo, perchè può oggi rivolgersi con qualche soddisfazione a ringraziare: «Grazie» dirò, «o, più grande del vero, maggior poeta italiano vivente! È già un segno del mio valore l'essere divenuto un vostro... fornitore gratuito».

Dopo ciò, ciascuno che possegga buone e copiose letture, come dissi, aggiunga del suo il continua, che ben volontieri gli cedo questo ufficio d'amanuense, per quanto necessario all'assunto, improprio alle mie facoltà; ma tra i ciascuni non sarà Tizio, che borbotta e mi fa li occhiacci.

***

Sì: Tizio, che tra la folla dei miei lettori è il contradittore più appassionato per ragioni organiche, non crede di doversi accontentare dell'elenco sommario. Male, gli susurro. Per quanta carta abbia a mia disposizione non mi è lecito sciuparne volumi per confortare ogni passo della relativa citazione. Voi, col dubitare di me, insultate tutte quelle egregie persone di letteratura e critica dalla quale io qui dipendo. Comunque, e per tutti, e per sempre, eccovi, Tizio, una poesiola d'annunziana: Pei morti di Dogali:

Troppo l'ire dei nemici,
de le donne i malefici
incrudir su gli infelici.

Morti coprono il terreno;
chi squarciato il ventre e il seno,
chi la testa o un braccio meno.

Beve invan l'Africa, in vano,
il buon sangue italiano
cui versò barbara mano.

Libertà, l'ali disserra,
a maggiore e miglior guerra,
l'armi tue son sacre in terra.

Noi, tuoi figli, veglieremo,
in silenzio il tuo supremo
giorno, Patria, attenderemo.

Meditatela su quest'altra del Tommaseo:

Le superbie degli amici,
l'empia rabbia dei nemici
spermentar quegli infelici.

Chi squarciato ha il capo e il seno,
altri un piede o un braccio meno,
chi freddato in sul terreno.

Contro Spagna, in suolo ispano,
ha versato ispana mano
il tuo sangue, Italia, in vano.

(O Dator del buon pentire)
nuove strade a noi disserra
vieni e porta in sulla terra
miglior pace, o miglior guerra.

Se morriam, pianti morremo
e temuti. O Re supremo,
il tuo giorno attenderemo.

Ed allora il Croce, che vi assomiglia, Tizio, perchè crede di aver trovato il maggior poeta italiano contemporaneo in D'Annunzio, ma non ne è persuaso, e non desidera del resto che si dubiti che egli possa mai errare in un suo giudizio critico; allora, Benedetto Croce, che pur ci rende il servigio di accogliere, vengano d'ogni parte, le reminiscenze e le imitazioni d'annunziane, fa l'ingenuo e si domanda: «Perchè questa curiosa appropriazione di una poesiola del Tommaseo, la quale, con alcuni ritocchi, adatta ai morti in sulle ambe abissine»? E si risponde «Non si sa perchè»! Anche il filosofo non lo sa? Potrà darsi che lo abbia saputo io, che non son niente; se mi avete capito, nelle pagine precedenti. – Ed ho anche capito perchè il critico di La Critica non deve saperne niente: egli si era compromesso! Pag. 110, Vol. II Fasc. I, 20 Gennaio 1904, op. cit.: «Nella reggia d'arte che d'Annunzio ha costruito, e, meglio che costruito, decorato ed ornato di oggetti rari, preziosi, squisiti non manca qualche frutto di prede fortunate, trofei d'incursioni da conquistatore. Che cosa importa! Il complesso è ben suo, prodotto dal suo particolare temperamento, della sua ricca fantasia, impressovi dapertutto il suggello dell'anima sua. (È una povera piccola anima!) Il costruttore e il decoratore di questa reggia è un savio? è un pensatore logico e concreto? È un buon consigliere? – No, ma è un poeta; e pare che dovrebbe bastare, tanto più che la specie dei poeti per diritto divino è alquanto più rara dei savi, dei ragionatori e dei buoni consiglieri». Ma da vero lo crede il Croce? Ma egli non si reputa l'unico grande ragionatore, – filosofo, direi d'Italia? E per questo solo, per farsi credere l'unico possibile educatore delli italiani moderni, non cerca forse di insinuare che D'Annunzio è anche il solo unico poeta de' medesimi? Non insisto. – Io so che continuo a domandarmi ed a domandare: «È un sincero? è un onesto, anche letterariamente? È uno a cui tu ti possa affidare, senza timore che ti tradisca... letterariamente; per mezz'ora»? E sempre no, no, no a triplice chiusura negativa mi rispondo e mi rispondono. Dopo ciò D'Annunzio può anche essere il più grande poeta per diritto divino, come, per diritto divino, furono de' simpaticissimi burloni e ciurmatori, Cagliostro e Casanova, come, per diritto divino, li sfortunati Cartouche e Mandrin gareggiarono colle loro gesta Cesare e Napoleone. Sì; il diritto divino è la supina facilità della politica barbara del pragmatismo, come Dio è il luogo comune della filosofia hegeliana e crociana.

***

Avete dunque veduto quanti cervelli poderosi concorsero a formare quei libri, sulla copertina dei quali pompeggia il solo nome di Gabriele D'Annunzio? Voi vi formalizzate con grinta inquisitoria speciale e sdegnosa? No? Benissimo: ne anche io. Per intanto concluderò, giacchè mi pare d'avervi dimostrato:

che il plagio non solo è un attentato alla proprietà individuale, ma una violenta aggressione contro la libertà delle idee, contro l'incolumità delle opere d'arte altrui; per cui queste vengono, nascoste sotto altro suggello, per opera di chi non le ha trovate o composte, ma impiegate per altro scopo pel quale furono destinate. In tal modo il plagiario, esercitando un atto di vera violenza e perversità, spoglia e diverte dal creatore la sua creatura, sì che altra si presenta, mutandole, con dolo, la destinazione ed il nome, volgendola al proprio interesse:

II° che, nel caso specifico e nelle fattispecie di cui ci occupammo, è plagio continuato la serie dei fatti che abbiamo sopra elencati, checchè altri possa discorrere di fonti e di reminiscenze:

III° che i plagi, così avvenuti ed eseguiti, si effettuarono quasi sempre da minore a maggiore, con tanto maggiore strazio del diritto delli artisti creatori e delle opere da loro create, in quanto vi si avvede la inferiorità mentale di colui, che, non solo sdegna di essere loro apertamente creditore, ma li assalta, con l'animo deliberato di possedere quanto ha loro rapito. Si che il grassatore, per far contenere nella sua piccola forma il maggiore, storpia, taglia, contrafà, deprime, aggiunge grottesco a grottesco, e, perdendo la sua propria fisionomia, altera anche i connotati de' propri clienti, che non gli danno ad usura, ma si lasciano svaligiare, da onesti uomini poco avveduti di male compagnie, colle quali, alcune volte, senza accorgersene, si commettono20.

Ed allora, Gabriele D'Annunzio può vantare una piramidale libreria stipata di suo conio e pretendersela a dovizioso. Potremo, al proposito, soggiungere, a codesto inutilmente dispendioso e fortunato accaparratore, anche questo: «LoII spendere solamente del tuo è quello che ti nuoce, et non vi ha cosa che più consumi stesso quanto la liberalità, la quale, mentre tu l'usi, perdi la facoltà di usarla et doventi o povero o vile, o, per sfuggire la povertà, rapace et odioso»? – No; che al fatto presente, l'imaginifico deve essersi messo invece tra l'ultimo più pratico, facendosi proprio l'abito suo e le sue virtù: però che la liberalità è necessaria «I a chi si pasce di prede, di sacchi et di taglie et maneggia quel d'altri, et di quello che non è suo può essere più largo donatore». Bene! Ma quando mai egli ha donato? Ha vendute care, carissime, anche le intenzioni.

 






1 Precisamente: «Plagiarius, qui mancipia aliena sollecitat, celat supprimit; item, qui liberum hominem, sciens, emit, abducit, invitum, in servitutem retinet.» E ciò secondo Seneca ed Ulpianus; Seneca, in De tranquillitate; Ulpianus, in Digest. Lib. 21, Tit., I leg 17, etcc... Plagio determinavasi così: ἀνδραποδισµὸς grecamente: ma va notato il pur greco πλὰγιος quod, proprie, notat «obliquum» methaphorice autem «pro dolose» sumitur. Inganno dunque: ed eccovene un esempio, in Cynegetica di Gratius «Est etiam rete pluribus plagis contetextum». E Martialis, come nel testo citiamo più in giù, usa plagiarius nel traslato, conservato oggi specificamente: ladro di idee, di pensieri, di invenzioni altrui.

«Impones plagiario pudorem» Lib. I. Epig. 53. – Si che il Forcellini nel suo Lexicon totius latinitatis si affretta a spiegare: «Plagiarius, qui alieni libri se auctorem falso praedicat».



2 Mi soccorre anche il Thovez ad appoggiare l'aggettivo turpissimo che il Croce non vorrebbe si applicasse a plagio come reato, da che il plagio non esiste nel campo letterario, artistico, scientifico: (abbiamo dunque quei poveri ed incompleti due articoli del C. P. 296-297, che lo contemplano con poca persuasione) e specialmente nella fattispecie D'Annunzio, perchè, «anche nella peggiore delle ipotesi, alcune decine o un centinaio di pagine tradotte o imitate, non possono cangiare la figura storica del D'Annunzio, autore di una ventina di volumi ben suoi». Per il Thovez, per me, «il Croce nella sua serenità filosofica ha dimenticato semplicemente un elemento fondamentale del plagio: l'elemento furtivo. Perchè c'è da farci una domanda curiosa: Come mai, se il plagio è legittimo e immune da ogni sanzione estetica e morale, purchè dia luogo ad un'opera d'arte; come mai non si esercita su opere universalmente ricordate, ma cerca quelle ignote o mal note? – Non si sa perchè, – dirà il buon Crocepag. 201. C'è dunque «nel plagio una fondamentale intenzione fraudolenta» pag. 202. Il Pastore, il Greggie e la Zampogna, Napoli, Ricciardi, 1910. – Un altro critico, per altra strada, riconosce il dolo e non lo perdona: Aristarco Scannatopi, La Frusta letteraria, Luglio 1899 Numero III, Anno II: «Le accuse di Enrico Thovez macchiarono meritatamente il blasone letterario di questo enfant gatè de la nostra letteratura; e, se questo si vuol negare da quelli che non fecero degli studii di comparazione in proposito, non sappiamo che farci, ma la verità è una sola in qualunque materia.

«Pel D'Annunzio hanno voluto creare un diritto nuovo in letteratura il diritto al plagio; cioè al furto letterario, dicendo che Gabriele D'Annunzio non è il solo plagiario che onora la nostra letteratura contemporanea, ma che Carducci rubò a Platen, Stecchetti ad Heine, Butti ad Ibsen e agli spagnuoli, Bovio a Petruccelli della Gattina, Cavallotti a Gonzales, Costanzo a Vallès e che ai loro tempi lo furono anche Ariosto, Orazio, Ronsard, Virgilio, Racine, Dante, Göethe, e Boccaccio, e pure il loro genio sovrasta a quello dei botoli invidi che ringhiano ai loro piedi: ma come noi respingiamo questo concetto anarchico borghese, anche per quei ministri di stato rei di non aver fatto altro che imitare, o plagiare, certi loro amici banchieri, così, dobbiamo respingere il diritto al furto letterario anche per i plagiari grandi e piccoli. Dei plagi di D'Annunzio, benchè in Francia Léon Daudet facesse un baccano d'inferno, all'estero non ne arrivò che l'eco; perchè gli articoli di Thovez venivano compendiati ma non tradotti; e il D'Annunzio, prevedendo la burrasca ne aveva eliminati i principali nelle traduzioni. Si dice pure che quell'accuse di plagii servirono meglio per la réclame all'opere future del mirabile traduttore artefice, ma, con buona pace, anche questo, non è vero



3 In sui primi di quest'anno, – 1913 – il deputato Hesse presentava alla Camera francese un progetto di legge per garantire, alli artisti viventi ed ai loro eredi per 50 anni dopo la morte, un beneficio del 2% su ciascuna vendita pubblica di ogni opera d'arte firmata dal proprio autore. Il progetto è ora allo studio di una Commissione dell'Istruzione Pubblica ed è in massima ben accolto, ed approvato in linea generale. Al proposito il Temps indisse un'inchiesta: giova qui riferir un brano della risposta del letterato ed architetto Frantz Jourdain, presidente del Sindacato della Stampa Artistica, col quale avvalora le mie opinioni in tema di proprietà artistica e letteraria.

«Io mi stupisco che un diritto così legittimo come il diritto d'autore nel caso possa trovare chi lo contesti. È vero che il Codice non distingue tra gli oggetti mobili, e che un'opera d'arte è perciò soggetta alle stesse norme di un abito smesso che si cede al robivecchio. Tuttavia, se vi è una proprietà che meriti rispetto, è proprio quella in cui si esprime il genio di un uomo. L'opera d'arte appartiene alla Umanità; un diritto superiore perciò le è insito, e l'individuo che la detiene non è che un depositario. Ebbene, la proprietà individuale è appunto la sola che non è trasmissibile agli eredi dell'artista. Donde una iniquità cui occorre riparare



4 Raccomando questo mio progetto ai così detti uomini parlamentari; i quali accordano ogni privilegio al muscolo, cioè all'operajo, e non al nervo cioè all'artista: cosa di cui dovranno anche pentirsi, per l'evidente dispregio che li artisti, me compreso, hanno del sistema parlamentare, contro cui si solleveranno, per distruggerlo, con facile riuscita. Stabilita tassativamente, dopo il giudizio di fatto, l'attribuzione del giudice legale, questi determinerà la portata dell'obbligazione nata dal delitto, o quasi delitto, plagio, ed in ragione ne farà osservare il risarcimento alla parte lesa.



5 Pietro Giuseppe Proudhon scrisse Che cosa è la proprietà? Vi rispose subito «La proprietà è un furto, i proprietarii sono ladri, 1840». È un paradosso che doveva di poi spiegare. Di fatti ci lasciò una Lettera a Blanqui, 1841Una Lettera a Considérant, intorno ad una Difesa della Proprietà1843. Proudhon non condanna la proprietà, ma la sua estensione, il modo di abusarne e di acquistarla. Distingue proprietà da possesso, ed è ostile alla proprietà in comune, come al possesso individuale. – Col Sistema delle contradizioni economiche o Filosofia della Miseria, preludia a Lassalle ed a Marx. – Il filosofo, che già si erudì in seminario e facendo il compositore tipografo, di poi visse assai solo e conobbe più i libri che li uomini e la vita. È questa la menda maggiore de' suoi volumi, zeppi di dottrina e di logica, inutili rispetto alla vita e li uomini, che, col loro agitarsi diuturno, li contradicono cotidianamente. La vita è la pietra di paragone dei sistemi e delle filosofie: li sopprime quando non si adattano, non a spiegarla, ma a volerla dirigere, cercandole una via diversa di quella ch'essa stessa si apre davanti. Alli uomini non bisogna insegnare a vivere: bensì mostrare come i primi altri abbiano mal vissuto: dal giudizio di paragone si riconosceranno e faran nuova rotta per il più facile, il più bello e migliore. Oggi, il maestro non deve che rammentare ed evocare, e, spesso, istruire non significa che predire.



6 Ecco quanto vi insegna un giornale sull'argomento, che è assai curioso ed interessante.

I PLAGI DELLA NATURA.

«La natura, instancabile e fantasiosa artista, si diverte talora a riprodurre se stessa: a plagiarsi, a ripetere le proprie forme e le proprie produzioni, a sbizzarrirsi in copie cento volte più interessanti dell'originale. Sono sparsi nelle varie parti del globo molti esemplari di tali bizzarrie. Al ponte delle Olle, che sovrasta un fiumiciattolo, confluente della Rhône, esiste una roccia conica che riproduce alla perfezione un profilo di donna, in tutti i suoi particolari: occhi, orecchi, naso, bocca.... Lo strano è, che la tradizione vuole che quel profilo rappresenti il ritratto di una bella fanciulla dei dintorni. Nel fiume, poi, abbondano delle roccie le quali, scavate dalla corrente, assumono l'aspetto di vasi, di olle: da cui il nome del ponte. – Altri esempi di tali plagi, dice G. Roux nella Revue, non sono rari. A Cauterets, nel Manhourat, su una muraglia di granito si vede distintamente l'immagine di un soldato turco, e che forse non è che il ritratto d'un compagno d'Almanzor, fuggito alla battaglia delle Aquile. Dentro la grotta Giusti a Monsummano si vede un busto di Garibaldi, e, nella Grotta Maona, presso Montecatini, lo stillicidio delle volte ha costruito un organo in una piccola nicchia, perfetto nella forma, e che risuona armonicamente quando soffia il vento. Sulle spiaggie della Norvegia, si pescano talora degli squali (specie di pesci-cani) che recano negli ossicini dell'orecchio interno impressa la fisonomia di un pescatore delle isole Lofeden, riconoscibilissimo dai tratti caratteristici. Ma, cosa singolare, questo viso non ha l'espressione di cosa viva: gli occhi sono chiusi, rigido il profilo; si tratta evidentemente di un pescatore annegato, in quei paraggi, cui la natura ha voluto fedelmente riprodurre. – Nel Giappone, si pescano, talora, dei granchi giganteschi, dei quali il guscio porta impresso la maschera spaventosa di un samurai in furore, come si vede in certe vecchie stampe giapponesi. Dei granchi presentano consimili visi spaventosi, dalla bocca contratta e dagli occhi fuori delle orbite. – Ecco un caso anche più interessante. A Gallenreuther, nel centro della Germania, fu trovata una immagine di donna intagliata nella pietra, e fu chiamata la «Venere Preistorica». Si credette dovuta alla mano di qualche scultore primitivo, del periodo pliocenico. Un esame più attento dimostrò che essa si era formata naturalmente. – Nel Jowa, gli abitanti mostrano, con terrore, una impronta sulla roccia rappresentante un piede forcuto: dicono che sia l'orma lasciata dal Demonio..., Evidentemente, è l'impronta di qualche mollusco preistorico, di cui si è perduta la specie....».



7 Le indicazioni, che vi ho dato intorno la giurisprudenza francese, sono state dessunte dal Fascicolo 347 del «Mercure de France», I Dicembre 1911. Nota, intanto, che anche il magistrato francese della Sesta Camera del Tribunale della Senna accorge la necessità di uno scabinato tecnico per giudicare sul fatto del plagio in materia artistica; costituzione ch'io un'altra volta propugnerei ai nostri legislatori, integrando così la funzione dei Probiviri già esistenti per le altre professioni.



8 Almeno il D'Annunzio si fosse accontentato della ventura, che lo ha favorito; ma il suo desiderio, che vuol sorpassare l'impossibile, non lo rese persuaso di quanta ricchezza, potenza e gloria lo aveva quella arrichito. Nessun Cornificio, poeta e filosofo in miseria, disse a lui, come al ricco Calpurnio: «Voglio che tu sappi, Calpurnio vicino et amico mio, che la mia felicità consiste, non in che possedo poco, ma in che desidero manco anchora di quello che ho; et la tua infelicità consiste, non in che sei ricco, ma perchè quello che tu possedi lo tieni per poco: et se voi sete ricco, è perchè mai havete detto la verità; et se io son povero è perchè mai ho detto menzogna; poichè noi sempre vedemo una casa, piena di ricchezze, vacua della verità». – Libro di Marco Aurelio con l'Horologio dei Principi, distinto per il Molto Reverendo Signor Don Antonio di Guevara Vescovo di Mondogneto etc.... con l'aggiunta del quarto Libro, nuovamente tradotto di lingua Spagnuola in Italiana, sulla copia originale di esso autore – In Venezia, Appresso Francesco Portonaris M. D. LXVIIIpag. 65.



9 Ha stampato un giornale ed io ricopio:

«Gabriele D'Annunzio fu un precoce, lo si sa, e fin da quando era collegiale nel Convitto Cicognini la sua classifica normale in lettere era il 9. Il maestro Filippo De Titta, amico del poeta, narrando un anno fa a un collaboratore del Giornale d'Italia della fanciullezza di lui, gli lasciò copiare alcuni compiti di scuola, che, nel 1877, avevano valso al D'Annunzio, quando aveva appena 14 anni ed era in 2a o 3a ginnasiale, speciale menzione: tra essi parve eccellere la breve «descrizione di una collina». Eccone qualche spunto: «Guarda sulla vetta di quella collina quelle nuvolette fra bigerognole e bianche, che rischiarandosi a poco a poco paiono lievissime onde di fumo che precedono un incendio. , : le nuvolette bianche divengono rosee: guarda! di rosee cangiansi in purpuree. Oh meraviglia! Esse si son cangiate in sottilissimi fili d'oro fiammeggianti; e, sulla collina, che dianzi non era che una massa nera e paurosa, si riversano ad un tratto torrenti di vivida luce, che ne fanno spiccare i contorni bellissimi e i ciglioni rivestiti di boschetti verde-chiaro e le apriche pendici, ecc., ecc.» – Era un bel compito per un ragazzetto; ma ecco a un anno di distanza, e sullo stesso giornale, Giulio de Frenzi procedere ad una rivelazione. Il bel compito era tolto di sana pianta per più che metà dallo Spartaco di Raffaele Giovagnoli, laddove è descritta l'alba che segue alla notte in cui l'eroe è fuggito. Di suo lo scolaro v'aggiunse solo la maliziosa canzonatura dei «, » degli «oh meraviglia!» e dei puntini esclamativi. Il buon professore non se ne accorse ed il suo migliore allievo gli fece così la maggiore delle canzonature».

Mai più: non fu una burla al buon maestro; ma il solito giuochetto dello scolaro, che vuol beccarsi un buon punto, senza faticare: e D'Annunzio si divertì sempre ad essere questo scolaro anche nel resto della sua vita, se ad ogni anno di essa ben vissuto ripetè di continuo la piacevolezza, per dar la soja, non più al maestro, ma al proprio mecenate. – Chè le inclinazioni si sviluppano presto e sotto la loro pressura divengono, col crescere del bimbo, le azioni dell'uomo; e dove la metafisica parla di destinazione o di missione, altri applica la scienza e spiega colla costanza del germe, che opera per la sua direttiva. Infatti se ne accorse anche il Croce parlando di Carducci: «È sempre importante osservare come un artista comincia, perchè nei primi passi si rivelano alcune tendenze naturali dello spirito che si fanno pienamente valere più tardi». Ecco, che il suo protetto poeta incomincia anche con un plagio patente, e seguita con un inchino cortigianesco ad un re, turibolandolo di poesia per un suo onomastico, ed è precocissimo amator di giovanette: perchè, nella topica incidenza, dimenticarsene, dopo di essere stato così severo spulciatore di Carducci? Portentosa adolescenza, così Vincenzo Morello la paragona a quella di Victor Hugo, di De Musset, di Rimbaud: già, osa anche disturbare Rimbaud; ed anche noi lo porremo in faccia, per scandaloso rimprovero, all'enfant prodige pescarese; e gli farem sapere le mirabili intuizioni di questo fanciullo, su quanto deve essere il poeta moderno, perchè egli se ne valga, chè certo non le conosce, per un'altra sua prossima prefazione alle, putacaso, Faville del Maglio: «Lo studio primo dell'uomo, che voglia essere poeta, è conoscere stesso intieramente. Egli cerchi l'anima sua, vi guardi dentro, la tenti, la sappia. Come la saprà, la coltivi. Ciò sembra semplice: in ogni cervello si compie un naturale svolgimento: tanti egoisti, si proclamano autori, ed altri ancora millantano d'essere loro stessi la causa del progresso intellettuale! – Bah! Qui importa farsi l'anima mostruosa. Ho detto che bisogna essere chiaroveggenti farsi chiaroveggenti. Il Poeta si fa chiaroveggente con un lungo ed immenso e ragionato uscir dalla regola in tutti i sensi. Tutte le forme di amore, di soferenza, di pazzia; cercarsi; esaurire in stesso tutti i veleni, per non serbarne che le quinte essenze. Ineffabile tortura per cui si diventa, tra i grandi maledetti, il sapiente Supremo! – Già perchè egli giunge all'Ignoto. Perchè egli ha coltivato l'animo suo più ricco d'ogni altro! Ed arriva allo sconosciuto; e quando come un pazzo terminerà per perdere la comprensione delle proprie visioni, ed allora, le avrà viste. Scoppi, morendo, ne' suoi balzi tra l'inaudito, tra l'innominabile: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno a camminare dall'orizzonte sul quale l'altro si è abbandonato, estinto» Rimbaud, Lettres, La Nouvelle Révue Française, 1 ot. 1912.



10 Remy de Gourmont, Des pas sur le sable; «In realtà non vi sono che fatti fisici; non esiste movimento spirituale se non v'ha mutazione di stato fisico, chimico, mecanico». E voi sapete che l'energia è unica e le diverse forze, che ci appajono dai fenomeni e costitutive di questi, non sono che i modi di manifestarsi di quella ai nostri sensi. Su questo puoi anche ammettere e spiegare il facilissimo mistero della unità e trinità del Dio delle più evolute religioni che si fondano sul monoteismo – come filosofia – ma che debbono assumere rito e dogma politeisti per farsi chiare – con aspetti e simboli al volgo. La divinità unica si trasforma, per pratica attribuzione, nelle sue forme tangibili, riassorbite nel quid trascendente ed inconoscibile della mens, dell'ennoja perfetta generatrice del tutto, dalla monade leibnitziana.



11 Sembra che il suo cervello non possa produrre la luce del pensiero se non date varie circostanze favorevolissime: lo scatto non è mai immediato, ma mediato: mediante la fiaccola accesa del pensiero altrui. Allora, avvicina a questa la sua lampada spenta e prende fiamma dal fuoco che già riscalda e brilla, che è già vivo. La luce è riflessa, è da satellite; sarà, comunque, sempre più pallida, apparirà sempre una falsificazione: egli non potrà mai tramutare direttamente l'energia: sensazione, nell'energia: pensiero, idea, senza l'intervento di un'altra causa che è fuori di lui, ma che opera in lui per mimetismo, con eccitazione; il suo cervello non evacua il pensiero da , ma per rapporto all'altrui già limpido e risplendente, concreto, preciso. – Codesto fenomeno d'annunziano fu indovinato e descritto, con assai felice humorismo, in un episodio dell'Insaniapoli, Napoli, Ricciardi 1911 da Enrico Ruta: giova che lo sappiate: «Ma la scogliera si rabbuffava in picchi e scoscendimenti presso che invariabili; ed Elio, che già trafelava, adocchiò un masso, che tale gli parve sporgente sopra molti altri più piccoli, e andò a sedervi su. Vi si era appena posato, che venne fuori una voce, la quale con la pronunzia biascicata di uno che si svegliasse da una contemplazione susurrò:

– «Chiunque sii che ti assidi, ascolta. –

« per egli credè che Ario avesse contraffatto l'accento per fargli una burla; invece però, la voce sotto di lui continuava a parlare così:

– «Io ho preso la Gorgone dalle mani della notte, e levandola sul Pentelico in conspetto dell'Isperione ho significato al cielo la parola della terra e mi sono coronato eroe. –

«Elio si alzò da sedere, per vedere un poco come andava questo fatto. Subito la voce tacque.

«Come si spiegachiese.

«Evidentemente», osservò Ario, «lo scoglio ha cessato di parlare non appena tu ti sei alzato».

«Allora Elio vi posò le mani, si chinò a toccarlo col petto; e si accorse che era fatto di una pietra porosa, friabile; e non diceva nulla più. Ma come vi si accomodò su un'altra volta, ecco la voce che venne fuori di nuovo, e riprese:

– «Quando la Mira negra mi premeva, io ho cantato nei supplizii le laudi della vita... –

«Adesso è provato», esclamò Ario, «che costui che hai sotto ha la lingua solo quando sente il contatto di quella parte del tuo corpo, che tu gli accomodi sopra, mettendoti a sedere.

«Elio ripetè l'esperienza varie volte; e, infatti, come si alzava, quello taceva, e come si accomodava, quello parlava:

«Avresti mai pensato, Ario, che io possedevo questa virtù, nascosta nel mio Aio Locuzio?

– «Io sovra l'Umanità attonita ho evocato dalle età antiche dei padri le forme primigenie dell'orgoglio e della grandezza; ho intriso nel sangue puro delle stirpi l'immagine del tempo novo, e col gesto dell'annunziatore l'ho piegata ai giuochi imperiali della gloria. O Gloria, io ho posato torno torno al tuo collo lucido un monile contesto di opera di intelletto, e prezioso come suppellettile micenica! –

«Vinto dalla stanchezza, Elio si era appisolato. Ario lo lasciò stare un poco, poi esclamò ridendo:

«Elio, dormi?

«Quello si scosse, e nel movimento brusco, che fece per rizzarsi e rimettersi in cammino, la pietra su cui stava seduto si sgretolò, si sfece e cadde al fondo come arena, e non ne rimase niente».



12 Paul Claudel, da cui volentieri il D'Annunzio impresta senza domandargli il permesso, può anche dirgli: «La conoscenza proviene da noi stessi; è la lettura, in ogni istante, della nostra posizione nel tutto». La formola è cartesiana: «Cogito, ergo sum», donde: «Il Mondo è la mia rappresentazione». Quanto a Superuomo vedi Remy de Gourmont, op. cit.: «Superuomo: non significa che l'uomo superiore per mente, per attività e per il bellissimo insieme delle doti umane. Se è ciò, sta bene. Ma se intendete che sia un'altra cosa, se lo volete un essere, in quanto uomo, al di sopra dell'umanità, è un assurdo. – L'anormale è, in germe, nel normale».



13 Pare che oggi il Thovez se ne dolga, a meno non sia un mezzo retorico d'impiegar l'ironia per aver maggior ragione, nel Pastore etc.; uditelo: «Domando perdono se apro una parentesi personale. Anni sono, nel fiore dell'ingenuità e del candore giovanile, ebbi a intraprendere, come la si volle definire, una campagna contro i plagi d'annunziani. Mi sia lecito di fare ora, nella pienezza della maturità, onorevole ammenda a quell'impresa sconsiderata della mia giovinezza e di confessarne la ragione efficente, che a molti rimase, pare impossibile, oscura o mal comprensibile. Sì, lo confesso, fui mosso da un solo puerile impulso: dallo sdegno che in me suscitava lo spettacolo di un uomo che vendeva come merce propria ciò che sottraeva con infaticabile mano dalle tasche altrui; mi pareva che non fosse lecito tradurre non una, ma due tre, quattro novelle del Maupassant e vestirle di stracci abruzzesi; che non fosse onesto lucidare centinaja e centinaja di immagini, di pensieri, di sentimenti altrui e farsene bello come di invenzioni profonde; che non fosse opera d'arte ritagliare diligentemente e freddamente migliaia di frasi francesi (comprese le traduzioni dal tedesco e dall'inglese) e comporne un intarsio che voleva riuscire un monumento di pura italianità. Ma, oggi, ho aperto gli occhi e riconosciuto il mio errore. Per vero dire non li ho aperti da me; me li ha aperti la critica; la quale mi ha ammonito che quelle copiature, in fondo, riescono «una nuova conferma dell'invadente personalità artistica di lui». Pag. 193, 194. – Non è qui, a mio parere, che ha torto il Thovez, sì bene quando si mette in mente di essere un grande poeta, perchè, in gioventù, ha ricomposto un suo verso nuovo da due ottonari, se non isbaglio, che suonavano barbaramente insieme. Carducci non deve essersi accorto della grande innovazione: per ciò non fu più d'allora nelle grazie del critico. Poi, gli sembrò sia stata una mossa sfortunata l'interessarsi più addentro dei plagi d'annunziani; crede gli abbia valso, non solo l'indifferenza, ma l'astiosità del pubblico messo contro di lui in cattivo umore per rivalerglisi; ma si deve persuadere che ciò non è. La critica del Thovez è sottile, ma non profonda; delle ragioni di fatto, ma non di anima; è ancora nominalista; per di più non è integrata da un'opera d'imaginazione copiosa, eccellente; perciò – perchè non errano sempre pubblico e critica – egli non è prosperato dove credeva di giungere. Lavorare, in Italia letterariamente e con sincera passione, col sottinteso in corpo di farsi una posizione, mi pare tal assurdo da non aver scusa; ed il presupporsi mancato per la cattiveria altrui è una ingenuità dalla quale desidererei spoglia l'indole filosofica di Enrico Thovez.



14 Anche Emilio Settimelli, su La Critica di B. Croce, Bologna, Beltrami, 1912 – è del mio parere: «Strano giudizio sui plagi del D'Annunzio! Li considera un segno della invadente sua personalità. Mi pare gli altri abbiano invaso il D'Annunzio! Qualche opera sua mi è stata definita: «un'antologia di letteratura internazionale». Ma il Croce rovescia la medaglia e trova nella brutta faccenda il bel gesto per salvare la fama preziosa del simpatico poeta abruzzese» – pag. 87-88. – Gli è che a Benedetto Croce non importa di sapere con che animo si sia fatto o si faccia, purchè il risultato concordi col buon gusto corrente e col successo: non vidi mai il Croce inchinarsi sopra la preziosa oscurità del vero merito nascosto, indicare al pubblico la perla fine da lui scoperta, pedissequo, in ciò, al maestro suo Hegel per cui la verità è data dal successo, cioè, da quanto è diventato, e, secondo me, già trapassato; però che nel punto in cui si diviene si trapassa pure. I suoi letterati gli furono additati dal pubblico e su questo suffragio egli ha iniziato La storia della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX. Non bisogna mai dimenticarsi, parlando del filosofo napoletano, che egli è un perfetta pragmatista. Per ciò, come il William James, che è pressapoco il Bergson dell'America del Nord, può concepire l'arte come intuizione e non come pensiero, mentre io sono d'accordo un'altra volta col Settimelli a definirla un fenomeno puramente cerebrale, ossia un serbatojo di energie psichiche; rappresentandomi l'arte come un organismo vivente ed in azione, in completo aumento e riflesso per ragione, in commozione, per logica, ed emozioni di sentimento. Ma per ammettere ciò bisognerebbe anche definire la letteratura come: la bella espressione verbale delle sincerità delli autori; per la qualcosa si dovrebbe ammettere, che il plagio d'annunziano è la sua ineluttabile sincerità di arricchirsi indebitamente con quello di altri; ciò che, pare, non sia perchè il plagio è semplicemente fonte e reminiscenza, insomma una esuberanza della coltura e della memoria del poeta; il quale è tanto zeppo di roba altrui e tal mostro di erudizione, che, anche quando vuol dire stesso, esprime li altri. – No: egli è tanto povero, che, per farsi sentire a parlare, bisogna che impresti la voce ed i concetti dalli altri, senza di cui non potrebbe conversare co' suoi simili, conversazione per la quale egli vive. Badate: si nutre da parassita: vendendo ciò che non ha, ma di cui ha saputo valersi come fosse suo. Questo forse non accorge Benedetto Croce, che, essendo filosofo, avrebbe dovuto scoprire una amoralità funzionale nella psiche d'annunziana. – Enrico Thovez è con me: passate a leggere il capitolo Il mio e il tuo del citato Il Pastore il Greggie e la Zampogna: vi vorrà ricordare primamente la frase del Carducci: «E la impostura e la ciarlataneria e le ruberie e le mariolerie non saranno più impostura e ciarlataneria, ruberie e mariolerie perchè esercitate, perpetrate e commesse nel territorio della letteratura?» No; Benedetto Croce è troppo attivo e sollecito difensore, nel suo studio, sul D'Annunzio, – La Critica, anno II, pag. 1-28-15-110. Il D'Annunzio non è un ricco che fa debiti e no li paga, sicuro che nessuno dubiterà mai ch'egli sia in grado di pagarli: egli è letterariamente ed economicamente un debitore moroso, che bisogna perseguitar di carta bollata per rendere all'obbligo suo. Ed il vantato tono proprio ed originale dell'opera d'annunziana sì, esiste, ma nel plagio: il plagio è l'indice distintivo della sua letteratura; da qui noi lo riconosciamo. L'idealismo hegeliano, applicato alla critica d'arte, è pur misericordioso: l'appropriazione indebita diventa l'atto di una virtù esuberante, di una invadente personalità artistica. In nome del grande filosofo tedesco, è dunque doveroso spalancar le carceri ai tagliaborse ed ai minuti pick pockets, con indenizzo e regalie; si apre un orizzonte nuovo al diritto penale ed alle attività poco scrupolose:... e poi codesti critici così indulgenti, ma borghesi, all'ora buona vorranno ghigliottinare i nuovi Bonnot; oh, coerenza! Non ho la dote precipua del Don Ferrante manzoniano, cui Benedetto Croce rispetta.



15 Borgese: «.... nell'enorme maggioranza dei casi ha concepita l'opera sua marginalmente ed interlinearmente ai libri letti.... Poi chè D'Annunzio ha saccheggiato indifferentemente i poeti più opposti e le ispirazioni più contradittorie, vale a dire che la sua violenta personalità li ha tutti quanti falsificati e corrosi». Dopo ciò il Borgese può anche sostenere l'originalità d'annunziana, ma è tale originalità che saccheggia, falsifica e corrode, vale a dire che impiega materiali ideologici ed anche formali magnifici d'altrui, per dar loro il proprio timbro più basso, più imperfetto, più brutto. Ecco il suo peccato: arricchendosi della roba d'altri, la impoverisce e la abbassa al suo livello; ciò che l'onesta critica non può permettere, o, se scusa bolla: Plagio. Un altro, Giovanni Zuccarini, nella prefazione di Scheggie e Sprazzi, G. Puccini editore, Ancona 1912, è più indulgente ancora, perchè è meno colto: leggete a pag. XXIII di De sui ipsius et aliorum ignorantia. «Mi sembra che una stranissima fatalità incomba ormai su Gabriele D'Annunzio, la fatalità che nei tempi mitologici gravò su re Mida. Ne è la prova le Fonti d'annunziane che il Croce va da tempo raccogliendo nella sua Critica. Tutto ciò ch'egli tocca (probabilmente il D'Annunzio, vero? ma quest'egli, che vien dopo Croce non è molto sintatticamente chiaro) diviene oro sotto le sue mani, fin l'erudizione bibliotecaria del prof. Tenneroni, fin le indicazioni del Baedeker, fin la storia marinara del padre Guglielmotti e le notizie dolenti di Giuseppe Barzini nel Corriere della Sera: tutto converte nell'oro delle sue strofe sonanti». Lo Zuccarini, che è dolce di natura, come di nome; chiama oro il metallo, con molta ganga, che ne riesce: poi oro, perchè è inverniciato con qualche cosa di lustro? è princisbecco da fiera; è imitazione; siamo sempre nel falso: la atroce ananke d'annunziana appare sempre, perchè organica, insistente.



16 Aveva gia distesa tutta questa mia teorica sul plagio, in riguardo alla speciale mentalità d'annunziana, quando fui avvisato, che, in linea generale, era allora di fresco uscito, sul N. 2, dell'anno IV di Rivista di Psicologia, diretta dal Prof. G. Cesare Ferrari, Stabilimento Poligrafico Emiliano, uno studio di C. Giacchetti: «Il plagio dal punto di vista psicologico». Non avendo potuto avere e quindi leggere quel fascicolo per quanto richiesto da me ai miei librai; i quali non lo trovarono o non vollero cercarmelo; non so quale siano le definizioni del Dottor Giacchetti in proposito. Questa è una delle soluzioni, – in un caso particolare – cui la mia psicologia si permette di esprimere: a soddisfar la mia curiosità ed a rettificare anche qualche mia storta opinione, domando visione di quell'articolo a qualcuno che, per avventura, avendo tra le mani questo volume, posseda anche quel numero di Rivista.



17 G. Rabizzani, in Pagine di Critica letteraria, dice giustamente: «Il D'Annunzio, se non sbaglio, ne imitò, deformandolo, più di un atteggiamento eroico; e, a simiglianza di lui volle, in alcune delle Laudi, il senso della vastità marina, del vento tra le selve, dell'uragano sulle montagne, in strofe dal volo ampio e in versi dal soffio sonoro» pag. 111. – Insisto sul deformare così ben appropriato alle operazioni che compie il nostro poeta, in genere, sulle opere delli altri, che taglieggia, ed in particolare, volgendosi al Whitman; perchè non vi consiglierò mai di commettere la leggerezza di confrontare, meno nei dettagli di pochissima importanza, la poesia del Whitman con quella del d'Annunzio; ciò testimonierebbe del mio povero giudizio critico, e starei anche per dire, della mia ignoranza. Per intanto di Walt Whitman, se potete leggerlo nell'originale, è consigliabile la seconda edizione di Boston (1882) per Leaves of Grass. Le tradusse Luigi Gamberale con due aggiunte e gli Echi della Vecchiaja etc.... Remo Sandron MilanoMilanoPalermoNapoli, P. Jannacone, poi, ci chiede un bel saggio: La Poesia di Walt Whitman e l'evoluzione delle forme ritmiche, RouxFrassatiTorino; libretto succoso, cui dovrebbero leggere con profitto i liberi verseggiatori italiani. Ma è sopra tutto da raccomandarsi caldamente la conoscenza del poeta nord-americano nell'opera densa e nutrita di Léon Bazalgette: Walt Whitman, L'Homme et son Oeuvre, etc. Paris, Mercure de France, MCMVIII. Nutrito da codesti studi sarà ben difficile, scambiare le Liriche di Foglie d'Erba con quelle delle Laudi d'annunziane.



18 Non bisogna lasciar Le Laudi senza avervi ammonito che il cruschevole amò anche scrivere di questi versi, nel Fanciullo

«una sol volta almen volgi la testa

dove il sol compendia più errori di gramatica, sintassi e prosodia che non abbia lettere a formarlo: indi, un altro verso ne L'Oleandro elide quattro vocali insieme, facendone un mostruoso dittongo di un'unica quantità:

«o salvia o altra fresca erba mattutina

e via via, al resto che vi si può, senza essere meticoloso ed attentissimo, spulciare con facilità.



19 Ricciotto Canudo, per perdere definitivamente la sua fede d'annunziana, di cui fu troppo sollecito ed ingannato banditore in Francia, ha dovuto leggere la Vita di Cola da Rienzi: «Perchè egli, D'Annunzio, ha creduto, un'altra volta, che il massimo dell'arte sia il supremo classico nelle imitazioni delle forme abbandonate dalla mente moderna umana? Perchè ha egli dato fondo a questo grande lavoro da dilettante? – So che Mr D'Annunzio non è oggi più nella età in cui ci si rinnova, ma, più tosto, nell'altra in cui le predilezioni del passato diventano delli ingombri. Ed è forse per ritrovare le antiche forme del melodramma italiano che si offre a M. Puccini, si concede a M. Mascagni, quei maestri già abboritti da lui, un di? –» Mercure de France, 1 febbraio 1913, N. 375. Ma chi, oltre costoro del suo calibro, giuocolieri fortunati da teatro, può pagarsi la reclamistica virtuosità dell'Abruzzese in modo ch'egli conceda, come fossero gemme, le ultime sue defezioni?



20 In tema di plagio può anche rammentarsi quest'ultima bega parigina. Il 24 maggio 1912, i giornali quotidiani annunciavano: «Una grande première letteraria: Eduard Dujardin, che già fece rappresentare anni sono al Vaudeville, Antonia, un drama simbolico, sta per terminare Marthe et Marie, una produzione in prosa». Il giorno dopo, un certo Manzoni, – non Don Alessandro, forse e meglio colui delle corazze Benedetti, astutissimo lariano – un Manzoni contesta, sopra li stessi fogli: «Leggo ciò che si propone di fare il signor Dujardin per Marthe et Marie. Vi prego di far noto ai vostri lettori, che ho già sottoscritto un contratto con Gabriele D'Annunzio per un drama evangelico che porta il medesimo titolo. Ciò, avendo io reso pubblico a suo tempo ed avendo già annunciato che il suo titolo è Marthe et Marie, ne rivendico oggi, con tutti i diritti, la priorità» – Il 26 ribatteva Dujardin: «Qualcuno reclama presso di me, che mi godo le ombre di Fontainebleau, la priorità di Marthe et Marie pel sig. D'Annunzio. Non capisco come un titolo generale possa diventar particolare proprietà; e mi è più difficile imaginare come i miei modesti tentativi dramatici possano ostacolare alla gloria mondiale del sig. D'Annunzio. Per intanto si rassicuri che l'opera mia, lungi dall'essere un drama evangelico, si avvicenda nella Rinascenza italiana e che il titolo Marthe et Marie è semplicemente simbolico». – Pochi giorni dopo D'Annunzio, nel Figaro, smentiva quel signor Manzoni, tanto comodo che nessuno ha visto mai. In ogni modo, mi pare, che la morale della favola concluda col: mettere avanti i piedi: era questa forse l'unica volta che altri usava di un titolo di libro, di comedia, ecc. che D'Annunzio aveva scoperto lui, proprio lui; ed al quale, per Bacco! teneva come papà a figliuolo naturale e legittimo. Rarissima coincidenza: a gridar: «Primo!» si avevano tutti i diritti di questo mondo.



II Libro di Marco Aurelio, 1568, op. cit.



I Libro di Marco Aurelio, 1568, op. cit.



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