Gian Pietro Lucini
Antidannunziana: D'Annunzio al vaglio della critica

Phaedra e del "Plagio"

RASSEGNA DI "FEDRE"

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RASSEGNA DI "FEDRE"

Battute di aspetto

 

si leggeva, senza note, in La Giovine Italia, rivista mensile che durò il solo anno 1909 e si stampava in Milano, sotto il titolo generale di: Le Esecuzioni capitali, e singolare: Il pifferaro abruzzese.

«A tout seigneur tout hônneur», così avrei incominciato queste note critiche, se La Giovane Italia fosse in maggiore amicizia coll'editore Treves, il quale ci avrebbe, per questo, affidato il volumetto per la solita rinomea. Avrei pure aggiunto, all'insuccesso della scena, la prova della pochezza letteraria; e ciò mi avrebbe servito, come sempre, per la mia notissima pregiudiziale antidannunziana.

Pur troppo, tutto ciò mi sarebbe rimasto nella penna ad occludere, con grave danno alla salute e con minaccia evidente di una colica epatica, lo sfogo tanto necessario al mio ricambio interno delli organi e delle idee; se la terapia, che trova mille modi ingegnosi per sopperire alla opportuna elasticità del tempo e delle fibre, non avesse spostata la questione per mio sollievo, invitandomi a discorrere, academicamente, di altro che può essere una Fedra ed un D'Annunzio. Mi è caro leggere le tragedie; mi sostituisco alli attori, e, con maggiore intelletto abbozzo mentalmente li atti ed il porgere in una bellezza esatta ed ideale, quali l'istrionismo celebre non ci consente mai di ammirare dalla ribalta.

La Fedra venga esposta da Euripide, sotto forma di Ippolito velato; da Seneca, romanamente, in versi lunghi e brevi, da Racine, con molto rossetto di Rambouillet, molta parrucca e preziosità, Fedra anch'essa. Un altro Ippolito Carlo Innocenzo Frugoni sdilinquiva, tumido di assai verbosità settecentesca; mentre un'arcade di moda, Tusinda Pastenide, bisbetica moglie, la Zantippe del Gaspare Gozzi, colui dei Gazzettini, ne presentava un rifacimento, più incipriato, più imparruccato che mai.

L'ultima furoreggi, baccante ed avvelenata di ninfomania, allo stupro violento del proprio figliastro. Impazzi; accusi il delitto che ella eccita e vuole; richiami la vendetta delli Dei sul giovane eroe: si faccia lutulenta e turgida di barbarie orientali; ricopi Wilde e l'Hofmannsthal; ripeta1 la Figlia di Jorio, La Fiaccola sotto il Moggio, La Nave. Degenerata, figlia di degenerata, accomodatasi alla bestialità per sadica impotenza, ella stessa straziata dalla necessaria ed atavica ragione, deliri sulla scena tra i posticci e le esumazioni di carta pesta, dettagli il suo utero rovesciato ed isterico, e sia di stessa, cioè creda di essere, la indimenticabile. Certo fu una speranza, ed è ben ricordarla ai creditori dell'Imaginifico; i quali si assicurano i loro capitali sui proventi della ribalta; ed è un'altra volta la banderuola di richiamo, che attesta, patullata, la facile fecondità dell'autore, oggi, che ha saputo, anche col semplice mestiere, darsi le pretese di conservarsi un letterato.

tutte qui sono, tra le rifritture classiche e le briciole d'annunziane, le fonti facilmente confessabili di Fedra. Altra più limpida, più opportuna, sopra tutto più originale ed in tutto ricalcata e ritradotta letteralmente per l'occasione, è tale che la dispersiva ed ignorante gazzetteria italiana non ha ancora scoperta. Venitela a sapere con me, e cerchiamola nei: Poems and Ballads di A. C. SwinburneI. troverete il motivo, non solo, ma le corrispondenti parole di furore uterino, le imprecazioni dopo il rifiuto di Ippolito, l'odio e la maledizione della ninfomane, la scena massima della tragedia d'annunziana del secondo atto, quella, che sgolata e favorita dall'esibizionismo muscolare dei glutei e dei bicipiti, dall'anatomia messa in rilievo di Gabriellino, pretesto alli applausi della platea e delle gallerie, fa del pifferaro d'Abruzzi, non il grande poeta della dramatica, ma il magno truffatore di poesia altrui. Vorrei provarvelo con distese citazioni al passo, ma è una fatica che mi riservo per altrove, debitamente documentata; e però di nessuna efficacia, non ignorando l'inutilità delli spulciatori, il ridicolo e la malvagia insinuazione; addotrinato dai casi precedenti di un Thovez, ch'egli poteva permettersi, ma ch'io debbo schivare; scoperta però preziosa, ed altro argomento necessario ad incocciarmi per dispiegare la mia pregiudiziale favorita.

Del resto tutte le epoche letterarie ebbero la loro Fedra, più dignitosa, sopra tutto, concepita con maggior fantasia. Cercacatene parecchie sotto diverso nome, nel Decameron di Boccaccio, nella Eptameron della Reine Margot, nelle Novelle di Messer Bandello, che un molto ignorante consiglier comunale, in pubblica seduta a Milano, congratulò col nome di pornografo, quasi onta edilizia in sulla targa che distingue una delle vie della nostra città. Poi si novera una Parisina di Byron e una Curée di Zola; la quale, e modernamente, con grande sapore e con massima moralità, fa di Maurice, Ippolito; di Saccard, Teseo; della sua seconda moglie, felinamente aggraziata, Fedra. Codesta indimenticabile fu da vero spampanata promiscuamente dalla antichità al secondo impero, per ripresentare la faccia della feminilità, il decorso patologico di una curiosità barbara e di una lussuria, che non ha scusa, perchè troppo saputa, troppo luogo comune.

L'autore stesso se ne avvide: annuncia infatti, per il Grand Guignol, Il mal seme; pel Cinematografo, un contratto di due anni, in cui egli si farà compositore di balletti, di vaudevilles, di parate, aspettate con ansia dal suo pubblico di bambini, di monelli, di ordinanze e di bambinaie, inclito e rispettabile, ma analfabeta; tal quale gli appartiene. – Buona fortuna!2Testè non disse l'altro angiolo custode della poesia italiana, il Pascoli, fattore di campagna, tosco-romagnolo, tra una carezza alla sua pipa di schiuma sapientemente annerita, una elegia al merlo Merlino sepolto in un vaso di fiori, un cinguettar di fringuello bene imitato: ciò, ciò, ciup! una frittatina di due uova fresche ammanitagli rusticamente da Mariù; non disse questo gran bacalare, che, in veste di fustanello alla cacciatora, cita Omero ed accende ceri al quadretto di Giosuè massone e martire confessore della Chiesa di Polenta e di Piemonte: «Di tutto io reputo capace d'Annunzio! È pittore, maestro di musica, maestro di ballo, scultore: di tutto sa!» Ed ha ragione; tutto quanto conosce, che s'impasta sotto il calco ed è carta pesta. Cioè no: mi si dice che oggi, è l'ultima parola, egli l'abbia abiurata; ed uditene il bando:

«Un altro singolare esperimento scenico farò molto presto. Troppo ormai ci accorgiamo che sulla scena impera la carta pesta; aule di carta pesta, palazzi di carta pesta! Il giuoco delle luci non può attenuare questo tedio dell'artifizio e della simulazione, che noi sentiamo vivissimo. Ho pensato un'opera di passioni libere e forti e di pura fiamma che si svolga davanti ad altissime tende di un colore profondo. Distenderò una vastità enorme intorno agl'interpreti; essi si muoveranno davanti ad uno scenario di un colore solo, alto quattordici o quindici metri...» La prosa è asmatica; la citazione è lunga: abbrevio3.

Questo singolare esperimento scenico, che egli ha inventato, se non è quello di cui usava Shakespeare al Globe di Londra, è pur l'altro recentissimo che la compagnia dramatica di Düsseldorf ha saggiato, con grandissimo successo, saranno poche settimane or sono, a Parigi, al Teâthre Marigny, con Lugné Pöe per venti sere. Qui, un dramma simbolico di AndreïewII, La Vita dell'Uomo, si avvicendò sullo schema di quelle tende cupe a fregi schematici, ordine e complemento sinfonico ai gesti ed alle cadenze delli attori; quadro chiuso ed indeciso nello stesso tempo, da cui l'azione emerge come un alto-rilievo cinetico e l'attenzione dello spettatore non è fuorviata colla pluralità discordante e positiva delle false decorazioni e... della carta pesta.

Ma ahimè! si pensa: se si toglie questa sola tangibilità disgraziata alla dramatica d'annunziana, che le lasceremo? Per dio «le tende di un colore profondo, che nella parte superiore sono corse da un fregio, che ripeterà ad intervalli uguali, obbedendo alla legge musicale delle pause, un motivo decorativo!» Le tende della Compagnia Düsseldorf. Spaventosa, velocissima, catastrofica propagazione del pensiero nell'etere: altro che telegrafo Marconi; telepatia! Noi altri italiani siamo sempre sfortunati: abbiamo il lampo intuitivo del genio che crea; i forastieri la gloria delle applicazioni: la sventura di Colombo ci perseguita; anche D'Annunzio, primo nell'idea, ultimo torna dalla scoperta delle tende della Compagnia di Düsseldorf.

 

 





1 Anche il Borgese è del mio parere; leggete i Rimasugli di D'Annunzio, a proposito della Fedra, in su La Stampa di Torino del 5 Maggio 1909.

«Ma ci sono plagi assai più gravi e pericolosi di questi, e sono quelli che Gabriele D'Annunzio perpetra ai danni di Gabriele D'Annunzio. Tutti gl'italiani sono stati dannunziani, ma un giorno o l'altro hanno smesso. Uno solo persevera, impantanandosi ogni giorno di più nel suo male; e questi è D'Annunzio, l'ultimo e il più fedele fra i dannunziani. I personaggi dei suoi drammi sono press'a poco antropofagi; l'autore è autofago, si ciba di medesimo, e si ricucina ostinatamente in una salsa stantìa. Tutti i suoi vecchi motivi gli ritornano alla gola, e coraggiosamente egli li ingolla un'altra volta. Domenico Lanza ha enumerato, con grande acume, i vecchi elementi dannunziani della nuova tragedia; il mercante della Francesca travestito da pirata fenicio, le supplici che ci rimandano alla Figlia di Jorio, e quella invariabile «madre nobile», che, nata col nome di Candia della Leonessa, persiste a piangere, oziosa e superflua, sullo sfacelo delle sue famiglie, battezzata a volta a volta donna Aldegrina, diaconessa Ema ed Etra. Lo stesso poteva dirsi della Nave; e tuttavia nella Nave c'era ancora qualche nuova, sebbene fiacca e malcerta, folata d'invenzione. Ma che cosa ci offre la Fedra che non ci offrano le tragedie precedenti e, dove non le tragedie, i canti delle Laudi col ditirambo d'Icaro e la morte del Cervo? Roba di ben altra qualità. Il nucleo della Fedra si riduce a un'apologia di reato. Fedra è calunniatrice, incestuosa e selvaggia; e ciò non pertanto ha ragione. È superiore alle dee; e nessun mortale ha diritto di condannarla. Sapevamcelo: la santità del delitto era proclamata fin dalla prima pagina dell'Innocente. E l'ultimo atto della Città Morta, se voi mettete la gonnella a Leonardo e i pantaloni a Bianca Maria, è press'a poco un doppione del terz'atto della Fedra».

Così appare a lui ed anche a me una tragedia sbagliata. – A corroborarci nella nostra opinione anche Alfredo Gargiulo ci soccorre colla sua. Op. cit; «L'ultima opera del D'Annunzio in ordine di tempo, di cui ci resti da dire qualche parola, è la Fedra (1909). Come tutti i drammi storici, pei quali il poeta fece un'elaborata preparazione, è ricchissima di fatti messi sulla bocca dei personaggi. E veramente i personaggi non hanno una fisionomia discernibile, nemmeno dal punto di vista della solita astrattezza. Si bada alle cose che dicono, alla mitologia che espongono, non ad essi: non, come dovrebbe naturalmente accadere, al loro fondo, al loro carattere, sul quale le cose dette dovrebbero poggiare, o nel quale, meglio ancora, le cose dette dovrebbero essere assorbite. Il lettore, in fine, si accorge che nella tragedia una sola persona lo ha colpito per qualcos'altro che non sia la mitologia raccontata: Fedra, la quale può dirsi che occupi l'opera dalla prima all'ultima scena. Ma Fedra è la personificazione del «superamore», che arriva a dire:

Il mio nome è ineffabile
come il nome di chi sovverte antiche
leggi per porre una sua legge arcana

Pag. 338. – Ed anche il Morello deve ammettere, che, davanti al pubblico, l'iddio da cui costantemente il D'Annunzio è beneficato, cadde e non ebbe «festa l'altra e più antica nave che porta al mare Saronico il serpente e l'aconito, che dalle mani del pirata Fenicio, Fedra riceve per la vendetta della sua passione furente». Op. cit, 101 – «La Catastrofe di Fedra non fu clamorosa ed insolente come quella di Più che l'amore, perchè mancava il lievito della quistione morale che sollevasse fino alla indignazione le disaprovazioni: fu una mite e rispettosa catastrofe che addolorò il poeta forse più di quella clamorosa ed insolente». pag. 102. – Può dunque concludere il Critico del Times, sopra il suo inglesissimo giornale pudibondo:

«D'Annunzio ha trattato il tema in modo brutale. La sua eroina è un vero mostro. Noi abbiamo dinanzi una Fedra assassina, furia, bugiarda, che durante tre atti, rifulge in una intollerabile autoglorificazione. Nessuna traccia di rimorso, di vergogna o di dolore attenua la sua passione per il figliastro Ippolito: il quale, a sua volta, non è che un fanciullo insignificante ed egoista, che non ha nulla di comune con l'altissima purezza dell'adolescente eroe di Euripide.

«La tragedia possiede soltanto due scene di valore drammatico, che sono del resto quelle che hanno incontrato l'approvazione del pubblico. Il resto della tragedia è appesantito da allusioni classiche, da discorsi troppo elaborati, da racconti noiosi. Qua e alcune gemme di pura bellezza alleggerirono la noia dell'eccessiva verbosità e non fecero che far rimpiangere maggiormente che D'Annnnzio, al quale era rivolta l'attenzione di tutta Italia, non avesse a comunicare ai suoi ammiratori un miglior messaggio».

Chè la Fedra è muscolosa, adiposa, lutolenta e disgraziata per un peccato di origine, vera ginnasta di letteratura da piazza e da fiera, cresciuta ed educata dai manubri; essendo noto che questa tragedia venne scritta in ventisette giorni, nelle condizioni più avverse alla meditazione ed al sogno, in un periodo acutissimo di una crisi finanziaria, col soccorso di quelli istrumenti ginnici ed atletici.

Leggete i Ricordi dannunziani del GabriellinoLa Lettura, novembre 1912: «Nondimeno, egli era riuscito ad isolarsi dalla cruda vita reale, con una serenità che stupiva i suoi amici, ed a ritrarsi con Fedra e con Teseo nel mitico mondo della sua tragedia, mentre la nube gli si addensava sul capo più che mai minacciosa. In quei ventisette giorni, aveva lavorato quasi ininterrottamente.

«Dormiva dalle dieci del mattino alle cinque del pomeriggio. Alle cinque faceva una doccia, si esercitava un po' coi manubri, e si rimetteva a tavolino, restandovi tutta la notte, e costringendo la servitù ad un orario impossibile. All'esercizio coi manubri annetteva un'importanza capitale: «Senza di essi – mi diceva un giorno additandomi gli attrezzi – non avrei potuto scrivere la Fedra. Ed io pensavo che la critica, per quanto cerchi ed indaghi, non arriverà mai a precisare tutti gli elementicompresi i manubri – che possono concorrere alla formazione di un'opera d'arte».

– In queste necessità che altro il D'Annunzio avrebbe potuto fare? Oppugnar, col fatto, alla teorica del suo maestro Flaubert dal quale, nei giorni migliori, imprestava stile e pensiero; però che è bene ricordare come il papà di Madame Bovary detestasse lo Sport, per quanto di questa sua opinione fosse e sia rimproverato da quelli ingegni sportivi, allora ed oggi, in auge, ben veduti nei salotti in cui fanno accettare le loro opere anche colla performance ed il pedigree delle quattro gambe de' loro cavalli, o colle quarte, le quinte o le spaccate del loro fioretto. La scienza, intanto, però ragione a Flaubert e torto ai manubrii; il Dottor Sigaut ed il Dottor Mac Aulisse dimostrarono, colle loro esperienze morfologiche, che ogni lavoro muscolare di un cerebrale si compie sempre a scapito della produzione della sua intelligenza; sicchè possono i manubrii aver ajutato al parto di Fedra, ma Fedra è rimasta tragedia da manubri; cioè una azione mimo-danzante od un testo per musica. – In fatti Ildebrando da Parma, il Pizzetti, non ci ha voluto dire che come la Francesca da Rimini – quest'altra recita da marionette scritta in sessanta notti di lavoro, ed in quattromila versi per commentare e rimpicciolire il significato universale di quelle poche e semplici terzine del V canto dall'Inferno – il Pizzetti non ha voluto confessarci che darà, o sta accordando, la sua maestria alla bisogna? Ci istruisce e ci fa lieti nel medesimo tempo proprio gratuitamente e noi gli dobbiamo riconoscenza:

«Io credo che finora nessuno abbia rivelato ciò che forma il più alto e il più nuovo carattere della Fedra d'annunziana: la fusione dell'epopea e del dramma. Il primo e il terzo atto sono vere e proprie rappresentazioni epiche, nelle quali l'elemento narrativo è drammatizzato in una maniera inattesa. È difficile immaginare un preludio più grandioso di quello che danno alla tragedia le lamentazioni delle sette Madri: il bisogno della musica qui è manifesto, è imperioso. Con tutti i mezzi della parola il poeta ha cercato qui di formare intorno al coro quell'atmosfera musicale che sola può ingrandire a dismisura i personaggi e i loro gesti; le apparizioni epiche, accompagnate dal più energico ritmo che mai abbia risuonato sulla scena, dal ritmo elementare del fuoco veramente, come negli episodi di Capaneo e di Evadne, servono a infondere negli interlocutori un respiro sovrumano. Questo ufficio ora sarà commesso alla musica, che ha il potere di esercitare senza limiti. La musica della Fedra sarà costruita unicamente sui modi greci, come del resto tutta la musica che son venuto scrivendo negli ultimi tre anni. I modi greci hanno per me un potere espressivo più forte delle tonalità moderne. Di più, essi offrono una maggior varietà: molti potrebbero tacciare già fin da ora di monotonia la musica di un intero dramma modulata soltanto sulle gamme antiche, ma sarebbe una assai gratuita accusa, poichè la ricchezza di risorse espressive di queste tonalità è inesauribile».

Dal canto mio mi preparo all'applauso incondizionato perchè trionfi come la sorella sua Figlia di Jorio e non trovi delli invidiosi a sciuparla con parodie; intanto mi accontento di osservare la cura e la smania affannosa, che poeti e musicisti travagliano alla scoperta, in cerca, e dello stile, e della materia, e della idealità, cui debbono seguire. È tutto un caos nella loro mente in ebollizione; per ciò gran vuoto riempito di fumo; se in queste caligini sapremo distinguere le vaghe fantasime estetiche che le passeggiano, con forma almeno più visibile delle intenzioni, daremo prova di eccellente acutezza nelle critiche pupille.

– Comunque, Fedra corse e correrà i teatri con viaggi più o meno artistici; anche tradotta in francese venne minacciata a Parigi: questo carnevale ne udremo l'edizione musicale del Pizzetti al Costanzi, cantata da Emma Carelli: per prepararle l'ugola il poeta abruzzese, – così porta il Corriere della Sera del 27 Novembre 1912donò alla prossima futura interprete della Parsifaeja un esemplare della tragedia con la dedica: «A Emma Carelli, questo poema nerazzurro che attende ancora «la bipede leonessa», la grande Rivelatrice, è offerto con altissima aspettazione». Via, come madrigale, sembra un'ingiuria; come epigramma, non troverà posto nell'Antologia. – Ma il filosofo del tornare bruto, D'Annunzio, ci assicura, nella sua prefazione a La vita di Cola di Rienzo che: «imbestiare può, in certo senso, essere un modo di trasumanarePadronissimo, faccia pure: e però egli si suggella da : «Vedo che il mio segreto lirico è una sensualità rapita fuor dei sensi!» Sì, come Sade! op. cit. Treves, editore, 1913.



I Vedi, nelle pagine successive, tutto quanto t'importerà di sapere sulle referenze topiche dei libri e dei passi.



2 Ieri, pronuba la Rubinstein, cercò pure di conquistare il teatro russo, più ricco di allori di quel parigino. Già, il Teatro Artistico di Mosca l'avrebbe officiato a concedergli un suo drama, cui si occuperebbe di mettere in iscena con profondo senso estetico; ed uno de' traduttori russi dei romanzi del Pescarese si sarebbe trovato con lui per accordarsi sulla traduzione di quel lavoro ancora in mente Dei e di... nessuno. Gabriele D'Annunzio è solito vendere la pelle dell'orso prima d'averlo cacciato. – Il Teatro! Fu sempre il dadà ed il – reddito d'annunziano.



3 Ma, nella nota, vi darò intiera la nuova teoria d'annunziana e colle sue stesse parole, continuando il testo:

«Per ottenere questo colore molto mi gioverà una signora olandese amica mia che ha trovato il modo di dare alle stoffe i bei colori dei vecchi velluti rossi o verdi di Venezia, di Genova o di Lucca. Distenderò una vastità enorme intorno agli interpreti. Essi si muoveranno davanti a uno scenario di un color solo, alto 14 o 15 metri. Nella parte superiore di esso correrà un fregio che ripeterà a intervalli eguali, obbedendo alla legge musicale delle pause, lo stesso motivo decorativo. Questi segni armoniosi indurranno, ripetendosi, nel pubblico, una suggestione pari a quella di un'orchestra. Tornerò, insomma, alle scene spoglie e semplici, come usavano del resto, a' tempi di Shakespeare, aggiungendo ad esse questo elemento nuovo, questa specie di ritmo grafico, che avrà per gli spiriti un valore musicale. Il pubblico non sarà più distratto dai piccoli particolari della scena, e il poeta potrà esprimere la passione dei suoi personaggi in forme nude, elementari e ardenti». Davanti alla rapidità, con cui foggia nuovi mondi istrionici, ci vien fatto proprio di maravigliare. Che feconda fucina il suo cervello; perciò ecco le Faville del Maglio! Sul serio. Dopo la carica a fondo contro la carta pesta sorge il Teatro del colore. È colla Schiava, un lavoro inedito di un suo giovane discepolo, un Riccardi, che il D'Annunzio ne vorrebbe provato l'effetto. Sì: egli vorrebbe patrocinare il teatro di questo suo allievo, e tenta di fonderlo sul principio dei rapporti che esistono fra i colori e i varii stati di anima.

Di mano in mano che si modifica la psicologia dei personaggi, parlano anche sulla scena i giochi di luce e il colore. D'Annunzio è il padrino di tale innovazione che sarà assai discussa e alla quale egli si interessa vivamente. Ne sarà la madrina l'attrice signora Simona, che ha accettato la parte della principale interprete. Inutile aggiungere che noi siamo tuttora in aspettativa della prima rappresentazione di La Schiava. – Ma ciò che proprio mi ha deluso fu l'essermi mancato il Teatro di Festa; però che questo fu soppresso prima di aver foggiate le prime poutrelles: come l'altro famosissimo d'Albano non vide mai le sue fondamenta. Questo era per l'antichità; quello per la più fragrante delle modernità, direttore, senz'altro, il D'Annunzio, che faceva il suo apprendissage col pittore Fortuny, specialista illuminatore di quinte e di scene, nella sala della Contessa di Béarn. Il teatro, di cui avrebbe potuto essere impresario e proprietario uno Schurmann, tra l'alsaziano ed il prussiano, doveva essere tutto di ferro. «Occorreranno sette giorni per montarlo completamente. Conterrà 4500 posti distribuiti come in un anfiteatro antico, adorno di cesti di fiori e con palchettini in velluto. La scena sarà semisferica; un pallone tagliato in due. L'apertura sarebbe fissata per il 20 giugno 1911, sulla Spianata degli Invalidi al Campo di Marte, dove è stata chiesta l'area provvisoria, con una grande féerie poetica di Gabriele D'Annunzio, con danze, cori, cortei e canti. Vi sarà un'orchestra di 120 professori. Oltre 700 persone si muoveranno sulla scena.

«Si conta di poter dare tre mesi di rappresentazione a Parigi; dopo di che si visiteranno, successivamente, tutte le grandi capitali. Se l'esperimento riuscirà, e il successo risponderà all'aspettativa, si formerà a Parigi e, in seguito, nelle altre città, una Società, per erigere dei teatri stabili fatti sul principio del Teatro della Festa; il quale, per il suo carattere provvisorio, servirà di propaganda. Sarà uno sconvolgimento completo delle attuali concezioni di tutte le sale di audizione. Lo Schurmann ha aggiunto di più che le trattative sono molto avanzate, in un grande teatro parigino, per rappresentare un altro lavoro d'annunziano nel mese di giugno dell'anno prossimo.

«Egli dice che sarà per Parigi l'occasione di conoscere una nuova stella, già freneticamente applaudita in due grandi teatri di altro genere. È D'Annunzio stesso che ha scoperto le qualità drammatiche di prim'ordine di quest'artista. Il lavoro richiede un grande spiegamento di messa in iscena, un ballo e una composizione musicale, consistente in quattro scene illuminate con il sistema Fortuny: sarà in qualche modo un avant-première del Teatro della Festa. È molto probabile pure che Teodora Duncan e la sua scuola di danze facciano parte dello spettacolo inaugurale e vi sarà l'orchestra Murère diretta da Savillard che dovrà eseguire l'apparato della scena». Si che, per bearmi di tutte le maraviglie raccolte in un solo luogo con tanto buon gusto e felicità, mi sarei mosso anch'io, ostinato sedentario, incontro ai disagi di un viaggio almeno sino a Parigi, e già vagheggiavo pregustarne il diletto intenso e fecondo, quando, quest'ultimo esperimento venne contromandato, lasciandomi col desiderio insoddisfatto in corpo. Or dunque, dopo il Teatro di Festa, che non accese mai le sue girandole, quando il Teatro della Morte squasserà le sue fiaccole? Dopo il Mistero, il Martirio e la Contemplazione, non mi è lecito domandare al Pescarese la Tomba, e l'Ossario e la Reliquia?



II Intorno al poeta e rivoluzionario russo Leonida Andreïew ricorri alle mie Appendici di Il Tempio della Gloria, Puccini, Ancona 1913.



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