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Se i due volumi delle Laudi del Cielo, della Terra e degli Eroi, colla tragedia pastorale La Figlia di Jorio, rappresentano lo zenit dell'opera d'annunziana; subito dopo, quasi fosse stato annubilato dall'incenso bruciatogli sotto le nari, come ad un idolo capriccioso, il Pescarese rispose alle preghiere, ai voti, alli inni, ai regali del suo popolo misto, coll'ingannarlo. Tutti si aspettavano meraviglie curiosissime, fiori spettacolosi e miracolosi da quella pianta ingrassata ed allevata sulla più tiepida terra della terza italianità; si ebbero invece corolle già sfatte prima di sbocciare, poma già putride inanzi la maturanza.
Dal 1904, D'Annunzio si ripete e ridà l'opera, già espressa, in una lenta e strana ruminazione; quand'egli sarà preso dalla fregola dell'ascetismo, ricorrerà all'amico suo Barrès per farsi lisciare lo stile troculento coll'untuosità di Boussuet e di Fénelon; ed il cibreo, per il nostro buon gusto italiano, sarà più nauseoso e meno digeribile.
Noi vedremo una Nave – dico vedere, non udire – sgargiare ai diversi effetti della mecanica teatrale, come mimodrama – lirico, imprestar i motivi di Basiliola alla Fedra; noi leggeremo le oscene rigonfiature di Forse che sì, forse che no, ridisporsi sopra lo scheletro rachitico di Il Piacere; noi, nel Martyre de Saint-Sebastian, ci farem ricantare rimpicciolite, le rappresentazioni sacre del nostro medio evo e li autos sacramentales spagnoli, non che i quadri plastici stilizzati dalle diverse Passioni genuine francesi, derivate dal jerodrama di Arnault de Gréban.
Dove se l'è fumata invece il novellista saporoso, che ricalcò Maupassant, ma vi aggiunse fosforo e sale e la ninfomania e la satiriasi meridionale d'Abruzzi? Nel centone abruciato di Le Faville del Maglio, nelle sdilinquenti preziosità casteggianti di La Leda senza Cigno? La Pisanella navigherà da una Figlia di Jorio, con innesto di Nave, e perciò vi dolora la sifilide cristallina; La Parisina ricopierà La Francesca; fortunata lei, che le crome di Mascagni la faranno più villana e feroce, unica naturalezza sincera acquistata; sicchè il testo scomparirà sotto le note, il gridar de' cantarini, il fracasso della orchestra.
Ma, intanto, il Divo, odorando il vento infido, aveva cambiato cappella; e, ridottosi in Francia, dove i goccioloni abbondano, insieme alli intelligenti che... barano, si rifaceva l'altare, il culto... e l'asse ecclesiastico. Per quanto non avesse mutato modo di vita, gli giovò mutar aria; non si applicò a cura ricostituente, ma l'ambiente lo favorì meglio. Vi furono de' giorni di calma riflessione ad Arcachon; in cui, ripiegatosi durante la siesta sopra sè stesso; dopo d'aver lustrato per le sue camere interiori in visita, e visitato ogni suo mobile più o meno prezioso; dopo, insomma, il suo esame di coscienza generale, si persuase, un'altra volta, della sua unicità, rappresentata nella facilità mimetica di tramutarsi a richiesta de' capricci dei compratori: e... così tornò a fare.
Imagino il Divo, seduto in poltrona, dinanzi una aperta finestra, che dà sulla irrequietudine dell'Oceano, presosi il capo laureato in mano, chè la destra glielo sorregge, il gomito appoggiato alla coscia, strologare la sua gloria, sul curvo orizzonte atlantico e sentirsi tutt'uno colla gloria del sole che tramonta.
«Sì; il Sole tramontava; era un enorme sacrificio cosmico che tuttti i dì regalava alla terra e non mai si diminuiva per l'aurora ventura. Tale la sua inesausta fecondità. Egli era tutto lirica; la bellezza materiata di parole sprizzava da tutta la sua persona: non aveva centimetro quadrato della sua epidermide che non trasudasse poesia; egli era una musica sola e perenne».
Di fatti, le ostriche di1 Arcachon, dicono abbiano una percentuale maggiore di fosforo in corpo che non li altri molluschi della stessa famiglia pescati a Taranto: l'Abruzzese ne accorgeva l'effetto: tal quale assorbisse la Lecitina, sostanza fondamentale dei nuclei cellulari, perfetto bioplastico:
Col favor delle ostriche d'Arcachon, rivide D'Annunzio i suoi valori passati e li risuggellò nei suoi presenti bisogni: ostriche, ostriche a lui, come la Nanna dice alla Pippa, nei mirabili giuochi dell'Aretino: «Perchè costoro inghiottonsi l'ostriche senza masticarle, si pensano di far maraviglie»!
Sì che queste del mar di Francia sono medicate per Mandragola, rinverginano e fanno concepire ad un tempo: altro che allume di rocca e resina di pino ribollita insieme, astringente massimo e sindectico! L'auto educazione di Gabriele eccelle quella della Pippa; perchè egli è Talanta; solamente che colui, il quale si va pensando – cinquantenne, – rassegna il suo mandato.
***
Illustre Maestro, avete ragione: «O rinnovarsi o morire»; è uno de' vostri motti, che, col «Per non dormire», contengono e riflettono la saggezza della vostra vita e la venustà dell'opera vostra. Quando dobbiamo parlare di voi, non possiamo mai dimenticarci che: «Voi appetite alle virtù del Camaleonte e le imitate»: che: «Voi desiderate essere sempre sveglio ad ogni evento». Compiacetevi di sapere che, però, altri, avendo una pelle sola ci tiene perchè appaja sempre dello stesso colore; come, desiderando di far egregiamente le cose del dì, non si abbandoni alla neurastenia, ma dorma di notte quanto conviene per essere sano. Ma, per voi, che avete oltrepassato ogni cosa, ogni affetto, ogni passione, ogni bellezza, fanno stato le novissime trovate: «O rinnovarsi o morire; Per non dormire». Non usciamo dal compito che queste ci impongono, e diamo un'occhiata al mondo, perchè è da questa esplorazione che voi riconoscete quanto dovete fare di bellamente proficuo, oggi e domani. Bisogna dunque servirlo secondo i suoi desiderii.
I Borghesi di questo momento sono patrioti e cattolici: vogliono aspersorii e sciabole, come dieci anni sono, battevano le mani ai drami di Tolstoi, di Gorki, ed ebbero un debole per le bombe a domicilio. Lo scrittore se ne accorge, e, perchè ammette un enorme importanza alle opinioni della propria clientela, – volete lavorare ad oggetti fuori corso per quanto magnifici, ma non chiesti sul mercato? – le solletica; o, per meglio dire, le riflette. Ogni dieci anni, il canone del bello e del capolavoro letterario muta; perchè l'ideale del letterato è possibilista e determinista, si foggia su quello di coloro che lo nutrono, cioè comprano i suoi libri ed accorrono alle sue rappresentazioni. Date processioni e battaglie, sciabole insanguinate di sangue infedele e santi sacramenti in quarant'ore ed in parata.
Verso il 1890, ci si poteva accostare, senza far ridere, al popolo: il canto mistico si interzava sulla antifona: «Andiamo verso il popolo». Era un qualche cosa, questo popolo, di misterioso, di confuso, in continua formazione e ribollimenti. Avvicinandolo, vi accorgeste che era una perfetta realtà, tal quale, e ne sentiste paura; conoscendovi homo homini lupus, cercaste d'ucciderlo al primo incontro.
Male accorto! la falsa democrazia, che si screpolava sopra la ganga terrosa dell'egoismo intravisto per le fessure dal Popolo, vi fece riconoscere. Il Popolo vi scoperse: scoperse che continuavate la serie dei giuocolieri e delli impostori, che, da quaranta secoli, andavano in traccia sua per finirlo a bugie, già che non era morto tutto di fame: ed il Popolo non vi fu grato. Non volendo schiaffeggiarvi, chè una sola guanciata vi avrebbe polverizzzato, egli amò lasciarvi crescere per divertirsi di voi; vi sibilò per farvi conoscere di avervi indovinato. Da quel dì, puro esteta, abbandonaste, per le vie, le coccie vuote delle bombe inesplose, seminaste, lungo il cammino, i detonanti di Nietzsche e di Max Stirner, l'evangelio skopsa di Tolstoi, l'individualismo di Ibsen e la bussola vostra segnò: «Barrès». Il Popolo non era composto di comparse; tumultuoso, scioperava: avete mendicato, dai ministeri preposti all'ordine pubblico, cariche di cavalleria. Male accorto ancora! I libri vostri, che sono quelli dei borghesi, ebbero una vendita minore; perchè, a quei borghesi, lo sciopero generale riduceva le rendite.
Ma poco fa vedeste, dopo la massa grande, rigurgitare una densa poltiglia di Folla maldigerita, dalle fauci aperte delle catedrali; Folla de' vostri simili, femine e maschi borghesi, che si erano divertiti alle liturgie, come alle pornografie della danza del ventre, o del tango, ballata a pelle nuda nelli antri dove si fuma l'imbecillità dell'oppio e la pazzia dell'etere. Fu una illuminazione, illustre Maestro; vedeste, tra quei più rauchi, Barrès; la vostra bussola non segnava Barrès? Ed ecco il lituo abbaziale poggiarsi a palo sul tricolore: tutta l'Italia ufficiale, e Borghese, che voi servivate, furoreggiava colla novissima coccarda; e noi ridemmo all'arteriosclerosi che rimbambiva. Voi aveste la vostra filosofia, che, dal Panismo panteistico, era passata al Neo-idealismo bergsoniano; aveste il vostro critico, che vi fece il massimo cantatore italiano, nel Croce; ed il resto delli imbecilli disse di sì.
Fu in torno a questo tempo che morì, nelle coscienze professionali del giornalismo e fiscali del governo, l'Imperativo categorico di Kant. Vi aveva vissuto tanto da ajutare a produrre, da sette principati, pieni di pellagra e di ignoranza, l'Italia; ed era ben necessario, che, riunite le membra sparse in una Nazione, questa, per riconoscenza, dovesse congedare il buon senso ed il libero pensiero che l'avevano fatta grossa come si trovava. Cioè, l'Imperativo categorico si trasformò; non era morto: si necrotizzava; andava perdendo consistenza, si spappolava, dimenticava la sua origine e funzione di decapitatore dei re; si era fatto elegante, inglese, francese, italiano; aveva ancora delle arie scientifiche; usava tuttora de' libri di bio-chimica, di psico-fisiologia, di formule, di ruote di Savart, di apparecchi registratori; ma i risultati Bergson li andava annotando sulle tabelle hegeliane, e si venne alle conseguenze di non distinguere più azione da nozione, prete da fattucchiero, ciarle da verità. Benissimo: vagiva l'Imperativo cadaverico, figlio di de Maistre e di William James. – «O rinnovarsi o morire». – Tra li arredi sacri, nelle sacrestie, colle Summe, le superstizioni, il lealismo, l'aquila di Tarantasia, la croce delle croci, il triregno, il sillabo, la verginità della Immacolata, si era riconciliata la fede colla scienza, la monarchia col popolo, le arti colle fiere, il poeta con il ruffiano e il ciurmatore: Alleluiah! il Tutto era tornato nell'Uno; Buddah si era reincarnato, la Trimurti si affacciava sorridendo alla Trinità; il nero era bianco e viceversa; l'Imperativo cadaverico si era raggrumato in Dio: la transunstanzazione aveva operato un'altra volta, miracolosamente.
Illustre Maestro, voi che, naturalmente, non capite queste cose, vedendovele porte dal vostro cliente Borghese, afferraste di loro, semplicemente, la forma fisica: la metafisica – che pare sia l'anima della filosofia – volò via; vi rimase nelle mani: «1° La Bandiera tricolore, con tanto di stemma sabaudino – 2° Un piviale a doppio uso, come ordina la liturgia, davanti bianco ed oro, per le allegrezze, di dentro – la fodera – nero e argento – pei dolori – 3° Una specie di mannequin anch'esso double-face, davanti e di dietro in perfetta funzione topica, di novissimo Endimione, l'Ermafrodito di novissima ragione estetica della modernità. Necessariamente, costui doveva portare nella destra il bandierone di cui sopra, doveva vestirsi del piviale, che lo lasciava nudo davanti, ma gli copriva il deretano, come quella parte che era di lui più preziosa». – Illustre Maestro! le ostriche d'Arcachon sono aperitive!
Ecco l'Archetipo di bellezza! Enfoncé Manzoni, che ci ha troppo annoiato ed irritato lungo le pagine dei Promessi Sposi e per li Inni Sacri; via Carducci, per comprendere il quale bisogna essere stato ad ammuffire sulle panche dei licei; ma veder dentro l'invisibile, intendere l'inaudito, galvanizzarsi le cose morte, far la vita morte, risuscitare, colla smania della novità cubiste e futuriste, il medio-evo; questa, la più grande delle estetiche attuali.
La Francia, che parve stanca di pensare cose giuste e di produrre cose belle, amando riposare in una crisi muscolare, in cui lo sport prende voga, ed ha costume rinnovato l'ignoranza, colla brutalità, trovò modo di applaudire al Mostro venuto di oltr'Alpe, belluario delirante di passioni di testa e di inganno: gli diede teatri, bardasse e soldi. Per lui, la ribalta dello Châtelet fu il suo gemmato firmamento, dove spuntava la luna ed il sole nel medesimo istante, e, similmente, tramontavano in confusa féerie.
Su quelle tavole sceniche e polverose, in quel caos di telaccie guazzate e di lampade intermittenti, si foggiò l'orizzonte ultimo erotico e letterario di D'Annunzio; sorse la Rubinstein per logica degenerazione: era questa la Venere d'acqua dolce, la Figlia di Jorio, la Basiliola, l'eterno feminimo ossessionante, sconciatosi nella coda di pesce della Pisanella, che continuava la sua fatture. Oggi, si rivelava con tutti li attributi ed i vizii della complessa sessualità ermafrodita, in sul talamo della dramatica del Pescarese. Si rievocava dal suo gusto, sempre insoddisfatto, per un di più d'amare, per quello spasimo di quadruplice essenza, di sadica frigidità, quale li abusati sensi di un cinquantenne desiderano, cacciano, eccitano, dalla bavosa carezza al morso sanguinoso. Parigi, che è aperta a qualunque inversione, accettava questa abnorme bellezza di castigo e di peccato, questo San Giovanni – Bacco giovanetto, questa Ebe infibulata e fellatrice, stilitamente magra. Era fatale che un dubio San Sebastiano riassumesse tutte le femine del ciclo d'annunziano: era la nuova bellezza nevrastenica per li ossessionati della etero-mania: Asta Nielsen2 l'autenticava dal suo regno del Cinematografo; la Pisanella l'avrebbe contorta nell'agonia asfissiata e bruciata tra i fiori.
In questo punto della vita artistica e della produzione d'annunziana, fermarsi a considerare, per tutto, il San Sebastiano, come il miglior portato di un periodo di completa decadenza, è determinare la anabasi gabriellina, la completa disfatta.
D'Annunzio, da quel mimo in poi, non può più pretendere al nome di poeta, di creatore, di chi, insomma, mette tutto sè stesso, col massimo abbandono, colla massima sincerità, nella espressione di sè stesso: l'Opera. Egli non è più l'artista, ma l'arteficie; il manuale che lavora di commissione, che fabrica il mobiletto ricercato dalla moda, o dipinge quel fiorellino, con quel tal colorino, in quel tal angolo di fazzoletto, con quella speciale grazietta che ci vuole. Certo; non avrà designato padrone, ma un cliente imperioso ed anonimo: guai all'artista che si è lasciato mettere il piede addosso dalla bestia feroce e biblica che chiamasi Folla! Egli crede di dominarla, in principio, perchè ne ha li applausi. La smania di riudirli, lo farà schiavo domani. Per la Folla non vi ha che lo scudiscio: lo maneggi, il Poeta: repugneranno i proprii contemporanei da lui; i nepoti gli rizzeranno statue come a loro padre spirituale.
D'Annunzio potrà avere statue in vita, come il Cavalier Marino, che domani saranno per essere punti d'interrogazione sui trivi cittadini del mezzogiorno italiano.
In San Sebastiano, dunque, si riassume la disfatta d'annunziana, assillata dalle folgori reboanti e bombeggianti nel tricolore, del quale si ammantano le Canzoni sopra le Gesta di Oltremare; che, oltre ad essere delle pessime terzine sono anche una cattiva azione: di queste non ci occuperemo perchè compito più di politica3 che di critica; ma, coll'attardarci sulla bassezza del Mimo, avremo dimostrato la mancanza di valore estetico di tutto il resto, che, dopo la Figlia di Jorio, lo precedette e seguì.
D'Annunzio: «Alla immortalità degli eroi – che il XXVI di ottobre MCMXI – in Sciara Sciat – primi con vasto sacrificio – confermarono la conquista necessaria – tutto il popolo di Trastevere – ottimo sangue romano – consacra il suo voto – in questa sede della prodezza – che sta tra il Gianicolo – onde placata scende l'ombra – del difensore di Villa Spada – e Ripa Grande – su cui vigila l'aspettazione – d'un nuovo approdo fatale».
Gnoli: «Trecento bersaglieri – uscirono da questa caserma – il 6 ottobre 1911 – accorrenti alla guerra di Libia – ed il 26 a Sciara Sciat – avvolti da orde barbariche – combatterono fortemente – romanamente caddero – Il popolo di Trastevere – che li acclamò partenti – ne benedice e consacra la memoria – nel nome santo d'Italia».
Protesta: Ora il D'Annunzio appena apprese la notizia inesatta della proibizione della sua epigrafe che si diceva dovuta all'«approdo fatale» a Ripa Grande, mandò all'on. Gallenga, che l'aveva sollecitato a scriverla, questo telegramma:
«Leggo del divieto nei giornali. Tutte le ostriche di Arcachon ridono rumorosamente. È evidentissimo ad uno scolaretto che l'approdo non può riferirsi se non al porto di Ripa Grande. Trattasi di una allusione alla Magna Mater, significato mistico che le diedi nell'Ode a Roma della quale i trasteverini dovrebbero infliggere la lettura al proibitore. Mi meraviglio e mi dolgo del Comitato che questo consente. – Gabriele d'Annunzio».
Dal Secolo del 20 Aprile 1912.
LA REGINA DEL CINEMATOGRAFO.
Per poco che le fabbriche tedesche di films esportino in Italia, il pubblico italiano conoscerà Asta Nielsen.
Asta Nielsen è la fotografia artistica fatta movimento, è, per ciò, l'attrice del cinematografo per eccellenza. Se ce ne siano di migliori non so perchè io non sono un frequentatore appassionato dei Kino-Theaters. Non per avversione o per ragioni estetiche, ma perchè il cinematografo mi dà il mal di testa e perchè nei cinematografi tedeschi non si può fumare.
Quanto al sacro rispetto all'arte si può anche fare a meno di arrabbiarcisi; l'arte, la vera arte, piglia oggi tante pedate anche nei teatri veri che una più una meno...
Del resto Asta Nielserr è una artista nel suo genere. È veramente una artista. Io non ho mai visto una donna posare con tanta disinvoltura e qui si tratta di posare sul serio e ridere e piangere davanti a un obiettivo con tanta verità e al tempo stesso con tanta preoccupazione che la linea nella fotografia riesca artistica. Asta Nielsen ha un sesto senso. I suoi nervi prevedono la lastra e l'effetto della lastra. Ridere e piangere non è mai una difficoltà per una donna. Moltissime donne ridono e piangono a molto meno di cinquemila lire per sera, ma davanti a un uomo; e un uomo è sempre più imbecille di un obiettivo e meno osservatore della linea di una collettività.
Oltre alla euritmia dei movimenti sperò Asta Nielsen ha due tesori che la natura le ha prodigato e che essa prodiga al pubblico con incomparabile grazia: la faccia e le mani. E s'adatta al cinematografo anche in questo; che la sua bellezza, la bellezza della faccia scarna e delle mani lunghe e sottili, è ora di gran moda per il pubblico dei cinematografi, cioè per il gran pubblico, mentre per gli esteti è già vecchia di dieci anni e non va più. Che abbiano la maschera di Asta Nielsen io non conosco che tre donne: La Duse, Irma Gramatica e la Nielsen. Pensateci bene, e vedrete che è in fondo la stessa cosa. La faccia è stata magnificata in letteratura dai decadenti francesi e da Ibsen: Gabriele d'Annunzio l'ha imbellettata all'italiana scoprendo il ricordo classico: la Medusa del Museo delle Terme. È dunque per gli itallani la faccia della donna del periodo, chiamiamolo meduseo, della letteratura dannunziana. Luigi Lucatelli giorni fa notava che oggi la donna fatale deve avere gli occhi verdi. Lo assicurava discorrendo di un volume di novelle dell'Ojetti. Ed è una osservazione profonda e giustissima: la medusea è morta. E aveva gli occhi neri. Ma vive al cinematografo. La moda delle faccie femminili non si spande con tanta rapidità quanto la moda dei cappelli femminili. Ora le facce del D'Annunzio di una volta, di Bartholommè, di Bistolfi, di Balestrieri pel pubblico dei cinematografi sono l'ultima trovata.
La faccia delle meduse era dolorosa; sembrava che il destino le avesse tormentate nella morsa del dolore o della passione e che di questo tormento fosse rimasto loro qualcosa sul volto; una faccia fatta d'angoli spasmodici e d'ombre. Asta Nielsen ha, parlando con un redattore della National Zeitung, rivelato quale destino le ha impresso sulla fisonomia il suggello doloroso: la miseria. Non è molto poetico forse, ma ha l'aria d'esser vero. E serve a renderci più simpatica l'attrice.
«Volete sapere qualcosa della mia vita?, ha detto l'attrice al giornalista; è una vita semplice come quella di tutte le donne nate povere che combattono per vivere e di tutte le donne che amano l'arte: vita di miseria, d'ostinazione, di lavoro e d'amore.
«Vi meravigliate che abbia i capelli neri pure essendo nata in Danimarca? Il mistero è presto spiegato: io sono zingara di razza. Mio padre era nato nello Jutland, ma da uno zingaro boemo. Al pubblico fanno impressione i miei occhi perchè sognano sempre. Sognano perchè si sono aperti sul Baltico. E anche la mia maschera dolorosa impressiona?
«Vedete: mio padre era un operaio ed è morto lasciando tre figli senza pane. Mia madre ci ha tirato su facendo la cucitrice. Come? Imaginatelo voi. Io a quattordici anni ero in una panetteria a vendere il pane a della gente anche più affamata di me. Eppure imparavo a memoria i versi del Brand di Ibsen. È stata la lettura di Ibsen che ha deciso del mio destino. Senza i versi del Brand sarei rimasta una operaia. Così invece continuai a lavorare, ma la sera frequentavo una scuola di recitazione. A sedici anni mi feci coraggio. Senza nessuna presentazione andai a picchiare alla porta di Peter Jendorf. Era allora il più grande attore di Norvegia. Ed ebbe la bontà di ricevermi. Non avevo che gli occhi eppure Jendorf capì dagli occhi che ero una attrice. Mi fece studiare ancora, poi finalmente mi ottenne il posto di caratterista al Nuovo Teatro di Kopenhagen. Gli affari del teatro andavano male; il direttore era costretto a dare spesso delle operette e chi non aveva voce da cantare doveva accontentarsi di poca paga e di parti secondarie. In compagnia c'era Rudi Gad. Oggi è mio marito. Allora cominciava il cinematografo. Durante una pausa Rudi scrisse la traccia di un dramma di Cinematografo e le due parti principali le studiammo assieme. Poi ci presentammo a Ole Olen il Re della films che ci accolse bene anche lui e ci siamo sposati e abbiamo seguitato lui a scrivere e a recitare davanti all'obiettivo io a recitare soltanto. Tutto è andato bene. Oggi sono Asta Nielsen; milioni di uomini mi ammirano sulla tela bianca. A Pest quando sono arrivata mi aspettavano diecimila persone; alla stazione i giovanetti per farmi cosa grata avevano imparato a dire buon giorno in danese e mi applaudivano così. Ma ben ricordo quanto c'è voluto. Lo sapete ora perchè mi è rimasta la faccia dolorosa?
Poi, non vi dispiaccia di collazionare il ritratto di Asta con quello della Rubinstein – Pisanella – in versi francesi, che fan venire l'acquolina in bocca ai mille incontinenti paralitici di Parigi: oh, sporcaccioni pederasti... di femine!
(Mme Ida Rubinstein, souple, harmonieuse, mime cette scène avec un art consommé. Elle excelle à trouver les poses hiératiques qui font valoir les lignes pures de son corps).
«Regardez-moi donc ces fuseaux des jambes,
cet orteil long, ces genoux minces comme
des osselets, ces hanches
qui semblent rétrécies par l'enroulage
des bandelettes,
cette gorge renflée à peine à peine,
pas plus que les bossettes
d'argent au mors de mon cheval, ces jeunes
bras où les muscles
sont resserrés comme les feuilles neuves
dans l'enveloppe
du safran blanc qui va fleurir, ce cou
droit, cette tête étroite
qui peut entrer en l'âme
par la moindre des fentes;
regardez-moi cela,
c'est de la bonne
façon d'Egypte,
messire le Génois.
Et vous le savez bien».
Sì: anche la bellezza patisce i suoi quarto d'ora di moda; se volessi far dell'ironia, direi che la bellezza è il solo quarto d'ora di moda. Ed oggi non sorge polputa e nuda e rosea e sana dall'Oceano – era tanto facile ad Arcachon! – ma di sotto all'occhio fotografico, o di sopra la ribalta. La Rubinstein comprende assolutamente tutto colle sue gambe. Oh, Asta Nielsen, imperatrice dei Kino-Théatres, date, come sapete, la nota giusta alla vera grand'arte per il pubblico – il quale si abbandona, dimenticandosi, ad applaudire Shakespeare; – date il là della dramatica internazionale, senza musica e parole: svestitevi, oh, Asta Nielsen, oh, Rubinstein! Ma come siete magre ed isteriche ed avariate!
Non è meno proporzionata la critica francese, che soavemente canta e dà il ritmo dal Temps: udiamone un sunto giornalistico:
«La spedizione di Tripoli – scrive il Temps – permette all'Italia di conquistare una provincia e di ritrovare il suo poeta. Gabriele D'Annunzio ha celebrato in terzine vibranti, entusiastiche, in una lingua lirica e colorata, con immagini splendide, il risveglio e lo slancio della Vittoria latina verso quelle rive africane su cui un tempo si librò trionfalmente.
«A quindici giorni di intervallo, egli ha dato al Corriere della Sera due canzoni di lunga lena e di un bel soffio lirico. Dal lirismo di quelle strofe si può misurare l'emozione e la gioia bellicosa del popolo italiano. D'Annunzio non ha fatto che tradurre magnificamente i pensieri e le speranze dei suoi compatrioti, dei suoi fratelli.
«Egli ha espresso il loro sogno di conquista mediterranea in termini sonori e sfarzosi come le trombe stridenti delle coorti imperiali. Forse gli stranieri penseranno che vi è una singolare sproporzione fra il sogno e la realtà. Sembra che finora Giove Statore abbia grandinato soltanto sulla sabbia: le aquile romane non sanno dove posare il loro volo in quel deserto e non incontrano che magri allori. Ma sono queste osservazioni da straniero. L'Italia vede la guerra con altri occhi. Quando tutto un popolo comunica in uno stesso slancio, in una stessa fede, in una stessa speranza lo spettacolo impone il rispetto.
«Bisogna soprattutto considerare la spedizione di Tripoli come un simbolo e D'Annunzio non ha fatto altra cosa. Nessuno più di lui era adatto a commentarla. Egli conosce perfettamente le tradizioni e le leggende marittime del suo paese. Conosce l'ambizione di Roma, un tempo soddisfatta di regnare sul mare come sulla terra. Egli pensa che l'Italia deve riannodarsi al suo passato. Mi ricordo che un giorno D'Annunzio mi diceva: – Sono un poeta navale. La mia prima opera di poesia fu consacrata alle divinità marine. Durante la mia infanzia, trascorsa sulle rive dell'Adriatico, salivo su di un brigantino che apparteneva a mio nonno. La mia famiglia abitava presso Pescara, a Villa del Fuoco, a poca distanza da un villaggio chiamato La Madonna del Fuoco. Nel giardino della villa si incontravano qua e là delle ancore arrugginite che ricordavano le vecchie galere. Il mio amore per il mare data da quel tempo. Oggi non posso più farne senza; mi occorre il mare per pormi al lavoro.
«D'Annunzio è ora lungi dal mare natio. Chi non ricorda l'esilio volontario e clamoroso del poeta, il quale sembrava dire «ingrata patria non avrai le mie ossa»? D'Annunzio aveva scelto la Francia come terra adottiva e, come per ottenerne la cittadinanza, le aveva offerto il «Mistero» di San Sebastiano. Ma quando l'anima latina ha trasalito al fragore delle armi, il poeta non ha potuto rimanere indifferente alla emozione comune. L'ispirazione ha agitato il suo cuore in tumulto. Egli ha afferrato la lira e il suo canto ha echeggiato al di là delle Alpi. La guerra ha restituito alla madre patria uno dei suoi figli».
Il collaboratore del Temps riassume quindi ampiamente le due canzoni e a proposito della leggenda del calice contenuta nella «Canzone del Sangue» conclude dicendo:
«Come il calice, così D'Annunzio tornerà certamente nella sua patria. Egli se ne era allontanato per sempre, ma vi ritorna egualmente. È un miracolo del latin sangue gentile».
Per fortuna che ristabilisce l'equilibrio, da «La Stampa», Bergeret, allora buon anti – d'annunziano, oggi, non so, impoltronatosi a dirigere – Il Resto del Carlino bolognese, dove il nazionalismo si è abbarbicato, i preti vi si sono intrufolati a fornicare, i molti affrettati arrivisti dei diversi a spasso Sangiorgini si mettono in mostra e son tollerati senza scandalo e vergogna. Bergeret, dunque della prima maniera, non si nasconde per proclamarci:
«È l'ora delle gaffes grossolane. Tale la famosa intervista sul San Sebastiano, in cui buffonescamente si ripromise «di dare un contenuto nuovo alla santità»; tale questa canzone dei Dardanelli in cui l'Italia è aizzata contro mezza Europa, mentre ogni italiano da bene sente il dovere di raccogliersi, di vegliare e di tacere. Leggerezze miste di imprudenza e di impudenza, a ciascuna delle quali l'indelebile marchio sommarughiano riappare. Pare che D'Annunzio non sia mai solo: che il magnifico signore della Rinascenza, primogenito di Cesare Borgia e nipote di Zarathustra, conduca seco un compagno che lo ridicolizza, lo svergogna e gli rassomiglia ahimè! come un fratello. È l'escogitatore delle eleganze dannunziane così atrocemente abruzzesi; è l'inspiratore di quel discoletto cinquantenne cui pare un gesto chic di non aver pagato il sarto. È colui che trasfigura il grande poeta italiano in una specie di Gustavo il Buonalana, vitajuolo molto considerato ai tempi del romanziere Paolo De Kock. Ah! se Gabriele D'Annunzio, creatura apollinea se mai ve ne furono, rimeditasse la grande parola di Delfo: «Conosci te stesso: tu sei il poeta del gaudio orgiastico, non il poeta del casto sacrifizio alla patria. Conosci te stesso: tu sei il cantore della concezione edonistica della vita: canta i magnifici tiranni e le meravigliose prostitute e non tentare di comunicare alle folle la febbre civile che non ti ha mai riarso. Conosci te stesso: tu hai divinamente esaltato la dispersione dell'uomo nel vortice della vita animale, la regressione alla bestia, alla pianta, alla natura inanimata: perchè simulare quella superiore umanità che non possiedi? Sei Gabriele D'Annunzio: non invidiare gli allori di Mario Rapisardi. Perchè le canzoni dei Dardanelli di Mario Rapisardi, buon'anima, nella loro povertà fantastica e stilistica, avevano una virtù che manca alla tua – la sincerità».
Ed io dirò, per esaurire l'argomento in fretta: «In sui racconti, spampanati con tumida disinvoltura dalli assoldati ed improvvisati corrispondenti dei giornali di guerra italiani, ex liceisti e comediografi andati a male, poeti in fregola, gozzaniani e stiracchiati, critici falsi e sgramaticati, dico i Bevione, i Civinini, i De Maria, i Gray, i Coppola, eccetera, caterva magra, per dir bugia e per tenere ignorante il pubblico delle crudeli e feroci verità; quest'esule per debiti ricerca la materia prima del suo canto! È sulla prova e le indicazioni di questa cronaca, che distende le sue terzine, ne fa incrociare le rime; è sui manoscritti dell'ordine del giorno delli S. M. burocratici e militari, con un zinzino di censura questurina al telegrafo, ch'egli assegna, come un funzionario di poesia, medaglie poetiche al merito e le appunta sulle assise dei cari bersaglieri di Gustavo Fara, su Pietro Ari, sulle poppe di Elena di Francia, sui pettorali di Umberto Cagni, sulla Tomba di Mario Bianco. Le appunta, perchè le ha coniate con sigillo parigino, giacchè le fuse da carta gazzettiera; di fatti vi accorgete che non risplendono.
«E noi vorremmo credere, per quanto non sia vero, che magnificar gesta di sangue, per l'opportunità dell'ora che passa, per l'aumento di un orgoglio nazionalista e pretenzioso, possa anche essere officio di poeta civile ed epico: ma, davanti al meschino risultato di queste terzine plebee e gonfie di tropi ridicoli ed elefanteschi, foggiati sulle superstizioni dell'altare, del trono, delle armi, delle forche, possiamo giudicare che un'altra volta D'Annunzio si è illuso di raggiungere l'epica.
«No, egli non fu nè può essere, nè sarà mai poeta di gesta civili e nazionali, perchè manca di quella necessaria serenità e generosità per cui si riconoscono i diritti dei nemici e dei vinti. Omero canta Achille ed Ettore insieme, Ulisse e Priamo, collo stesso inesausto amore, colla stessa appassionata convinzione: qui, la grettezza morale dell'ultimo Pescarese destituisce le sue canzoni dal Poema, le consegna alla cronaca come poesie d'occasione, composte di improvviso, squattrinate davanti al pubblico ghiotto – che illudono – settimana per settimana, per la fabrica dell'appetito».