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1911.
«Per rispetto mio, perciocchè, essendo io Sua fattura e dipendendo tutto il mio presente da Lei, per la cui ufficiosa bontà mi ritrovo collocato nell'attual servigio di questa Corte, siccome dalla Sua protezione riconosco gli accrescimenti della mia fortuna; così mi sento tenuto a riconoscere le ricevute cortesie con tutti quegli ossequi di grata devozione, che possono nascere dalla mia bassezza....»
Alla Maestà Cristianissima di Maria de' Medici, Regina di Francia e di Navarra; Di Parigi, addi 30 d'Agosto 1622;
Umilissimo e devotissimo servitore
Male avvisato Giovanni Pascoli, se spacciò, alla insoddisfatta ed esigente curiosità del pubblico, i suoi Poemi italici in incidenza di un nuovo strepito d'annunziano. Il grosso rumore di tutte le plebi internazionali e giornalistiche copre il discorso sereno e lieto che la critica può scambiare a battuta con Paulo di Dono, Rossini e Tolstoi. I belli spiriti che ironeggiano piacevolmente, ma con un acre sapore d'invidia, sui casi giudiziarii di un'asta alla Capponcina e sul fervore di un subito erotto nell'arte, dall'inguine del pescare, scrivendo sull'argomento delli interi fogli illustrati di quotidiani, han trovato, a pena, due magre e sommarie colonne smilze per la nuova nota pascoliana, tanto per sbrigarsi con un mal sentito obbligo di cronaca, con una mal persuasa scrittura estemporanea.
Non sono certo io1 colui, che, per opposizione allo strepito da fiera e da bazar farneticanti da Lutezia, voglia, rimutando parere per opportunità di polemica, tesser lodi a Pascoli, mallevarne, per logica ritorsione, bellezze nell'ultima sua fatica. Troppo ci dividono le compromissioni de' nostri giudizi non sempre favorevoli al suo modo; nè converrebbe dimenticarne, oggi, li appunti e le mende per esaltarne le chiare virtù. Anche in Pascoli, a mio parere, son poche: ma se brevi, sode e sincere; ma, se di poco afflato, di sicura compostezza; ma, se di certa rispondenza pur commosse e godute intimamente nella sua camera famigliare dal poeta, scrupoloso di dir tutta la sua verità, col suo cuore ed il suo sapere. Se non raggiunse per me, le cime, sulle quali i pascoliani idolatri lo vorrebbero in posa statuaria ed imperialistica, certo, Giovanni Pascoli mi si comporta, di fronte al ciurmatore mimografo, come una ammirabile insistenza di arte e di probità, incoronata da una nobile vita di schiettezza, come uno dei maggiori e più lucidi indici di nostra letteratura contemporanea, avviato a calme avventure borghesi, ma di schiette e composte realtà.
Venga invece tutto il pum pum dalla Senna e furoreggi l'eccitazione follicolare, che non si vergogna di rendere meno caduche le parole di quel corega fescennino-giullaresco, regalandole di una più lunga durata, collo stamparle, nere, sul bianco sudicio delle loro pagine.
Fiati di voce incostante, due e massime bestemie egli ha pronunciato testè; e la valletteria, acconciatasi a riceverle in ginocchio, due e mostruose echeggiò per l'Italia. La prima, quando l'Imaginifico disse esser egli in esilio; la seconda, quando assunse a sua terra d'elezione la Francia, ripudiata la patria, donde delli onesti commercianti, dei creditori non irreverenti ma severamente giusti del loro, lo fugarono con vergognosa sua ma ben meritata esecuzione.
Esilio? Sì veramente, a credergli dal boniment, che, di sulla ribalta dello Châtelet, un istrionetto disse fuori, presentando l'autore:
«Ora, il nome
di questo operaio pellegrino,
di questo fiorentino in esilio
che balbetta la lingua d'oil:».
(oh povero e mitissimo Herelle!): e lo fece ammettere dalle labra del suo procuratore, perchè la sacrosanta parola, sulle sue, forse ancora italiane, gliele avrebbe bruciate. – Lui in esilio?! E chi gli ha tributato il diritto di sconciare l'istituto massimo della nostra eroica italiana, col pronunciarne le sillabe che lo nominano? Esilio, fuggire, come un commerciante fallito, debiti e creditori; debiti che lo inceppano e lo diminuiscono, creditori che lo braccano?
Esiliati, dal Foscolo al Mazzini, dal Santorre di Santa Rosa al Tommaseo, dal Carlo Cattaneo all'Armellini; questi, nel patrocinio sacro della ospitalità forastiera, in terre più libere, in non certa securità di persona, per operare la patria, costruirla, per fuggire forche e galere, se non pugnali di sicari, per serbarsi il corpo come il mezzo necessario ad umanare l'idea e la libertà, come la possibilità di agitare; non per concedersi quiete di spirito per vagabondaggio estetico, per venali nottate d'amore, per tentativi di rappresentazioni industrializzate, per vanità di applausi, ignoranti vanaglorie di epidermiche titillazioni, strofinamenti di adulazione, glubere isterico d'ambubaje!
Foscolo2 in giornate pessime per l'italianità, abborrendo, più che la fame, il giuramento alli austrici, richiamati a Milano da un voluto assassinio di ministro probo – sollevatasi la teppa a finirlo, per denaro di nobili e d'avvocato; – dopo d'essersi guardato dalle spie, «col farsi misurare il dosso da un sartore che l'abbellisse di un abito soldatesco alla austriaca», si avventurò, sul far della notte per Como e di là per valico pealpino nell'esilio perpetuo; «e, a mezzodì del giorno vegnente, mentre altri circondati di battaglioni Ungheri proferivano il giuramento, gli veniva fatto di toccare il confine degli Svizzeri».
Si lasciava a tergo le lercie e reddituarie congiure di un diminuito Talleyrand valtellinese, soppannato alla catedra da un abate poligrafo, dissipatore di un nome grandissimo per virtù di fratelli; fuggiva le lodi alla leggittimità delle pie gentildonne «razze bastarde di bastardi de' tirannetti Visconti e degli Sforza nati d'agricoltori in Romagna; vecchi preti e patrizi in galloria, imaginando boja, bastoni e torture; lasciava al popolo pane, preti e patibolo, tre cose santissime, in cui, però, non sta la patria».
Or vediamolo il D'Annunzio3 in esilio!
È egli colui pel quale un altro Daudet, non collaudato dai figli, possa foggiare un romanzetto d'alto garbo ironico? Non dicono i reporters d'oltralpe le umili gesta sue parigine? Non ne maravigliano i boulevardiers, più melensamente sciocchi de' borghesi di Arras, in domenicali passeggiate sotto l'olmeneta del mail! – Ricordate L'Orme du mail di Anatole France? – Là, lo spirito superficiale e ballerino, ajutato, nelle capriole, dal geniale absinth, il verde allenatore della decadenza; – là, il povero amoralismo parolajo può non maravigliarsi de' debiti sfacciati di un letterato, delle scalmane d'amore di un cinquantenne. Imbevuto di quell'aria medicata di cantaride, per eretizzare, di formalina, per conservare, anche un critico anglosassone, sperdutosi per il Quartier latino, non sente froissée la sua respectability; approva, crollando il capo con indulgenza: «Fanciullone, eterno fanciullone! E dove dovrebbe mai vivere meglio un poeta se non a Parigi, dove fa stato la prosopopea di Honoré de Balzac?» Nuovissima bestemia, questa volta, presbiterana! Esilio, dunque, magnifico esilio; Parigi è ospitale, perchè comprende «l'aroma intellettuale di ogni popolo, perchè esprime, in un pensiero, in un gesto etcc...». Confronta lettor mio, le magnifiche espressioni coi passi su citati della Apologia foscoliana; deduci; giudica. Lord Byron pure tenne altro modo; il Byron, verso cui scalpita in vano nelle Laudi il mimografo; ma quello seppe morire per quella terra di Grecia, in cui Aristippo, un suo filosofo, disse: «niuna terra mi è patria:» e Foscolo elesse, forse, in Inghilterra, la casa, perchè, come Socrate, aveva terminato per credere: «Il filosofare non è che meditazione alla morte:» per cui «ogni terra è patria».
Parigi non si adatta a riflessione; sa però che esilio significa exibetion; perchè tutti, che sian dotati di qualche performance singolare, ballerinette, cantarine, attori, cavalli da corsa, cani sapienti, foche balbettanti, poliziotti russi in veste di principesse valacche, ex-cortigiane in abito di poetesse, ed ex-monache con istrascico e decolleté di cortigiana espatriano, vanno in esilio, per logica presunzione di maggior guadagno, a Parigi; la città ventre e cervello, che ride alle grinte maravigliate e grottesche de' suoi proprii badauds, corollario essenziale al giornalismo di cui:
«L'espoir qui le domine
C'est, chez son vieux portier,
De parler de la Chine
Au badauds du quartier».
E Parigi, che non disusa la sentimentale compiacenza ironica ai pious-pious d'Auvergue, può incrostarsi di un D'Annunzio4. – Se non che ho già scoperto i più solleciti ed avvisati a dire – esempio una Rachilde, non sorda alle perversità di Monsieur Vènus, di Madame Adonis, di La Marquise de Sade, delli Hors Nature: «D'Annunzio, ah! sì D'Annunzio; colui delle eroine che muoiono per il quadruplice spasimo erotico; un qualche cosa di ermetico e di sopra naturale, come la quarta dimensione in natura, donde si impernia la pregiudiziale della teosofia e dell'animismo spiritico». Ah, sì, D'Annunzio; colui delli amori complicati; colui che vive a Parigi, suo proprio luogo topico, il cinquantenne gagliardo e massimo poeta italiano, non mai vacante d'amori e di debiti; quello che in sulle spalle parlanti porta: «Est locanda», romanissima locuzione di tutti i tempi. Ebbene, non è possibile, non bisogna negargli il gran soffio, che porta alle nubi ed alle peggiori abberrazioni, due poveri esseri, solamente colpevoli di averlo letto e di averlo creduto uno tra i più abili perversi del secolo. Quante volte non abbiamo citato Jacopo Ortis ed il Werther complici istigatori necessarii ad un suicidio e non ne abbiamo ritenuti responsabili i loro autori. Oggi, l'incesto (Forse che sì, forse che no) – l'infanticidio (L'Innocente) – la dissipazione (Il piacere) – il maquerellage e l'alphonsisme (Il Fuoco) – l'inutile crudeltà della frigida lussuria (Le Vergini delle Roccie) – l'assassinio (Più che l'amore) – non possono aver trovato la propria discriminante, perchè qui incontrano le specifiche sobbillazioni? Amiamo, dunque, d'annunzianamente: e quelle piccole feminette eleganti, le graziose piccole snobinettes colla bocca zuccherina un poco di traverso, le palpebre inquiete sulla pupilla fissa, le mani bianche agitate da un tremito leggiero e dusianesco, quasi ibseniano: «Lui, lui solo», esclamano, «lui solo sa parlare il linguaggio del cuore». Esse chiamano cuore ciò....; codeste povere piccole entravées, codeste grottesche, eleganti, paffutinelle culotte-jouponnées. – E quando l'alcova non risponde più alla lussuria si gettano in sulle pagine dei Certamina apostolica dell'Abdia, sulla Leggenda aurea del beato da Voragine5, sulli Acta Sactorum del Bollando gesuita. E proprio quando, a richiesta dell'isterismo convulsionato, che vuole il palco scenico rifatto a circo, martiri nudi, sotto forma di viragini, acerbe di povere polpe efebiche, legate al palo della tortura e della morte, membra palpitanti e di una perversa squisitezza di forme Wildiane, coperte di ferite a sangue; e proprio quando, alla danza del ventre di Salomé, può succedere il Martirio di San Sebastiano, un pretesto di canti, di suoni, di balli, di declamazioni, di quadri plastici, di animali in iscena, di trucchi, di bei dipinti e di nulla; ecco, che Gabriele D'Annunzio sente supporarglisi il gilio della sua ascetica, e spasima per confessare la sua fede cattolicissima.
In buon punto, il Cardinale Arcivescovo6 Amette, che è in fondo un gallicano e pregia più Bordalue giansenista e Pascal, di Molinos e del père Girard, sollecita ed interviene colle scomuniche. – D'Annunzio mormora, Debussy, tratto giù di strada piange; sente ghignare con sapore nietzschejano Remyde Gourmont. Io, postremo, mi sorprendo a batter le mani alla condanna dell'Indice, che involge con Leila tutta l'opera del pescarese. Forse, inconsciamente, non sa Pio X di difendere, con questo suo gesto iconoclasta, il Giudizio universale di Michelangiolo ed anche i Raggionamenti di Messer Aretino contro li attentati de' filibustieri dell'arte ultimissima italiana; ed io mi accorgo, con piacere, di passare, in questo punto, per un perfetto clericale.
Stia7 dunque l'ossessione nevropatica ed isterica di Charenton sulle tavole, della Salpetrière, in platea dello Châtelet. Il proprio attributo della tragica d'annunziana da Città morta a Fedra è d'imbestialire li eroi facendoli impazzire; fondamento la lussuria monacata e la superstizione; qui, fuse, nel corpo androgino di un Sebastiano – chi sa non sia un Adone frigio, un Bacco giovane, un San Giovanni vinciano – certo un toxota mignone dell'imperiale decadenza. Però che li uteri irritati, le prostate spostate schiumeggiano la loro impotenza ed il loro delirio, e la frigidità, risultato dell'abuso, inguaina l'eretismo, spasmodicamente.
Decadenza al di là della ribalta e sotto; quando, per sentire, occorre occupare tutti i sensi del corpo, quando il cervello non può più riepilogare la singola e perfetta sensazione di un solo genere d'arte. Occhi, orecchi olfatto, tatto, sesso in attesa della rappresentazione; non vi mancano che i piaceri della tavola. – Conobbi, un giorno, una giovane, e per allora, inocua isterica, che, potendolo, mentre pranzava, si faceva incensare, suonar arie patetiche; e, tra un boccone ed un sorso essa leggeva versi ad hoc. Io le proposi di far all'amore in quella positura, purchè avesse trovato il compagno alla partita; così tutte le bocche avrebbero mangiato a loro fame.
Signore di Parigi, godete da tutti i pori e da tutti i meati «Il San Sebastiano» in bella lezione, in lingua d'oil; non andatene fiere, non ve lo invidiamo. Quale risciaquatura dai vostri ingenui Mystères: la descrizione sentimentale di un questi l'avete pur letta ne' primi capitoli di Nôtre Dame de Paris? Obliaste?
Quanto a me, ho quì la raccolta del Teatro Italiano de' secoli XIII, XIV, e XV; dove alcune Laudi il Pianto di Maria, La Devozione del giovedì Santo, La Rappresentazione d'uno santo padre et uno monaco si alternano colle Rappresentazioni avversane e le Farse cavajole. Credete voi che D'Annunzio non sia passato di qui, e non vi abbia lasciato traccia, come al solito, facendovi, qua e là, destramente elegante, delle soluzioni di continuità?
No, signore, tenetevelo tutto, tutto per voi, signore parigine; noi ne avremo in breve la copia, la traduzione; circolano già sulle riviste illustrate ritratti al nudo di San Sebastiano, secondo il dipinto di Guido Reni, del bel figlio Gabriellino, che si apparecchia, così, a studiar la parte e far onore al papà. No, tenetevelo cuccolo delle vostre grazie, intieramente, quest'ultimo Cavalier Marino8 riparato, per debiti in Francia: quello fu già il proprio ritrovatore di La Zampogna e di La Galleria, che sono il Laus vitae per li eroi e le eroine del XVI secolo; quello, il poeta di Adone, dedicato alla sua protettrice Maria de' Medici. – Del San Sebastiano l'offerta a Lyane de Pougy, od alla Otero? Tutto per voi, questo campione d'italianità. Vedete: ho di lui questa imagine sulla retina dell'insistenza ironica. Chinò a pulirsi, col fazzoletto, le scarpine di giallo bufala appena disceso da un Pullmann imbottito e lustro, a merletti ed a specchi – wagon-lit –; eroicamente, sul quai de la gare: «Ingrata patria, non avrai le mie ossa!» Biblicamente si è scossa la polvere della terra natale dai suoi calzari; accenna e comanda ad un fiacre di accostarglisi; vi sale: «A la conquête de Paris!»
Sincrono, nei pressi di Settignano, in bella terra d'olivi e di viti toscane, un banditore vociava al maggior offerente le briciole d'arte e di turf della9 Capponcina. Un contadino cieco e barcollante per l'emozione piangeva – così han raccontato, – il vecchio e candido Malatesta nitriva, uggiolava l'ultimo superstite levriere di ricca muta di cani da caccia in corsa.
Qualche anno fa, esperimentai dunque la professione di vaticinatore, per quanto avessi diserto il verso della profezia, per più leggibile prosa di critico? – Non ve lo aveva già messo all'asta da pagina 505 a pagina 510 del famigerato Verso Libero, con Le Laudi, colla sua guardaroba, per logico contrapasso d'apoteosi? Chi ne volle? Chi ne vuole? Su, su! A quanto, a quanto? Per voi, dame ultime di Parigi? Per voi, poesia, romanzo, dramatica d'annunziana? Rappresentazioni di anima e di corpo? Oggi, si vendono les épaves di scuderia e rimessa, selle inglesi usate, un truogolo di legno per l'avena, striglie, spazzole per schiene di scozzoni e di cavalli, capezze di cuoio molle e bianco, morsi, sproni, tutta la cavalleria: a voi volete? Vizii e virtù di palafreniere e di poeta.
L'ultimo lotto: un pajolo di rame, ma non a sbalzo, nè a cesello, per la polenta; un porta bottiglie, non di ferro battuto a viticcio, non industria del XVII secolo; una cassa per l'avena, non scolpita, nè di quercia, nè di noce, abete, abete schietto e villano; un portaselle; li arnesi furono venduti ieri: totale L. 38 giuste; pagatele in moneta bozzurra italiana, a soldoni. A Parigi si scontano a vista chèques in oro, in bei marenghi rutilanti, insigniti dal gallo chichireggiante, repubblicano, francese10.
«Profondiamoci nella patria»! rispose il poeta a chi l'intervistava per conto del Corriere della Sera, – «e, più sommessamente, con un sorriso argutissimo: – … Ognuno per quel che può «s'intende», Miracolosa limitazione! – Poeti epici d'Italia ultima! tornate a tacere, non è tempo per voi. Foscolo, da cento anni, vi ha rinchiuso ne' suoi Sepolcri. Davanti a questo Carme Sacro, le carogne dei vostri feti immaturi non possono presentarsi se non col tremolio azzurreggiante dei fuochi fatui,
«Folletto,
folletto, leggiadro, leggier,
che brilli soletto su l'arduo sentier».
«Sabba romantico! Codesto libretto di melodramma vale ancora tutta l'epica modernissima erotta dal pescarese, sbadigliata dall'ex-consigliere comunale di Barga.
«Quando non si ha nulla da dire di nuovo, si ha l'obbligo del silenzio: questo fascia e profuma l'indolenza del tempo che corre e la pigrizia delli uomini sdrajati. L'Italia, che siede in poltrona monarchica e socialista, non ha per anacronismo d'arte un'epica, perchè si è dimenticato anche di possedere la lirica. Tornate tutti a sedere e lasciatevi percuotere sulle spalle».
Poi, testè mentre l'ultimo francescano stava per morire, una mia conoscenza tornò sull'argomento a chiedermene; ed io, sempre irriverente, a rispondergli. «Sta per morire Pascoli: un buon poeta che i soliti discepoli hanno ucciso prima della morte: l'ultimo dei trovatori provenzaleggianti, stirpe di Aleardi, riveduto sul Kapital di Carlo Max e sulla ignoranza contadina di Pio X. Un ottimo galantuomo, che non avrebbe dovuto appetire alla rinomea estemporanea per nascondere le sue mende artistiche: ricomposto nella storia, il tempo vaglierà l'opera sua: ne serberà due o tre liriche. – Pascoli non ha compreso il suo tempo: la sua georgica è veramente arcadica: ha insultato due volte la patria quando l'ha nominata grande proletaria, quando ha inventato il soldatino. E però li imbecilli diurnalisti, veri asini, al tatto ed al profumo, accolsero le due ingiurie gratuite come due elogi. La successione è dunque aperta ad una catedra già occupata da Carducci, ad un canonicato di lirica, che trova per sfogativo la casa editrice Zanichelli e Comp. Vi appetirà Guido Gozzano il più vero e maggiore suo lustrascarpe. Dal Gozzano al Palazzeschi, costui maggior del primo, mirate a postillare la serie dei pascoliani i ciuffetti poetici delle rape e delle carote rachitiche, che li orticoltori della malaria, della pellagra e delle menzogne retoriche han seminato per l'Italia. È necessario sconvolgere la pigrizia della patria esausta in superficie; dare alla luce del sole li strati ipogei freschi e vergini dell'humos, perchè li fecondi: è necessario rivoluzionare catastroficamente, perchè la gangrena si arresti e pel domani sia assicurata più nobile e grande vita all'uomo, alla società, all'arte».
Così, oggi, mando il tutto alla grande sorella Mariù del grande estinto, perchè mi saetti contro, con elegante isterismo, mentre continua a mandar a male la fama del suo amatissimo, col ricercarne utili inediti, per arricchirne il poverissimo e disgraziato volume: Poesie Varie, postume. Io desidererei vedermela armata di altre citazioni latine scaraventarmi contro il suo disprezzo, essendo del parere completo del buon Gesuita che sulla Unità Cattolica credette più tosto essere severo contro Pascoli, che traditore della letteratura italiana: e con lui ripeto: «Il povero Pascoli era già inoltrato sulla china di una deplorabilissima decadenza, una specie di vero e proprio rimbambimento letterario, sia per le malattie che lo affliggevano, sia per la mania dello sdilinquersi per ogni nonnulla, sia per la intensificazione morbosa dei suoi sogni fanciulleschi di pace universale e di umana fratellanza evanescente. Forse la morte l'ha salvato dall'ultimo precipizio, dalla Totale caricatura di sè stesso».
Mariù può rispondermi: «Peccato che la morte non abbia salvato Lei da un così basso e gesuitico sfogo», senza aggiungere il distico noto:
«O vos, qui cum Jesus itis,
ne eatis cum jesuitis».
Ma ella deve convincersi come il maggior nemico della fama del proprio fratello si trovi nel suo eccesso di zelo, che, coll'insistere e magnificare, muta i diritti e simpatici connotati del poeta di Barga in una grottesca figura tra il frate zoccolante, l'umanitarista parolajo, il maestrino di scuola, il postulante alle grazie sabaudine. Essa fa troppo, oggi, per lui, e, come le altre vedove o figlie superstiti che fanno niente, continua a ridurre la misura pascoliana in piccolo. Giovanni Pascoli ha meritato meglio di questa erede: esso si fa tuttora vedere quel poeta originale che disse altre e migliori parole sull'uomo ed il sentimento umano, quali Giosuè Carducci, ed il D'Annunzio, non seppero; e perciò solo, come voce semplice di universalità, risponderà in noi con perenne simpatia, sì che tra i molti corsi a laudarlo, richiesto Massimo Gorki operaio da operai ad insemprarlo, lo attestò spontanea efficenza di popolo, perchè solo il popolo è la poesia e la immortalità. Sono anch'io con lui, dopo di essermi trovato bene in compagnia del Gesuita: mirabili compiacenze della contradittorietà! – Vede, signorina Mariù, ci sono dunque ancora, ed anche in Italia, dei coraggiosi spregiudicati che non hanno paura di andar contro-corrente, per quanto questa, volgendo a mare, dia alla ruota il movimento che macina grano di letteratura per palanche al commercio della medesima. Ma in questi bassi tempi tristi e turbolenti l'eccedere nel biasimo è una virtù. E dove virtù ritrovo spiego senz'altro.
Fra Enotrio Ladenarda, che non ha potuto sopportare il suggello mirifico carducciano, torna a ridere in faccia al Pascoli. Non importa ch'egli appaja un furioso; è bene ch'egli sia qualche volta ingiusto; ma, demolendo tutto, ha reso possibile vagliare anche il tutto a staccio di maglie sottili e critiche. Poco vi passerà oltre di lucid'oro: sarà quel tanto necessario per attestar Giovanni Pascoli maggiore di D'Annunzio, non per vederlo intento, colle sue proprie mani, guidate da feminili criterii, a distruggere il buono colla congerie del pessimo lodato. Sì, signorina Mariù, è bene che si leggano: «Le Prefazioni di Giovannino, con un buon condimento di Feticisti Giovannini»: Palermo, Pedone Lauriel 1913. Chi sa che non le serva meglio del Gesuita, di me stesso, e dell'oscuro mormorio che già susurra un basta, tra la mortificazione, la vergogna e la paura di compromettersi: «Basta, poesie e prose, e quant'altro mai di simili postuma. Rispettatelo, rispettatevi»!
«L'Italia è stata troppo spietata col suo maggior poeta vivente, facendogli scontare amaramente il suo vivere disordinato. Eppure coloro, che hanno negato al Poeta moderno ogni valore per colpa della sua vita privata, sono forse gli stessi che ammirano ed esaltano il Foscolo, nostante la sua vita privata. E codeste due vite sono così somiglianti fra loro! Ma i contemporanei non sanno distinguere l'artista dall'uomo; perciò Gabriele D'Annunzio forse ha fatto bene a scomparire per un po' di tempo dalla società italiana».
La sua ignoranza non gli dà nè meno la coscienza della sua vergogna. Foscolo, che ha troppo amato, ha troppo soferto; la calunnia lo perseguitò perchè espressa dalla invidia, e, fuggendo Milano, non riparò all'estero a cercar pace dai creditori, ma a salvare la sua italianità dalla vigliaccheria che tutti aveva preso, dal Monti al Manzoni, e dentro cui prosperò anche il Confalonieri, sinchè la delusa ambizione non lo fece cospiratore. Se Foscolo fosse ritornato, non lo avrebbero aspettato le carte bollate delli uscieri per liti civili, si bene il canape, il maggior onore che l'Austria riserbava alli Italiani, la maggiore attestazione della loro gloriosa generosità. E però quel Gazzettiere, che può magnificare in sulle aure delli anniversarii i martiri di Belfiore, ciò scordando di Foscolo, borbotta con bocca indegna la calunnia e si riconfigge un'altra volta nella sua presuntuosa imbecillità.
«Ho seguito questo figlio di Francia nel suo folle volo al di sopra dell'umanità con un interesse più tenero che ansioso, perchè ero certo del suo trionfo e sicuro della sua conquista. In fondo all'animo mio, lo consideravo più come uno strumento della razza e della vittoria, che come un individuo lanciantesi solo in battaglia contro le cose ostili. Mi sono compiaciuto di figurarmelo, questo meraviglioso latino, un Mercurio dai piedi alati, che, senza dubbio, un giorno andrà a cercare sulla cima del Puy de Dôme le rovine del suo tempio, come un simbolo, un'espressione, la freccia lanciata alla vetta, come l'arma stessa della mirabile conquista.
«Nella mia immaginazione, non era più un francese, bensì il francese, non più un latino, ma il latino, non più un uomo, ma l'uomo; l'uomo signore dell'universo, signore delle cose create, in atto di compiere un sogno meraviglioso, di soggiogare finalmente l'infinito, incatenandolo alle sue ali spiegate al sole. La sua personalità, la sua valentia, il suo eroismo, erano scomparsi: fuori dei limiti segnati dal regolamento particolare, era uscita la meravigliosa avventura, e, di fronte al mio cervello, tutto l'orizzonte si era allargato, oltrepassando i vecchi limiti del mondo, conquistando il cielo e il tempo. E la mia fiducia in lui, nella sua piccola persona di eroe sorridente, era fatta della mia fiducia nell'uomo, nella creatura umana nata per la dominazione e la sovranità e della mia fiducia nella fatalità della vittoria.
«Il suo trionfo, e attraverso il suo quello dell'umanità, erano il compimento d'un destino, la materializzazione fatale del fanatismo che da Leonardo da Vinci a Clement Ader aveva acceso quella magnifica febbre di libertà nel sangue degli uomini.
«È oltremodo dolce alla mia anima latina pensare che il dono mirabile viene dato all'umanità dalle mani della Francia, dalle mani della grande seminatrice che ebbe gli occhi chiari e chiare le idee per aver vista Minerva dal Campidoglio, della grande signora delle opere, che dopo aver conservato le tradizioni romane, consolidando le sue strade terrestri, le più belle del mondo, apre oggi infaticabilmente le altre strade ove non rimane alcun solco se non quello della gloria. Come sempre, la Francia immortale sembra abbia una specie di debito ideale verso il mondo. Sembra dover nutrire, nel silenzio, le generazioni di uomini taciturni e forti, che essa trae dal suo fecondo terreno, simile alla vigna ed all'ulivo, magri ed attorcigliati come in uno sforzo di dolore, donde nascono il grappolo dell'ebbrezza e il frutto palladico che è nutrimento e vita. Perchè lo spirito di iniziativa e di perfezione è donato dal destino delle razze. E oggi, come sempre, ella ha pagato il suo debito, ha aperte sull'umanità le sue mani colme di doni e ha indicato al mondo le vie nuove e la nuova luce. Guardate per un istante indietro: risalite passo a passo il letto ove questo immenso fiume di desiderio della più grande delle libertà ha fluito fino alla vittoria, fino alla realtà presente».
Il che non gli toglie, guardando indietro, di badare anche ai piè leggieri, cavriolanti della rinnovatrice della moderna orchestride, ad Isadora Duncan: questa, che aveva preso in affitto alcuni locali del palazzo Biron, un'aristocratica dimora settecentesca, ostello di sovrani in visita e tournée parigina, circondata dal suo corpo di ballo, danzò in compagnia, davanti l'imaginifico ed a pochissimi privilegiati, con atteggiamenti impeccabili, a piè nudi, le academie più caratteristiche e seducenti della sua arte. – Ad intermezzo, con Paul Margueritte ed un Rosny, si diletta di scoprire, nel Golfo di Guascogna, La Coppa d'Argento, una costa quasi sconosciuta, come un dì la Sardegna, inquieto ventenne. – E continuano feste, balli, luminarie a Parigi: si commuove per lui anche l'Università delli Annali, l'istituto mondano per eccellenza, fondato da Ivonne Sarcey; si rimena per lui la diplomatica Polenta; si continua a parlare di quanto farà, per applaudire quanto ha già fatto. – Di modo ch'egli è divenuto il necessario condimento d'ogni riunione dove Paris s'amuse; magot di caminiera, portapenne di studio; mannequin d'atélier; e rientra nella grande letteratura per la porta di servizio. E subito l'ex signora Mendés lo appunta, con uno spillone il suo enorme cappello piumato, in serie entomologica tra i suoi altri insetti rari; e se, con sottigliezza tagliente, ci rievoca una sua visita vespertina e D'Annunzio, la sua originale preziosità lo cataloga maliziosamente:
«L'aspetto del poeta mi fa pensare a certe immagini di San Marco e al realismo impressionante di certi Donatello: la bocca alquanto dolorosa pare quella di un martire quali solevano dipingerli i Primitivi. D'Annunzio parla il francese in modo perfetto: perfino troppo bene. Le sue parole sono troppo giuste, troppo belle. Possono esprimere, in modo meraviglioso, esaltare sentimenti e situazioni eccezionali, sintetizzare una impressione, una opinione: ma sembrano meno adatte alla disinvoltura del linguaggio famigliare. – Intanto, tutti sanno che D'Annunzio è terribilmente inesatto. Dicono anzi che si compiaccia a farlo apposta, che eccella nell'arte di lasciarsi desiderare, di eccitare la curiosità parigina di cui consente a rimanere un giocattolo, ma un giocattolo difficile e capriccioso. Ed ecco l'aneddoto. Due giovani signore che hanno entrambe un salotto di una certa reputazione vollero per rivalità dare un tè in suo onore, lo stesso giorno, alla stessa ora, perchè egli fosse costretto a scegliere. L'una e l'altra studiavano meraviglie, promettevano sorprese inaudite, e quale compagnia! Vi dovevano essere tutta l'accademia, tutto il gran mondo, tutti i direttori dei grandi giornali, tutti i ricchissimi finanzieri, tutti sdoppiati per la circostanza.
«Il poeta annuiva, ringraziava, con un cenno, nascondendo sotto le palpebre socchiuse, la malizia dello sguardo, stringendo le labbra su parole rare. E non andò nè all'uno nè all'altro tè, ma i passeggiatori del Bosco di Boulogne poterono incontrarlo in quel giorno al fianco di una radiosa bellezza a cui narrava certamente delle storie che avevano il pregio inestimabile di essere per lei sola, mentre altri personaggi importanti attendevano con una impazienza alquanto ridicola, la presenza, fosse pur muta del poeta alla moda». – Finchè la frase solita sprizzò, intorno alla tazza di tè, dalla poetessa: – «Avete mai amato. qualcuno? – chiede ella a D'Annunzio. – «Forse»!... L'Imaginifico allora per sfuggire le tentazioni mondane per quanto continui battendosi il petto, a protestarsi: «Homo sum»! imbuca a Ville d'Avray. Là confida a Pietro Croci, mentre infuria la bufera intorno alla Capponcina e gli appare satanica, a torto, tra le nuvole ed i lampi, la buona faccia di Mecenate deluso del Del Guzzo colono insistente «che l'Ombra del grande Balzac deve fremere d'invidia per lui, in purgatorio; già che egli, D'Annunzio, ha assunto fin dalla nascita le inclinazioni ed i gusti di un principe del Rinascimento giammai fuor d'amore e fuor di debiti. Per ciò egli nè si adonta, nè si lamenta, se contro il suo nome tutte le cloache italiche le massime e le minime gorgogliano e ribollono; se egli è ripudiato, disconosciuto, vituperato d'ogni vituperio. Che gli importa»? Ed il poeta può esagerare anche nel raccontar i presunti abbominii contro di lui; già che è nel suo temperamento il comediare. – Indi, fiorisce la primavera; le piante si infiorano; Arcachon le Moulleau sur les sables lo attrae. Spiaggia d'eleganze mondane; cottages e chalets: egli abita uno chalet, nella corte del quale flâne un écuyer à culotte rouge: nelle stalle due cavalli alla box. Vi sono Maître d'hotel, segretario un giovane signore elegantissimo. Le Moulleau sfoggia arena gialla ed olivi, ciuffi di pini sull'alto della duna, tamerici resistenti; di fronte, l'Atlantico del largo respiro a profittare ai polmoni del poeta. Il poeta? Sì; ad Arcachon tutti lo conoscono: è le jeune poëte italien; la sua calvizie, che è una civetteria, non ha ingannato nessuno; è il sempre giovane, l'eterno giovane, asciutto, adolescentulo; voga sull'onde snello e fiero dentro il guscio leggiero, colle procellarie; egli è libero, attivo, lieto. L'Italia? L'Italia, oh, sì... macaroni. Se ne ricorderà più tardi, per battere tamburo e suonar trombette nazionaliste, per far l'agente provocatore allo sterminio di tutti che non sieno italiani e... francesi: oggi! Oggi; lasciamo al poeta la divina libertà anche di non riconoscersi più italiano. In questa guisa, egli può passar la state e tonificarsi, per poter cantare l'impresa libica: per allora, si avvicendava, colle costumanze della Capponcina, al lavoro. Ce ne dice l'orario ed il programma il Matin:
«Nel pomeriggio, legge e scrive ai suoi amici. Legge molto, tutto quanto si pubblica, dicono, poichè ha una memoria stupefacente e perchè è preso di mira da ogni pubblicazione. Percorre poi la campagna a cavallo, va a sognare sotto i pini e corre sulla sabbia della spiaggia, e poi ritorna per pranzare. Ha giornalmente dei convitati che vengono da Houssefort, ove sono in villeggiatura Paolo Margueritte, J. H. Rosny, o da Biarritz.
«Alle 22 si mette al lavoro, e, senza interruzione, scrive fino all'alba. Appena il sole compare sull'orizzonte, lo scrittore depone la penna e va a vedere l'aurora; poi, soddisfatto d'aver compiuto il suo lavoro notturno, va a coricarsi».
Al punto un redattore dell'Excelsior sarà più poetico e più commosso; ed a lui D'Annunzio meno reticente: intonerà l'inno:
«Ora, a questa campagna, di cui canterò un giorno il fascino avvincente, chiedo il beneficio di un'aria purissima, la facilità delle lunghe passeggiate, e le chiedo anche di allontanare da un'anima rimasta pronta ai desideri, le tentazioni delle città, a cui non so resistere. Fra poco riprenderò l'Accetta, dramma terribile, che ho già abbozzato e la cui parte principale sarà affidata all'ingegno sottile della signora Simona; ma, prima di tutto, devo dare gli ultimi tocchi al Martirio di San Sebastiano. Ogni giorno prendo un bagno di misticismo. Ho letto tutta l'opera di San Francesco di Sales e leggo dei vecchi rituali. Il lavoro mi soggioga, mi toglie il sonno».
«Infatti – osserva il giornalista – quasi ogni notte fino alle 5 del mattino, si può vedere il lume acceso alle finestre dello studio di D'Annunzio, ove si svolge una lotta continua dello spirito creatore contro i demoni ribelli. – E da questa conversazione mi è rimasto, tra l'altro, una lezione di disciplina e di energia. Una sera, il poeta, in una specie di slancio lirico, esclamava innanzi a me: «Ho della volontà». Tutto in lui, intorno a lui rivela un potere di volontà mirabile, ed in ciò senza alcun dubbio risiede uno dei segreti del suo genio. Cosicchè, d'ora innanzi, quando mi si chiederà che cosa fa D'Annunzio nel suo lontano eremo, risponderò: «Lavora».
Or dunque, ripieno di tanto vento, gonfiato da tanto fumo, battezza, per sua terra d'elezione, la Francia; per irriverenti, i creditori italiani: ribatte al reporter di Coemedia: «Son tormentato da un eterno bisogno di avventure: la mia fecondità mi sgomenta. Le disgrazie, l'esilio sono necessari e fecondi; sopra tutto l'esilio che rifà le anime. Sì; o rinnovarsi o morire! Ho trovato tale rinnovamento in una provincia di Francia, tenera e raccolta, tra pini e dune, dai profili armoniosi e discreti che mi ricorda le mie care campagne di Pisa. È una villa presso Arcachon nella pineta presso il mare. Vi tornerò a cercare il riposo. I contadini delle lange mi sono propizii e hanno per me una viva simpatia e quando passo nella foresta mi dicono: «È l'italiano, con un grande I». Sono i miei compagni.
«Ma in Italia? In Italia! I principii democratici hanno ritardato l'influenza delle intelligenze elette ed io non potrei esservi compreso che fra tre quarti di secolo: è la Francia, è Parigi che riserba un posto distinto alla aristocrazia imperitura, quello dello spirito». – Ah, razza di ballerino! Perchè dunque spillar spiccioli alla piccionaja dei democratici italiani colle tue pantomime, e cantar Garibaldi alle Università popolari, e passar da destra a sinistra nella Camera, e fare il Girellino, ed il leccapiattino, ed il ruffianello anche per questa folla scamiciata che ti diede da vivere per qualche anno, quando le sifilidi incoronate non ne vollero più sapere? Ah, razza di... Talanta, che si fa mantenere e poi calunnia la pratica che gli concede, ai vizii, regali fomenti e contenti? Ah, razza.., sì, razza di... niente!
«. . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
e ascoltarono il grave Giacomo Fazio beato
strologare il futuro, confonder, colla sua carità,
intime dissenzioni, fratricide rivolte e feudali pretese di crudeltà».
«Il martirio di S. Sebastiano si presenta come un insulto sanguinoso, non solo alla coscienza morale, ma a quanto vi è di più delicato nella coscienza religiosa. È tempo oramai che si scuota il giogo obbrobrioso. Basta: fuori il barbaro! Fuori dal bel cielo italiano, dalla patria di Dante e Manzoni! Sappiamo bene che molti, prescindendo dalla questione morale quasi non fosse disgiunta dall'estetica, non osano negare al D'Annunzio una grande quantità di pregi affatto estrinseci, quali la lingua tersa, sapientemente scultoria, il fascino di una musicalità singolare, la padronanza degli inesauribili tesori della nostra lingua, la capacità di creare nuove forme artistiche, il genio classico di modellare una favella e tutte le sontuosità più recondite del pensiero. Ma osiamo negargli, e ne abbiamo il diritto, che, in nome di questa discutibile superiorità, e abusando di queste doti, si vilipenda la nostra coscienza di italiani e di cattolici, si corrompa quanto vi ha di santo anche nella nostra gioventù, si ricopra di fango quanto vi ha di più sacro nel nostro sentimento religioso».
E concludeva, esortando le pie signore a boicottare inesorabilmente la nuova opera, disertando i teatri in cui sarebbe stata esposta:
«La donna italiana deve iniziare la crociata e l'opera sua altamente civile e religiosa; domina, il nobilissimo nome che le ha dato il cristianesimo, domina vuol dire signora, padrona. A lei appartiene il comando, imporsi all'uomo in questa delicata impresa, ella, che è stata troppo avvilita, calpestata, infangata nella nefasta opera dannunziana e menata a ludibrio presso tutte le genti nelle molteplici traduzioni. Basta! È tempo di finirla! Boicottaggio ci vuole, boicottaggio in tutti i modi! Astensione dall'assistere alle rappresentazioni dell'opera del D'Annunzio, astensione dal comperare non che dal leggere la sua opera, astensione dal leggere i suoi pregi estrinseci, astensione da quanto può contribuire, anche indirettamente, alla diffusione del pestifero veleno. Nessuna donna italiana assista a questa degradazione morale, camuffata di misticismo; e si vergogni, e esca col marchio della pubblica riprovazione, colei, se pure vi sarà, che oserà intervenirvi».
Sì che subito concorse la Sacra Congregazione al suo dovere; e, con decreto dell'8 maggio, alla vigilia della prima rappresentazione, si annunciò: «Si proibisce ai fedeli la lettura delle seguenti opere:
«Gabriele d'Annunzio: tutte le opere drammatiche: le Prose scelte, edite a Milano; tutti i romanzi e le novelle.
«P. A. S.: «Catechismo di Storia Sacra», Cremona 1910.
«Antonio Fogazzaro: «Leila», romanzo, Milano 1911.
«Giovanni Corrado Zenner: «I salmi secondo il testo originale», pubblicati per cura di Ermanno Wiesemann, Parte I, Munster 1906.
«Malachia Ormanian: «L'Eglise Arménienne, son histoire, sa doctrine, son regime, sa discipline, sa liturgie, son present»; Paris 1910.
Con mio sommo piacere; chè vidi appajato, sulla medesima pagina delle proscrizioni i due maggior nemici della letteratura italiana – (Vedi di su La Ragione del 4 dicembre 1910 – L'ultimo scampolo del Fogazzaro). I quali, concorrendo da opposti principii, giungevano alla medesima meta; quella, cioè, di deviarla dalla sua ragion d'essere e di imprimerle un andamento ed una forma tali da essere considerati, non svolgimento secondo i principii, ma pericolosissime malattie; che, se non saranno vinte col ferro e col fuoco, l'uccideranno, e con anemia e con iperemia, in fine, con una serie di trabalzi e squilibri, più presto, che non lo si creda. – Nel caso, il buon arcivescovo parigino Amette si trovò obbligato alla nota, che i giornalisti subito pubblicarono:
«Un teatro di Parigi annuncia dieci recite di un dramma intitolato: «Il martirio di San Sebastiano», mistero in 5 atti di Gabriele D'Annunzio, e ne invia, il programma agli stessi membri del clero. L'arcivescovo di Parigi ricorda, in tale occasione, che durante l'ultimo Congresso diocesano venne raccomandato vivamente ai cattolici di astenersi dalle rappresentazioni teatrali offensive per le coscienze cristiane. Tale raccomandazione si applica al dramma in questione, che deve mettere in scena e sfigurare, nelle circostanze più sconvenienti, la storia di uno dei suoi più gloriosi martiri».
L'ordine arcivescovile minacciava di mandare a male un'impresa commerciale, che sembrava anche d'arte, L'Action Française, di cui il massimo compare era il Barrès, quel tale a cui lo stesso D'Annunzio doveva poi dedicare il Martirio, con kake-walk irochese, strepitava di gioia contro il trio Rubinstein – D'Annunzio – Astruck dello Châtelet, cioè contro il trio della ballerina ebrea, del burattino italiano e dell'impresario giudeo. D'Annunzio e Debussy dovevano opporsi all'incidenza congregazionista. Per Bacco! La protesta della chiesa veniva troppo tardi; oltre che tardiva, era sleale: per la rappresentazione del mimo si erano già fatte tutte le spese necessarie, 350 mila franchi, sopportate da Ida Rubinstein; che, per aver il capriccio di danzare nuda e magra in faccia ai Parigini, poteva anche far da mecenatessa ed accaparrarsi a nolo, per tanto o per poco, anche l'anima, col resto, del burattino italiano. I provvedimenti del Cardinale Amette erano contro i soldi e la qualità di ebrea della Rubinstein, o contro la mancata ortodossia del San Sebastiano? Comunque li autori protestarono:
«Monsignore Arcivescevo di Parigi, in seguito a cattive indicazioni, ha biasimato, nel suo recente decreto, un'opera ancora sconosciuta di due artisti, che, con lunghi anni di lavoro, hanno per lo meno dimostrato la loro aspirazione costante verso le forme più severe dell'arte. Senza staccarci dal rispetto, che la nota arcivescovile non ci accorda, noi esprimiamo il nostro rammarico per questo trattamento singolare che non abbiamo meritato. E noi affermiamo – sulla nostra fede e sulla fede di tutti coloro che conoscono il Martirio di S. Sebastiano – che quest'opera profondamente religiosa è la glorificazione lirica non solo dell'atleta mirabile del Cristo ma di tutto l'eroismo cristiano»
Addio speranza di creditori, riaccesasi da rosea in rossa fiamma e riposta nella nuovissima agiografia danzata, con molta compunzione, dalla dispensiera ebreina: Pio X si era imbestialito, secondo il «Guerino»:
Catina. Gnente manco che adesso el mete in scena San Sebastian.
Catina. (scandalizzata). Chi? San Sebastian?
Pio X (facendosi il segno della croce). Mai no, sia. Me intendo el D'Annunzio.
Catina. Ah! digo ben! E par che sto San Sebastian el vegna fora nudo, co i peti fora...
Catina. Sì, perchè xe una squinzia ebrea che fa el San Bastian!
Pio X. Fiol de una bona dona, el me fa deventar femena San Bastian!
Catina. Manco mal che par che sta dona la sia magra. Cussì el scandalo xe più piccolo».
Disgrazia! Proprio quando D'Annunzio diventava un santo; proprio quando, grida il danneggiato: «il mio spirito si volge verso il cristianesimo, quando, cioè, stava realizzando il sogno accarezzato per molto tempo di esprimere tutta la mia fede, mi si vieta il San Sebastiano»! Proprio quando il poeta pensava ad una nuova teoria della santità e ne scriveva in proposito all'amico suo, ex-herveista, ex-sindacalista, ex-socialista, oggi, imperialista nazionale, domani... fors'anche cattolico, – perchè è cosa piacevole mutar opinioni come i panciotti, quando in fondo il Governo salaria i giorni perchè si impieghino ad insegnare, o no alli alunni; – proprio quando D'Annunzio si effondeva con Paolo Orano:
«Grazie del saluto, grazie dell'augurio. Come potrei dimenticarvi? Sono solo e amo la mia solitudine; ma penso con dolcezza che ho qualche fratello fedele pel mondo. Vi manderò il mio poema. Ebbi gioia nel creare: non ne aspetto altra. Il lavoro scenico, in questi giorni, è un orrendo supplizio. La vittoria non mi rallegrerà. Voi che foste sempre vicino al mio spirito, sapete quanto io sia «lontano»; tanto lontano che comincio a sentirmi santo.
«Bisognerà creare una teoria nuova della santità, e manifestarla con una finzione. Ci penso.
«Spero che ci rivedremo, in terra d'esilio o in patria. Mandatemi qualche vostra prosa acerba e irta. Che fate? A quale impresa date la vostra ardente forza?
«Io ho le mie finestre su un vecchio parco regale che si copre di fogliette «pur mo' nate». Addio.
Per Giove! Come si era sbassato il cervello d'annunziano dalle non lontane Laudi, in cui aveva bestemiato Cristo, al San Sebastiano, in cui si faceva asceta! Si vede che Nietzsche, il grande distruttore, non operava più, gli si era allontanato; Zarathustra non gli gridava più all'orecchio: «I santi, questi calunniatori della Natura, che imbevano di sputi sanguigni e cospargono, coi fiori purolenti delle stigmate isteriche, la razza umana, avvilendola colle immonde e vergognose rinuncie all'orgoglio, al coraggio ed alla dignità»! Enfoncé Nietzsche al contatto del tranquillo e reddituario pragmatismo americano, tornato in Sorbona a traverso William James. – Non per nulla, ai tanti di Maggio 1911, il pagano lussurioso si trovava in sulla stessa pagina dell'Indice romano, coll'idealissimo, isterico, insessuato Fogazzaro; il quale può lasciar scritto nelle Ultime: «Ma come l'uomo giungendo le mani sente in sè un principio di preghiera, e, stringendo i pugni, un principio di collera, così lo stato di pace, anche se mantenuto da ragioni egoistiche, viene determinando nella umanità un sentimento pacifico di ordine superiore»! Viva li Americani del Nord, gente che appare: altro che prima l'essere poi il parere carducciano: ma che! Comedianti ci vogliono: e chi affetta di farsi vedere in coro, e chi al lupanare staranno allo stesso scopo. – Povero dimenticato Fogazzaro: dimenticato senza speranza di rinascita, come i suoi versi giovanili, ch'egli avrebbe voluto fossero bruciati, più tosto dall'Indice, al quale, mormorò humiliter se subiecit: quale grinta la sua nel trovarsi costa a costa con D'Annunzio. Convien ricordare: «Di D'Annunzio, maestro, che pensa»? «Ah, magnifiche parole! E che fatica»!... – «Cioè?...» – «Sì; è il solo che crei veramente. Noi altri studiamo i cuori, copiamo quel che ci par di vedere; lui trae tutto dalla sua propria fantasia»... Maestro tutto, proprio tutto? E non un pochino anche, con sopportazione, dai libri delli altri? Oh, bene appajati all'Indice romano! Per concludere, ecco la sentenza inappellabile del distributore delle glorie letterarie attuali ed autentiche sul caso; Benedetto Croce ita locutus est, pag. 266 di La Critica, Anno XI, 20 luglio 1911; dopo di cui si fa silenzio: «Gli articoli scritti a proposito del Martyre de St. Sébastien, e le cose scritte o dette dal D'A. in questa occasione, accennano, tra l'altro, a una conversione «teatrale» di lui verso il cattolicesimo. La quale suscita tre osservazioni: 1°) che era cosa prevedibile e l'avevo messa tra le possibilità io stesso, in Critica, II, 90, al tempo in cui il D'A. vituperava la Madonna addolorata; 2°) che, naturalmente, non è da prendere sul serio; e 3°) che l'atteggiamento di alcuni cattolici, o pseudocattolici, i quali guardano ora al D'A. come al capo di una rinascita cattolica italiana, viene a confermare ciò che abbiamo detto più volte intorno a certi legami intimi tra il dannunzianesimo e il modernismo, cioè intorno a due fenomeni malsani degli anni ultimi». Bisogna però domandare al filosofo napoletano, se, in tal misura, gli è pur antipatico il crocianesimo.
Il Galtier dell'Excelsior: «Io non credo che il San Sebastiano aggiunga molto alla gloria letteraria di Gabriele D'Annunzio. Il poeta si è abbandonato alla sua potenza lirica ed alla foga; si è lasciato trascinare dal suo soggetto. Ma lo sforzo e la tenacia latina appaiono più della misura e dell'armonia attica. – Ci sono delle bellissime imagini nel Martirio di San Sebastiano, che è veramente una composizione opulenta da maestro vetraio, lussuosa sino all'eccesso. – La Rubinstein è specialissima ed incanta al solo guardarla. Essa ha dato a San Sebastiano un marchio di efebo inquietante, accentuato dalla sua plastica, dalle sue gambe nervose e delicate, dal suo busto quasi virile».
Nortière dell'Intransigeant: «Il maggior difetto del Mistero consiste nel fatto che esso non ha sempre interessato il pubblico, è parso lungo e qualche volta oscuro».
Il Critico del Galois: «Dopo la rappresentazione, i più scettici sono costretti ad inchinarsi e a riconoscere quanto fosse ben motivata la interdizione dell'arcivescovo di Parigi. Noi vogliamo credere che il dramma non sia un attentato alla fede religiosa, poichè gli autori lo hanno dichiarato, ma l'abbiano essi voluto o no, vi è una specie di inevitabile sacrilegio che colpisce per forza la coscienza cristiana.
«La signora Ida Rubinstein recita con una voce rauca e gestisce con poca arte. La messa in scena è delle più interessanti, gli scenari sono interessantissimi, e la parte musicale è superba».
Il Critico del Figaro: «Che dire di questo spettacolo? Il giudizio sulla musica e sul poema non spetta a me. Io me ne rallegro del resto, perchè mi vengono i brividi al solo pensiero di poter essere incaricato di fare la critica di questo enorme sforzo musicale e letterario. Io mi accontenterei di riconoscere l'interesse eccezionale che presenta la messa in scena».
Il Critico del Petit Parisien: «Lo stile di D'Annunzio è così abbondante, così colorito, così immaginoso quanto il suo spirito italiano. Egli maneggia la lingua d'«oil» come la lingua del «sì», Si noterà una prodigalità di erudizione non troppo comune: D'Annunzio ha letto ed appreso non solo i misteri del Medio Evo ma anche i libri che trattano delle origini del cristianesimo senza parlare delle opere sulla magia e sulle religioni orientali. D'Annunzio ha una fortissima memoria: ne risulta anche una specie di ingombro nei particolari che non può non stancare gli uditori non avvertiti, e ve ne sono molti. Un pubblico che non comprenda finisce per annoiarsi: fortunatamente la musica scenica composta da Claudio Debussy lo risveglia dal suo assopimento».
Il Critico del Journal: «Questo mistero non è ingenuo, e come mai Gabriele D'Annunzio che ha le altre grazie potrebbe pretendere alla grazia ingenua della scuola e del collegiale? Lodiamo senza misura e senza riserve l'artista e il suo genio che si espande e sovrabbonda, che passa da immagine a metafora.
«È un caos che risente di tutte le credenze, di tutte le empietà e le tentazioni di Sant'Antonio da Flaubert con l'aggravante di una voluttà costante e solitaria. È l'uomo di Dio e il figlio unico nel suo impenetrabile e spaventoso orgoglio».
Il Critico del Times si abbassa di più toni e trova note meno acute nel registro, dove si incomincia a ragionar meglio: «In genere» egli scrive, «è prezioso e tedioso. Il San Sebastiano ci mostra il D'Annunzio ad un tempo nei suoi aspetti migliori e peggiori. Lo splendore della frase e dell'immagine, a cui le sue opere, in italiano, ci avevano abituato, è qui assente: anzi il suo francese suona spesso come puerile traduzione di mediocri versi italiani. Dal punto di vista drammatico il primo atto... colpisce l'immaginazione degli spettatori: ma dopo questo il poeta cade in una tediosità e verbosità insopportabili... Nel terzo atto specialmente si insinua un elemento morbido e disgustoso che è tanto più pericoloso in quanto è velato dal linguaggio dell'esaltazione estetico-religiosa...»
Il Critico del Berliner Tageblatt riduce di assai le lodi ed anche queste vengono a coincidere con un più modesto e più equo riconoscimento dell'opera:
«Nella mescolanza di poesia, pittura, musica, arte teatrale, estasi religiosa sta l'originalità di questo tentativo. Disgraziatamente le ripetizioni, le lungaggini, le simboliche oscurità impediscono ogni entusiasmo. Quando cominciamo a sentirci rapiti dobbiamo ridere. È un mosaico, una cosa degna di essere vista per la sua singolarità, ma un martirio non solo per San Sebastiano, anche per lo spettatore».
Finchè Max Nordau, per quanto ebreo, è, dalla Vossiche Zeitung, San Giovanni Boccadoro: «Non è poesia nè arte, è una enorme corbellatura in cinque atti. Niente azione. Sebastiano non fa che declamare e muore di una morte terribilmente parolaja. Non puoi farti un'idea della vuota gonfiezza di quest'opera se non l'hai udita. Ugualmente nulla-dicente è la musica di Debussy. Le decorazioni sono straordinariamente ricche e pittoresche; invece i costumi sono arlecchineschi; copiano le miniature dei manoscritti medievali; il loro effetto è più grottesco che bello; tutta l'opera non ha che lo scopo di creare una parte parlata per la ballerina Rubinstein».
Sia lode alle gambe ed alle dita dei piedi della corifea quasi milionaria, se, anche su di un treatro di Parigi, si pregò Dio coi sudetti, per quanto l'Indice romano ed il Cardinale Amette non lo permettessero. – Ma quanto meglio importò fu il successo di cassetta e di brachetta: «La ressa dei visitatori dei sollecitatori di dediche e di autografi, degli amici, dei giornalisti, delle ammiratrici non fu mai così accanita intorno a Gabriele D'Annunzio, come a Parigi, durante le recite del San Sebastiano. Il salotto del poeta, nell'albergo dove alloggiavamo, pareva un ambulatorio. Era sempre pieno di gente, dalla mattina alla sera, e ogni due minuti il servo annunziava una nuova persona. Fin nei brevi ritagli di tempo, ne' quali si mutava d'abiti, D'Annunzio aveva alle costole una decina di spettatori. In quindici giorni, non riescii a scambiare qualche parola con lui se non durante il tragitto dall'albergo alla stazione, quando partii. Allora finalmente potetti chiedergli: «Come stai?» E perchè in quelle interminabili visite lo avevo udito parlar sempre – mentre gli altri non facevano che ascoltare – e parlar di tutto, e non mai dar segno d'impazienza e non mai smettere quella sua aria di sorridente affabilità, gli chiesi: «Ma come puoi fare ad essere così cortese con tutti, in tutte le ore?»
Egli mi rispose: «La più bella vittoria è quella che si ottiene sopra sè stessi. Bisogna saper dominare i propri nervi» Gàbriellino, Op. cit. (pag. 993 Lettura).
«Ed anche il figlio ebbe la sua parte, come già a Roma al tempo avventuroso del trionfo navale, quando: «ogni giorno la posta gli recava lettere ardenti di donne, che spingevano il loro fervore per la sua arte sino a fissargli dei convegni». Talvolta mostrandomi uno di quei dolci e lusinghieri inviti, egli mi diceva in tono scherzoso: «Se vuoi andarci tu....». E a furia di sentirmi ripetere lo scherzo, un bel giorno feci sul serio; ci andai....
Sicchè la sostituzione di un cinquantenne in un gagliardo giovanotto doveva essere molto accetta dalle partenaires; le quali si raccomandavano alla buona ventura in sulla speranza dell'orgoglio soddisfatto, mentre alcun che di meglio e di più reale soddisfacevano al punto col sostituire il figliolo al papà. – Con questa esistenza sovracarica di lavoro e di emozioni, di trionfi d'ogni genere e specie, notturni e diurni, come non sentirsi affaticato? Ed una lettera parigina del tempo all'Italie romana, «rilevando come immensa fosse la folla davanti al teatro Châtelet, per la prova generale del San Sebastiano (una folla di ministri, d'artisti, diplomatici, scrittori, critici, giornalisti), spiega come il solo che mancasse sia stato... Gabriele D'Annunzio. Il grande scrittore estremamente affaticato, avendo vegliato parecchie notti di seguito. Nel recarsi al teatro s'era fermato lungo la via nella piccola sala d'un tea-room per prendere una tazza di the, che avrebbe dovuto rinvigorirgli i nervi depressi. Ma, dopo la mezzanotte, i suoi amici lo scoprirono dopo averlo inutilmente cercato per tutta la serata. D'Annunzio non fece allora che informarsi sorridendo del risultato ottenuto dalla propria opera e corse tosto a riprendere il sonno nella propria stanza d'albergo».
Anche la leggenda, anzi, solo la leggenda in questa vita di eccezionale istrionismo deve avere la sua parte. Altrove, pur Manzoni l'ammetteva: non incomincia un capitolo de' suoi Promessi Sposi: «Narra l'istoria che il principe di Condè» ecc....? Già: il grande capitano aveva dormito placidamente alla vigilia della battaglia di Lacroix, sopra un cassone di artiglieria, ed, il dì dopo, vittoria! Tal quale Gabriele D'Annunzio.
«Il Creator di
nulla fece il tutto,
Costui, del tutto, un nulla, e, in conclusione,
L'un fece il mondo e l'altro l'ha distrutto;»
scriveva il Marini e brigava presso il Duca alla sua perdita.
Il Duca, grosso amorale ipocrita, come ogni Savoia, ci si divertiva:
«Murtola mio,
sì come il Duca vostro
È il più eccellente principe del mondo,
Così, voi siete il maggior mappamondo
Che imbratti carta e che strapazzi inchiostro».
La Corte di Torino aveva trovato gratis un buffone di maggior conio e rideva; sì che, come a buffone, di motu proprio il principe lo fece cavaliere di que' santi cattolici cavalieri che hanno per istatuto difender Cristo e la fede, mentre il Marino, al dir del Murtola:
«Con offender
ognor chi non ti nuoce,
Oltre a Cristo assassini anche la Croce».
Per intanto, una croce braveggiava pompeggiando sul giustacuore al poeta: e, tra La Murtoleide, fischiata dal Marini – e Le Marineide, risate del Murtola, si venne a un colpo di pistola che l'ultimo sparò al primo. Imprigionato quello, questi gli ottiene la grazia; ma la delazione dell'altro, che avendo trovato un poema giovanile del Marini, La Cuccagna, aveva fatto persuaso il sospettoso Duca come in alcune sue ottave satiriche lo ponesse in ridicolo, ricondusse Marini in vincoli. Potè uscirne dimesso: e si rifugiò in Francia, donde incominciò la sua prosperità. Di là poteva far sapere «che, essendo questi anni passati in gran conflitto di Fortuna, da gagliarda persecuzione di nemici combattuto, la cui malignità non cessava con fiere calunnie di darmi duri ed infaticabili assalti;.... aveva potuto, con l'armi dell'innocenza e della virtù, onorevolmente superare l'avversità, ritiratosi dalla guerra, non nella patria, ma nella Real Casa di Francia». Codesto vanaglorioso non era capace di vivere in libertà; i suoi bisogni gli facevano eleggere servitù una dopo l'altra, chè mecenatismo di principi non può significare che esser loro valletto. – Da Parigi strombettò il marinismo, tono letterario e politico dell'epoca. Napoli, sua patria, – non si può concepire un Marini non Napolitano; ci sarebbe possibile comprendere un D'Annunzio non Pescarese? – lo accolse nel 1624 come in trionfo; tra li altri onori gli decretò pubblica statua: e però morì il 25 marzo 1625. – Una specie di assonanza morale consuonami dentro nel rammentare la vita e le opere del Cavalier Marino, mentre scorro per l'opera e la vita di Gabriele D'Annunzio.
Nel 1911, i cronisti avrebbero potuto risparmiarsi la noia del sopra luogo e la fatica del processo verbale dell'asta, se avessero saputo esumare la prosa di colui che maledisse, fin dalla primissima giovinezza, la nera sorte, che, dandogli le inclinazioni e i gusti di un principe del rinascimento, dimenticò di provveder li denari a chi fu giammai fuor d'amore e di debiti. Per la qual cosa egli non vuol dormire. Ma veniamo a noi.
Durò parecchi giorni lo spoglio colla vendita all'incanto dei mobili, nella villa. Si dettagliò commercialmente il bric-à-brac di una camera verde: in un'urna di vetro, si offrirono due piccolissimi piedi mummificati feminili: si schiodarono dal muro quadri, d'autori, veri e falsi: la sala della corona sorpassò il prodotto di 22.500 lire: nicchie, madonnine di legno, insegne di ferro battuto, balaustrate, cuscini di raso e riccio. – Per non dormire – vasi, vasetti, torciere, candellieri, tappeti di fantasia e quasi orientali, per l'oriental fantasia dell'imaginifico: calamai, scaldini, ancora angioli e santi nel refettorio conventuale; seggiole, seggioloni: ed il banditore: «Presto, presto, signori, le offerte... Cenni chiari, signore. Ne vuole ancora, là, in fondo?... Si delibera; si vende;.... è aggiudicato!» Commerciale e burocratica schiettezza di eloquio! – Era venuta una folla sotto la pioggia: la fiera della poesia e dell'istrionismo italiano era gridata dall'alto da un gonfalone che guidava al mercato: vi si erano rovesciate signore e signori delle ville tra Fiesole, Settignano, Firenze; circondavano il palco della grida e del venditore, Vergini sedute, Vergini col bambino; Vergini in tabernacoli, Pietà, tutta l'iconografia del cattolicismo, come si addice al buon gusto di un poeta moderno e pagano: tutto il paganesimo della cristianità. – Poi, nei dì successivi, sotto l'afa, i commenti, le dispute, la gara, le chiacchiere, nella penombra di quelle camere, dove si soffocava, con alle finestre vetri antichi colorati e dipinti, donde, a stento riesciva la luce, con, dentro, l'ingombro delle reliquie senza voce di un passato, muffito, tarlato anemico, ed insieme adiposo e lussurioso, inutile e sfarzoso, come lo stile e l'arte del padrone in esilio.
E si udiva mormorare: «– Sarà bella, ma ci morrei soffocato. – Quella statua è di Michelangelo. – Sì, sì, ma di gesso. – Questo vaso, sapete, gliel'ho regalato io. Eravamo tanto amici. – I ferri battuti sono le cose più belle. – Andiamo nella camera da letto. – C'è troppa gente: tutti vogliono andare a vedere la camera da letto. – Le cose più belle sono i vetri. – Hai veduto la raccolta delle chiavi? – Mamma, le camere da letto sono due. – Hai visto quanti ceri? – Li accendeva tutti quando lavorava. – Sarà stata una bella spesa. Tutta cera vergine. – Non esagerare. – Ma lui dove scriveva? – Qui; ce l'ho veduto io. – No, di sopra, in piccionaia. Me l'ha detto a me. – Povero D'Annunzio, ci fa tanto pena. – Non lo dica: per lui è una liberazione. – Eppure il Governo doveva intervenire. – Ma sì, vedrà Giolitti pagherà tutto lui».
Già, infelicissimo poeta moderno! E Luigi Ambrosini notava in sui Casi del giorno: I debiti del Poeta, dalle colonne del Secolo, giustamente: «Se Gabriele D'Annunzio fosse vissuto ai tempi del tanto esecrato Nerone, questa rapina non sarebbe certo avvenuta. L'imperatore avrebbe pagato per lui. Nerone era uomo da fare questo e ben altro. Perchè Nerone aveva ben altrimenti del signore Del Guzzo, il senso rispettoso dell'arte e del fasto, della ricchezza in mezzo alla quale è degno che i poeti vivano e godano. Non sono forse essi che accrescono la ricchezza del mondo? È giusto, è umano che essi paghino i propri debiti come gli altri vili mortali? Che cosa è mai il denaro per un poeta? Una fonte di ispirazione. Disseccare loro questa fonte è una crudeltà, un delitto. Come si vede, i tempi si vanno facendo sempre più tristi. Il concetto dell'arte decade. Il letterato italiano cominciava appena adesso a mutare abiti e costumi; buttava via, come cenci sconvenienti alla sua dignità i vecchi vestiti rattoppati, che mostravano la corda, entrava in società, come un gran signore elegante ed opulento; nossignore, lo si vuol ricacciare indietro, lo si infastidisce col presentargli le note, si pretende che le saldi, e si giunge perfino a pignorargli gli oggetti più cari».
No; per una volta tanto, il governo italiano non sapeva che farne delli stracci di Pindo e di Parnaso, di cui ha zeppe biblioteche e musei; di questa nostra ricchezza faceva interessata la società cosmopolita, perchè ciascuno straniero di ciascuna lingua si portasse in patria cimelio e specimen un pizzico di roba d'annunziana, generosamente non applicando l'editto Pacca alla emigrazione di questi e simili capolavori del genere. – Sin che si venne all'incanto di due cornici senza dipinto dentro,... come si erano già venduti assai quadri senza cornice. Le due cornici! Ultime épaves di una naufraga tournée; eran venute da lungi, ed avevano sopportato la prova del Fuoco: portavano al mercato i numeri 628, 629: erano dichiarate piene delle imagini che ora vacavano: importante ritratto a pastello eseguito da Lembach, firmato: un pastello, ritratto di signora.
Quale estremo scrupolo aveva sollevato dal più ignobile sacrificio anche la effigie della carissima un dì, che assai si era sacrificata per l'aumento dell'arte tragica d'annunziana? Era il mercante che si era sentito commuovere del ricordo? Mercante, chi? Il Poeta o il Mecenate? – Il Poeta, oggi, lamenterà, nel cruschevole proemio che precede la seconda e recente edizione del Cola di Rienzo: «Or dov'è –, or a chi serve e a quale uso, quella semplice e massiccia tavola francescana trovata nel refettorio d'un monastero perugino? E quella gentile scrivania, anche monacale, ad uso di scrivere in piedi, che pareva fatta alla mia statura...? Quivi tutta in piedi ardentemente fu scritta la Laus Vitae, con una lena ininterrotta, mentre su l'altra tavola era disteso il ròtolo che recava la figurazione della Sistina... E là io composi L'Otre, con sì fermo polso; e là, con mano sì casta, le sette ballate del Fanciullo, e l'ode Lungo l'Affrico, e quel trasparente Ulivo, e quella fresca Sera fiesolana cinta tre volte col salce come «il fien che odora». Non fenderà un giorno e non renderà sangue o succhio, quel mio buon legname, se tenuto è schiavo da qualche giudio? E per quante crazie venduto fu dai miei scorticatori quel busto del Machiavelli dinanzi a cui avevo posto per offerta il più difficile dei miei freni...?» Qual cuor, matrigna Italia, ricusare le tue ricchezze governative al riscatto ed al dono delle suppellettili del poeta, dell'Illustre Maestro! Egli non te la perdonerà più. Ogni qual volta scriverà in patria ad amici e parenti, la sua lingua batterà sul suo dente che gli duole; egli, che aspettava il Re all'asta della Capponcina, ed una pensione vita natural durante; egli, che sta per regalare la Canzone dei Dardanelli all'odio contro la Triplice, soavemente inspirata dal buon sole di Francia! Così si sfoga:
«la tua lettera mi aumenta la tristezza. Ho telegrafato a mammà e attendo con ansia le notizie.....
«... Ora il governo di quella Italia, che ha lasciato vendere la mia casa fra tanto ignobile gazzarra e che lascerà disperdere i miei libri, pone la sporca mano poliziesca a profanare il poema da me consacrato alla Patria!
«Con un sequestro preventivo illegale, sono soppresse nella Canzone dei Dardanelli le terzine che ti accludo............................ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Come invidio i semplici soldati sepolti nella sabbia! Non si risveglieranno per vedere un'Italia che, in risposta alla Canzone dei Dardanelli, dà una grande battaglia navale nelle acque di... Cagliari!
«Ti dò la facoltà di divulgare con tutti i mezzi, nel tuo cerchio, Le terzine incriminate e magari di farle pubblicare nei giornaletti locali. Già molti italiani le sanno a memoria....»
Poi si ricorda della madre adorata, del padre cui rivolge un pensiero mesto, della sua gente, della Patria bella e così si esprime:
«Voglio ritornare in Italia nel marzo prossimo. Voglio ritrovarmi nelle braccia della mia mamma pel giorno della mia festa. Ma non credo che potrò tornare definitivamente ancora . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Raccomando alla mamma di non agitarsi, di non inquietarsi. Non so che darei per renderla tranquilla e fiduciosa.
«Qui c'è una pineta di duecento chilometri, e i pini sono appunto i marittimi, quelli di Pescara; ma questa immensa selva non vale il ciuffo sconvolto su l'Adriatico verde.
«Chi sa! Forse il nostro sogno si avvererà. Forse nella pineta avrò la mia ultima casa e alla foce la mia tomba nuda.
«Ricordami agli amici. Ricordami a Luigino, del quale spesso ripeto, col suo accento: «Me so' rotte li.....!», Ricordami a tutti.
«Nadina che fa? Non è fidanzata ancora con un principe di leggenda? E le violiniste? Ernestina dimagra?
«A rivederci, mio caro e sempre buono e generoso Antonino. Di' per me alla mamma tutte le cose più tenere e più consolanti. Proprio ieri correggevo le bozze della traduzione francese di consolazione, che uscirà tra giorni in un volume con altre poesie, Ancor qualche cosa...
«Il tuo Gabriele».
24-12-1912».
Decisamente, il mecenatismo è morto con Leon X e Ludovico il Moro tra noi: a rinnovarne le tradizioni, nè meno il tenace colono latino si sentiva capace. Anzi costui ne aveva già date le dimissioni col libretto delle disavventure passate nel voler superare il discendente delli antichi re autoctoni latini, col: «Pignus ac Monumentum amoris» di Gabriele D'Annunzio al «Tenace colono latino» Giovanni del Guzzo. Aquila. Unione Arti Grafiche.
– Povero Del Guzzo; egli credeva che codesto fosse un mestier redditizio come l'allevamento delle pecore nelle estancias argentine: povero D'Annunzio; egli credeva che il mecenatismo maschile fosse più abbondante di quello feminile; e per ciò non si intesero. Indi il primo a stampar nella prima pagina del suo Pignus: «La menzogna, l'ingratitudine e l'ingiustizia umana mi han fatto scrivere questo libro:» – l'altro a gridare: «O, Mecenate! che spreco si fa del tuo nome». – Ma il volume va sfogliato; le incisioni che lo ornano sono specialissime; vi son riprodotte, in nitide stampe, tutte le cambiali, le lettere e le ricevute del poeta; vi leggiamo di questi passi: parla D'Annunzio: «Da questo momento in avanti, ora che le nostre anime sono vincolate dal sacro nodo dell'amicizia, deve scomparire qualsiasi etichetta e bugiarderia sociale, e dobbiamo abruzzesemente darci del tu. Questo è il primo pegno dell'affetto. – Ciò detto, si alzò, avviandosi verso alcuni bauli ch'erano dentro la stanza. Ne aprì uno, ne tolse un libro, e lo richiuse. Indi s'incamminò verso me, si riassise alla sua sedia, sollevò la copertina del volume che aveva in mano, e poi si mise a scrivere. Terminate queste operazioni, col libro aperto nella mano destra e la copertina sollevata dal pollice, me lo porse, dicendo: Giovanni, tieni questo libro, tu lo serberai a testimonianza di chi non dimenticherà mai il tuo beneficio. (Il del Guzzo si era offerto a pagare i debiti finanziari del Poeta). Presi il libro, con la curiosità vivissima di vedere quello che il Poeta vi aveva scritto:
«Al Messia invocato e sopraggiunto – a Giovanni del Guzzo, con osanna – Forse che sì forse che no – Gabriele D'Annunzio – Bologna, 10 marzo 1910»
– Gli si era infatti presentato la prima volta con molta sorpresa del colono in foggia bizzarra: «lo trovai ravvolto in un ampio mantello alla fratesca di color tabacchino, con le maniche alla giapponese, scollato fino al petto, e con una coda formidabile; io non so ridirlo. Lo strano arnese che gli vidi indosso, gli dava un aspetto bizzarro ed originale, tanto che poco n'andò che io non scoppiassi in una di quelle sonore e solenni risate che sono insite nel mio temperamento. Feci uno sforzo su me stesso e mi trattenni. Però, la mia fantasia al cospetto di quella figura grottesca, ammantata in sì ambiguo modo, correva lontana, lontana....».
L'avventura era dunque ambiguamente galante? Si partì per un viaggio di nozze e cassetta, parmi. Il Colono accompagnò il Poeta come un officionado ed un barnum: «Oggi partiamo per Genova, passando, per Milano. Quindi preparati, chè da qui a poco si parte.
«Intanto farò comunicare questa mia decisione anche al mio impresario, che non è stato ancora avvertito, e così partiremo subito.
«Mi dispiace doverti dire che sono senza un soldo e non voglio chieder nulla a questo mio signor impresario, perchè ti pregherei di darmi un po' di danaro per pagare l'albergo. Con te non faccio mistero di niente, quindi è inutile infliggerti delle scuse per questa mia intempestiva ed improvvisa richiesta di denaro.
« – Non è il caso di fare complimenti. Quanto ti occorre?
« – Dammi un migliaio di lire.
« – Bene, eccotele. Ne vuoi ancora?
« – No, Grazie!».
D'allora in poi s'incontrarono con creditori e creditrici; in ogni casa, in ogni negozio, D'Annunzio aveva un debito: da qui incomincia una comedia dall'intreccio largo, dalla scena chiara, dalle situazioni precise. – I due trascorrono per una mista folla fantasmagorica, per monti e per mari dove si imbattono nelle persone più disparate e pur della medesima società: avvocati, giornalisti, albergatori, letterati, demi-mondaines, banchieri, uomini illustri per motti, e, quindi non si sa per qual motivo; ed ecco cambiali e cambiali senza denaro, ed epistolografia varia dispettosa e piacente e carte da bollo timbrate e l'elegante prosa del divo; e progetti d'automobile, ed una tournée mancata per l'Argentina, ed il patriottardismo squattrinante e San Sebastiano, ed un cavadenti e lo strazio di Malatesta bianco venduto, e l'asta della Capponcina e l'amen di D'Annunzio a conchiudere da Versailles: «Si vede proprio che Dio non vuole!» Non vuole che cosa? L'avventura è dunque ambiguamente galante? È necessario trovar un Petronio perchè ne racconti anche l'insuccesso? No: Giovanni Del Guzzo o Giovanni Fabbisogno non è guidato dalla malevolenza, tutt'altro! Ma, o Mecenate, dove sei tu? Grideremo in coro come nell'Aida a Radamés invisibile. Risponde Luigi Ambrosini: «Mi par di vedere nel Limbo la tua ombra che freme di sdegno, di nausea, di orrore. Tu eri ben degno di proteggere Gabriele. Ma questi uomini moderni non intendono ragione. Il secoletto vile mercanteggia perfino colle Muse». E Mecenate ha fatto fallimento, perchè il Mercante trionfa. –. Nella bega tra il codice e la poesia si approfittò l'Inno al Sole; se ne sovviene Giovanni Rabizzani: «Gabriele D'Annunzio, da quell'uomo fine che è, ha pensato, che tra le note legali del padre, e le note poetiche del figlio, (Eugenio Coselschi) le seconde erano più inocue e poteva accettarle, tanto più che le avrebbero pagate i lettori;» op. cit. pag. 128. Si che, senz'altro, prefatò l'Inno coi quattro periodi che quitanzarono, colla soddisfatta gloriola letteraria del rampollo, anche la curiale specifica del genitore: l'avv. Coselschi è un ottimo papà, ed un forbito gentiluomo.
«Fortuna che Gian Pietro Lucini è tutt'altro che clericale. Altrimentri l'avreste sentita la valletteria a gridare all'oscurantismo, alla profanazione dell'arte, al sacrilegio artistica. Ma, meno male che in Italia vi sono ancora persone che stimano l'Imaginifico per quello che realmente vale, per quello che veramente è».
Sì, colleghi arcivescovili; tutte le volte che voi verrete a battaglia per la nobiltà e la sacrosanta e pura azione dell'arte italiana manomessa dai ciarlatani, dalli impostori e dai venali da tutti quelli che un dì Foscolo od ora io chiamiamo uomini falsi, vani e codardi e pur letterati, voi mi troverete pur sotto altra bandiera ai vostri fianchi; chè l'arte sanamente intesa, come una missione ed un vaticinio, è la sola morale universa, è l'assoluto cattolicismo latino.