Giordano Bruno Cavagna
La soluzione kantiana del problema epistemologico fondamentale

Introduzione

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Introduzione

 

Parlare di un evento che si è dato nel passato significa sempre fare della storia; ma la proposizione rimarrebbe una tautologia, se quel parlare non fosse suscettibile di vari atteggiamenti e di vari fini i quali  finiscono tutti per essere altrettante determinazioni e definizioni della storia. Pare oggi che due soli atteggiamenti e due soli fini siano accettabili fra i tanti e possano chiamarsi storia. Per gli uni si guarda al passato nel desiderio e con l’intento  di sostituire al termine generico di trascorso, di non presente, un complesso di dati ricercati col costante sforzo che il conosciuto adegui il reale e insieme rapportati da una trama che sia ricostruzione la più completa della struttura e della dinamica: la storia sarebbe un presente nel pensiero e per il pensiero; per gli altri il passato va osservato come qualcosa di determinato da un punto di vista generale, ossia come un oggetto la cui struttura e dinamica  in generale sono già date dal pensiero: per sua costante uniforme e immutabile avrebbe che il volgere del tempo sia o perenne germinare di nuovo, una creatività inesausta, una specie di processo per contingenza nel quale il successivo non ritrova o ritrova solo parzialmente i propri fattori nell’antecedente, oppure ancora novità che si genera da novità, ma in funzione di un certo rapporto col precedente, rapporto che è sempre di superamento, di arricchimento qualitativo, abbia o no la nota della contraddittorietà. Storia, quindi, sarebbe contemplazione o indagine in funzione di una concezione di progresso, determinato oppur no da un limite invalicabile. Ma nella mia esperienza particolare si è dato un fatto che spontaneamente si è prodotto nel mio intimo e di cui ho voluto tener conto: lo studio di Kant, affrontato per esigenze non sentite, dapprima l’ho vissuto come semplice rievocazione di un evento trascorso, poi ha suscitato in me delle posizioni polemiche, perché la lettura di un passo mi imponeva concetti e interpretazioni in contraddizione o con altri concetti e interpretazioni che ritraevo da un’altra pagina dello stesso autore oppure con quei concetti e interpretazioni che dovevo pur accettare dalla mia stessa esperienza, dalla conoscenza che avevo di me come pensiero pensante; infine, la discussione interiore mi ha portato lentamente ad   il problema kantiano, il problema della esistenza di una conoscenza  che sia scienza, a sentirlo e meditarlo come problema attuale e, di conseguenza, a commisurare la soluzione di Kant col problema stesso per vedere se in che modo e fin dove essa risolveva e annullava il problema. Una successiva esperienza mi rivelò che quel che mi era capitato non era un’eccezione nella vita della specie cui appartengo: avendo cercato di capire il pensiero di Platone e di scendere al disotto delle tramandate raffigurazioni schematiche, la lettura progressiva - 12 -dei dialoghi mi fece sentire all’improvviso che duemila anni prima di Kant un’altra mente umana si era trovata alle prese con lo stesso identico problema e per lo stesso identico problema aveva cercato una soluzione. Non riuscivo a garantire a me stesso con assoluta sicurezza che fosse stata la lettura di Platone a provocare in Kant una reazione di ripudio alla soluzione e un reimporsi del problema; potevo però esser certo che uno stesso problema formulato negli stessi termini era stato vissuto in  modo identico, in almeno tre differenti momenti di tempo, almeno da tre diverse  menti, da Platone, da Kant e da me. Questa intuizione o, se si vuole, questo contatto immediato con un dato di esperienza, mi fece apparire il passato come qualcosa che non era da contemplare perché si conservava ancora nel mio presente e si era ancora conservato in un altro presente come un vissuto e non come un rivissuto, e che neppure era da incasellare in una certa tappa del progredire umano, perché non potevo certo parlare di progresso quando di fronte mi trovavo una stasi o, piuttosto, una permanenza immutata; decisi allora di prendere quel passato come qualcosa da capire per ricavarne luci ed aiuti per il presente. L’«Historia magistra vitae» non mi pareva più una specie di empietà sacrilega, quando a quel «magistra» avessi tolto la funzione esaustiva dell’onniscienza e ne avessi limitato la portata a un ruolo negativo, facendone, tanto per intenderci, una specie di demonio alla Socrate.

         Pensai allora che non fosse tempo sprecato riprendere Kant, non come un fatto da miniare in una descrizione o da incasellare in un divenire, ma come un pensiero da vagliare per accettarlo o respingerlo: da questo vidi che qualcosa di utile potevo ricavare, se non altro il rigetto dell’impostazione del problema nel caso che la soluzione fosse risultata insoddisfacente e determinata da certe premesse entro cui il problema era stato inquadrato a forza; vidi che un altro vantaggio ancora potevo ricavare, e precisamente la ricerca e la fissazione dei critici [criteri] di metodo che Kant, e forse anche Platone, avevano seguito nella soluzione del problema; e questi criteri mi apparvero  non tanto un metodo valido per quel problema, bensì un metodo generico che il pensiero adotta sempre in certe situazioni. La lettura di Kant, quindi, era diventata per me un presente, non perché la mia mente lo faceva rivivere, ma perché la mia ragione ne ritraeva dati nozioni strumenti di utilità attuale. Il confronto tra Kant e Platone poi mi confermava non già una presunta identità di soluzioni, bensì una identità di impostazioni, di premesse, di metodo, di canoni da usare, i quali quindi, se validi di una validità ricorrente, dovevano pure celare un aspetto di interesse e di usufrutto permanenti. Perciò mi son deciso ad indagare sotto questo aspetto Kant, tralasciando quei rapporti che lo legano al suo tempo e che ne fanno un ente cronologicamente determinato e mettendo  in rilievo piuttosto il significato e il valore della sua soluzione nei confronti di quello stesso problema che ancor oggi, almeno in me, si .

         Se con questo agire ho infranto le leggi che regolano lo studio della storia, a mia giustificazione dirò che non ho inteso fare della storia, in quanto riattuazione del quadro completo di una fase o in quanto presa di - 13 -coscienza del gradino di una scala che ascende al cielo o che si ripiega su se stessa; ho voluto soltanto sottolineare il rapporto tra un problema, quello del giudizio universale e necessario, e i tentativi di una sua soluzione, problema e tentativi che credo siano destinati a vivere di vita molto lunga nel presente sia di una mente che pensi sia di una mente che descriva.

         Platone giunge a impostare il problema del Menone, se sia possibile una scienza in quanto scienzai, muovendo sia dalla situazione generale della somma di conoscenza acquisita dal pensiero grecoii, sia dalle condizioni particolari in cui l’intellettualità a lui contemporanea era venuta a trovarsiiii. La questione prima che Platone affronta la potremmo chiamare la questione del diritto di una scuola ad essere, attribuendo a scuola la nozione affetto [affatto] greca di tutti i procedimenti e mezzi che donano all’uomo la funzione in atto della virtù: una scuola ha il diritto di essere se l’ente intorno a cui operano la sua metodica e la sua didattica, la virtù, può porsi come oggetto di una didattica in generale; è il problema dell’insegnabilità della virtù. La questione, sempre esistita in quanto essenziale ad una civiltà come quella greca, ai tempi di Platone si era fatta più acuta per vari motivi: le necessità contingenti la ponevano sotto il segno dell’urgenza scottante; un intero corpo di nuovi professionisti, i sofisti, sbandieravano la prerogativa di possedere l’arte per eccellenza dell’insegnamento della virtù; la stessa metodica socratica con la sua identificazione di virtù e di sapere, mentre da un lato limitava la prassi a una meccanica presa di contatto dell’anima con se stessa, dall’altro stabiliva pur sempre la possibilità se non di un insegnamento totale, almeno di una tecnica propedeutica al possesso della virtù. Il problema dunque dell’insegnabilità della virtù, impostato nel Protagoraiv, vede in questo stesso dialogo rimandata la propria soluzione, in quanto subordinata alla risposta che deve esser data ad una questione più generale, esposta nel Gorgiav, questione che non può essere risolta se non dopo aver indagato la natura della retorica; l’indagine su questa porta al problema della possibilità della scienza e a una sua dimostrazione indirettavi, e così di problema in problema Platone è giunto al fondamentale, dalla cui soluzione dipendono tutte le altre.

         Il Menonevii è il dialogo in cui si contiene la definitiva soluzione platonica del problema della possibilità della scienza; lo provano due argomenti che il dialogo ci offre.

         In primo luogo, tutta l’argomentazione, svolta intorno alla nozione di «opinione vera» fa perno su esemplificazioni tratte dal campo della geometria; se Platone mai, nei dialoghi precedenti, ha fatto appello alla geometria e alla matematica in genere, e se soltanto qui, dove si pone il particolare problema della scienza come un possibile, introduce, come concetti degni di entrare in un discorso che argomenti in generale, i concetti della scienza particolare della geometria, ciò non può spiegarsi se non ricorrendo al criterio generale dell’uso dell’esemplificazione e dell’analogia in Platone; l’esempio  in Platone fa la sua comparsa quando c’è bisogno di fornire con un aspetto certo e universale, un reale punto - 14 -di riferimento al problema particolare che si sta discutendo; se la geometria, fra tutte le manifestazioni e le attività contemporanee, è l’unica che possa accampar diritti a porsi come scienza – nel senso che è l’unica che venga coltivata per il desiderio di conoscere ciò che di reale è contenuto nel suo oggetto -, e se è l’unica che garantisca una corrispondenza effettiva tra i suoi giudizi e la realtà empirica – perché la metallurgia, ad es., come tutte le arti, garantisce la corrispondenza, ma non pretende affatto d’indagare attorno al suo oggetto con l’unico scopo di creare un sistema il più ampio e completo possibile di nozioni, mentre invece la medicina già da tempo aspira a dar luogo a un sistema siffatto, ma la garanzia che essa offre di una congruenza con il fenomenico è tutt’altro che sicura -, se dunque la geometria è nella sua essenza essenzialmente scienza, il ricorso ad essa come fonte di analogia deve avere un significato ed uno solo: a) che cioè esiste almeno una scienza; b) che dell’esistenza di questa scienza tutti i cittadini di Atene, sofisti e retori compresi, non possono non essere convinti, se non altro perché quando vogliono innalzare le mura ed aprire le strade e gettare le fondamenta delle loro dimore e dei loro moli, accolgono come dati su cui non si fa neppure discussione le formule pratiche che il geometra ha tratto dalle proprie sedicenti conoscenze universali; c) che se esiste una scienza particolare, non può non esistere una scienza in generale. D’altra parte, l’appello alla geometria non può non significare che la soluzione del problema, se possa esistere una conoscenza come scienza, si è articolata secondo uno schema che trova perfetta corrispondenza nella geometria, schema che stabilirà quel condizionamento reciproco tra scienza in genere e geometria, per cui la geometria cede alla scienza come modello di conoscenza scientifica quei primi palpiti con cui era nata, ossia quella primitiva organizzazione sintetico-deduttiva in cui viene con sforzo organizzandosi, mentre la scienza, garantendo alla geometria la validità del processo e stabilendo nella completezza dei particolari e delle condizioni il processo, e, quindi, facendone un metodo, avvia decisamente la geometria verso la sua futura organizzazione e segna, sia alla geometria sia a se stessa sia a tutte le scienze che in futuro potranno darsi, la condizione cui debbono sottostare per potersi porre come scienze, ossia l’accettazione del metodo sintetico-deduttivo.

         In secondo luogo, quello che si pone come il problema fondamentale del dialogo, vale a dire il problema se la virtù sia un insegnabile, problema cui con petulanza Menone richiama Socrate quando gli pare che questi con la sua rigida esattezza di indagine troppo si dilunghi, può ricevere una soluzione immediata, che non tenga conto del momento intermedio della conoscenza dell’essenza della virtù, solo alla condizione che ci si possa rifare alla connotabilità della scienza da parte del suo attributo di essere un insegnabile. Questa condizione non avrebbe potuto darsi senza la nozione di scienza; ma una nozione di scienza non può darsi senza un’esistenza della scienza e senza una sua esistenza secondo certi modi; la dimostrazione quindi di una realtà della scienza, - 15 -dimostrazione inferita dall’esistenza di una scienza, la geometria, e dall’attuazione di ciò che in generale deve considerarsi come scienza, costituisce la condizione imprescindibile della soluzione del quesito se si dia una virtù che sia un insegnabile. Quanto poi alle tre apparenti aporie che immediatamente si presentano come effetti della polarizzazione del dialogo intorno al problema della scienzaa) che cioè il concetto di scienza quale scaturisce dalle affermazioni di Socrate farebbe della scienza un oggetto non suscettibile di insegnamento in quanto frutto di un fenomeno psicologico, quello del ricordare, su cui nessun maestro può esercitare influenza e che, quindi, non è possibile segnare un’identità tra la scienza, in quanto nozione cui ha approdato l’intero corso dell’indagine, e la scienza che è nozione con le funzioni di soggetto e di predicato nelle premesse maggiore e minore del sillogismo nella cui conclusione si stabilisce l’insegnabilità della virtù; b) che se si rivolge l’attenzione soprattutto a quella parte del Menone in cui si svolge  il dibattito sulla scienza, si finisce per porre nell’ombra l’aspetto molto più importante dell’insegnabilità e della natura in generale della virtù, nei confronti della quale si sfocia in conclusioni che sono in aperta contraddizione con quelle del Gorgia; c) che la riduzione del Menone  al problema della possibilità della scienza non rende ragione dei mutamenti che l’atteggiamento nei confronti della virtù verrà subendo nei dialoghi posteriori -, di ciascuna può  essere data un’argomentazione che ne dimostri  l’infondatezza. La prima aporia va ricondotta a quel che è insegnamento: se per insegnamento s’intende la comunicazione di un sapere, intesa come trasfusione di una conoscenza universale e necessaria da un pensiero empiricamente individuale ad un altro, la scienza - quale la definisce Platine nel Menone - non è insegnabile; ma se per insegnamento s’intende l’aiuto che, in un qualsiasi modo e sotto una qualsiasi forma, modo e forma di cui vi non si   alcuna informazione, agevola il lavorio mnemonico destinato a portare alla luce della coscienza ciò che giace nell’ombra dell’oblio, allora la scienza di cui parla il Menone è senz’altro un oggetto di cui può impadronirsi una qualsiasi didattica che tenga conto dell’essenza della scienza. Quanto alla questione di ciò che nel dialogo è da porsi in primo piano, il dar rilievo al problema della scienza non comporta affatto uno spostamento di principio nel giudizio sul Menone e sugli intendimenti del Menone; significa soltanto che la risposta al quesito se la virtù sia insegnabile comporta la risposta al quesito se la virtù sia una scienza - l’uno e l’altro quesito non ottendendo risposta se non dopo la soluzione data al problema se la mente umana possa entrare in possesso di una nozione che sia scienza; il rilievo dato al problema della scienza non solo non è altro che l’attribuzione di importanza a quel problema che, come più generale, anzi generalissimo, si sovraordina sia al quesito particolare in oggetto sia a qualunque altra soluzione che in futuro voglia cercarsi, sia in definitiva, al procedimento che in ogni altra possibile indagine - 16 -futura che Platone vorrà proporsi o a cui si accingeranno tutti coloro che si proporranno una ricerca secondo il metodo platonico – e saranno pensatori e scienziati e matematici di quasi due millennidovrà essere assunto e seguito dal pensiero, ma fornisce pure una giustificazione per quell’apparente contraddizione che si pone tra il Gorgia, in cui si pronuncia una condanna radicale dei grandi politici ateniesi, e il Menone, in cui le grandi figure dell’imperialismo di Atene ricevono una rivalutazione: se la scienza è un insegnabile e la virtù non è una scienza, la virtù non sarà insegnabile; ciò non toglie però che possa possedere alcuni dei caratteri della conoscenza universale o necessaria, esclusi quelli che fanno di una conoscenza scientifica un trasmissibile; ciò non toglie quindi che la virtù possa essere conosciuta e quindi posseduta dall’animo umano; se quindi si guarda l’operato di Temistocle e Pericle, di Alcibiade e Cimone sotto il punto di vista della educazione alla virtù, il giudizio  non può suonare che a condanna; ma la negatività dell’opera educativa nulla toglie al valore dell’azione politica, che in essi fu mirabile grazie a quella virtù che essi possedevano e conoscevano per dono divino e che come tale potevano solo praticare, ma non trasmetterecomunicaresuscitare. Restano, infine, le differenze tra il dialogo in parola e quel che si dirà nei successivi: della contraddizione fra la definizione della virtù del Menone come un ininsegnabile e la definizione della virtù della Repubblica come un insegnabile, non è responsabile la soluzione del problema generale; l’errore non sta nella condizione suprema cui si è fatto capo nel Menone, bensì nelle indagini svolte attorno alla virtù; che se nell’analisi di una figura geometrica si perviene alla necessità di dimostrare le condizioni più generali dalla cui conoscenza soltanto potranno dedursi le nozioni riguardanti la figura in oggetto, e se nell’applicazione della nuova cognizione più generale non si giunge ad alcun risultato o si giunge a risultati errati per avere definito erratamente o la figura o uno dei suoi elementi e per non aver, quindi, potuto sottoporre la figura a quella regola che è la nozione generale, il processo errato dovrà venir corretto, ma né la correzione né l’errore tolgono nulla di valore alla nozione generale e alla sua genericità.

         Il perno centrale del Menone, quindi, ossia la sua soluzione del problema della scienza in generale, costituisce, se non il più importante, certo il più duraturo degli acquisti di Platone: il problema tornerà a presentarsi e tornerà a trovare una soluzione molto tempo più tardi, nel secolo XVIII d. C., nella mente di Kant, in una situazione ambientale che sotto profondissime ed essenziali differenze celava quel fattore di identità che era scattato tanti secoli prima nell’Atene della decadenza imponendo il problema ed era destinato ad agire in identico modo e a riproporre lo stesso problema, non appena una qualsiasi situazione di mente gli avesse ridato potenziale.


 





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 I dialoghi platonici, che con sufficiente chiarezza rivelano il formarsi di un atteggiamento originario di pensiero, dialoghi che per lo svolgimento dell’indagine nell’intera economia del platonismo si possono considerare come appartenenti al periodo di elaborazione informe e incompleta, presentano una certa concordanza di atteggiamenti, ciascuno dei quali può essere assunto a principio di un metodo esegetico, come fondamento di cernita:

a) ricorso a una generica istanza protrettica: ognuno di quei dialoghi giunge o ad una conclusione in cui il problema, attorno a cui ruota il palleggio delle affermazioni e delle confutazioni, non riceve soluzione, oppure ad un complesso dottrinario non compiutamente delineato; l’inconcludenza o l’insufficiente indefinitezza dell’esito della ricerca non trovan ragione in se stesse e neppure sono l’applicazione costante della dotta ignoranza socratica, perché nel primo caso dovrebbero essere le conseguenze necessarie d’una ineluttabile condizione di inconoscibilità, nel secondo caso costringerebbero alla conclusione falsa di ridurre il platonismo a un semplice  momento del socratismo, a quello, se si vuole, che è il più fertile di energie e di creatività senza dubbio, ma anche il più povero di positivi risultati nella speculazione; d’altra parte che non siano effetto della semplice adozione di uno dei canoni di Socrate lo dimostra il fatto che esse fan la loro comparsa anche dove la dottrina interpretativa, e non puramente elenchistica del maestro, o meglio l’interpretazione che di tale dottrina ci offre Platone, viene sommersa sotto il peso dell’inaccettabilità delle conseguenze o, addirittura, scompare per cedere il posto a nozioni che di socratico non hanno se non il nome del personaggio che le enuncia; infine, che non siano fine a se stesse, è provato da questo che ogni conclusione negativa o parziale trova il proprio superamento in un dialogo successivo; resta, dunque, che negatività od insufficienza siano il risultato di un approdo momentaneo e transeunte dell’indagine, il cui offrirsi è ragione di un immediato superamento, e insieme  che la loro conservazione inalterata sia fatto voluto, non per esigenze artistiche o plastiche – la dimostrazione di un’aporia o l’enunciato di un’affermazione monca ricevono sempre rilievo da una netta separazione dall’argomentazione che rispettivamente li supera o li completa -, ma per un criterio metodico, di lasciare sempre l’ascoltatore o il lettore in una situazione o di vuoto insoddisfatto o di difficoltà irresoluta, onde le sue stesse  interiori forze sollecitate conservino lo stato di tensione necessario al lavorio personale e soggettivo; è questo ciò che di veramente nuovo e costruttivo Platone ha conservato di Socrate, e financo, è naturale dell’impegno morale e dello spirito di dedizione all’ideale. Quanto noi sappiamo di Socrate è molto, molto di più di quel che sappiamo di Cristo;  ma è insieme nulla, perché, mentre chi si prese l’incarico di lasciarci la parola di Cristo si sforzò di annullare la propria persona per far posto a un’oggettività la più serena e offerta in buona fede come tale, chi invece ci ha parlato di Socrate non solo non ha mai annullato se stesso, ma anzi ha cercato di dare, come corpo, a una dottrina evanescente il corpo delle proprie interpretazioni e dei propri concetti; ma in questo nulla qualcosa di oggettivamente certo traspare, l’altezza morale di Socrate e la sua missione di trasfonderla negli altri non con dottrine, ma con l’esempio e l’incitamentotrarla da sé: per questo, mentre ad ogni crisi di disagio o di malcontento il mondo dell’era cristiana sempre proclama la necessità di ritornare a sfogliare il Vangelo e di risalire all’acqua pura della sorgente inquinata da questa o quell’interpretazione erronea, il mondo greco-romano ad ogni sussulto critico non s’appellò mai a Socrate, non richiese mai il ritorno alla purezza del primitivo socratismo, bensì nei suoi lamenti fece echeggiare il ritornello canonico: «Chiudetevi di nuovo in voi stessi e cercate in voi la nuova strada», che era appunto quanto di vivo era rimasto di Socrate. E Platone, accettando l’istanza protrettica, le diede una veste più pragmatica che dottrinaria, tanto più visibile quanto meno corpulento e sostanzioso era il nuovo aggregato dottrinario che il suo pensiero aveva da trasmettere;

            b) criterio didattico dell’esemplificazione preposta all’enunciato teorico: la caratteristica dei dialoghi platonici, particolarmente del primo periodo, è quello di rappresentare al vivo e nel suo fieri il processo del pensiero; non si giunge mai a una qualsivoglia conclusione enunciata nei termini e nelle relazioni della genericità se non dopo essere lentamente passati attraverso la descrizione minuta di uno dei tanti possibili casi particolari della cui legge o universalità l’enunciato è espressione e insieme fonte; l’esempio dello schiavo del Menone è il caso tipico di questo  metodo; ma anche le conclusioni negative di certe parti del Lachete, del Carmide, dell’Alcibiade Primo, non sono che sfoci generici di indagini condotte sul caso vivente e parlante del reale; la stessa enunciazione in termini chiaramente teoretici e generali del metodo che l’indagine filosofica ha fatto suo, (Repubblica), è in fondo la enucleazione di quanto di identico e di costante si era ripetuto nelle indagini particolari seguite nei dialoghi precedenti. La dottrina nella sua scheletrica teoria deve essere accettata non come dato da dimostrarsi; l’argomentazione, la dimostrazione, la presentazione posteriore di esempi probativi, hanno in filosofia un lato pericoloso, quello di voler piegare le menti al dato, la realtà alla teoria; perché c’è qualcosa in questi procedimenti giudiziari che ricorda i metodi della sofistica e della retorica per le quali si muove da una certa tesi e si attingono i puntelli d’appoggio dal mito, dalla letteratura, e, nel peggiore dei casi, dalle argomentazioni sofistiche; perché c’è qualcosa che ricorda il criterio orientale di far digerire alla ragione una qualche verità di tra mezzo il fumo degli incensi e lo squillar dei sonagli e di affidare l’argomento di convalida alla rispondenza della realtà empirica. All’intelligibile, privo di tutti gli ingredienti della esperienza, contemplato nella sua armonica ma rigida e povera concettuosità, ci si deve giungere con certezza, come a qualcosa che non può non essere accettato, perché il particolare in mezzo al quale viviamo e che finora l’indagine ha frugato ed elaborato non lascia altra via d’uscita; l’intelligibile è una conquista calcolata, non una città occupata con colpo di mano, da difendersi poi dagli assalti di chi ci circonda; l’intelligibile è l’ultima delle possibilità che resta, l’ultima di tutte le possibilità: è la conclusione di una serie di sillogismi disgiuntivi la cui premessa maggiore permane immutata; e, come ultima, è la più sicura, ma di una sicurezza tutta umana, quella che non chiude tutte le porte, ma ne lascia aperte altre o almeno un’altra:

per questo il sistema di Platone non è un sistema chiuso, ma perennemente aperto; per questo alla fine del Fedone è possibile udire nella fredda serenità contemplante di Socrate il primo ed estremo tremolio del dubbio e dell’ansia, che tanto sacrificio compiuto per sì alta meta non debba riuscire inane perché l’intelligibile potrebbe anche non costituire l’unica ed ultima possibilità.

c) canone risolutivo dell’ascensione in genericità: i problemi che i dialoghi del primo periodo affrontano sono problemi il cui attributo è costantemente la particolarità; sono problemi dettati dall’eredità socratica: non l’indagine dei grandi misteri dell’universo tocca gli interessi umani, bensì la certezza della verità di alcune piccole nozioni fondamentali per la vita dell’individuo e del gruppo; anche Platone fa suo questo interesse; ma il metodo inventivo che adotta tende all’integrazione del particolare nel problema più generale di cui il primo è un caso; dapprima, il metodo non compare se non in quanto implicito nell’insufficienza del procedimento diretto: se vi chiedete che cosa sia il coraggio, la saggezza, la virtù politica e pretendete di circoscrivere ogni ricerca entro il cerchio, dal raggio immutabile, del singolo problema irrelato cozzate contro una condizione di impotenza e necessariamente sfociate in una soluzione zero. Ma non appena si abbandona questa via e ci si pone sul nuovo piano di stabilire quale sia il problema, risolto il quale sarà possibile pure ottenere risposta al quesito particolare presente, non appena cioè si ricerca entro la situazione data il carattere generale che essa manifesta e si fa di tale carattere un problema a sua volta, tosto si nota che l’impossibilità di soluzione, cui nella fase iniziale l’insufficienza di elementi a disposizione condannava, viene elisa dalla nuova visuale molto più ampia che consente una risposta, al cui vaglio può essere ricondotto il primo problema particolare: l’insegnabilità della virtù, ad esempio, può essere risolta solo risalendo ai metodi didattici che l’assumono ad oggetto, la cui sussistenza, garantita dall’interiore congruenza logica, ci assicura dell’insegnabilità dell’oggetto, la cui infondatezza, comprovata dall’intima incongruenza logica, ci accerta che l’oggetto, almeno con quel metodo è ininsegnabile; la natura di quel metodo che è la retorica, in quanto strumento di attività sociale umana, può essere definita e conosciuta solo se prima si sia ben stabilito quale sia lo scopo dell’attività individuale umana, scopo che, intrinseco alla natura del soggetto individuale, permarrà immutato anche nella attività sociale, cosicché solo la soluzione del problema morale condurrà alla possibilità di giudicare della retorica; ma il ritrovamento dello scopo dell’attività individuale è una particolare questione cognitiva la quale è un certo aspetto del problema generale della conoscenza, dalla cui soluzione soltanto può inferirsi la risposta da dare alla prima domanda. Il canone è rigorosamente applicato; ma appunto per questa rigida ottemperanza il platonismo segna a se stesso una certa strada, ed una sola, e viene a precludersi in gran parte quella libertà di movimenti che il precedente criterio le garantiva: i problemi particolari da cui esso muove sono i problemi politici, la cui connessione al problema morale impone quell’appello all’interiore individualità del soggetto, che sofistica prima, Socrate poi, avevano pronunciato; il problema morale, d’altra parte, non può venir risolto di per sé in un ambiente in cui sia esso che ogni altra questione, ad eccezione  di quelle tecniche o specificamente scientifiche, non ha più a disposizione delle teorie generali di riferimento; donde la necessità di dar corso a un’indagine che fissi le capacità del conoscere umano sia per affiancare qualcos’altro alla debole argomentazione del mito sia per indicare ciò che l’uomo con le sue forze è in grado di affermare universalmente e necessariamente intorno ai valori morali; ma la necessità di definire le capacità della conoscenza comporta una certa definizione delle condizioni della conoscenza, che si pone come generale interpretazione della realtà delle cose; più oltre non è lecito andare, perché, definito nella sua genericità il tutto, nulla di più generale ormai si offre. Si deve, quindi, accettare il platonismo meno come una dottrina compiuta che come l’instancabile costruzione di una dottrina, tenendo però presente che l’assoluta libertà di movimenti e di spunti è consentita fino al momento in cui non si pone, sia pure come ultima delle possibilità a disposizione delle facoltà umane, la definizione generale della struttura della totalità; da questo momento l’estrema libertà, la coincidenza di filosofia con indagine di problemi sempre nuovi, o viene conservata, e allora gode dell’unica capacità che le è rimasta di distruggere i propri risultati e di ricominciare da capo, oppure deve limitare se stessa al lavoro riflesso di autocontrollo e di soluzione delle questioni e aporie che hanno accompagnato la nascita dell’enunciato più generale. Il terzo criterio metodico costituisce quindi la recinzione, necessaria a una reale e costruttiva opera, di quanto di indefinitamente vago apriva il secondo: il suo intervento segna al platonismo un vertice invalicabile. Non è da escludersi, anzi potrebbe ricavarsi con  relativa certezza dalla descrizione che Platone stesso ci del metodo filosofico in genere, che l’indagine riflessa sul cammino effettivamente compiuto dal suo pensiero abbia determinato la convalida del metodo deduttivo come unico metodo capace di apportare scienza, convalida che da un lato contiene implicita la legge dell’arresto all’invalicabile, dall’altro costituisce il dato effettivamente nuovo e ricco di molteplici apporti che Platone lasciava in eredità alla coscienza umana;

d) effettivo processo di sviluppo dell’indagine e dei suoi risultati: l’adozione di un metodo che sia analitico nella ricerca, sintetico nel criterio di certezza, il ricorso cioè a un procedimento che in ogni problema o questione o domanda sceveri l’aspetto generale dell’incognita e non solo dalla soluzione di questo ricavi la soluzione dell’incognita, ma dichiari pure la prima soluzione causa o condizione necessaria e sufficiente dell’altra, comporta necessariamente che l’indagine, frutto del metodo, venga lentamente ampliandosi a sfere sempre più vaste della realtà, e, quindi, riempiendosi di contenuti sempre nuovi, assuma l’aspetto di una corrente in movimento. Nulla di nuovo in questo, perché da quando Platone è divenuto oggetto di analisi storica la mobilità del suo pensiero ha sempre costituito il punto di travaglio dei suoi lettori; l’impossibilità appunto di seguire le linee di sviluppo nel loro reale svolgimento ha indotto o a una serie di tentativi per delineare il flusso secondo questa o quella successione di fasi, con correlativo accoglimento di tutti o quasi tutti i dialoghi nella veste di opere autentiche, o alla rinuncia a qualsiasi tentativo e all’identificazione del platonismo con un sistema rigido e completo nelle sue parti fin dalla culla, con correlativo ripudio dei dialoghi che paiono discostarsi dall’interpretazione accettata e la cui inclusione avrebbe significato intervento di un elemento di incongruenza nel coerente complesso di nozioni relate. Il dato di fatto di un divenire del pensiero trovava la possibilità di venire accordato con l’esigenza di fissarlo in successione cronologica nell’indagine di statistica stilometrica, completata dal criterio estetico-stilistico, la cui validità riceve ulteriore prova dalla prassi platonica di erigere a dottrina espressa in formule generiche ciò che è già venuto attuando e praticando nel corso delle ricerche anteriori. Se tuttavia si tiene presente che il platonismo ha applicato a se stesso i canoni del metodo sintetico, sarà sempre possibile giustapporre ai due precedenti criteri il terzo criterio, quello della successione generica, il quale criterio non dovrà mai discostarsi dalla falsariga dei dati stilometrici se non dove i dati stessi offrono un certo margine di gioco cronologico, né dovrà mai applicarsi se non con ulteriori limitazioni la cui indicazione esula dai limiti che l’attuale intento m’impone, ai dialoghi che son propri di una riflessione della dottrina su se stessa o per autocontrollo o per completamento. In nome di tale criterio, che ai fini di una determinazione cronologica della successione consente di attingere allo stesso contenuto del dialogo senza fermarsi all’uso della lingua o al ricorso a certi strumenti letterari, si può affermare che di due dialoghi, che presentino una percentuale di differenza stilistiche insufficiente a fissarne la priorità o posteriorità reciproche e che appartengano entrambi ad un periodo caratterizzato da una certa norma estetico-letteraria, è posteriore quello che contiene una impostazione o soluzione di problemi più generali dei problemi che nell’altro vengono posti o risolti.

E’ logico che l’adozione di questo criterio non vuole assolutamente stabilire un rigido parallelismo tra composizione dei dialoghi e interiore movimento del pensiero; l’adozione del criterio è valida unicamente a stabilire un ulteriore sussidio per la cronologia dei dialoghi, non già per descrivere l’intimo e reale movimento del pensiero: la lettura dei dialoghi precedenti al Menone lascia chiaramente trasparire che la teoria delle idee separate era già presente alla mente di Platone quando ancora il problema della conoscenza come reminiscenza, che costituisce il fatto particolare di cui la teoria idealistica è una delle condizioni generali necessarie e sufficienti, non era stato formulato e neppure accennato; quindi si può essere certi che la dottrina separatista non necessariamente trova la sua origine in una certa soluzione del problema della conoscenza; anzi si potrebbe affermare con sufficiente certezza che la dottrina delle idee separate serpeggia qua e in connessione con le aporie del socratismo; ma si può tuttavia affermare che la esplicita enunciazione del concetto-base metafisico è certamente posteriore al Menone, in quanto costituisce della soluzione che questo al problema della scienza la condizione e quindi si pone come soluzione di un problema la cui genericità supera quella dei problemi risolti nel Menone; il Convito infatti e il Fedone, in cui la teoria delle idee separate è definita nella sua essenza, se non completata e risolta in tutte le implicite aporie, sono, secondo il criterio statistico-stilometrico, posteriori al Menone. Che il criterio contenutistico di successione per genericità non sia una semplice ipotesi, ma abbia un reale fondamento e valore in sé, si argomenta anche dal diverso atteggiamento che l’interlocutore Socrate viene assumendo nei dialoghi limitatamente ai quali il criterio può essere adottato. Non si tratta qui di discutere sul significato della figura di Socrate nei dialoghi platonici: si vuole soltanto mettere in rilievo il singolare parallelismo che passa tra il comportamento del personaggio centrale e l’assenza o presenza di applicazione del metodo: dove la restrizione della soluzione del problema ai dati circonclusi del particolare non consente soluzione, Socrate tronca con una dichiarazione di ignoranza impotente; dove il problema non può ricevere soluzione perché, in forza della sua dipendenza da un quesito di ordine più generale che gli è condizione e principio, si pone capo ad una interpretazione contraddittoria che, mentre avvince sé nei lacci dell’assurdo e quindi priva se stessa di ogni valore scientifico, non consente alcuna inferenza come quella che si è ridotta a valore zero, Socrate si dibatte nella via senza uscite della contraddizione; dove il metodo applicato nella sua rigida esattezza apre la via alla soluzione, Socrate acquista il tono spigliato e sicuro del maestro che in possesso di una conoscenza certa guida il discepolo alla verità, sia pure senza rivelargliela in tutta la sua interezza onde lasciargli un margine di elaborazione personale e di partecipazione autonoma. D’altro canto, infine, l’appello al criterio contenutistico, così formulato, consente di superare la difficoltà di interpretazione che offrono alcuni dialoghi, il cui dibattito di domande e risposte sembra dispiegarsi attorno a due e spesso tre differenti oggetti, sicché in mancanza di un punto di vista sicuro, l’interprete può assumere ad argomento fondamentale e quindi dichiarare oggetto del dialogo l’una o l’altra delle nozioni dibattute, secondo che si appelli a questo o a quel punto di vista; ma una volta che gli argomenti si assumano l’uno all’altro connessi come quelli la cui soluzione, positiva o negativa, si pone o come condizione o come condizionato, allora la pluralità si ridurrà ad unità, la stessa unità di una catena di nozioni ciascuna delle quali è il principio della successiva.

            Mediante l’applicazione di questi quattro criteri esegetici al Menone, sarà possibile stabilire il significato e l’importanza del dialogo, che ci interessa perché include il nostro problema, nel corpo del pensiero platonico, la sua portata fondamentale nei confronti del pensiero in genere, la sua datazione relativa.



ii

Nei confronti della conoscenza il pensiero greco si è orientato in tre grandi direzioni. L’integrazione dell’interpretazione religiosa della natura e dei suoi fenomeni mediante il concetto di fato e l’opposizione, decisa e vittoriosa, dell’orientamento naturalistico della religiosità ufficiale a un possibile prevalere dell’attitudine mistica delle religioni agricole e misteriche hanno impedito alla concezione teologico-antropomorfica del mondo o di precludersi definitivamente la via a una visione unitaria in cui l’intervento della causalità cieca ed extrarbitraria spezza le paratie dei compartimenti stagni delle riserve divine, o di distaccarsi progressivamente dagli interessi terreni: il destino dell’oriente era evitato; la pluralità degli dei non riduceva la natura a una pluralità di legislazioni e di giurisdizioni: l’unità non veniva raggiunta attraverso la subordinazione di valore del tutto a un dio della morte e della resurrezione; quei qualsivogliano fattori che hanno imposto la naturalizzazione dell’atteggiamento religioso e il trasferimento del principio teologico da un piano di trascendenza a un piano di immanenza, hanno garantito al tempo stesso la prosecuzione, in senso immanentistico, dell’unitaria legislazione della natura. Di qui quel senso di razionalità intrinseca alla natura che caratterizza il pensiero degli Ionici e che si traduce nel ricondurre i diversi fenomeni a un solo principio: tale razionalità, che è unità, consente di poter usare l’universale senza chiedersene il diritto di usufrutto, consente cioè di passare dall’identico o dal ripetuto nella natura all’intelligibile agente in essa. Una tale posizione è chiaramente induttiva e trova garanzia per il proprio procedimento induttivo nel principio, inferito dall’unitaria razionalità del mondo, che ciò che è valido per la parte sia valido per il tutto o viceversa. L’assunzione più o meno consapevole di questo punto di vista sgrava il pensatore dalla necessità della dimostrazione e al ricercatore la possibilità di appellarsi a questo o a quell’aspetto del reale onde trarne le sue leggi, che siano tuttavia insieme i criteri esplicativi  di un aspetto del reale affatto eterogeneo (Anassimandro): entro questo tipo di comportamento intellettuale trovano la propria sistemazione sia le dottrine un po’ informi di un Talete o di un Anassimene sia la nozione profondamente speculativa dell’apeiron sia il criterio metodico di un Eraclito che nel divenire scopre non tanto un fatto di mera trasformazione quanto un dato necessitato da leggi dinamiche interiori al mondo e attribuibili, in nome del principio di unità, alla totalità dell’universo, anche se ricavate dall’indagine di quella parte che è il soggetto. Ma il mondo greco non è solo una società che s’è evoluta da un certo complesso di dottrine religiose; è anche un aggregato economicamente, socialmente, politicamente attivo, che ha costruito le tre sfere con metodi e sistemi nettamente separati e indipendenti dall’impronta sacerdotale; è un mondo di navigatori, di mercanti, di architetti, di artigiani, di medici, di geometri, di legislatori, di politici, che faticosamente hanno scoperto le leggi universali delle loro tecniche fuori dall’ombra dei templi, che hanno affidato le loro scoperte non all’autorità di un dio e di quei diretti e immediati collaboratori terreni della divinità che sono i sacerdoti; il complesso delle loro conoscenze è un globo in continuo sviluppo e continuamente aperto a nuove conoscenze e a correzioni delle vecchie; è un mondo che non può fermarsi, pena la morte economica. Ora, questo filare della grecità non gravita tanto attorno ad una concezione di generica razionalità del mondo e, quindi, non è proteso a un bersaglio segnato dall’omogeneità entro cui il pensiero può spaziare a suo piacimento trasbordandosi con indifferenza da un piano all’altro del reale; è legato necessariamente alla particolarità delle cose e alla loro eterogeneità; il suo progresso è fondamentalmente connesso con la conoscenza sempre più approfondita di un certo aspetto del reale, o meglio di un determinato oggetto di un certo aspetto del reale: la percezione sempre più particolareggiata del ferro, del rame, delle leghe, non è che scoperta progressiva della loro intelligibilità, che è sinonimo di progressiva capacità di sfruttamento e che lega la conoscenza razionale non al tutto ma alla classe, non all’omogeneità ma alla eterogeneità. L’atteggiamento, trasportato sul piano dell’interpretazione del reale, comporta necessariamente un punto di vista nuovo, quello dell’eterogeneità della conoscenza razionale, esige cioè che al reale ci si accosti per conoscere l’universalità dei suoi aspetti singoli e, quindi, per subirne la natura dialettico-concettuale. E’questo l’atteggiamento che assume la scuola pitagorica, che, se apparentemente può sembrare appellarsi all’unità razionale del tutto, in realtà assume a principio interpretativo la struttura eterogenea e concettuale del reale: le sue figure geometriche sono sì pervase da un sottofondo comune di razionalità uniforme, al punto che possono essere convertite l’una nell’altra e identificate con quell’eterogeneo qualitativo che è il numero, con il grave rischio concorrente che la concomitante molteplicità ed unità del numero si rifranga nel mondo spaziale violandone le differenziazioni concettuali - mi riferisco all’identificabilità di numero con linea, di prodotto con figura piana -, ma la razionalità sussiste alla condizione che ciascun ente possegga in eterno le sue qualità ed attributi essenziali e che tali attributi non siano confondibili con quelli di tutti gli altri; il teorema di Pitagora, infatti, agli effetti pratici non differiva in nulla dalle corde di lunghezza 3 – 4 – 5 con cui il sacro geometra egizio costruiva l’angolo retto; legava però l’intelligibilità di un dato a una certa figura geometrica, che, nonostante potesse riprodursi con le corde 3 – 4 – 5 degli Egizi e con quelle 5 – 12 – 13 degli Indiani o con qualsiasi altro strumento di qualsiasi altra materia che conservasse tra i suoi elementi lineari un rapporto analogo a quello intercorrente fra 3 – 4 – 5, ritraeva la propria natura non dal rapporto ma da se stessa, e tale natura rinfrangeva nel rapporto onnipresente; la figura, ormai vero ente concettuale, poteva anche trasformarsi in un’altra che l’eguagliasse nell’estensione spaziale, ma non nella forma; tuttavia nell’atto della trasformazione scompariva un intelligibile per essere sostituito da un altro rispetto al quale era inutile andare a cercare se si riproducesse lo stesso rapporto; d’altra parte, i numeri con cui il Pitagorismo identifica le cose sono gli intelligibili qualitativi, ripieni, se si vuole, di una certa dose di onnipresente razionalità generica, ma ricchi in fondo di una natura essenziale eterogenea, con l’effetto che la presenza di uno di essi in un certo ente, ad esempio del 5 in un cateto, determina immutabilmente la natura di tutto l’ente e lo diversifica  da tutti gli altri simili. Allo stesso atteggiamento si legano la corrente di Empedocle, che nega l’unità del reale e ne moltiplica le essenze, in nome dell’impossibilità di ridurre oltre un certo limite l’eterogeneità degli intelligibili, in nome quindi di un principio essenzialmente dialettico-concettuale, e la dottrina di Anassagora, che all’individualità degli oggetti sostituisce infinite individualità materiali, indifferenziate nello spazio e nel tempo, ma non nell’essenza, cioè nei concetti. Allo stesso atteggiamento si rifà infine Socrate, che è certo lo scopritore del concetto, se per concetto si intende un ente di natura mentale e ideale distinguibile mediante la determinazione che un conosciuto opera sulla indeterminatezza di un altro, ma che di realtà non è se non il primo che estenda il principio della conoscenza per eterogenei a un campo finora lasciato in balia o dell’intuizione o della tradizione, al campo dell’etica; il concetto, infatti, che è l’unità di un molteplice alla quale il progressivo arricchimento e la progressiva differenziazione da altre unità similari garantiscono una capacità di conoscenza universale e necessaria in una sfera del reale, era già usato e quindi conosciuto dai primordi dell’umanità, non solo nella imprecisione della prassi quotidiana, ma con la stessa precisione logica che una qualsiasi tecnica specializzata richiede. Tutte le diverse posizioni, scaturite dal comune atteggiamento, conservarono però intatto il procedimento induttivo: il che fece la scuola pitagorica la quale, rivolgendosi ai numeri e alle figure e sottoponendoli ad indagine diretta, venne scoprendo via via leggi matematiche sempre più vaste, senza tuttavia mai distaccarsi dalla credenza che le cose stesse offrissero gli intelligibili, come dimostrano sia il principio d’autorità che sempre dominerà la scuola sia quelle probabili battute d’arresto che la scuola subì quando s’imbatté in un dato, i numeri irrazionali, che, provenendo dalla stessa esperienza, immetteva nel vicolo cieco d’un mondo in cui razionalità e irrazionalità s’incrociavano; allo stesso procedimento fece ricorso Anassagora che assunse l’esperienza come fonte della qualità e quantità degli intelligibili e come principio da cui desumere le leggi di composizione e scomposizione degli elementi; Aristotele direttamente e Platone indirettamente ci informano che per la determinazione dei concetti Socrate faceva ricorso all’induzione.

L’ultimo atteggiamento, che assegna una nuova direttiva alla ricerca greca nei confronti del conoscere, doveva scaturire dalla riflessione che il pensiero avrebbe operato su se stesso: già la mente si era rivolta a se stessa allo scopo di ritrovare in sé una legge parziale da universalizzare; ma questa volta il ripiegarsi è frutto dell’intenzione di render chiare a se stessa le condizioni cui deve sottostare una qualunque conoscenza per potersi dichiarare razionale, giacché il primo punto di vista, quello della indifferenziata unità, e il secondo, quello dell’intelligibilità per eterogenei, usavano  della razionalità senza rendersi conto delle sue ragioni e dei suoi modi; in un certo senso, questa riflessione del pensiero, che costituisce il dono dell’eleatismo, non è che l’allargarsi di quel movimento che ha condotto il pensiero dalla razionalità di stampo mitico e per ragioni eterogenee alla razionalità di modalità intrinseca e per ragioni omogenee e che ora si estende al pensiero assunto in sé e per sé. L’eleatismo, se si trascurano tutti i suoi apporti nei vari campi e si limita l’enumerazione dei suoi effetti alla sfera della conoscenza, ha il merito di aver fissato il netto dualismo che separa l’essenza di una [un] dato razionale dall’essenza di una [un] dato d’esperienza e di aver così imposto al pensiero greco l’oscillazione fra l’uno e l’altro, assieme alla forzata rinuncia all’apporto dell’esperienza ogni volta che volesse attingere il razionale, o al forzato abbandono del razionale ogni volta che volesse situarsi nell’esperienza. Il terzo atteggiamento fu sì in grado di condurre a un’interpretazione propria della realtà, ma, a parte il fatto che la sua interpretazione apriva la via alla duplice possibilità, o di una chiusura mistica o di una scienza data una volta per sempre, ebbe come suo più efficace e reale potere quello di incidere in un determinato modo sugli altri due punti di vista, l’unitario e il molteplice, e di imporre loro, come condizioni, quelle che aveva scoperto essere le condizioni generali della conoscenza razionale; una qualunque indagine che muova all’interpretazione delle cose partendo dal principio che la totalità delle cose è sottoposta ad una sola unica legge, deve sottostare a due condizioni: a) dare come fondamento del principio una nozione delle cose che non comporti contraddizione e la cui presenza  escluda sia il suo contraddittorio sia qualunque altra possibile nozione - fu questo il compito cui si accinsero, Leucippo e Democrito , b) dare una ragione sufficiente di una conoscenza siffatta la quale però non faccia appello alla esperienza sensoriale; presentandosi questa seconda condizione anche per una dottrina che, per interpretare le cose, le riconduca all’unità di una classe sottoposta a leggi particolari e moltiplichi le unità di tante volte quante sono le classi cui è riducibile la totalità delle cose, ad essa dovettero dare soddisfazione sia  Democrito che Platone, al quale poi toccò anche il compito di delineare come fondamento del principio una descrizione del reale che non patisse contraddizione e la cui presenza escludesse non solo il contraddittorio, ma anche la possibilità di un diverso.



iii

Se il problema della possibilità di una scienza trovava la sua ragion d’essere nel complesso degli atteggiamenti generali del pensiero greco, anche, e con maggior forza, le condizioni politico-morali conducevano allo stesso problema. Lo spettacolo che Atene e quasi tutte le città greche vengono offrendo da parecchi anni agli occhi di Platone è noto: è quello di un mondo in dissoluzione; basterebbe a dimostrarlo, a parte tutti i dati storici, quel compiacimento con cui si ascoltano i discorsi più inconcludenti che mai siano stati fatti, quelle discussioni sofistiche – alle quali anche Platone indulge molto volentieri - , di cui ci ha lasciato memoria l’Eutidemo e che ci ricordano gli strani arzigogoli dei dialettici medievali - contemperati però, questi, dal sottofondo religioso ben saldo che anima il dialettico medievale e che lo spinge alla preghiera nella chiesa dopo lo sfoggio nella piazza; affetti gli altri da una totale assenza di idealità superiori e da uno spirito di puro ciarlatanesimo -. Anche Socrate ha avuto la sua parte in questo: quel suo continuo confutare, se nel profondo vuole il rassodamento delle convinzioni e la trasformazione di un’opinione in concetto, alla superficie ha tutto l’aspetto di un giuoco abile che conduce a quella confutazione pragmatica e utilitaristica che è il fine di un sofista. Era, quindi, necessario riprendere la missione socratica, ma su nuove basi e con altri metodi, con una protrettica che non abbandonasse l’individuo a se stesso, ma lasciasse all’individuo il libero giuoco di muoversi entro gli schemi di una dottrina. A Platone si impose un dovere  che la sua dignità di uomo che da greco sente legata alla dignità di cittadino, la sua appartenenza alla classe aristocratica che lega le proprie sorti al destino della comunità da cui non può svincolarsi, la sua esperienza di discepolo dell’uomo che è morto per la salvezza dei valori della città, gli rendono esclusivo: ricercare nel fondo della civiltà greca gli strumenti per arginare la rovina. Ma il fondo della cultura ellenica è essenzialmente razionalità. L’appello alla razionalità quindi si impone, non già alla razionalità dell’unità – la quale sfocia necessariamente nel meccanicismo democriteo e quindi toglie la ragion d’essere a quei valori spirituali ai quali si fa appello -, ma alla razionalità dell’eterogeneo che, distinguendo il reale in classi, consente l’indagine dell’una indipendentemente dalle altre; ora, la razionalità del molteplice è la razionalità della conoscenza concettuale; solo l’acquisizione dei concetti etico-sociali, dunque, potrà ricostruire la città che si sfalda. Questo, che era stato il punto di arrivo di Socrate, costituisce in Platone un punto di partenza. Dal punto di vista socratico un concetto etico può trovare la sua sorgente unicamente o nell’esperienza sensoriale o nella ragione. Ma, come dimostra immediatamente l’indagine e come la prassi sofistica ha posto pienamente in luce, l’esperienza non ci dona il razionale, non ci dona l’universale e il necessario; ci il particolare e il contingente che, tradotti in termini di conoscenza, fan tutt’uno con l’opinione, che qualunque  nuova esperienza qualunque parola  altrui qualunque cedimento interiore valgono a cancellare. D’altra parte, la ragione offre un sapere universale e necessario che, però, è limitato esclusivamente a una certa forma, a un certo rapporto; e questo, assunto a modello del sapere, annega entro di sé qualunque differenza e riduce i contenuti materiali a degli equivalenti indefferenziabili. Infine c’è da tener conto di quella corrente che, stando a Platone, ha tratto le debite conseguenze dalla legge pendente sulla conoscenza, la legge che vuole che l’appello alla sensibilità comporti la rinuncia al razionale; le conseguenze sono di ordine teoretico, con la condanna dell’uomo all’incapacità al conoscere e con la designazione a fine dell’attività spirituale della preponderanza e a mezzo pel conseguimento di questa di quel puro esercizio di forza che è la retorica; e sono di ordine pratico, in quanto, muovendo dal principio che l’uomo nulla possa conoscere di universale e necessario,  si è trasformata l’educazione dell’uomo all’attività etico-sociale in una istruzione delle sue facoltà oratorie combattive eristiche. Duplice è quindi il compito: da un lato dimostrare l’infondatezza teoretica della sofistica, dall’altro argomentare la possibilità dell’esercizio della virtù dalla possibilità della conoscenza universale e necessaria della virtù e dedurre quest’ultima dalla possibilità della scienza in quanto scienza.



iv

Il metodo di soluzione adottata nel Protagora presenta il nuovo carattere di fondarsi sul criterio risolutivo per ascensione in genericità: il problema dell’insegnabilità della virtù viene ricondotto a quello che lo condiziona, che riguarda il metodo dell’insegnamento della virtù; se due sono i metodi didattici, il sofistico e il socratico, poiché questi muovono da certi principi e attuano una certa prassi e poiché i principi e la prassi conducono a determinate conclusioni, dall’esame di queste si potrà vedere quale risposta implicitamente diano i due diversi metodi alla domanda circa l’insegnabilità della virtù. Ora, il dialogo sfocia in due conclusioni contraddittorie coi concetti iniziali: quella di Protagora che, dopo aver cominciato col sostenere l’insegnabilità della virtù, finisce col dichiarare che la virtù non è insegnabile; quella di Socrate che, entrato nella discussione con l’intento di dimostrare infondata la pretesa di quanti sostengono insegnabile la virtù, chiude il suo parlare affermando insegnabile la virtù. La tesi del Protagora, quindi, è che uno dei mezzi per sapere se la virtù sia o no insegnabile è di appellarsi ai metodi didattici delle due scuole al tempo preponderanti: ma l’analisi di questi rivela che ciascuna scuola deve trarre dalle premesse, in nome delle quali applica il proprio metodo, delle conclusioni che sono in contraddizione con le premesse stesse; entrambe le scuole, allora, sono affette da contraddizioni interiori, e nessuna delle due è in grado di risolvere il problema dell’insegnabilità della virtù, giacché una dottrina che elabora un metodo di insegnamento da premesse contraddittorie, se non può aspirare a conseguire risultati validi, non può neppure dimostrare, non fuoruscendo da se stessa, che la meta a cui la sua prassi tende sia conseguibile in generale attraverso un qualsiasi insegnamento. Il dialogo dunque non risolve il problema, ma rivela le contraddizioni interne alla sofistica e alla metodica socratica; e se il socratismo ha risentito dell’ulteriore critica di Platone, anche la corrente sofistica ha ricevuto il primo giudizio negativo emesso sul suo metodo.



v

Nel Gorgia si riprendono le fila del problema attorno a cui ruota l’indagine dal problema più generale che il Protagora ha lasciato insoluto: se la sofistica è errata nel metodo, nulla è stato detto ancora circa la natura della sofistica. Che cos’è la sofistica? La ricerca di una risposta è soggetta ancora una volta alla norma della genericizzazione: dato un problema, cercare quel problema più generale dalla cui soluzione si deve inferire necessariamente quella del primo.

            La sofistica è retorica; la retorica si proclama arte; l’arte procura il bene dell’uomo; dunque non si potrà sapere se la sofistica è quel che pretende di essere, un’arte atta a procurare il bene dell’uomo, se prima non s’impara che cosa sia il bene dell’uomo. Ora il Gorgia, primo tra i dialoghi platonici, una risposta solutiva al problema generale, donde potrà inferirsi la soluzione del problema  da cui il dialogo prende le mosse. Essendo due le dottrine che si contendono il campo circa la nozione di bene, l’utilitarismo eudemonistico e l’edonismo, il Gorgia si articola in tre momenti successivi, la cui successione cronologica è una successione logica; in quanto l’edonismo è in realtà il principio dell’utilitarismo, il superamento di questo non sarà in realtà un vero superamento finché non ne verrà dimostrato infondato il principio. Nella prima fase viene attaccata la più pericolosa delle due posizioni, quell’utilitarismo eudemonistico che, operando la saldatura del bene con la ragione, sembra trasportare su di un piano superiore a quello dei sensi il problema etico: è ancora la dottrina di Socrate che è sotto accusa; l’argomentazione, fondata sul principio  che un utilitarismo, sia pure eudemonistico, non è una dottrina completa in sé, in quanto è condizionata dal concetto di bene cui si connette necessariamente l’utile proposto come fine all’azione umana, scalza anzitutto l’eudemonismo socratico: infatti, se nulla per l’uomo è valido se non ciò che gli viene offerto come universale e necessario, non si potrà chiamare bene per l’uomo la felicità, intesa come vita felice, perché in tal caso dovremmo costruire un universale e necessario con una somma di particolari, quali sono i piaceri, sia pure stabili e duraturi e non contraddittori, che la ragione aduna per dar luogo ad una vita felice; in secondo luogo, abbandonato il piano della dimostrazione confutativa e attinto invece il nuovo piano dell’edificazione positiva, si enuncia la definizione del sommo male inteso come commettere ingiustizia, si assume tale definizione come una tesi da dimostrarsi, attraverso la sua dimostrazione si pure la prova che è vera la definizione del sommo bene, implicita, in quanto definizione del contrario, nella prima di natura negativa; sommo bene è l’agire giustamente, l’essere giusti, il possedere giustizia. La seconda fase, che è la più importante, investe direttamente l’identificazione del bene col piacere immediato e momentaneo che è il principio non solo dell’edonismo ma anche dell’utilitarismo: attraverso sottili disquisizioni e un lungo cozzar di concetti, si giunge alla conclusione che, se bene è il piacere immediato, se virtù è la capacità di conseguirlo, se virtuoso è colui che è capace di procurarsi i piaceri, allora: a) l’uomo verrà ridotto a uno stato di perpetua infelicità, perché costretto a soddisfare incessantemente dei bisogni sempre rinnovantisi; b) si dovrà annullare qualunque distinzione tra piacere e bisogno in quanto essi non possono sussistere l’uno senza l’altro e sono destinati a scomparire assieme, non potendo sussistere  piacere quando vien meno l’attività indirizzata a soddisfare un bisogno che non si faccia più sentire, e quindi si cadrà nella contraddizione che quei due enti – il piacere e il bisogno – l’edonismo li deve concepire come dotati di tutte le proprietà dei contrari, in quanto il piacere è soddisfazione ossia negazione di un bisogno, e insieme non può non concepirli come privi di tale proprietà; c) si annullerà una qualunque distinzione morale tra buoni e cattivi, coraggiosi e vili, pietosi ed empi, in quanto la stessa situazione può procurare piacere a tutti gli uomini; che se poi l’edonista puro, per sfuggire all’intollerabilità logica della sua dottrina, vorrà rifugiarsi nell’utilitarismo, istituendo una distinzione tra i piaceri e dichiarando bene il piacere utile, darà luogo non a una nuova dottrina, ma a una modificazione della vecchia, senza ovviare a nessuna delle aporie di questa: la distinzione, a cui la coscienza dell’insufficienza del puro piacere come criterio morale e l’incapacità di oltrepassare il punto di vista dei sensi hanno condotto, per essere valida deve trovare i suoi presupposti fuori dal sensoriale e dal corporeo, e quindi dal piacere. Infatti, per poter distinguere piaceri utili da piaceri nocivi, non ci si può rifare al piacere in generale, perché questo è nella sua essenza soddisfazione di un bisogno, e tutti i piaceri in sé si riducono a ciò; si dovrà quindi porre a capo a un punto di riferimento diverso dal piacere, punto di riferimento che coinciderà col bene, col vero bene dell’uomo. La terza fase che si propone la ricerca di questo bene, conclude  nella stessa definizione della prima fase, alla quale si riallaccia come una dimostrazione diretta all’indiretta: stabilito che piacere e bene sono due enti distinti, i quali però appartengono entrambi alla generica finalità che caratterizza l’azione umana, poiché questa generica finalità non può non articolarsi nelle due uniche specie del piacere e del bene, si tratterà di vagliare il fine di coloro la cui opera è volta a procurare piacere a sé o agli altri, e il fine di coloro la cui opera non è volta a procurare piacere a sé e agli altri; il fine dei primi non è che soddisfazione di desiderio per conseguire la quale ci si vale di qualunque mezzo; l’opera dei secondi, invece, è tesa al miglioramento dell’uomo, e più precisamente al miglioramento di quella parte dell’uomo che è l’anima - miglioramento che coincide coll’acquisizione di giustizia -; il bene dell’uomo  è dunque la giustizia.

Questa, che è la prima dottrina platonica, enunciata in tutta la sua chiarezza e distinzione, supera l’utilitarismo, anche se all’utilitarismo si ricollega, in quanto – come qualunque altra dottrina morale – non può rinunciare all’uso della nozione di utilità: suo fondamento è il principio che esiste un bene per l’uomo e che questo bene è tale per la sua parte più elevata, che è insieme l’essenza dell’uomo, l’anima. Tralasciando quelli che sono  i presupposti impliciti in tutta questa argomentazione, resta il fatto che nel Gorgia finalmente tocchiamo con mano la soluzione positiva di un problema generale che permetterà di procedere alla soluzione del problema particolare da cui si è mossi, quello del valore e dell’essenza della retorica.



vi

Considerando la retorica - si riprende qui il cammino del Gorgiaera facile accorgersi che non conteneva nella propria natura elementi sufficienti a consentirle di divenir scienza della politica e della morale e scienza in generale; il suo principio cronologico coincideva con il suo principio logico; nata  per procurare un utile il cui fine era il successo politico, ossia un mezzo per procurarsi piaceri, non poteva accogliere a suo principio se non che fine dell’uomo è il piacere o l’utile per il piacere. In essa non c’era altra possibilità di sviluppo. Eppure, in fondo, la retorica si presentava come l’unica forma di sapere possibile: per un uomo e per un popolo, che accolgano come unica forma reale di  vita la vita politica, e riducano questa a un voto di maggioranza pronunciato a favore di questa o di quella tesi, unica forma reale di sapere è una disciplina che studi le condizioni di tale realtà. Siffatta disciplina assumerà ad oggetto dell’indagine i rapporti spirituali, nel senso più lato del termine, che s’instaurano in una assemblea di qualsivoglia genere: mantenendo immutato il fine di ottenere a una tesi e al suo portatore la prevalenza, si assegnerà come compito quello di stabilire e classificare i casi di tali rapporti e di fissare per ogni caso i sistemi più atti a conseguire lo scopo; sarà quindi portata ad estendere il suo raggio di ricerca a un numero molto elevato di componenti, sia quelle interessanti il linguaggio in sé sia quelle costitutive della psicologia affettiva  sia quelle caratterizzanti la ragione sia quelle attinenti alla cultura ed erudizione in genere. Darà quindi luogo a una somma di conoscenze  universali e necessarie, che tuttavia non riguarderanno affatto la natura e l’essenza degli enti politici-sociali-morali, bensì i mezzi per il successo nella politica. Insomma, le sue conoscenze coinvolgeranno sempre la forma, mai la materia; questa sarà sempre necessariamente trattata come un dato privo di essenziale apoditticità, mutevole, sostituibile a volontà, un’opinione.

            La retorica, quindi, celava in se stessa un grave pericolo: se l’unica disciplina che dia sapere riduce il sapere alla conoscenza dei fattori formali e afferma che un sapere, che concerna l’essenza delle cose, non esiste o meglio non presenta alcun interesse od utile al fine cui si mira, si deve necessariamente concludere che una scienza del reale non è possibile o non è necessaria; donde le conseguenze: a) che se non c’è o non interessa che ci sia scienza del reale, non ci sarà o non interesserà sapere che ci sia un reale, come oggetto universale e necessario; b) che non essendoci o non  importando che ci sia oggetto universale e necessario, misura della nostra azione sarà il nostro piacere o il nostro utile per il piacere.  La retorica quindi non solo non era una scienza, ma con la sua esistenza erigeva dinanzi al pensiero una barriera che impediva qualunque interesse per l’esistenza di una scienza e qualunque sforzo per cercarla. E’ naturale allora che prima ancora di provare l’esistenza di una scienza in quanto scienza, fosse necessario scalzare alle radici la retorica, dimostrandone la vera essenza. Questo compito viene assolto da Platone in due dialoghi. Dell’uno – nel quale ci si limita a mettere a nudo le degenerazioni della retorica onde possa conoscersi dalle creature, logiche conseguenze del principio, qual è il valore della madre - non ci interesseremo: l’Eutidemo infatti, che è connesso direttamente al Gorgia, più che una argomentazione, è un palcoscenico per lo spettacolo che la degenerazione della retorica offre di sé: l’informe il brutto l’asimmetrico, in tutte le loro forme, non hanno bisogno di argomenti per una condanna: è sufficiente la loro esposizione alla luce. Poiché veramente fecondo è il Gorgia - che si è già procurato il principio generale da cui giudicare della retorica, essere cioè il fine dell’uomo il bene in quanto giustizia -, si può affermare che questo dialogo è la vera confutazione sostanziale della retorica.

Due strade si presentavano a Platone per dimostrare la retorica rea di insussistenza e di danno alla politica e quindi all’umanità: o provare che essa non era una scienza e nulla di scientifico aveva in sé, o rendere palese che essa coi suoi effetti ledeva non solo la morale, ma anche la politica, ossia quella stessa entità per cui era sorta. La prima via era sbarrata: ci si sarebbe dovuti appellare a una particolare interpretazione della realtà; si sarebbe dovuto sottolineare come gli strumenti della retorica non ci avvicinino ad essa, ma ce ne allontanino; ma il procedimento sarebbe stato valido solo alla condizione che si fosse dimostrato: a) che è possibile all’uomo una scienza o conoscenza universale e necessaria del vero; b) che tale possibilità trova la sua realizzazione nella teoria platonica delle idee separate; ora, a parte il fatto che la dottrina platonica si sarebbe posta come il necessario principio condizionatore della particolare conoscenza per concetti, assunta come scienza, a parte il fatto che non si era ancora dimostrata la possibilità di una scienza in generale, e quindi non erano stati ancora determinati i caratteri che una conoscenza deve rivestire per porsi come scienza, una confutazione che avesse toccato la retorica muovendo da una particolare concezione della scienza – sia pur confortata da tutte le dimostrazioni possibili su questa terra  - non avrebbe scalfito di un grammo la retorica la quale avrebbe continuato a vivere e ad opporsi con novello vigore alla tesi contraria. A Platone era ben presente quella legge dialettica consapevolmente utilizzata da Zenone, che una dottrina mai si confuta mediante un’altra dottrina ma solo con l’assurdo: Zenone, dopo aver dimostrato l’assurdo del sensibile molteplice e diveniente, poteva irridersi di quel tale che al termine dei suoi lunghi ragionamenti si era alzato e si era messo a camminargli sotto gli occhi; i sensi avrebbero continuato a darci l’esistenza del moto e del molto, ma la ragione ne aveva già dimostrato l’impossibilità per l’interiore contraddizione;  quindi i sensi erano un’apparenza, non  una realtà. Lo stesso metodo doveva essere applicato alla retorica – è da ricercarsi qui la ragion sufficiente dell’anteriorità cronologica del Gorgia. E poiché la retorica  costruisce se stessa attraverso due entità che pone in immediata connessione di condizionamento reciproco – da un lato, una certa concezione della realtà e della conoscibilità umane, da cui sgorgano la ricerca e l’uso di particolari strumenti; dall’altro, la pretesa di offrire al’uomo un utile morale in genere -, si dovrà porre la retorica al confronto di quello che è veramente il fine dell’uomo: la dimostrazione che gli effetti della retorica coincidono col conseguimento non già del fine dell’uomo, il bene, bensì del suo contrario, il male, prova che la retorica è preda di una interiore contraddizione che toglie ogni valore sia alle sue pretese di utilità morale-sociale-politica sia ai suoi strumenti sia alle sue concezioni sulla vita politica sia ai suoi principi concernenti la natura del conoscere umano, in quanto questi costituiscono le nozioni prime da cui essa rivela di ricavare quei risultati tanto vantati che si rivelano di danno e non di utile all’uomo. Ci si dispiega così chiara la trama del Gorgia: è necessario svolgere  un’indagine che dimostri che non solo la retorica non ha nulla di morale in sé, ma non è neppure di giovamento alla politica; per questo alla trattazione della retorica in generale dev’essere sovraordinata la soluzione del problema morale, come soluzione dell’agire dell’uomo in generale e , quindi, di quell’agire particolare che è l’atto politico; per questo, nella soluzione del problema morale non si muove dalla dottrina delle idee separate, bensì dalle teorie morali correnti, l’utilitarismo eudemonistico, in cui rientra anche il socratismo, e l’edonismo; se ne scalzano ad uno ad uno i presupposti per giungere alla conclusione che la natura stessa dell’uomo postula un’etica che pone a fine dell’uomo un’entità universale e necessaria, la giustizia, la cui attuazione nel mondo politico-sociale assicura stabilità alla struttura dello stato. La retorica, che è lo strumento con cui l’uomo procura a sé utili validi a fornirgli piaceri, e che in quanto tale ha accolto i principi dell’eudemonismo utilitaristico e, indirettamente, il criterio dell’edonismo, si pone di conseguenza non come sapere e neppure come arte; è un’attività che non conduce al vero fine dell’uomo; è quindi errata e falsa. Che se errati e falsi sono i fini cui essa conduce, errati e falsi saranno i principi da cui essa muove, che cioè all’animo umano si dia opinione e non verità, che l’opinione data sia variabile e mutevole e nulla abbia in sé di prevalente su un’opinione diversa, sì che per prevalere deve appunto far ricorso a mezzi estranei a se stessa, quali la parola, l’argomento dialettico, la mozione dei sentimenti, l’esempio, il dato erudito, ecc. E questo è quanto appunto si doveva dimostrare. Ma, a bene osservare, nel risultato del Gorgia, è implicita un’altra acquisizione certa: se non è vero che non ci sia una conoscenza vera, universale e necessaria, cioè una scienza, sarà vero il contrario contraddittorio che c’è una conoscenza vera, una scienza. Nel Gorgia quindi la dimostrazione della possibilità  della scienza è data secondo la più  consumata tecnica della reductio ad absurdum: si accetta come vera la retorica e di conseguenza si accetta come vera la ragione che essa offre di se stessa quale attività atta a procurare il bene dell’uomo; si descrivono i risultati di un’applicazione della retorica e si prova che essi coincidono o col piacere o coll’utile per il piacere; si dimostra, non muovendo da altra od opposta dottrina, che l’esistenza stessa del piacere nell’uomo postula l’esistenza della giustizia come vero fine dell’uomo, come suo reale bene; si prova che il piacere o l’utile offerto dalla retorica sono la  negazione della giustizia e quindi del bene dell’uomo; si trae la conseguenza che la retorica, definendo se stessa l’attività in vista del bene dell’uomo, entra in contraddizione in quanto il suo esercizio procura il male all’uomo. La retorica quindi è intimamente contraddittoria: errata essa, errato il postulato da cui muove, che non si dia scienza. La dimostrazione per assurdo, svolta drammaticamente in uno scontro tra sostenitori ed oppositori e perciò priva della nuda limpidezza logica di un’argomentazione serrata, non è però sufficiente a provare la possibilità di una scienza, in quanto l’argomenta solo negativamente; necessita quindi una dimostrazione positiva.



vii

Se si nota che la dimostrazione diretta della possibilità della scienza verrà offerta dal Menone il cui inizio pone l’identico problema che apre il Protagora, ossia la questione dell’insegnabilità della virtù, si deve accettare come reale quella successione per sovraordinamento di problemi di generalità crescente, ultimo dei quali è appunto quello della possibilità della scienza, dalla cui soluzione soltanto potrà trarsi la soluzione del primo: poiché l’esistenza di prassi didattiche che pretendono di insegnare la virtù non è prova sufficiente che la virtù sia insegnabile in quanto nessuno dei metodi fornisce garanzia di un proprio intrinseco valore, anzi rivela interiori contraddizioni, la risposta al quesito se la virtù sia insegnabile comporta la soluzione del quesito d’ordine più generale che cosa sia la virtù; d’altra parte, prima di accedere alla conoscenza della virtù è necessario essere certi che è possibile una conoscenza come scienza: il problema etico-sociale-politico sfociava necessariamente nel problema, d’ordine generalissimo e di natura gnoseologica, se sia possibile una conoscenza che sia scienza.



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