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Il ricorso al metodo problematico
Il problema se sia possibile una conoscenza in quanto scienza appartiene all’ordine dei problemi filosofici e non all’ordine dei problemi scientifici; in quanto tale esso è eterno ed immutabile; le soluzioni che se ne danno – per ora il pensiero umano ne ha formulate due e due soltanto – potranno o differenziarsi entro il genere o aumentare, aggiungendosene altre alle due date; ma il variare delle soluzioni non tocca affatto né la fiducia che la scienza nutre in se stessa né il metodo che ciascuna scienza adotta; fiducia e metodo sono condizionati dall’oggetto su cui una scienza particolare indaga; d’altra parte, non esiste nessuna scienza che, in ottemperanza a quella delle due soluzioni cui per un motivo [o] per un altro maggiormente si accosta, possa costringere [se] stessa a conformarsi esclusivamente al metodo che la soluzione filosofica comportaviii
La scienza in sé e per sé, quindi, ignora e deve ignorare il problema; essa ha un compito: studiare il suo oggetto, fornire del suo oggetto nozioni che siano le più ampie e le più coordinate; di più non chiede; di più non si pretende da essa. Perché allora al pensiero umano si è posto il problema della possibilità della scienza? E’ lecito affermare che due sono le condizioni sotto cui si dà il sorgere della domanda, condizioni che si verificano sempre al di fuori di una e di ogni indagine scientifica che si esplichi come tale, e che perciò, non realizzandosi mai all’interno di una scienza, non portano mai la scienza, in quanto scienza, al dubbio su se stessa e al dubbio sulla scienza in generale; delle due condizioni l’una è contingente, l’altra è necessaria; l’una è destinata a trovar corpo in una certa situazione storica, l’altra permane immutata nella mente umana; l’una è di natura gnoseologica, l’altra di natura logica. Quest’ultima, di conseguenza, è in un certo senso la causa permanente, che giace potenzialmente sempre presente nel pensiero e che il darsi dell’altra pone in atto. La condizione necessaria,immutata, logica, sussiste nel pensiero umano ed è da identificarsi con uno dei quattro principi di cui qualunque scienza fa uso nelle sue ricerche ix.
La scienza in generale usa i quattro principi, ma solo per ciascuna delle proposizioni particolari che la compongono: essa potrà assoggettarsi all’improbo lavorio di un controllo e di una correzione perenne, potrà modificare questo o quel giudizio, potrà garantirsi le spalle con un certo numero di postulati, con i quali ottempera alla legge di ragione col ricorso alla convenzione, o di assiomi mediante i quali si tributa alla legge di ragione ottemperanza col sussidio dell’evidenza immediata. Ma i giudizi su cui essa applica l’uso l’utilizzazione la verifica la necessità dei quattro principi, sono sempre giudizi il cui soggetto è o l’oggetto - 32 -d’indagine, mediatamente o immediatamente assunto, o un oggetto più o meno generico cui l’oggetto di indagine può ricondursi. Con ciò, quindi, essa mai fuoriesce da se stessa e mai sottopone se stessa ai quattro principi. Perché questo possa darsi è necessario che il soggetto del giudizio venga a identificarsi con la scienza, intesa non già come conoscenza di questo o quell’oggetto, ma come una specie del conoscere in genere un oggetto in genere: in caso siffatto l’oggetto d’indagine di una scienza particolare non potrà più essere ricondotto al soggetto, e quindi l’indagine che si costruisce mediante il giudizio non può più svolgersi sull’oggetto in genere di una scienza in genere. E, poiché ciò che vale per una scienza vale per tutte, nessuna scienza che ponga un tale giudizio potrà dichiarare se stessa scienza. Resta dimostrato così che nessuna scienza, se vuole rimanere tale, può proporsi un giudizio il cui soggetto sia la scienza stessa: tale giudizio non appartiene quindi alla scienza. D’altra parte, questo giudizio è un necessario: se di tutti gli enti mentali si può dire che non godono del diritto e della possibilità di porsi come predicati se non nelle tautologie, e se di tutti gli enti mentali si può dire che non godono del diritto e della possibilità di porsi come soggetti se non nelle tautologie, sarà possibile stabilire quali siano gli enti mentali che non godono della prima possibilità e quali siano quelli che non godono della seconda; se alla prima classe appartengono gli enti mentali individuali di cui non si dà specie e alla seconda classe appartengono gli enti mentali genericissimi di cui non si dà genere, poiché la scienza, nel senso di specie del conoscere in genere un oggetto in genere, non appartiene né alla prima né alla seconda classe, l’ente mentale scienza potrà sempre porsi come soggetto di un giudizio, il quale però non appartiene a nessuna delle serie di giudizi propri di una scienza particolare. D’altra parte, poiché un concetto che può porsi come soggetto o come predicato necessariamente deve entrare in un giudizio o nell’una o nell’altra funzione o in entrambe le funzioni, nel nostro pensiero devono esistere dei giudizi che hanno in sé come soggetto il concetto di scienza, in quanto speciale conoscenza in genere di un oggetto in genere, giudizi che non apparterranno a nessuna scienza particolare, ma che, come giudizi, saranno sottoposti alle quattro grandi leggi del pensiero. Ma il giudizio, che sempre e necessariamente viene formulato intorno ad un qualunque concetto di cui l’intelletto entri in possesso, è il giudizio di identità totale, che si articola nelle due forme della tautologia e della definizione; quindi il pensiero dal primo istante in cui è entrato in possesso della nozione di scienza ha formulato sia il giudizio tautologico che la scienza è la scienza sia il giudizio definitorio che identifica la scienza con quella specie di conoscenza con cui tutte le scienze particolari in genere si identificano. Ora, poiché le scienze particolari si pongono come somme di conoscenze o giudizi che pretendono di ottemperare alle tre leggi dell’identità della contraddizione della ragion sufficiente, e di essere in tal modo somme di conoscenza, ossia di giudizi, nelle quali il predicato si identifica - 33 -con il soggetto, indipendentemente da relazioni o di tempo o di spazio o di situazione psicologica personale in ogni giudizio di scienza il predicato non può non identificarsi con il soggetto in virtù di una garanzia, e poiché nessuna mente può rifiutare di ritenere uno quel che è uno, la conoscenza di identità è una conoscenza che non può variare da mente a mente e da momento a momento, è quindi una conoscenza universale e necessaria. Di conseguenza il giudizio definitorio della scienza sarà: la scienza è una conoscenza di un pensiero in genere la quale non muta in nessun momento e in nessuna modalità della sua attività. Tale giudizio, ripetiamo, investendo non un oggetto mediato o immediato, ma la scienza in genere di un oggetto in genere, scienza che sarà pur sempre un ente mentale a cui nessun oggetto di una scienza particolare può essere ricondotto, non appartiene alla serie di giudizi di nessuna scienza particolare. D’altra parte, tale giudizio è un giudizio e come tale sottostà al principio di identità, ossia stabilisce una identità; sottostà al principio di contraddizione, ossia è tale che il suo predicato non può essere sostituito se non per una qualche ragione, ma sottostà pure al principio di ragione, vale a dire l’identificazione in cui esso consiste deve trovare garanzia in un ente che non sia il rapporto stesso di identità in cui le due nozioni del soggetto e del predicato si trovano entro il giudizio; la garanzia, com’è logico, non la ricerca una scienza particolare, ma la ricerca il pensiero in generale. E anche qui il comportamento normale del pensiero si manifesta identico al comportamento assunto nelle singole scienze: come nella fase iniziale di queste il pensiero s’accontenta dell’esperienza che non è se non il contatto immediato con l’oggetto d’indagine, così a proposito del giudizio definitorio della scienza il pensiero sosta in una prima fase in cui s’accontenta dell’esperienza, un’esperienza che un questo caso sarà il contatto immediato con l’oggetto d’indagine che è la scienza in quanto classe di tutte le scienze; fino a che queste dimostrano di realizzare in sé la forma fissata dal predicato del giudizio di definizione e quindi di avere in ogni loro giudizio un possibile soggetto del giudizio di definizione, il pensiero, sentendosi in ottemperanza con la legge di ragione, accoglie il giudizio. Ma, non appena un qualsiasi membro della classe scienza, ossia una qualunque scienza particolare, rivelerà di non attuare in sé l’identificazione di una propria nozione in genere col soggetto del giudizio di definizione, tosto il principio entrerà in funzione e il pensiero si troverà nella necessità di ripudiare la definizione di scienza oppure di dimostrarla col ricorso ad una garanzia diversa da quella offerta dalle singole scienze. Ripetiamo ancora che ciò si verifica fuori dal campo d’azione di una qualsiasi scienza, e non tocca affatto le indagini di nessuna scienza; perché, nel caso in cui una scienza particolare si inducesse a sottoporre al controllo del principio di ragione se stessa, lo potrebbe fare solo col ricorso al proprio oggetto, nel qual caso dovrebbe solo operare una correzione, oppure col ricorso alla scienza in genere di un oggetto in genere; ma in questo caso cesserebbe - 34 -di essere quello che è. In breve, l’intervento del principio di ragione sulla definizione della scienza è un atto del pensiero in generale, che per aver luogo necessita dell’insorgere di una situazione che non può essere se non contingente.
Se per situazione contingente s’intende quel fatto di qualunque natura che, sorgendo d’improvviso nell’interno di una scienza particolare ne provoca uno sconvolgimento più o meno grave del corso, una situazione contingente può presentarsi in modo tale da investire una sola parte della scienza e da costringere questa a risolvere, in uno o altro modo, quel nuovo che non s’inquadra a lato delle vecchie nozioni che tuttavia restano intatte – l’offrirsi al pensiero matematico della nozione d’incommensurabilità sembra probabile abbia provocato una crisi che, risanata più tardi, doveva aprire nuove prospettive senza tuttavia intaccare in nulla la validità delle nozioni già possedute intorno al commensurabile -; ma possono pure darsi situazioni contingenti le quali interessano tutto l’ordine di nozioni di una scienza particolare e che quindi pongono in crisi l’intera scienza: la crisi cova lentamente, fino a scoppiare e a costringere il pensiero a giudicare di quella scienza in senso negativo. Due volte questo si è verificato nel corso della storia del pensiero. La prima volta la situazione contingente insorse entro la sfera della politica nel corso del secolo VI. La politica, che fino allora era stata un complesso di giudizi universali e necessari cui l’intervento divino, soddisfacendo alle istanze del principio di ragione, conferiva la natura di conoscenze scientifiche, si trasformò d’improvviso in un corpo di giudizi formulati dal pensiero umano; quantunque essi fossero stati sottoposti alla tutela della divinità, quantunque si fossero rivestiti di una forma linguistica, la prosa, che per essere stata fino allora esclusa dall’ambito letterario in genere assumeva le funzioni di una forma di linguaggio divino, quantunque fossero stati scritti nel bronzo quasi perché mutuassero dall’apparente immutabilità dei dati sensoriali la perenne identità del reale, tuttavia essi restavano nella loro essenza una fattura umana. Basterà che nel corso dei secoli lentamente quel giudizio politico, che è la legge, cessi di essere prerogativa di uno solo e divenga il prodotto di un’assemblea, la quale con la sovranità della maggioranza sancisce la formulazione che ne han fatto uno o alcuni pensieri, basterà questo perché il principio di ragione non più soddisfatto torni a levare nel pensiero la sua insistente voce. Privata della possibilità di dedurre dall’universalità di un generale l’universalità del particolare che le interessa, la conoscenza politica non può che rivolgersi all’esperienza, la quale però le nega l’universalità in quanto non le offre che una serie di giudizi diversi o contrari, e quindi contraddittori, tutti in sé equipollenti, tutti destinati a mutuare la necessità della natura di legge da un consenso altrui, la cui concessione non pare legata all’essenza di questo piuttosto che di quel giudizio. La politica allora si trova costretta a negare a se stessa la natura di scienza, e la proposizione «la scienza è una conoscenza universale e - 35 -necessaria» deve rinunciare al suo valore di universale giudizio di definizione.
Qualcosa di simile, ma in un ordine di conoscenze scientifiche diverse e non più sul piano gnoseologico ma sul piano logico, doveva scatenarsi entro la fisica circa due millenni più tardi. La dichiarazione d’inconoscibilità dell’essenza formale e la rinuncia forzata, che ne deriva, a porre a principio dei giudizi fisici la natura eterna e immutabile delle diverse sostanze, dovettero lasciare passare alcuni secoli, almeno dal 1300 al 1500, per potere diventare operanti e determinanti nell’intimo della scienza della natura. Il loro intervento, da qualunque fattore storico sia stato determinato, comportò immediatamente l’assunzione di un nuovo criterio di ragione a garanzia del giudizio scientifico: poiché il giudizio scientifico non poteva più essere fondato su di un rapporto d’identità fra soggetto e predicato derivante la propria ragione dal porsi del predicato come manifestazione o estrinsecazione o mozione dell’essenza del soggetto, si dovette ricorrere a quell’unica forma di identità che al pensiero è nota a lato dell’identità causale, ossia all’identità quantitativa e matematica, per cui soggetto e predicato si pongono come due espressioni distinte nel modo quantitativo, ma identiche nella totalità della quantità. La legge naturale da rapporto causale essenziale si trasformava in rapporto di quantità identiche. Tutti i giudizi della scienza della natura ne risentirono: le scienze biologiche si trasformarono in scienze di classificazione e di morfologia; le leggi di alcuni aspetti della natura, come le leggi dell’ottica, non subirono che lievi mutamenti, mentre presentarono, invece, un arricchimento ed una espansione prima neppure supponibili; altri aspetti della natura al contrario, come quelli della staticità del movimento e del cielo, risentirono profondamente del nuovo metodo: la loro indagine, ormai svincolata dall’essenza e libera di rivolgersi esclusivamente agli aspetti quantitativi per coglierne il rapporto di identità, scoprì via via rapporti sempre più numerosi e sorprendenti, arricchì di giudizi universali e necessari sempre più numerosi il corpo della scienza fisica, introdusse ai fini dell’intellezione dei fenomeni il ricorso a un rapporto causale come rapporto fra eterogenei. Ma l’accettazione del giudizio di natura matematica traeva seco alcune conseguenze. La matematica è sì legata all’essenza, opera sì per concetti, e il suo erigersi a scienza è sì connesso al vincolo fra dati fondato sulla loro appartenenza a una figura o a un numero più che sulla connessione costante che i dati offrono nell’esperienzax; ma la soggezione della matematica all’essenza è molto tenue, perché se in geometria una figura può essere sempre trasformata in un’altra quantitativamente uguale, ma qualitativamente diversa, se un numero dispari diventa pari con l’aggiunta o la detrazione di un’unità, se un cerchio, cioè una figura curvilinea, può identificarsi con un poligono di numero infinito di lati, la matematica deve necessariamente rassegnarsi a rinunciare sempre più alla connessione tra l’identità di un rapporto quantitativo e l’essenza dell’oggetto in cui l’identità si verifica, e a ridurre i propri procedimenti sempre più a un passaggio - 36 -da giudizio a giudizio per sostituzione al soggetto o al predicato o ad entrambi di elementi che sono di modo quantitativo differente, ma di essenza quantitativa identica e pei quali la differenza del modo quantitativo e l’identità dell’essenza quantitativa non dipendono affatto dal porsi come attributi di questa o di quella essenzaxi. Questa quasi assoluta indipendenza dall’essenza, trasportata nel campo della fisica, porta la scienza e il pensiero che sempre si sovraordina ad ogni scienza a particolari comportamenti: anzitutto a trascegliere alcune componenti presenti in tutti gli oggetti e a considerarle come fondamentali per il fenomeno come quelle che manifestano quel rapporto di identità quantitativa che interessa cogliere; a elidere poi qualunque oggetto individuale e con ciò a stabilire definitivamente l’esclusione delle essenze dalla natura; con ciò si riduceva il reale alle due uniche componenti del pensiero e della natura, quest’ultima però concepita come costituita di quei fattori – il tempo ridotto, come ha notato Bergson, a una simultaneità di posizioni, lo spazio geometricamente concepito, le sensazioni in quanto riducibili a fatti della quantità – in cui può essere introdotta la misura, ossia la determinazione numerica della quantità; indi, sarebbero bastate le semplici osservazioni che le simultaneità di posizioni sono dati spaziali, che lo spazio è un omogeneo sussistente solo per le sensazioni, perché la natura fosse ridotta a sensazione. Pensiero e sensazione sono, dunque, gli unici fattori del giudizio scientifico; ancora un passo, ancora una osservazione, e la sensazione si sarebbe rivelata per quel che è, o piuttosto si sarebbe voluto vedere nella sensazione solo quelli che paiono suoi caratteri esclusivi quando la si faccia uscire da ogni rapporto che si sovraordini alla sua genesi, vale a dire una modificazione soggettiva, particolare perché nessuna sensazione è identica per tutti i pensieri, contingente perché nessuna sensazione trae né da un’altra sensazione né da se stessa ragione sufficiente per essere e per essere quel che è. Donde viene allora quel rapporto di necessità universale che lega due o più sensazioni in rapporti quantitativi identificabili e perciò strutturabili in equazione? Non dalla sensazione certo; dovrà provenire dal soggetto conoscente; ma il soggetto conoscente non può immettere universalità e necessarietà in enti che non le posseggono; dovrà quindi essere un meccanismo psicologico, il quale opera sulle sensazioni quel che opera su qualunque ripetizione; quando diversi dati si danno in un certo rapporto reciproco costante, insorge il meccanismo psicologico dell’associazione: la legge naturale, quella che Hume con termine parziale chiama legge di causa, è un’abitudine rafforzata dalla credenza; la fisica non è una scienza, ma un complesso di opinioni. Ancora una volta il giudizio definitorio della scienza è costretto dal principio di ragione ad ammettere di essere destituito di fondamento. Le due situazioni, separate nel tempo da due millenni, si presentano al pensiero perfettamente identiche. Che la scienza sia una conoscenza universale e necessaria è un giudizio definitorio cui è venuta meno la ragione - 37 -sufficiente. Almeno sotto un aspetto il pensiero deve dichiarare impossibile la scienza.
Al pensiero, giunto a questo punto, non restano che due strade. Può dichiarare insussumibile sotto il concetto di scienza solamente quella particolare conoscenza che si è rivelata insuscettibile di accogliere la predicazione del giudizio di generica definizione della scienza, con lo scopo pratico di trovare un principio che salvaguardi entro certi limiti i rapporti tra il soggetto conoscente e l’oggetto inconoscibile e consenta un’azione, sia pur non sicura ma pur sempre azione, nei confronti dell’oggetto stesso, e con lo scopo teoretico di salvaguardare la dignità e sicurezza di scienza a tutte le conoscenze che non vengano a trovarsi nelle stesse condizioni di quella che si è dimostrata essere una pseudoscienza. Ma un simile atteggiamento, che è in fondo quello dei sofisti e di Hume i quali, gli uni rispetto all’entità etico-sociale-politica, l’altro nei confronti dell’oggetto natura, formulano un rapporto di probabilità tra soggetto conoscente e oggetto che consente l’azione se non la scienza, atteggiamento che nulla ha che fare con lo scetticismo, anche s e spesso è stato confuso con esso – mentre lo scetticismo investe il soggetto conoscente in tutta la sua interezza e dall’essenza stessa del soggetto conoscente inferisce la sua incapacità alla scienza, l’atteggiamento sofistico-humiano, che a buon diritto può chiamarsi un parzialismo gnoseologico, accetta una scienza in genere e alcune scienze in particolare, ma ripudia le altre – un simile atteggiamento non è logicamente valido, in quanto non si rende conto a) che la ragion sufficiente, la cui assenza è stata assunta a segno della natura non scientifica delle conoscenze morale-politiche o fisiche, vale a dire l’universalità e necessarietà che i principi di tali conoscenze dovrebbero possedere come attributi, viene a mancare appunto in forza della definizione loro, di conoscenze aventi a loro principio l’appello necessario al particolare dell’esperienza; b) che questo appello necessario deve assumersi come ragion sufficiente di qualunque altra conoscenza che voglia porsi come scienza, in quanto, a rigore, tale definizione non è che un momento particolare della condizione umana che nessuna conoscenza si dia che non tragga origine dal particolare dell’esperienza. Tale atteggiamento conduce, quindi, a uno scetticismo che è però di natura differente dallo scetticismo propriamente detto in quanto non investe il soggetto conoscente bensì i suoi rapporti con l’esperienza i quali tuttavia non possono venire trascurati da una conoscenza che voglia porsi come scienza. Poiché il soggetto conoscente, che in sé possiede tutti i requisiti per dar luogo alla scienza – capacità di riconoscere l’universale e il necessario, principi logici, attitudine a concatenare e ordinare, ecc. -, di questi requisiti non può far uso se non prendendo contatto con l’universale e il necessario, contatto che può avvenire solo nel rapporto con l’esperienza da cui però non può scaturire né universale né necessario, il soggetto conoscente non potrà dar luogo a nessuna scienza, e a nulla vale rifugiarsi nell’indagine delle parole, del linguaggio, della psicologia, della logica, come credono di poter fare - 38 -i sofisti; e a nulla vale recingere le indagini matematiche nel sacrario che Hume erige loro, perché nessuna di tali scienze può sorgere senza quell’appello all’esperienza che le priva del valore di scienza.
Lo stesso pensiero può, d’altra parte, riflettere sul giudizio di definizione della scienza in genere e sulle condizioni in genere per le quali l’imperio del principio di ragione fa scattare la legge di contraddizione e impone una dichiarazione di nullità nei confronti di una predicazione. Il principio di ragione impone il ripudio di una predicazione quando sotto tutti i riguardi l’identificazione soggetto-predicato non trova suffragio in nessuna delle possibili condizioni garanti. Ora, l’annullamento della predicazione «conoscenza universale e necessaria» del concetto «scienza» non può essere fatta sotto tutti i riguardi: a Platone sembra possibile appellarsi all’esistenza di una conoscenza, quella geometrica, che attraverso i suoi rapporti con l’esperienza ricava nozioni la cui universalità e necessità è garantita successivamente dalla dimostrazione; Kant può riflettere sula legge di causalità, intesa come rapporto d’identità quantitativa, e notare come, dal punto di vista puramente soggettivo, quelle proprietà di universalità e necessità che la qualificano non possono essere né rigettate come effetti di una surrezione né concepite frutto di abitudine e quindi tanto meno di credenza. Il pensiero allora si trova nella condizione di dover dichiarare che, se alcune delle conoscenze in generale comportano il giudizio «la scienza non è una conoscenza universale e necessaria», ossia «la scienza non è scienza», vale a dire «la scienza non c’è», altri momenti della conoscenza in generale rendono lecito il giudizio contraddittorio «la scienza è una conoscenza universale e necessaria» ossia «si dà scienza». La riflessione quindi che considera in generale il giudizio definitorio della scienza nei suoi rapporti col principio di ragione, non si trova affatto in possesso di una certezza assoluta per poter o attribuire o togliere valore di verità al giudizio definitorio della scienza in generale. Ora, nei casi di incertezza, resta sempre aperta al pensiero la grande risorsa del ricorso alla possibilità.
Quando insorgono dubbi circa la realtà di un oggetto o di un aspetto di un oggetto, è sempre lecito controllare se dell’oggetto è predicabile la nozione di «possibile»; una risposta affermativa garantisce la realtà dell’oggetto e dell’aspetto. Un’indagine che fissi l’essenza della nozione del possibile, le condizioni della sua predicabilità, gli effetti della sua predicazione, rivela le implicite risorse di questo procedimentoxii.
Perché possa porsi nel nostro pensiero una nozione di possibilità è necessario che si diano sul piano logico alcuni caratteri propri di quella nozione che la accetterà a proprio predicato: la nozione soggetto deve essere tale che il pensiero non possa affermare né che è né che non è; perché la nozione di possibilità possa predicarsi è necessario che della nozione che patisce la predicazione non sia lecito affermare né la realtà né l’irrealtà. Allora, il completo intendimento di una siffatta condizione viene a subordinarsi alle nozioni che il pensiero possiede del reale e dell’irreale. Non si possono limitare queste nozioni al semplice esistere o - 39 -non esistere indipendentemente dal pensiero individuale empirico, come giudicano l’ontologia e una logica che si connetta all’ontologia, perché in tal caso la sfera della possibilità si restringerebbe a confini che sono molto al di qua di quelli effettivi entro i quali la logica stessa fa uso della nozione del possibile. La ragione, infatti, può trattare come possibile anche una nota di un ente puramente mentale, di un ente cioè che esista solo in dipendenza di un pensiero individuale empirico, quando per tale nota si verifichino tutte le condizioni di una sua predicabilità da parte della nozione di possibile, e, d’altra parte, se è vero che la ragione nelle sue operazioni spontanee accetta come reali tutte le idee o nozioni mentali mentre invece l’ontologia le tratta come dei possibili, ciò appunto si deve alla diversa nozione di reale di cui si valgono la logica naturale e l’ontologia. L’ontologia e la logica da essa dipendente, assumendo come connotazione del reale l’esistenza indipendente dal pensiero individuale empirico, riducono tutte le idee sotto l’unica predicazione della possibilità, ma non rendono ragione della liceità e modalità della conoscenza di tali idee. I limiti quindi della nozione di reale vanno ampliati in modo da comprendere anche ciò che può esistere subordinatamente all’esistenza di altro, vale a dire tutti gli enti che o siano accidenti o siano modificazioni della coscienza, enti che rispettivamente mutuano l’esistenza o dall’essenza o dal pensiero individuale empirico. D’altra parte, per definire il concetto di reale non si potrà fare appello neppure al principio di ragione: in fondo, la definizione ontologica del reale, come ciò che esiste indipendentemente dal pensiero individuale empirico, cela di fatto come presupposto implicito che il reale sia ciò di cui si dà una ragione che è reale; ora, a parte il fatto che la predicazione del possibile non può darsi in connessione con le ragioni che, rendendosi reali, daranno luogo alla realtà di ciò che si vuole predicare possibile, a parte quindi il fatto che la nozione del possibile comporta una situazione di ignoranza sulla realtà delle ragioni o immediate o mediate, siano queste ultime le più logicamente o cronologicamente lontane dalla nozione che giudichiamo possibile – infatti se al nostro pensiero fosse dato il possesso della realtà di tutte le ragioni dell’universo nel suo seno non potrebbe albergare la nozione di possibile -, quando l’ontologia connette la nozione di un reale alla nozione della realtà della sua ragione, ciò fa con lo scopo di sottolineare quell’impossibilità in cui si trova il pensiero empirico di realizzare tutte le sue idee e con lo scopo di riferire la realizzazione di quei possibili che per essa sono i concetti a una causa estranea al pensiero empirico: per l’ontologia, la nozione di uomo resterà sempre un possibile finché non interverrà una causa reale, non coincidente col pensiero individuale, a dare realtà a tale nozione; ma operando in questo modo l’ontologia non si rende conto che in forza di ciò che di implicito si dà nella sua definizione, ma in contraddizione con la definizione stessa, la nozione di uomo sul piano logico si pone come un reale in quanto è soggetta ai quattro principi del pensiero, e in particolare al principio di ragione che garantisce la realtà - 40 -del pensato uomo in quanto pensato facendo di sé la conseguenza delle ragioni dell’animalità e della razionalità, entrambe pensate e quindi entrambe reali per la logica; e questa infatti non investirà mai un concetto genere o un concetto specie della predicazione del possibile in quanto le si danno in atto le ragioni e in quanto tali concetti obbediscono al principio di ragione, investirà sempre e soltanto i concetti di individuo empirico della nozione di possibilità in quanto la loro causalità è una causalità non logica e perciò non posseduta in atto dal pensiero. Ancora, l’ontologia col ricondurre la nozione del reale al principio di ragione si preclude la via a dichiarare reale un reale di cui si debba affermare inesistente una qualunque ragione, vale a dire un reale contingente; infine l’appello al principio di ragione comporta che si debba dubitare della realtà di quei fatti di cui si ignora la natura della ragione anche se si ammette che ne esista una: per una siffatta definizione tutto il mondo delle sensazioni per ciò che riguarda la sua esistenza dovrebbe far sorgere il dubbio sulla sua realtà, che è quanto appunto avrebbero dovuto fare tutti gli ontologisti perfettamente coerenti con le loro premesse, sulle orme di Cartesio. Per il pensiero, sul piano logico, la predicazione del reale nasce da un’applicazione del principio di contraddizione, utilizzato indipendentemente dal principio di ragione: reale è ciò che non offende il principio di contraddizione, irreale ciò che l’offende; è reale ogni dato sensoriale, in quanto esso in questo momento e in questo luogo offre questa e non altra sensazione; è reale questo fatto che dichiaro contingente, in quanto esso in questo momento e in questo luogo è quello che è e non è altro da quello che è; è reale ogni idea in quanto le sue note non entrino in contraddizione reciproca; è reale una teoria le cui componenti non siano l’una la negazione dell’altra; ma tutto ciò che contiene contraddizione è irreale. Il concetto di irrealtà viene allora a distinguersi nettamente da quello di impossibilità: il primo, infatti, offende il principio di contraddizione direttamente, il secondo invece indirettamente, in quanto s’appella in nome del principio di ragione come a sua ragione a un ente che nella realtà non può sussistere in quanto esso stesso contraddittorio o dipendente da un altro ente di cui si possa affermare nello stesso modo la contraddittorietà. Ora, se reale è il non-contraddittorio e irreale l’immediatamente contraddittorio, la possibilità, in quanto predicato necessario di ciò che non è né reale né irreale è l’equivalente della simultanea impredicabilità della contraddittorietà e della non-contraddittorietà: col che la nozione di possibile diventa l’effetto dell’esclusione dell’ente predicato possibile dalla giurisdizione del principio di contraddizione, almeno per quella nota limitatamente alla quale l’ente è affermato possibile. La prima condizione, dunque, per cui si dà un possibile è che un ente mentale o una sua nota siano tali che di essi si possa dire che né offendono né non offendono il principio di contraddizione.
Un ente mentale o una sua nota per poter ricevere la predicazione della possibilità debbono o possedere in sé immanentemente una ragione o principio con cui l’ente o la nota s’identificano, o subordinarsi a una - 41 -ragione o principio trascendenti che fanno di essi la propria conclusione, ragione o principio, in entrambi i casi, i quali o non accolgano né la predicazione della contraddittorietà né la predicazione della non-contraddittorietà o si rifacciano come conclusioni a una ragione o principio della loro stessa natura logica e così via fino a giungere a quella ragione la cui possibilità non dipenda più da altre ragioni possibili, ma semplicemente da essa stessa, nel senso che il pensiero se gli fosse dato di porla come concreto caso particolare del principio di contraddizione, la troverebbe non contraddittoria. Si rivela qui una delle grandi condizioni della logica e del pensiero astratto in genere: il principio di contraddizione è una legge la cui attuazione non è univoca: stabilito che una legge in genere si ha il diritto di dirla attuata, o se si vuole applicata, quando la sua struttura generica è ritrovata dall’intendimento entro qualche altro ente che si pone nei confronti della legge nello stesso rapporto di un particolare a un generale, si danno casi nei quali l’attuazione è immediata, nel senso che è da dichiararsi necessaria in seguito al mero accoglimento del particolare entro l’intendimento: è questo il caso di tutte le intuizioni, di qualunque genere esse siano e da qualunque facoltà interiore esse provengano; ma vi sono casi in cui l’attuazione non è immediata nel senso che è da dichiararsi necessaria solamente in seguito alla duplice verifica del darsi di un rapporto tra l’ente, di cui l’intendimento vuol controllare la subordinazione al principio di contraddizione, o, il che fa lo stesso, l’attuarsi in esso di questo principio, e la sua ragione sufficiente, e del darsi di questa ragione stessa; è questo il caso di tutti gli enti che non siano forniti da un’intuizione immediata o di tutte le intuizioni che si verifichino con modi differenti da quelli imposti dalle norme regolanti i modi di tutte le altre intuizioni della stessa classe delle intuizioni date. E’ evidente che la predicazione di possibilità nei casi del primo tipo, ossia l’affermazione che un’intuizione «normale» è possibile, non è enunciabile perché sarebbe l’equivalente di un giudizio di sottrazione alla giurisdizione del principio di contraddizione enunciato in un caso in cui la sottrazione o non si verifica o, se si verifica, è offesa allo stesso principio, e quindi irrealtà e impossibilità. Quanto alle condizioni dell’uso della nozione di possibilità nei casi del secondo tipo, qui all’intendimento è dato sfuggire al principio di contraddizione in un modo solo, vale a dire dichiarando la ragione stessa dell’ente considerato sottratta al principio di contraddizione, in quanto a questa è sottratta la ragione della ragione, e così via. Ma a questo punto al pensiero non restano che due sole vie: o concepire una catena infinita di ragioni, tutte sottratte al principio di ragione e trovanti quindi la giustificazione della propria elusione del principio di contraddizione nell’elusione dello stesso principio da parte della ragione sovraordinata; il che necessariamente porta ad elidere ogni reale e a ridurre tutto a possibile; oppure porre capo a una ragione che di per sé deve essere accolta come possibile, che cioè necessariamente è posta come esistente e non-esistente in sé, senza che questo possa offendere il principio di - 42 -contraddizione; ma al pensiero non è lecito sottrarre alcunché al principio di contraddizione, se non sottraendo a questo la ragione di ciò che si esclude dalla giurisdizione del principio. Dovremo, per questo, dichiarare che l’uso assolutamente logico della nozione di possibilità è un irreale e un impossibile, in quanto a principio della catena delle ragioni la possibilità di ciascuna delle quali è mutuata dalla possibilità della ragione immediatamente sovraordinata deve porre una ragione la cui possibilità non ha ragion d’essere.
Dalla seconda condizione dell’uso della nozione della possibilità risultano alcuni corollari che investono l’uso in genere della stessa nozione; quello che i logici chiamano uso soggettivo o possibilità soggettiva è in realtà un’applicazione imperfetta e limitata del concetto di possibile, un’applicazione che chiameremmo di comodo e pragmatica, in quanto limita la soddisfazione della seconda condizione alle ragioni immediate o prossime: quando, guardando il cielo, diciamo: «Oggi può piovere», sottraiamo il nostro giudizio al principio di contraddizione («oggi può piovere» = [«oggi piove» = «oggi non piove»]), e giustifichiamo la sottrazione affermando, implicitamente, possibili le cause o immediate o prossime della pioggia; che, se volessimo o se ci fosse concesso risalire tutta la catena delle cause, giungeremmo ad una causa reale la quale determinerebbe in un certo modo la processione delle ragioni fino all’ultima che è la condizione del darsi o del non darsi della pioggia. L’uso della nozione del possibile che i logici chiamano oggettivo o della possibilità oggettiva, in realtà è o un inutile o un errato; un inutile, in quanto la predicazione della possibilità riferita ad un certo ente mentale può avvenire tramite una processione di ragioni che pongano capo ad una ragione mentale – in questo caso il nostro «possibile» ha un valore puramente cronologico ed è identico alla nozione di «futuro» -, un illogico, in quanto, concepita la nozione di possibile come identica alla nozione di «un sottraentesi alle condizione del principio di contraddizione in quanto a tali condizioni si sottrae la sua ragione», al principio del processo delle ragioni pone un concetto il cui predicato di possibile è pensato come «un sottraentesi di per sé alle condizioni del principio di contraddizione», e, di conseguenza, cade nell’errore di paralogismo, usando con apparente univocità una nozione di fatto equivoca; che se poi pretende di trattare quell’ultima ragione come un ossequiente alla legge di contraddizione e di considerarlo ciononostante un possibile e non un reale, in questo caso lo stesso errore si porta dalla nozione di possibile alla nozione di reale. L’indagine dunque sulla seconda condizione della predicabilità della nozione di possibile ha stabilito: a) che tale predicazione si dà solo per quell’ente o per quella nota di un ente per cui si dia una ragione essa stessa possibile; b) che tale predicazione è, rispetto a questa condizione, di portata puramente contingente e non necessaria, in quanto per godere dei diritti di validità logica deve porre capo ad una situazione di ignoranza subita o volutamente fittizia, a una condizione, quindi, che esula dalla necessità logica; c) che tale - 43 -predicazione, sempre rispetto alla condizione a), qualora pretenda di godere di tutti i crismi della validità logica è impossibile. Vedremo, poi, le conseguenze di ciò.
L’ultima condizione, ritrovata la quale in un ente, è consentito riferire a quest’ente la predicazione della possibilità, è quella che meglio c’illumina sulla natura della possibilità in generale. Se la nozione di possibile è riferita a un ente mentale in due soli casi, nel caso in cui dell’ente si ignori la catena completa delle cause e a causa di ciò si debbano dichiarare possibili le cause immediate o prossime, e nel caso in cui non possa ritrovarsi per l’ente nessuna causa reale né prossima né remota e si sia, per questo, costretti a costruire una catena finita di cause, tutte possibili e tutte ponenti capo a una causa prima di possibilità arbitraria, non sarà mai lecito inferire il reale dal possibile: nel possibile abbiamo un’identità fra due giudizi contraddittori, e quest’identità sussiste per l’identità di due altri giudizi contraddittori concernenti la ragione immediatamente sovraordinata, identità la quale a sua volta è garantita da un’identità uguale; di conseguenza, nel caso in cui il processo ascendente delle identità si arresti a una condizione di ignoranza, non sarà consentito al pensiero muovere da un punto di partenza zero per portarsi a un traguardo che possegga un contenuto reale; l’ignoranza, appunto, dell’anello iniziale della catena nulla consente di dire circa l’ultimo anello; in altre parole, non sarà possibile operare alcuna scelta sui due giudizi contraddittori impliciti nel primo giudizio problematico, scelta che comporterebbe una dichiarazione di realtà per l’uno e di impossibilità per l’altro; soltanto la realtà, cioè soltanto l’effettivo scattare del principio di contraddizione, sancirà che all’uno solo dei giudizi era consentito entrare nella sfera del reale, cioè della giurisdizione del principio di contraddizione, mentre l’altro doveva necessariamente esserne escluso, in quanto era tale in sé da offenderne il generale imperio; la scelta, poi, operata sul primo giudizio problematico, si ripercuoterà sulla problematicità della ragione immediatamente subordinata, e di qui rimbalzerà, come un’eco, fino all’ultimo anello della catena dei possibili, colmando in tal modo quella lacuna di ignoranza che in nessun altro modo avrebbe potuto essere colmata. E’ questo il procedimento che si attua nell’applicazione pragmatica della nozione di possibilità; a tale procedimento, in fondo, si rifà l’ontologia, quando dichiara possibili tutte le idee o concetti: distinguendo essa l’essere dal pensato e stabilendo che le ragioni del pensato non sono le ragioni dell’essere, quando si trova dinanzi un’idea o concetto, trova, per questi, tutte le ragioni sufficienti della loro realtà, in quanto sono dei pensati, ma dichiara che non sono a conoscenza del pensiero tutte le cause sufficienti della loro realtà, in quanto sono dell’essere; predica, allora, dell’idea o concetto la nozione di possibile, limitatamente al loro essere e, con ciò, trasporta al reale, in quanto essere, la scelta circa l’essere o il non essere dell’idea o concetto; se troverà come reale nell’essere un ente che rispetto all’idea stabilisca una sua inclusione o una sua esclusione dalla giurisdizione del principio - 44 -di contraddizione, dichiarerà l’idea rispettivamente un reale o un impossibile sia come essere che come pensato; per questo l’ontologia ha sempre negato il fenomenico e il sensoriale come sorgenti di concetti e, quando l’ha fatto, è ricorsa a particolari accorgimenti mediante i quali introduceva con un qualunque strattagemma – la reminiscenza, l’innatezza, l’intervento dell’intelletto agente – quel reale ideale che aveva estromesso. Ma quando ci troviamo di fronte a un giudizio problematico le cui ragioni si sovraordinano in una catena di altri giudizi problematici tutti dipendenti da un primo giudizio nel quale le ragioni ultime e prime si danno come possibili senza che della loro possibilità si dia alcuna ragione, allora neppure l’inferenza del possibile dal reale è più consentita: nel pensiero infatti si dà una catena completa di giudizi l’uno connesso all’altro come un condizionato alla sua condizione, catena la quale è perfettamente sufficiente a se stessa, e, in quanto tale, del tutto separata dal reale, a differenza della precedente nella quale invece la separazione non era determinata da una proprietà di autonomia bensì dall’assenza di un anello che connettesse la catena delle ragioni pensate alla catena delle cause reali; sarebbe quindi del tutto impossibile allacciare la catena dei possibili alla catena dei reali, in quanto nella realtà qual è nota non si offre alcuna causa che possa connettersi con una delle ragioni della catena dei possibili, mentre invece, in linea di principio, una siffatta connessione sarebbe possibile nel caso della possibilità pragmatica, bastando per questo che in quel vacuo dell’ignoranza venga a inserirsi la ragione connessa con una causa reale perché tutto il processo delle ragioni possibili si trasformi in un processo di ragioni reali al termine delle quali si porrebbe non già il nostro giudizio problematico, bensì un giudizio reale. Il reale perciò non offrirà alcun appiglio per la catena delle ragioni; ma non lo offrirà neppure per l’ultimo fatto per la cui possibilità è stata costruita la catena delle ragioni; potremo sempre, nella realtà, riscontrare un fatto che presenti una certa analogia con il nostro ente possibile, ma non potremo mai stabilire se tale fatto sia identico al nostro ente, in quanto per assicurarci dell’identità dovremmo stabilire l’identità di ciascuna delle cause del fatto reale con ciascuna delle ragioni dell’ente possibile; il che potrà essere compiuto per tutto il processo delle ragioni, ad eccezione però dell’ultima, la quale, essendo un possibile di cui non si dà ragione, dovrebbe trovare corrispondenza in un reale di cui non si dà causa, in un reale cioè che dovrebbe essere conosciuto di per sé, mediante una qualsiasi intuizione, dal pensiero. E allora delle due l’una: o tale intuizione si dà, e, con ciò, da essa sgorga tutta la catena delle cause sino al fatto ultimo, punto di partenza della nostra catena di possibili – si stabilisce in tal modo la realtà di tutta la successione dei possibili, ma allora resterebbe da spiegare come mai non si sia data prima una siffatta intuizione e come mai ci sia stato bisogno di un sì duro lavoro mentale per poter adeguare un fatto tanto semplice qual è un’intuizione; oppure tale intuizione non si dà e allora il fatto reale che per analogia presenta qualche affinità con l’ente che - 45 -abbiamo dichiarato possibile, viene assunto come il reale simmetrico all’ente pensato, viene dichiarato realizzazione di ciò che nel pensiero si giudicava puramente possibile, e dalla sua realtà si inferisce la realtà di tutte le sue cause, perfettamente parallele alle ragioni possibili della nostra successione di possibilità, sino all’ultima, la suprema ragione, che, col suo porsi reale, sancisce e garantisce tutto il processo discendente. Ora, poiché l’intuizione che costituisce la condizione del primo corno del dilemma non si dà mai nella realtà, altrimenti non si presenterebbe mai il bisogno del ricorso alla nozione del possibile, resta valido il secondo corno del dilemma, la cui attuazione porta al circolo vizioso che per inferire la catena delle cause – il cui darsi nella realtà determina la natura del fatto su cui l’attenzione si posa – si attribuisce a tale fatto una certa realtà, cioè una certa ottemperanza al principio di contraddizione, realtà che da nulla è garantita, non dalla sua possibilità che è sottrazione al principio di contraddizione, non dal suo essere reale, cioè dal suo immediato assoggettarsi al principio di contraddizione; e, per affermare quella certa realtà del fatto, si fa ricorso alla successione delle cause, cercando in queste la realtà da attribuire al fatto, dopo aver argomentato tale realtà dalla realtà stessa del fatto. Dell’impossibilità dell’inferenza di un reale da un assolutamente possibile, è argomento logico l’erratezza di una successione autonoma di possibili, è argomento reale l’intricatezza e il meraviglioso lavorio di prove e controprove in cui si dibatte Kant per dimostrare ciò che non patisce dimostrazione, che cioè una volta delineata la completa catena delle ragioni possibili che conducono alla possibilità di un giudizio universale e necessario, dalla realtà di ciascuna delle cause deve scaturire la realtà di un dato gnoseologico dotato dei caratteri della scienza, la realtà del quale, però, è stata il punto di partenza per l’inferenza della realtà di tutte le cause sovraordinate. In breve, le condizioni, cui la predicazione del possibile, [è] sottoposta, sono quattro : a ) che il soggetto, che è tale da accettare il predicato di possibile, non possa essere affermato né reale né irreale, vale a dire tale che né ottemperi né rechi offesa al principio di contraddizione, ma semplicemente gli si sottragga; b) che il rapporto di predicazione tra soggetto e concetto di possibile deve ricevere giustificazione da un altro giudizio, esplicito o implicito, in cui la stessa predicazione di possibilità vale per un soggetto che è ragione del soggetto del primo giudizio e insieme deve a sua volta venir giustificata da un altro giudizio di identica natura problematica, a sua volta giustificato, e così via; c) che il processo ascendente dei giudizi, ciascuno dei quali con la propria possibilità è garanzia della possibilità del giudizio immediatamente successivo, non può procedere all’infinito, ma deve porre capo o a una dichiarazione di ignoranza che non consente nessun giudizio né assertorio né problematico né apodittico e che costituisce una soluzione di continuità nella catena dei giudizi apodittici, soluzione il cui effetto è il sorgere dei giudizi problematici, oppure a un giudizio ultimo e primo, in cui la predicazione - 46 -della possibilità ha luogo senza ricevere giustificazione da una precedente proposizione problematica e che quindi non mutua la propria possibilità se non da se stessa; chiameremo possibilità pragmatica il primo processo ascendente di possibili, chiameremo il secondo processo possibilità ipotetica, in quanto il primo ha una funzione di sussidio per l’azione umana là dove la realtà non è sufficientemente conosciuta per poter determinare questa piuttosto che quell’azione, mentre il secondo tende a dare un’interpretazione di tutt’un aspetto della realtà o di tutta la realtà quando o l’uno o l’altra non possono essere conosciuti in alcun modo; d ) che, dal momento che non è lecita l’inferenza del reale dal possibile ma solo del possibile dal reale, la possibilità pragmatica consentirà sempre una tale inferenza, mentre la possibilità ipotetica non la consentirà mai.
Gli effetti che l’introduzione della nozione di possibile come predicato di un giudizio trae seco sono molteplici, ma possono tutti ricondursi a un unico tipo fondamentale: la facoltà che il pensiero concede a se stesso di introdurre nella sfera della logica e del ragionamento un ente che altrimenti non potrebbe entrarvi. Qualunque ente è atto, in linea di diritto, a partecipare, nell’abito di membro di un giudizio o di un ragionamento, ad una qualsiasi struttura logica; a questa attitudine fanno eccezione due enti: quell’ente che offenda il principio di contraddizione e che chiamiamo irreale, e quell’ente che, sottraendosi alla giurisdizione del principio di contraddizione, non è atto a ricevere alcuna predicazione. Se il necessario gode di tutti i crismi richiesti per una partecipazione al discorso logico in quanto la sua soggezione al principio di ragione soddisfa automaticamente le esigenze degli altri tre principi, se l’impossibile costituisce un elemento del ragionamento in quanto propriamente è quell’ente per il quale si adducono ragioni che vengono negate dalla realtà o da altre ragioni e che quindi si pone come un dato il quale, presente nel pensiero, viene dal pensiero stesso estromesso con una sentenza inappellabile, se il contingente, nonostante la sua assenza di ragione, dev’essere accolto dal ragionamento, perché reale, se non altro con le funzioni di soggetto di un giudizio affermativo che potrebbe anche costituire la premessa maggiore di un sillogismo, l’irreale non potrà mai costituire oggetto di logica in quanto viola quella legge di contraddizione la cui violazione non consente neppure di formulare un giudizio e quindi di pensare un concetto. Il primo metodo, appunto, che il pensiero ha scoperto, la riduzione ad assurdo, ha alle sue basi l’impensabilità dell’irreale, cioè del contraddittorio. Ma anche quell’ente, di cui non si possa dire né se è reale né se è irreale, mai entrerebbe in un qualsiasi giudizio; di esso, infatti, non sarebbe mai consentito fare un predicato e, quindi, neppure un soggetto in quanto, né il principio di ragione né il principio di contraddizione esercitando giurisdizione su di esso, al pensiero non sarebbe dato sapere se quell’ente sia o un necessario o un contingente o un impossibile o un irreale, se il pensiero non lo assoggettasse al - 47 -principio di ragione secondo un condizionamento di necessità ipotetica, mediante cioè la connessione a una condizione sottoposta essa stessa alle medesime condizioni che essa esercita sull’ente. Le esigenze che tale connessione comporta già sono state esaminate. In tal modo l’ente diviene un usabile da parte del pensiero, il quale può valersene o per prevedere l’azione futura mediante il calcolo delle probabilità o per controllare una qualsiasi sua ipotesi.
Il pensiero dunque, valendosi del principio di ragione la cui applicazione garantisce il rispetto della legge di contraddizione, immette nei suoi procedimenti un ente che, indifferente al principio di contraddizione e con ciò quindi estraneo alla presa della logica, penetra nel campo logico come un cittadino in attesa di quel riconoscimento che gli verrà concesso o negato sì dalla realtà, ma che non investirà tanto la sua essenza quanto l’essenza delle ragioni le cui garanzie gli hanno procurato l’accesso. E’ lecito perciò parlare di un procedimento, il procedimento per possibilità, di cui il pensiero si trova in possesso e mediante il quale il pensiero si dà la capacità di accettare nel proprio ambito qualsivoglia ente per il quale non si sia ancora proceduto al controllo del principio di contraddizione o per il quale non esista ragione sufficiente di porsi.
Tuttavia il procedimento per possibilità non è qualcosa di arbitrario né qualcosa che dia risultati positivi sempre e costantemente; ad esso il pensiero non può ricorrere – con la certezza di conseguire ciò in vista di cui ogni raziocinio si pone, ossia il passaggio dal noto all’ignoto, un ignoto che in questo caso sarebbe la qualificazione di realtà di certi suoi contenuti – se non sotto determinate condizioni: l’ente per il quale è lecita la predicazione della possibilità, dev’essere tale che le sue ragioni debbono presupporsi tutte connesse a una ragione reale ma ignota, a una ragione cioè la cui problematicità è relativa e non assoluta; inoltre, l’ente per il quale è lecita la predicazione della possibilità, dev’essere tale da deporre la sua funzione di soggetto di un giudizio problematico per assumere la funzione di soggetto di un giudizio assertorio, di per sé, senza dover ricorrere all’assertorietà di nessuna delle ragioni problematiche che gli hanno consentito di penetrare nel dominio della logica: nel caso infatti che ciò si verificasse, l’ente diverrebbe soggetto di un giudizio apodittico che si dà indipendentemente dal tempo, e la seconda condizione, di cui appunto stiamo parlando, si trasferirebbe dall’ente a quella sua ragione che da soggetto di un giudizio problematico si è fatta soggetto di un assertorio; d’altra parte, questo nella concreta situazione umana non può mai realizzarsi; infatti, di due enti, l’uno dei quali sia ragione dell’altro, la ragione trascende l’ente oppure vi immane; ora, in entrambi i casi, sul pano dell’intendimento puro, il darsi della ragione pone necessariamente l’ente che ne dipende il quale con ciò diventa al darsi stesso della ragione soggetto di un giudizio apodittico; ma sul piano delle operazioni che s’impongono all’intelletto per passare da un - 48 -procedimento per possibili a un’argomentazione per logici, la ragione trascendente, se riceve la predicazione di realtà, consente la predicazione di realtà all’ente che ne dipende soltanto alla condizione che quest’ultimo l’abbia già perseguita per conto suo, mentre invece il trasferimento della realtà dall’ente alla sua ragione, nel caso che il rapporto stesso intercorrente tra ragione ed ente dipendente sia di per se stesso ente mentale reale e non problematico, è un fatto necessario in forza della necessità logica che lega l’ente alla sua ragione, sicché si deve concludere che l’abbandono della predicazione di possibilità per la predicazione di realtà ha luogo attraverso il trasferimento dalla realtà dell’ente alla realtà della sua ragione e non viceversa; sempre soffermandosi a questo caso della ragione trascendente è da aggiungersi che, qualora il darsi della realtà della ragione trascendente o piuttosto della prima delle ragioni trascendenti ponga la necessità del darsi reale dell’ente dipendente, siffatto rapporto non provocherà la realtà dell’ente e quindi il suo passaggio da soggetto di un giudizio problematico a soggetto di un assertorio – quando un ente pone necessariamente fuori di sé un altro ente e si erige a sua ragione trascendente, delle due l’una: o l’ente dipendente era noto come reale e ne era ignota la causa, e in questo caso il procedimento per possibilità investe l’ente al fine di ritrovarne la ragione la cui scoperta dà il diritto di dichiarare reale la ragione assunta come possibile e non di affermare reale l’ente, al quale la predicazione di reale era già spettata autonomamente per diritto in esso immanente; o l’ente dipendente era ignoto, e allora non aveva ricevuto neppure la predicazione di possibilità -, bensì verificherà l’apoditticità del rapporto di condizionamento tra la ragione e l’ente dipendente e quindi l’essenza reale-logica della ragione in quanto ragione di quell’ente; la ragione invece, qualora immanga nell’ente che ne dipende, con la propria realtà non sarà mai atta a dotare di realtà l’ente problematico in quanto non possiederà mai una realtà autonoma se non nel pensiero, e anche qui la conseguirà grazie al darsi della realtà dell’ente che è suo condizionato, sicché di fatto l’intendimento non potrà mai procedere dalla realtà della ragione alla realtà dell’ente che ne dipende, ma solo viceversa. Da ciò deriva che non potranno mai essere le ragioni problematiche a garantire con l’acquisto della predicazione di realtà la realtà di un ente possibile, in quanto una ragione problematica di un possibile, la quale sia divenuta reale, non solo garantisce con la sua realtà non già la realtà ma la necessità puramente logica del possibile, ma essa di fatto è divenuta reale mutuando la propria realtà dalla realtà dell’ente che da essa dipende: dovrà essere, dunque, la realtà dell’ente problematico a garantirci della realtà delle sue ragioni. Si ritrova qui tutta l’utilità teoretica del procedimento per possibilità il quale, consentendo al pensiero di introdurre come ente logico un ente possibile garantito da una ragione o da una catena di ragioni che siano necessarie e sufficienti ossia univoche ed uniche - 49 -nella loro funzione di ragioni, pone il pensiero, una volta constatata la realtà o irrealtà dell’ente, nel diritto di dichiarare reali o irreali le sue ragioni e quindi di costruire un rapporto di apoditticità tra un fatto e la sua ragione, quando del fatto si ignori la ragione. Dunque, gli effetti dell’uso del possibile consistono nell’introduzione nel campo logico di un concetto privo delle ragioni necessarie e sufficienti per entrarvi, nella costruzione di un nuovo procedimento mentale che consente sia di attuare un’azione per la quale le conoscenze che abbiamo sono insufficienti sia di o conoscere o controllare un rapporto di necessità causale tra due o più enti concettuali. Ma nelle condizioni cui il procedimento è vincolato si ritrovano pure i limiti del suo uso: un procedimento di possibilità che ponga capo ad una ragione di problematicità assoluta, non può dare alcun utile né sul piano teoretico né su quello pragmatico: infatti, sia data una catena di ragioni la quale, dipendendo i suoi membri da una ragione prima assolutamente problematica, sia in sé assolutamente problematica, e venga questa catena considerata nella sua unità inscindibile con l’ente, pure problematico che ne dipende; si danno allora i seguenti casi: o l’ente dipendente è tale da riuscire a conseguire l’attributo di realtà di per sé, e insieme la prima delle ragioni problematiche è una ragione trascendente che è tale da riuscire a conseguire l’attributo di realtà di per sé, e in questo caso è lecito il passaggio dalla problematicità alla realtà sia per l’ente che per la serie delle ragioni – solamente tuttavia, s’intende, qualora sia l’ente che la ragione accedano di fatto e autonomamente al diritto alla predicazione del reale; oppure l’ente dipendente è tale da conseguire la predicazione di realtà di per sé, e insieme le ragioni sono non solo immanenti ma anche accertatamente uniche e univoche, e allora è lecito il trasferimento dal problematico all’assertorio per tutti i giudizi di cui ente e ragioni si pongono come soggetti; ma fuori di questi due casi, quando cioè l’ente non acquisisce di per sé l’attributo di reale oppure le sue ragioni sono o trascendenti e di per sé necessariamente problematiche o immanenti ma non accertatamente univoche ed uniche in quanto ragioni, non si verificherà mai la liceità del trasferimento suddetto in vista del quale in fondo il procedimento per possibili è stato cercato e prodotto dall’intelletto; infatti non è lecito, rimanendo entro la sfera chiusa del tutto affetto da problematicità assoluta, muovere dalla realtà dell’ente per risalire alla realtà delle ragioni, tranne che non sia data la realtà dell’ente la quale però non può esser data se non fuoruscendo dalla totalità problematica stessa – dal tutto stesso di problematici assoluti non si può inferire nessun reale – né sarà lecito argomentare l’apoditticità dell’ente dalla realtà di una delle ragioni, in quanto anche per le ragioni si riproduce la condizione che negativamente colpisce l’ente, che da un tutto di problematici assoluti non si può inferire nulla di reale. Nonostante questo limite, però, il pensiero ricorre al procedimento per possibilità ogniqualvolta si trovi dinanzi a un dato per il quale - 50 -nessun altro dei procedimenti a sua disposizione si dimostra atto e sufficiente a provarne la contraddittorietà o la non-contraddittorietà, indipendentemente dal fatto che l’ente non riceva diritto di uso logico da una ragione prima relativamente problematica e dal fatto che l’ente non si ponga di per sé come soggetto di un giudizio assertorio e non problematico e dal fatto che l’ente sia tale che si ponga di per sé a soggetto di un giudizio assertorio anziché problematico vincolandosi tuttavia contemporaneamente a una serie di ragioni immanenti non uniche né univoche oppure a una serie di ragioni trascendenti le quali acquisiscano l’attributo di reali non di per sé ma inferendolo dalla realtà dell’ente da esse dipendente: ciò facendo incappa nella possibilità ipotetica che non gli consentirà mai di inferire dal possibile il reale.
L’affermazione che Platone e Kant ricorsero per la soluzione del problema dell’universalità e necessarietà di una conoscenza al procedimento problematico, non appare giustificata direttamente da nessuna delle pagine che i due pensatori scrissero. In nessuna delle loro opere, infatti, appaiono né una netta distinzione tra il logico ed il reale né una ripartizione tra una costruzione della successione dei problematici in un campo astrattamente logico e una verifica della successione operata dal punto di vista del criterio che si sovraordina alla concessione dell’attributo di reale. La stessa domanda che tante volte Kant si pone: «E`possibile una scienza?» non appare già un giudizio problematico che attenda la sua inserzione entro la sfera logica da una sua sottomissione a una ragione problematica, quanto piuttosto un giudizio di ignoranza circa le ragioni che fanno di una conoscenza una scienza, e un motivo sufficiente a cercare tali ragioni. L’affermazione, quindi, che Platone e Kant adottarono il procedimento per possibilità dev’essere dimostrata e la sua dimostrazione deve articolarsi in tre momenti: a) argomentazione che l’indagine di Platone ha la stessa natura dell’indagine kantiana; b) argomentazione che l’indagine, identica in entrambi, si identifica con un procedimento per possibilità; c) argomentazione che il procedimento per possibilità riguarda un ente, la conoscenza universale e necessaria, non appartenente né all’ordine degli enti che da soggetto di un giudizio problematico possono diventare di per sé soggetto di un giudizio assertorio né all’ordine degli enti la cui ragione è tale che, qualora si ponga come problematica, gode di una problematicità relativa e non assoluta, e che di conseguenza tale procedimento fa appello alla problematicità ipotetica e non alla problematicità pragmatica, con tutte le conseguenze che a ciò si connettono.
Si può osservare che Platone e Kant muovono da una posizione in cui è lecito dubitare che tutti gli oggetti reali diventino momenti di una conoscenza universale e necessaria, in cui anzi è concesso dimostrarsi che alcuni oggetti sfuggono di fatto e di diritto all’azione della scienza. Questa sottrazione rimane priva di conseguenze immediate fino a che si resta nell’ambito stesso della sfera di conoscenza in cui si è verificata, in quanto, tutt’al più, investe l’oggetto di quella conoscenza, non già - 51 -tutte le conoscenze. Tuttavia la sfera di conoscenza interessata dalla sottrazione è proprio quella in cui rispettivamente più si affaticano le menti di Platone, tutto teso al problema della politica, e di Kant, fortemente impegnato nella conoscenza matematica della natura. D’altra parte, la sottrazione si è verificata in seguito a considerazioni che non intaccano solo uno spazio delimitato del conoscere, ma tutta la sfera della conoscenza, come quelle che stabiliscono che dal particolare non può scaturire alcuna conoscenza universale e necessaria. Le indagini di entrambi, finché non è stato risolto in generale il problema della scienza, son destinate ad arrestarsi, senza avanzare di un passo, perché la mente si rifiuta di compiere atti i cui risultati siano condannati a un disvalore effettivo e a un utile illusorio già in partenza; soltanto quando il problema avrà ricevuto la sua completa soluzione, solo allora verranno affrontati i vari problemi che la realtà in generale può proporre e verranno affrontati non già in sé, ma dal particolare punto di vista da cui la soluzione del problema della conoscenza ha costretto a guardarli, e questo in tal misura che si può dire che i restanti problemi, che riceveranno soluzione in seguito, più che problemi universali a se stanti, si pongono come aspetti che permangono ancora oscuri entro l’interpretazione generica che la realtà ha ricevuto dalla soluzione del problema del conoscere come scienza. A queste osservazioni, che dimostrano l’identità delle posizioni da un punto di vista generale, se ne possono aggiungere altre che rivelano l’identità anche nell’aspetto ristretto della postazione dello stesso problema della conoscenza.
L’atteggiamento assunto verso il problema è identico in quanto comporta la formulazione di un giudizio, l’attribuzione al giudizio dei caratteri dell’universalità e necessità, la ricerca delle ragioni per le quali è lecita siffatta attribuzione. La ricerca delle ragioni non avviene mediante un’indagine originaria sul problema del conoscere, sulle componenti di una conoscenza in genere, sui caratteri di cui si riveste una conoscenza in genere, ma muove il passo da quelle nozioni intorno al conoscere che nelle rispettive situazioni storiche erano accettate come dati pacificamente acquisiti. Nella risoluzione del problema della conoscenza da entrambi viene evitata qualunque separazione di campi del conoscere, si evita cioè di enunciare proposizioni che abbiano valore per una sfera sola del conoscere e non per tutte, il che dimostra che il problema della conoscenza in essi non trovò origine da questa piuttosto che da quella forma del conoscere, bensì mosse dalla sfera cognitiva in tutta la sua estensione cercando una soluzione che avesse valore per tutte le divisioni che potevano farsi entro l’intera estensione della conoscenza. Il metodo che entrambi adottarono fu, almeno alla superficie, quello di ricercare nella realtà un complesso di fatti che garantisse al soggetto conoscente la fiducia nell’universalità e necessità del suo conoscere, trattando tali fatti come dei principi da cui necessariamente sgorga una conoscenza coi caratteri della scienza.
Quanto al fatto che l’indagine, identica in entrambi, si riduca in fondo - 52 -a un procedimento per possibilità, può argomentarsi muovendo da una osservazione fondamentale. E’ vero che sia in Platone che in Kant mai compare un giudizio problematico del tipo «la scienza può essere» (equivalente alla identità: «la scienza è» = «la scienza non è»), come presupposto di tutta l’indagine; è vero, anzi, che si dà il contrario, che cioè punto di articolazione di tutta l’indagine è il giudizio assertorio «la scienza è» (equivalente al giudizio: «esiste un giudizio universale e necessario, e quindi una conoscenza universale e necessaria») e che tutta l’indagine tende a dimostrare che si danno ragioni, per le quali, data l’esistenza di un giudizio scientifico, viene dimostrata la sua apoditticità: infatti Platone muove dal giudizio geometrico, senz’altro assunto come una nozione scientifica universale e necessaria, mentre Kant parte dal dato di fatto che la causalità, ossia quell’identità quantitativa che costituisce l’universalità e necessità del rapporto di predicazione in un giudizio fisico, è un oggettivo logico, non uno psicologico connettivo soggettivo; è vero che tutte le argomentazioni, sia le platoniche che le kantiane, sembrano ricondursi al modello di una descrizione dei fattori che intervengono nel soggetto all’atto della conoscenza universale e necessaria, fattori che di questa universalità e necessità costituiscono appunto la garanzia. Dunque, di qui parrebbe doversi argomentare che non solo non interviene alcun procedimento per possibilità perché l’indagine prende spunto da un giudizio assertorio e non problematico, ma che il procedimento per possibilità non avrebbe neppure il diritto di intervenire in quanto di problematico nel dato di fatto su cui l’indagine s’appunta non c’è nulla; l’argomentazione dovrebbe essere del tutto diversa, e precisamente dovrebbe affermarsi che, poiché Platone e Kant partono da un giudizio assertorio per ricercarne le ragioni necessarie, l’indagine da essi svolta tende a dimostrare non tanto l’assertorietà implicita nel problematico, quanto l’apoditticità implicita nell’assertorio: l’indagine platonica e kantiana non mira a giustificare, ma a ritrovare le cause; non tende a dimostrare possibile – nel senso di realizzabile allo scattare di certe cause – un giudizio scientifico, bensì a descrivere il meccanismo della conoscenza e ad offrirci, con ciò, un quadro del modo con cui l’uomo conosce. Ora, se fosse veramente che l’origine dell’indagine si trova nel giudizio assertorio «la scienza è», se fosse che tutta l’indagine è rivolta a ricercare le cause date le quali quel giudizio da assertorio si fa apodittico («la scienza non può non essere»), non si giustificherebbero alcuni caratteri che si danno identici in entrambe le indagini: a) che la dottrina della conoscenza assuma in essi due metodi di indagine, l’induttivo e il deduttivo; b) che nella dottrina della conoscenza, quali essi fondano, non trovino ragion d’essere alcune componenti del conoscere in genere; c) che a differenza di quanto normalmente si dà in un metodo induttivo la loro applicazione del metodo induttivo sfoci in una proposizione generalissima che non è evidente, che non è dimostrabile, che non è sperimentabile; d) che nell’analisi dei caratteri del giudizio scientifico, che dovrebbe essere un reale, essi tengano - 53 -conto non di tutti i suoi attributi ma soltanto di alcuni in funzione dei quali viene costruita la catena delle ragioni; e) che tra la successione delle ragioni, le quali dovrebbero rendere apodittico un assertorio, e l’assertorio stesso si ponga un rapporto di causalità, in forza del quale la realtà delle ragioni pone l’apoditticità del reale e l’apoditticità del reale pone la realtà delle ragioni; rapporto però che non è univoco, ma equivoco o, almeno, ambiguo – quindi non si verifica per la conoscenza quel che in ogni campo del reale si dà, e cioè che se dato un effetto che risale induttivamente alla causa e si dimostra la realtà e unicità della causa (onde soddisfare all’esigenza logica che vieta di risalire dall’effetto a una causa particolare e non generica), non deve più darsi la possibilità di ritrovare una causa diversa, produttrice dello stesso effetto; f) che, quantunque l’effetto, ossia la realtà del giudizio scientifico, sia dato di fatto, ossia una realtà che dovrebbe porsi di per sé e non dovrebbe necessitare di una dimostrazione che fosse una giustificazione, tuttavia ci si trovi di fronte a un’indagine la quale inferisce non l’apoditticità dalla realtà, ma la realtà dall’apoditticità; g) che l’indagine, sebbene unicamente rivolta a trovare le cause del giudizio scientifico, pure trascuri il fatto fondamentale di indicare le ragioni, o inerenti al soggetto conoscente o presenti nell’oggetto conosciuto, per le quali il pensiero è indotto all’errore di giudicare irreale quel che in sé dovrebbe essere reale e naturale; h) che, infine, essendo l’oggetto delle ricerche di Platone e di Kant – il giudizio universale e necessario – accolto come un reale, e consistendo lo scopo di tali ricerche unicamente nel ritrovarne le cause che ci garantiscono la sua necessità, il giudizio universale e necessario non venga assunto fin dalle origini dell’indagine come un dato la cui realtà investe anche il suo valore gnoseologico – in verità, non si dovrebbe porre la necessità di dimostrare, su due linee di argomentazioni distinte e parallele, sia che la realtà totale delle cose è tale da porre un soggetto conoscente che non può non dar luogo ad un giudizio universale e necessario sia che questo giudizio universale e necessario riproduce, nel riferimento del predicato al soggetto, la stessa relazionalità che uniformemente e costantemente si interpone fra tutti i dati di esperienza che si lasciano rispettivamente sussumere sotto il concetto-soggetto e sotto il concetto-predicatoxiii.
Le otto aporie che insorgono non appena si vuol ritenere un reale quel giudizio scientifico che Kant e Platone si son posti come termine del problema della conoscenza, esigono che l’indagine platonico-kantiana abbia assunto come oggetto il giudizio scientifico, in quanto possibile, e che per essi abbiano adottato il procedimento problematico. La dimostrazione che l’indagine platonico-kantiana non si identifica con un procedimento o induttivo o deduttivo si affianca alla spiegazione genetica e la rafforza: alle origini della ricerca dei due pensatori sta il proposito di confutare una dottrina che nega la realtà di una sfera della scienza, sul fondamento della sua impossibilità logicamente dimostrata. Poiché i fatti su cui la dottrina negatrice si fonda sono irrefutabili, la scienza, almeno - 54 -in quella sfera particolare, non può essere concepita come un reale. D’altra parte, una ricerca che voglia superare i fatti stessi e dimostrare la realtà della scienza in tutte le sue sfere, non può ignorare né che tale dimostrazione dev’essere condotta prima sul generale onde argomentare da questo ogni particolare che si presenti tale da venir sussunto sotto il generale né che quei dati da cui si è voluto argomentare l’irrealtà e impossibilità di una certa scienza non limitano la loro validità a una zona parziale della scienza, ma riguardano tutta la scienza: la ricerca, quindi, che vuol dimostrare la realtà della scienza muove di necessità dalla scienza in genere, eliminando qualunque distinzione di classi e facendo del concetto di scienza un generico, che, una volta ricevuta conferma logica di realtà dalla dimostrazione di necessità, e una volta ricevuta descrizione dell’interiore essenza e delle condizioni sotto le quali può darsi, si porrà come un concetto definitorio universale e necessario, che conterrà in sé le ragioni necessarie e sufficienti per accettare o respingere la sussunzione di questo o quel dato di conoscenza e, di conseguenza, per estendere le proprie note a questo o quel concetto di conoscenza particolare. La ricerca platonico-kantiana si rifà quindi al giudizio «la scienza è una conoscenza universale e necessaria», con lo scopo non di accettarne la realtà, ma di fissare le condizioni sotto cui può darsi una sua necessità, ritenendosi che il darsi reale delle condizioni necessitanti sia sufficiente a porre la realtà del necessitato: poiché tale scopo viene raggiunto attraverso la determinazione dell’essenza della scienza, e poiché la determinazione dell’essenza di un concetto ne fissa contemporaneamente la denotazione, il giudizio di necessità e di conseguente realtà investe la scienza in generale – ossia il giudizio apodittico avente a soggetto la scienza o, il che fa lo stesso, il concetto di giudizio universale e necessario, è di per sé insieme assertorio -, e tutte le scienze particolari che si danno e si daranno. D’altra parte, la ricerca non potrà conseguire il suo scopo se non sottoponendo l’oggetto su cui si svolge alle condizioni che essa stessa ha assunto come ipotesi, nel senso geometrico del termine: a) doversi il suo oggetto ricondurre alla forma più semplice che esso può assumere e senza la quale non può sussistere: infatti, - a parte il fatto che l’indagine di un oggetto tende sempre a svolgersi sulle forme elementari e irriducibili sotto cui esso si dà -, non è possibile, nel caso particolare dell’oggetto «scienza», assumere la forma che esso ha rivestito in questa o in quella scienza particolare in quanto, se a nessuna scienza particolare è lecito essere giudicata scienza nell’istante in cui ha inizio la ricerca, il concetto di scienza in genere si identifica con il concetto di conoscenza universale e necessaria in genere, e una conoscenza universale e necessaria in genere si riduce alla forma elementare del giudizio, non essendo lecito considerare conoscenza universale e necessaria l’intuizione perché le intuizioni, o dati immediati del conoscere, coincidono con le sensazioni, nel qual caso la loro particolarità e contingenza reali le priva della predicabilità dei concetti a questi contrari, oppure coincidono con cognizioni fruenti - 55 -del carattere di universalità e necessità –cognizioni che possono venir presupposte o anche dimostrate reali – nel qual caso, per entrare nella sfera della comunicabilità, sono pur sempre costrette ad assumere la forma più elementare della conoscenza universale e necessaria in genere e dovendosi quindi la nozione di conoscenza universale e necessaria predicare soltanto del concetto che non può essere pensato se non nel giudizio; b) doversi lo stesso oggetto assumere come un possibile. La ricerca, che ha posto a suo principio quali dati da doversi assumere come veri il fatto che si deve indagare sulla scienza in generale e il fatto che tale scienza debba essere assunta non come un reale e neppure come un irreale e impossibile, è costretta a rivolgersi, come al suo oggetto, alla possibilità del giudizio universale e necessario. L’assunzione di un ente mentale o concetto – nella fattispecie, il concetto di giudizio universale e necessario – come possibile comporta diverse condizioni.
Il concetto deve venir sottratto alla giurisdizione del principio di contraddizione, e, perciò, deve essere valida la contraddizione: «il concetto è» «il concetto non è», - nella fattispecie, «il giudizio universale e necessario è» «il giudizio universale e necessario non è»; debbono essere possedute le ragioni della sottrazione e dette ragioni debbono essere ritrovate nella stessa sfera di realtà da cui il concetto è stato desunto, sfera di realtà la quale deve essere tale da offrire ragioni non sufficienti e non necessarie ad una predicazione di realtà o di irrealtà del concetto – nella fattispecie, il complesso delle conoscenze o sfera del conoscere non offre ragioni necessarie e sufficienti a confermare la realtà o l’impossibilità, e quindi l’irrealtà del giudizio universale e necessario; la sfera di realtà, da cui il concetto viene astratto, deve darsi tale da offrire essa stessa il concetto come un reale o un irreale, nel qual caso si tratta di un possibile di cui si suppone data, o perché conosciuta o perché giudicata conoscibile, la catena delle ragioni che lo renderanno necessario – e quindi reale – o impossibile – e quindi irreale -, catena di cui tuttavia è ignorato un anello prossimo o remoto; oppure la sfera dev’essere tale da non offrire essa stessa il concetto come un reale o un irreale, nel qual caso si ha a che fare con un possibile di cui non si presuppone data neppure la catena delle ragioni che lo renderanno necessario – e quindi reale – o impossibile – e quindi irreale. Ma la sfera del reale cui appartiene il concetto di giudizio universale e necessario, vale a dire la sfera della conoscenza, è stata per ipotesi concepita come incapace di offrire il concetto come un reale o un irreale: tale incapacità , infatti, è stata assunta come la ragione del porsi del concetto come un possibile; quindi la catena delle ragioni che lo rendono necessario –e quindi reale – o impossibile – e quindi irreale – è per ipotesi non data, ossia non conosciuta e non conoscibile. Ora, se una sfera del reale la si giudica tale da possedere in sé ragioni sufficienti e necessarie per la realtà o irrealtà di un possibile, sarà sempre dato formulare una catena di ragioni del possibile, la quale, mediante il trasferimento della possibilità in ciascun giudizio sovraordinato - 56 -o condizionante, determina la sottrazione della possibilità al giudizio subordinato e condizionato, fino al giudizio primo che sarà un puramente possibile in quanto corrispondente a una causa o ragione reale ignorata; la stessa sfera del reale, allora, offrendo come dato reale il concetto possibile e dimostrandone con ciò la necessità, convaliderà tutta la catena dei giudizi problematico-assertori, e sancirà l’apoditticità dell’ultimo giudizio puramente problematico: è questa la struttura logica del secondo momento del metodo sperimentale, momento quindi che si riduce a un procedimento problematico di verifica di un giudizio universale e necessario posto induttivamente come ipotesi, nel senso newtoniano del termine, e che ritrae tutto il suo valore e significato dal fatto che il concetto possibile è un concetto di cui si affida alla realtà il compito di dimostrare la realtà o irrealtà; la stessa struttura logica è sottesa anche ai giudizi di possibilità con funzione puramente pragmatica o soggettiva, i quali non raggiungeranno mai la completa formulazione logica in quanto l’enunciazione della possibilità va unicamente a conformare la nostra azione all’attesa che la sfera del reale dimostri reale quel possibile la cui realtà si pone come oggetto di desiderio o timore. Se, invece, la sfera del reale viene per presupposizione giudicata tale da non possedere in se stessa ragioni sufficienti e necessarie per la realtà o irrealtà di un possibile, non solo sarà lecito ma sarà obbligatorio costruire una catena di ragioni, le quali mediante il trasferimento della possibilità a ciascun giudizio sovraordinato o condizionante determina la sottrazione della possibilità al giudizio subordinato o condizionato fino a un giudizio ultimo destinato a rimanere puramente problematico: l’obbligo, questa volta, si impone in quanto un concetto non può albergare nella sfera logica allo stato di pura problematicità e vi resta sotto il vincolo condizionante di una sua presa di posizione nei confronti del principio di contraddizione. Questa presa di posizione, cui non viene concessa lunga dilazione da parte della sfera di realtà cui il concetto appartiene, dovrà essere ricercata in una ragione la quale condizioni la necessità o l’impossibilità del concetto possibile, determinando in tal modo l’ottemperanza o l’insubordinazione del concetto possibile al principio di ragione, e stabilendo con ciò i suoi diritti a rimanere o meno nella sfera del logico. Ma tale ragione, che la sfera del reale non ha mai offerto e che per presupposizione la sfera del reale non contiene in sé, dovrà essere essa stessa assunta come giudizio problematico per il quale si richiede un lavorio identico a quello compiuto per il primo concetto, vale a dire l’enunciazione di una nuova ragione, in sé problematica, ma atta a determinare la necessità o l’impossibilità della prima ragione e, di conseguenza, del concetto condizionato dalla prima ragione, e così via; il procedimento si svolge tendendo all’infinito o, meglio, a un’ultima ragione destinata a rimanere perennemente in uno stato di problematicità. Poiché la sfera della conoscenza è stata per presupposizione considerata da Platone e da Kant come priva di ragioni necessarie e sufficienti a determinare la realtà o l’irrealtà del giudizio universale e necessario – - 57 -per questo motivo appunto il giudizio universale e necessario è stato assunto come un possibile -, il concetto di giudizio universale e necessario come possibile deve venire argomentato mediante una ragione che ne giustifichi i diritti a porsi come ente logico; la ragione avrà due caratteristiche, una generale ed inerente alle modalità generiche di finalità positiva in cui si svolge l’indagine – caratteristica per la quale la ragione dovrà essere tale da rendere necessario il concetto possibile e quindi da dargli i diritti di esistenza logica -, una particolare ed inerente alla natura dei concetti posseduti rispettivamente da Platone e da Kant intorno al conoscere in generale – caratteristica per la quale la forma che la ragione assumerà si differenzierà nell’uno e nell’altro. Pertanto si dovrà stare attenti alla veste che Kant impone alla propria indagine.
Kant infatti svolge la sua indagine, come se fosse rivolta a risolvere il problema se è possibile questa o quella scienza, e come se il suo esito dipendesse da una risposta tale a questo quesito che riveli la possibilità o meno di una scienza particolare. Ma se la possibilità logica è sottrazione al principio di contraddizione, la possibilità della scienza e di tutte le scienze è già data al principio della ricerca. La sua ricerca se questa o quella scienza sia possibile, non attribuisce quindi alla parola «possibilità» un significato logico, in quanto che la scienza sia un possibile è già un dato imposto dalla stessa situazione che ha dato origine al problema della conoscenza; la possibilità di Kant è predicabile col concetto di realizzabilità; per Kant «possibile» significa dotato di ragioni sufficienti a divenir reale; ma tali ragioni sono offerte o dalla esperienza, cioè dalla sfera del reale, cui il possibile appartiene e che offre il possibile come un reale, o dalla catena delle cause note come ragioni le quali acquistando realtà pongono o fuori del tempo –se le cause sono puri principi logici – o nel tempo – se le cause sono dei principi cronologici – il possibile come reale. Poiché la sfera di realtà del concetto di giudizio universale e necessario è stata presupposta come non contenente in sé le ragioni della realtà o irrealtà del giudizio universale e necessario – solo a questa condizione, infatti, può aver valore l’attribuzione della possibilità al giudizio universale e necessario, il quale viene assunto come un possibile perché appunto si parte dal presupposto che la sfera della conoscenza non l’abbia mai offerto come reale – accettare la possibilità del giudizio universale e necessario, nel significato di traducibilità in realtà, significherà ricercare se nella realtà si danno le cause corrispondenti alle ragioni che nel campo logico hanno fatto del giudizio universale e necessario un ente logico. Ora, la ricerca di tali cause consisterà evidentemente nella scoperta di una formazione della sfera della conoscenza analoga a quella catena di ragioni che hanno reso il giudizio universale e necessario non ente possibile, ma ente logico. Kant quindi cade in un sofisma di ambiguità quando si serve della predicazione di possibile riferita alla scienza in genere; infatti, se nel concetto di possibile si adunano le due note di sottratto al principio di contraddizione - 58 -e di realizzabile, Kant predica il concetto di possibile della scienza nel senso di realizzabile, e quando pone la domanda «è possibile una fisica come scienza universale e necessaria?», questo predicato di possibile equivale a realizzabile e la domanda significa: «si danno nella sfera della conoscenza come cause quelle ragioni necessarie e sufficienti che hanno fatto del giudizio fisico universale e necessario un ente logico nella sfera della logica?». Ma questa domanda contiene implicitamente il fatto che già il giudizio fisico universale e necessario sia stato predicato come possibile, nel senso però di sottratto al principio di contraddizione; il sofisma di ambiguità è rilevato dallo svolgimento della domanda: «quel che la logica accetta come possibile, cioè come ente né logico né illogico, e che rende logico condizionandolo a certe ragioni, è un realizzabile?» ovvero «quell’ente logico, le cui ragioni sono puramente logiche all’infuori dell’ultima che tutte le condiziona, può porsi anche come reale in seguito all’attualità di quelle che erano concepite puramente come ragioni possibili?». Che se nel concetto di possibile quale si dà nell’uso fattone da Kant non è celato un sofisma di ambiguità in quanto la connotazione di realizzabilità non è una realizzabilità generica, ma una congruenza delle note che si danno caratteristiche nel giudizio universale e necessario con le condizioni per cui, in genere, può darsi un qualsiasi giudizio universale e necessario, vale a dire che se il concetto di possibile è sinonimo di o lecito o pensabile, questo non elide la presenza di un altro errore logico nell’uso del concetto di possibile, quale vien fatto nella proposizione citata. Ma di ciò più avanti.
L’indagine di Kant – e quel che qui si dice dell’indagine di Kant in particolare si afferma valido anche per il discorso che Platone svolge sullo stesso oggetto, il giudizio universale e necessario della scienza, alla ricerca di una soluzione del problema che gli si imponeva assieme all’oggetto – dovrà svolgersi su binari prefissati dall’impostazione del problema e dalla situazione logica: a) dovrà ricercare ragioni che rendano ente logico o illogico il giudizio universale e necessario; b) queste ragioni – esse prenderanno un corpo conforme a quelle nozioni che circa il fatto gnoseologico erano possedute dal pensiero e già erano entrate a far parte della logica ai tempi di Platone e di Kant, donde deriva che le differenze tra i due si riscontrano non sul piano logico, come dimostrano questa notazione b) e la successiva c), ma sul mero piano storico – dovranno fare dell’ente puramente possibile un ente logico, in quanto tutta l’indagine è in origine sorta appunto come confutazione dello scetticismo, e insieme dovranno essere ricercate in quello dei due enti che entrano nel rapporto gnoseologico – il soggetto conoscente e l’oggetto – il quale unicamente possa offrire ragioni sufficienti a fare del possibile un logico, ente che sarà solo il soggetto conoscente, in quanto è appunto l’oggetto che si è rivelato privo di necessità e di universalità; c) le stesse ragioni non potranno affatto fermarsi al soggetto ma lo dovranno trascendere, in quanto se si fermassero al soggetto si ricadrebbe in quella situazione di relatività che nega una qualsiasi universalità e necessità al giudizio conoscitivo - a questa condizione non si sottrarrà Kant la cui appercezione originaria trascendentale, o soggetto puro, è un ente che s’identifica sì con i soggetti empirici, ma che si pone al di fuori di essi come loro principio, come bene hanno interpretato gli idealisti del romanticismo.
La geometria e la matematica in genere – che fra le scienze son quelle che maggiormente hanno sentito l’influsso della soluzione platonica e che con la più rigida coerenza hanno cercato di assoggettarsi alle condizioni che il metodo platonico comporta – si son venute, più di tutte le altre scienze, cristallizzando, nel senso più nobile del termine, in un corpo massiccio di una struttura sintetico-deduttiva che nulla intacca; in fondo, la geometria euclidea, che realizza l’ideale platonico con la elaborazione degli strumenti logici offerti da Zenone in poi, rimane immobile nella sua statuaria perfezione; e, nella scuola, generazioni di uomini sfilano davanti al colosso mute e stupite; in fondo, ancora, qualunque nuovo troncone matematico, non appena raggiunta una sufficiente compiutezza, tende immediatamente a cristallizzarsi nella marmorea immutabilità della catena di successioni per genericità; ma si deve osservare che nessun nuovo pollone della matematica sgorga se non da un atto di intuizione che prenda immediato contatto con un dato di esperienza, sia questo dato strutturato nell’esperienza reale delle sensazioni fenomeniche sia questo dato strutturato nell’esperienza fenomenica che il pensiero può offrire a se stesso nell’immaginazione. Le stesse scienze della natura, che sono condizionate o meglio hanno condizionato se stesse all’esperienza reale e possibile e quindi al metodo analitico-induttivo, non appena possono, tendono ad attingere all’altro metodo quella beata tranquillità che la connessione con una nozione generale assicura a una nozione particolare divenuta conclusione.
Se prendiamo una qualunque nozione scientifica – la somma dei tre angoli di un triangolo è uguale a due retti; la rotazione di un filo metallico entro un campo magnetico provoca l’insorgere della corrente elettrica entro il filo stesso; ecc. – ciascuna di esse la scienza la considera universale e necessaria quando ne abbia ricevuto conferma dalla realtà empirica; il metodo sperimentale, in fondo, è antico quanto l’uomo e le tre funi di lunghezza 3 4 5, che geometri ed architetti egiziani usavano nella misurazione della terra, traevano certezza, ossia universalità e necessità, da un certo numero di esperienze; la conferma della realtà empirica fa della nozione un giudizio che obbedisce alle leggi del pensiero. Anzitutto ci si vale della legge di identità, per la quale il predicato conviene al soggetto in quanto s’identifica o totalmente o parzialmente con esso; fino a che l’esperienza non interviene a rompere il rapporto, la mente giace tranquilla nel possesso nel suo giudizio: i geometri egiziani per millenni si son trasmessi le tre funi, e poiché l’esperienza dimostrava sempre che l’angolo determinato dall’incontro della fune di lunghezza 3 con la fune di lunghezza 4, funi connesse tra loro dalla terza, era un angolo retto, di più non chiedevano. In secondo luogo, gioca la legge di contraddizione, per cui una volta predicata una nozione di un’altra, non dev’essere possibile nessun’altra predicazione che si dia sotto lo stesso riguardo; qualora ciò si verifichi, tutto sarebbe da rifar da capo; e ancora all’esperienza tocca il compito sia di offrire la nuova predicazione scatenante la contraddizione sia di comprovare la validità di essa e la necessaria sua sostituzione all’altra; il principio di contraddizione nella scienza manifesta quindi la sua azione come fattore di quel controllo che il principio di identità non offre, e come legge di necessità, nel senso che qualora l’esperienza interrogata nello stesso modo dia diversa risposta è necessario mutar predicato, sostituire al precedente il secondo e lasciar cadere come nullo il primitivo giudizio; anche la geometria non-euclidea è nata per applicazione del principio di contraddizione al postulato delle parallele. In terzo luogo, interviene il principio del terzo escluso, che è una legge di comodo, un’abbreviazione del cammino che il pensiero deve fare: qualora si diano due predicati, l’uno dei quali sia la negazione dell’altro, basta che l’esperienza dimostri in un modo o in un altro l’impredicabilità dell’uno perché ne risulti necessariamente la predicazione dell’altro, il principio, in definitiva, in sé e per sé non offre conoscenza, ma abbrevia il cammino e, entro certi limiti, sgombra il campo della scienza da parecchi ostacoli o ricerche inutili: esso interviene nel sillogismo disgiuntivo, che è forse il meno argomentativo dei sillogismi; in suo nome, infatti, una volta che si posseggano tutti i possibili predicati di un soggetto, sarà sempre possibile dar luogo alla dualità necessaria di predicati contraddittori, scegliendone uno (A) e raccogliendo gli altri nell’unico concetto di negazione dell’altro (non-A), atto questo che non solo si pone come uno dei momenti dell’intelletto cui ci si deve rifare per risolvere la questione dell’esistenza reale nel nostro pensiero di un giudizio indefinito, ma fonda anche quel processo di esclusione di cui la scienza si vale, sottoponendolo però al beneficio di inventario della completezza della disgiunzione e all’appello all’esperienza. L’abbandono della fisica aristotelica è stato frutto dell’applicazione di questo principio. Infine, del quarto principio, quello di ragion sufficiente, abbiamo già constatato l’intervento nell’utilizzazione dei primi tre; il ricorso all’esperienza e la conferma dell’esperienza, conferma il cui uso deve essere ripetuto ad ogni situazione che si faccia un po’ diversa, non sono che utilizzazioni del principio di ragione; ma il principio di ragione si dimostra di natura totalmente diversa dagli altri tre; il principio del terzo escluso è un criterio di comodità e di rapidità di lavoro; il principio di contraddizione è una legge di controllo e di garanzia della continuità del valore della nozione scientifica; il principio d’identità offre la possibilità di trattare due cose diverse come se fossero una sola in quanto assicura che ciò che il pensiero ha trovato sotto due forme diverse nell’esperienza è in realtà una sola entità da me conosciuta, o per un motivo o per un altro, in due modi diversi – fino a che riesco a sintetizzare in 180º quei tre distinti che sono i tre angoli di un triangolo, posso indifferentemente passare dal concetto di tre angoli di un triangolo al concetto di 180º purché tenga presente che la differenza tra la prima nozione e la seconda è equivalente alla differenza che passa tra un intero, colto intuitivamente come un intero, e un intero colto intuitivamente come un distinto in un determinato numero di parti; fin che entro un campo magnetico ho del movimento di un metallo e dell’elettricità nel metallo posso indifferentemente passare dall’uno all’altro, perché in fin dei conti sono un identico che appare diverso solo perché traslazione e corrente sono conosciuti con due diversi organi di senso o con due diversi strumenti di controllo. Il principio di ragione, invece, si presenta in realtà come la legge fondamentale del pensiero in quanto fissa le condizioni per le quali l’uso degli altri tre principi è giustificato, condizioni che sono riconducibili a questa sola, che al pensiero non è lecito far di essi uso senza che esista una ragione esterna al rapporto in cui si pongono le nozioni del giudizio; quindi mentre per gli altri tre principi si può parlare di una loro utilizzazione, per il principio di ragione si deve parlare di una sudditanza; in nome della quale la scienza fa ricorso, o originario o ripetuto nel tempo, all’esperienza; in nome di questa sudditanza la scienza cerca di sostituire al ricorso all’esperienza, che deve sempre essere controllato, l’argomentazione, che in un certo senso riduce progressivamente le nozioni che debbono essere controllate: la riduzione, ad esempio, di un grandissimo numero di leggi fisiche alla legge di Newton ha consentito di rifarsi a questa e di interrogare l’esperienza solo nei confronti di questa, non appena qualcosa dell’edificio fisico cominciò a vacillare.
Pitagora, infatti, svincolò dall’esperienza il rapporto che i lati di un angolo retto presentano tra loro e con il segmento che li congiunge, non appena riuscì a rendere tale rapporto essenziale per una figura e non per dati empirici qualsivogliano; inoltre, sottrasse alla conferma dell’esperienza la caratteristica del 5 di rendere dispari il 6 e pari il 7 qualora si fonda con essi, quando tali rapporti riuscì a dimostrare caratteristici dell’essenza del dispari.
Per dimostrare, ad esempio, che lo zero non può essere un termine di una progressione geometrica, l’algebra assume per postulato ar = 0 e per la ricerca della ragione ricorre all’essenza dell’oggetto che indaga, cioè all’essenza della progressione; nella progressione di cui ar dovrebbe far parte,
q = ---------- - oppure q = ------------ - ; ma se ar = 0,
0 0 + 1
si avrà q = --------------- - oppure q = ---------------- - ;
0 - 1 0
dalle due identità si deduce l’impossibilità di una progressione geometrica contenente un termine zero, in quanto una divisione il cui dividendo sia zero sarà zero e zero sarà quindi la ragione con annullamento della progressione, mentre una divisione il cui divisore sia zero è priva di significato; l’essenza della progressione, di conseguenza, è venuta a poco a poco meno per lasciare il posto a quella della divisione; si dirà, è vero, che la divisione entra con tutta la sua essenza nell’essenza della progressione geometrica; ma questa è una serie concrescente su di sé di moltiplicazioni, in cui il moltiplicatore permane costante; se l’algebra non accetta questa definizione che non consentirebbe l’intervento dell’essenza divisione, bensì accetta l’altra definizione, che la progressione geometrica sia una serie di numeri in cui il quoziente fra uno qualunque e il precedente permane costante, ciò fa per immettere nell’essenza dell’oggetto dato l’essenza di quell’oggetto i cui attributi essenziali maggiormente si prestano a quel giuoco di sostituzioni mediante cui si potranno ricavare le leggi universali della progressione geometrica: questa possibilità di sostituire a un’essenza un suo diverso o un suo contrario, sempre quindi un contraddittorio, rivela quanto la matematica sia svincolata dall’essenza dell’oggetto indagato; in geometria la dimostrazione delle corde sottese ad archi uguali opera sì con attributi pertinenti al cerchio, ma si fonda sulle proprietà del triangolo che col cerchio nulla ha a che fare, e ciò fa solo in quanto considera l’identità quantitativa di certi segmenti e di certi angoli che se si considerano appartenenti a un triangolo comportano la ragione della loro identità.
Il possibile è una nozione predicabile di un’altra; d’altra parte, non essendo né ente mentale di cui non si dia specie né ente mentale di cui non si dia genere, il possibile può porsi pure come concetto-soggetto; il che comporta che possa essere indagato in sé, come ente a sé stante: infatti, il possibile non si identifica con nessun reale individuale e neppure si identifica con nessuno di quegli enti mentali il cui unico predicato può essere solo una descrizione che è asserzione della sua predicabilità in genere, ma non una definizione che dia ragione della sua predicabilità. Per questo, potremo sempre renderci conto dell’essenza del possibile e quindi potremo apprendere la natura dell’oggetto di cui esso si predica e, insieme la natura della scienza che si è dimostrato or ora doversi predicare secondo la nozione del possibile.
Il possibile nella sua essenza è la proprietà di tutti gli enti che sfuggendo alla legge di contraddizione, patiscono la predicazione di due contraddittori. È logico, allora, che il possibile si ponga sempre come un concetto che si predica di un altro, assunto sia in genere sia sotto il limitato rispetto di un suo aspetto o modo o proprietà o attributo o nota in genere, limitatamente ai quali l’ente non subisce l’imperio del principio di contraddizione. La possibilità non sarà mai di per sé conoscenza di alcunché, ma sarà solo conoscenza di ciò rispetto a cui un qualcosa accetta contemporaneamente una determinata predicazione e la predicazione contraddittoria («l’uomo può vivere cent’anni» = «l’uomo vive cent’anni» «l’uomo non vive cent’anni»; «un triangolo può essere» = «un triangolo è esistente» «un triangolo non è esistente») . Il possibile di per sé sfugge al controllo del principio di ragione in quanto si pone proprio là dove il principio di ragione non esercita alcun imperio: l’esclusione dell’azione del principio di ragione è la ragion sufficiente della possibilità. Non è, quindi, lecito fare entro la nozione del possibile una distinzione tra piano ontologico e piano logico in quanto il possibile si dà solo sul piano logico, essendo l’ontologico sempre soggetto al principio di ragione: il concetto correlato del possibile non è già il contingente, che è ciò che è senza che sussista o si possa dare ragion sufficiente, e che quindi è ciò che si sottrae al principio di ragione, non già al principio di contraddizione, sicché, per questo, si sottrae al campo della logica; e neppure è l’impossibile, che è ciò la cui predicazione comporterebbe l’appello a una ragion sufficiente altra dalla conosciuta e quindi un rapporto soggetto –predicato offendente il principio di contraddizione, in quanto confermato da una ragion sufficiente fittizia; il correlato è il necessario, che è appunto ciò che, attuandosi il principio di contraddizione in ottemperanza al principio di ragione, entra di pieno diritto nella logica a lato del possibile, in quanto entrambi ossequienti alle quattro leggi del pensiero: infatti, il possibile è ciò che si sottrae a tutte le leggi logiche – a quella del principio di ragione che non può intervenire, a quella di contraddizione e d’identità in quanto son lecite l’una e l’altra rispettivamente delle predicazioni contraddittorie e delle predicazioni non contraddittorie, a quella del terzo escluso, elusa in forza dell’inapplicabilità del principio di contraddizione; come tale, mentre in apparenza sembra portarsi fuori dal campo della logica in quanto non verifica alcuno dei principi primi,in realtà si pone di diritto in tale campo come quello che non ne offende alcuna legge ma si sottrae alla loro presa; in un certo senso il possibile è l’apolide della cittadella della logica che entro di essa viene accolto perché non disobbedisce alle leggi; il necessario è ciò che è in perfetta regola con tutti i principi. Il possibile e il necessario, dunque, si danno solo sul piano logico, mentre invece in tale piano non si danno né l’impossibile né il contingente, su cui la logica non può operare, giacché rispettivamente offendono il principio di contraddizione e il principio di ragione.
Si è detto sopra che il possibile sfugge al principio di ragione; occorre precisare il significato di queste parole: lo sfuggire al principio di ragione non comporta affatto assenza di principio di ragione; tutt’altro: solo, infatti, conoscendo nella sua interezza la ragione per cui un ente o una nota di un ente si danno, è possibile accedere alla nozione di possibile che non sarà se non ciò che, verificandosi le sue ragioni, godrà della liceità di darsi, non verificandosi le sue ragioni, non si darà mai. Di conseguenza, in ogni enunciazione di possibilità è sempre implicito un giudizio ipotetico di causalità articolato nelle forme affermativa e negativa. La nozione di possibile quindi è sì equivoca, purché la sua equivocità non venga inferita dalla distinzione tra una possibilità soggettiva od oggettiva, logica o fisica o morale; come pure non è consentito stabilire una netta differenziazione tra il possibile, nel senso che il termine ha qui ricevuto, dal possibile dell’uso classico o potenziale: tutte queste diverse nozioni celano una nota di identità in quanto tutte si riducono alla nozione di un ente o di una nota di cui non è possibile dire se sia o non sia e di cui, di conseguenza, si deve dire che è e non è, sottraendola in tal modo alla condizione del principio di contraddizione, giacché non si posseggono conoscenze sufficienti per poter affermare se si siano o non si siano date.
Queste otto aporie che sorgono quando si voglia fare dell’indagine platonico-kantiana non già un’indagine fondata su di un procedimento per possibilità, e quindi muovente da un giudizio problematico del tipo «la scienza è un possibile», ma una indagine di tipo logico e naturalistico, per cui dato un reale il pensiero lo sottopone immediatamente alle esigenze del principio di ragione, vanno considerate una per una:
a) L’indagine sulla conoscenza sia in Platone che in Kant è condotta secondo i due metodi con cui alla mente è dato far ricerche su un qualsiasi fatto: il metodo deduttivo e il metodo induttivo; le particolari strutture in cui si articolano i due metodi si presentano molto diverse nell’uno e nell’altro; il metodo deduttivo in Platone è appena accennato sotto forma di un richiamo mitico, mentre in Kant è lungamente e minuziosamente svolto nelle faticate pagine della Critica della Ragione Pura; il metodo induttivo in Kant è condotto partendo dalla presenza in noi di un giudizio universale e necessario, di cui si afferma l’esistenza in tutti i campi del conoscere, e la trattazione relativa è svolta nei Prolegomeni; il metodo induttivo attuato da Platone costituisce il nucleo della seconda delle tre parti in cui si può dividere il Menone ed è svolto lungo la falsariga della geometria. Nonostante le differenze, è consentito tracciare uno schema comune: nella fase induttiva si pone come fatto particolare la esistenza di un giudizio universale e necessario; se ne stabiliscono i caratteri; si accoglie come dato il fatto che tale giudizio è per sua natura universale e necessario; poi, si passa a stabilire una certa natura del soggetto conoscente o meglio una certa capacità o facoltà del soggetto conoscente che è il principio del giudizio stesso sicché, posta la facoltà, si pone necessariamente anche il giudizio come sua conseguenza; infine, si sottintende in Platone, si enuncia esplicitamente in Kant, la condizione generale del reale nella sua totalità, condizione da cui scaturisce come conseguenza la capacità o facoltà del giudizio. Nel momento deduttivo è seguito il cammino inverso, in quanto dalla struttura generale della totale realtà s’inferisce come conseguenza una certa capacità o facoltà del soggetto che pone come conseguenza necessaria il giudizio universale e necessario. Ora, dobbiamo chiederci perché mai Platone e Kant abbiano fatto ricorso ai due metodi per dimostrare l’apoditticità di quel reale che sarebbe il giudizio scientifico. Il metodo deduttivo è senz’altro il più sicuro quando si voglia raggiungere certezza in una conoscenza: infatti, la certezza della proposizione più generale garantisce la certezza della proposizione meno generale; in questo caso, la conoscenza universale e necessaria della struttura generale della totalità delle cose garantisce la conoscenza del giudizio scientifico come di un necessario, oltreché di un reale. Ma il metodo deduttivo non ha qui funzione sintetica, in quanto nulla aggiunge al giudizio scientifico che ne ampli o analizzi la nota di conoscenza universale e necessaria che già possiede: quando di un giudizio che sia universale e necessario si sa che è reale, il conoscerne le cause ci consentirà di considerarlo apodittico oltre che reale, ma questa nuova nozione che acquistiamo intorno ad esso agli effetti della funzione del giudizio universale e necessario non ha alcun interesse; interesserebbe piuttosto conoscere come si riesca a far funzionare quella capacità o facoltà soggettiva che determina i giudizi universali e necessari della scienza; ma questo non ce lo dice Platone che accenna a un ricordo del dimenticato senza precisare in che modo possiamo renderci padroni di questo ricordare; non ce lo dice Kant che descrive con la minuziosità più microscopica la funzione trascendentale del soggetto, senza metterci però nelle mani la chiave del suo meccanismo, possedendo la quale sia dato ricavare sempre «giudizi di esperienza» e mai «giudizi percettivi». Ora, tutto ciò dipende dal fatto che, a ben guardare, quelle che sono date come ragioni o cause del giudizio universale e necessario non sono in realtà ragioni o cause della totalità del giudizio universale e necessario, bensì solo della sua universalità e necessità: non sono ragioni-cause totali, bensì solo ragioni-cause parziali; la mente, infatti, conosce giudicando, e il perché di questo rimane un mistero che viene solo descritto, ma non giustificato con la sua causa – mi riferisco a quel che Kant dice dell’intelletto come facoltà del concetto e quindi del giudizio -; in certi casi quella predicazione misteriosa in cui consiste il giudizio assume anche i caratteri dell’universalità e necessità; ci troviamo quindi di fronte a una deduzione limitata. Non solo, ma la deduzione è per di più apparente: infatti quella struttura generale della totalità delle cose non è data nella sua interezza una volta per tutte, ma viene via via arricchita e completata man mano che si nota l’impossibilità di inferire tutto ciò che si avrebbe bisogno di inferire da essa e che la sua precedente insufficienza non consentiva invece di inferire; è una deduzione, quindi, che fa di continuo appello all’induzione e che non è mai completa senza gli apporti dell’induzione. Pertanto, vien meno quella certezza che il metodo deduttivo offre. D’altra parte, resta ancora da chiarire a quale scopo sia stato affiancato al metodo deduttivo il metodo induttivo: in genere, questo è assunto per passare dalla conoscenza particolare alla conoscenza generale e da questa a una conoscenza ancor più generale e così via; il ricorso al metodo deduttivo s’impone o come controllo della validità del generale nei confronti del particolare o come connessione necessaria del particolare al generale come a sua causa o condizione. Ora, il primo motivo di ricorso non è lecito assumerlo a principio dell’adozione da parte di Kant e di Platone del metodo deduttivo: nessuno infatti può pensare di mettere in efficienza una facoltà o capacità, di cui non possediamo il controllo volontario, per vedere se da essa scaturiscano, come da causa, quelle conoscenze universali e necessarie che sono i giudizi della scienza; tanto meno ci è lecito pensare introducibile un siffatto controllo nei confronti del rapporto tra la capacità o funzione soggettiva e la struttura generale dell’universo; ma anche il secondo motivo non può ritenersi causa dell’utilizzazione del metodo deduttivo, in quanto le conoscenze che noi acquisiamo intorno al giudizio universale e necessario sono tre e soltanto tre: che tale giudizio è un reale; che la sua causa immediata è una certa nostra facoltà o capacità; che la causa, di cui la facoltà è effetto, è una certa struttura del mondo; le tre nozioni si pongono automaticamente nei rapporti di subordinazione e perciò la connessione necessaria si realizza in parallelo con la scoperta delle cause o condizioni. I due metodi quindi, non si integrano a vicenda, ma sono, in fondo, l’enunciazione di una stessa realtà, enunciazione che viene condotta o muovendo dal particolare o muovendo dall’universale, senza che l’un processo rechi ausilio all’altro e viceversa; allo stesso modo che quando si siano costruiti nella loro interezza i rapporti di genere a specie di un’intera zona di reale è concesso trascorrere dal basso in alto o dall’alto in basso senza differenza alcuna di conoscenza. Inoltre, anche del processo induttivo si deve rilevare la deficienza che già è stata osservata a proposito del deduttivo: i suoi risultati sono parziali, in quanto riguardano un aspetto del giudizio scientifico, l’universalità e necessità, non già la sua essenza. Ora, da quanto si è osservato si può trarre una conclusione: tanto il metodo induttivo che il deduttivo non dimostrano la realtà del giudizio scientifico, bensì l’assumono come un dato di fatto: non la dimostra l’induttivo perché le ragioni-cause che esso offre non possono venir verificate dall’integrazione sperimentale; non la dimostra il deduttivo come quello che è costretto continuamente a fare appello all’induttivo. Tutto ciò comporta che si pretenda di risalire da un effetto alla sua unica causa senza dimostrare che il fatto, trovato e dichiarato ragione-causa, sia veramente causa e sia veramente unico. Nessuno dei due metodi adottati garantisce l’apoditticità del giudizio scientifico; con nessuno dei due metodi si dimostra l’apoditticità del giudizio scientifico. Dal momento che una realtà è dimostrata tale o dalla sua apoditticità o dalla sua soggezione al principio di contraddizione, l’impossibilità di dimostrare l’apoditticità del giudizio scientifico affida la dimostrazione della sua realtà al controllo operato con l’ausilio del principio di contraddizione. Ma è appunto perché quest’ultima dimostrazione era impossibile che si è ricorsi al procedimento della dimostrazione per apoditticità: e allora non resta che riconoscere che lo scopo per cui si è ricorsi ai metodi induttivo e deduttivo era quello di trovare un’apoditticità per un reale che di per sé non era reale. Il fallimento dei due metodi, d’altra parte, rivela con il suo esito negativo l’errore stesso che era alle sue radici, quello cioè di voler assumere come dato ciò che era un dimostrando proprio in quanto dato: essere il giudizio scientifico una realtà. Non si può quindi credere che Platone e Kant siano caduti in sì grossolano errore; si deve invece ritenere che essi abbiano offerto la conclusione, nella sua forma deduttiva e induttiva, di un processo mentale che nel suo svolgersi non fece appello ai due metodi, bensì a quell’unico metodo che può essere assunto nei confronti di un ente la cui realtà non sia data, e che è il procedimento per possibilità.
b) Il quadro completo del processo conoscitivo così come ci viene offerto da Platone e da Kant, non è tale da accogliere in sé e da giustificare tutti i momenti che una qualunque conoscenza particolare, che si ponga come scienza, presenta come ineliminabili e necessari: se una conoscenza si costruisce mediante l’appello continuo all’esperienza, questa condizione non trova la sua ragion d’essere nella dottrina della conoscenza platonica, né nella sua fase primordiale rappresentata dal Menone, né nella sua fase più completa, quella del Timeo: che, infatti, una conoscenza universale e necessaria sia un ricordo di un ente dimenticato e richiamato alla coscienza per un processo meccanico di associazione può essere dimostrato soltanto alla condizione che il fatto che causa l’associazione si provi essere in rapporto o di contiguità o di somiglianza con il fatto ridestato dall’associazione; ora, una siffatta dimostrazione esula non solo dai compiti di una gnoseologia, ma anche dalle capacità in cui la gnoseologia platonica ha posto l’uomo: il reale che giace nelle tenebre della dimenticanza è ignorato dall’uomo e non può mai venir dall’uomo confrontato con il reale dell’esperienza, se non quando l’esperienza si dà: poiché, per potersi parlare di associazione si dovrebbe dimostrare se non altro la somiglianza del reale ideale e del reale naturale, e poiché tale somiglianza dovrebbe sussistere indipendentemente dall’intervento della esperienza e dal contatto con l’esperienza, all’uomo, che tale somiglianza può affermare esistente solo dopo esperienza, non sarà mai concesso dimostrarlo. D’altra parte, l’intervento del sillogismo che impone la successione per genericità nel corpo delle conoscenze di una scienza, non trova nessuna ragion d’essere nella dottrina kantiana: infatti, una volta che il giudizio scientifico si sia posto come universale e necessario per la sussunzione del soggetto alla categoria, la sua trasformazione in un risultato dell’applicazione di una regola è un di più, assolutamente inutile, la cui introduzione è imposta dalla reale esistenza e quindi dalla ineliminabilità del sillogismo, più che da un effettivo riconoscimento della sua logica necessità. Ora, non è possibile spiegarsi le due lacune se non come l’effetto di un certo atteggiamento nei confronti del problema della scienza: se la scienza fosse stata accolta come un dato reale di cui si trattava di dimostrare l’apoditticità, si sarebbe assunto ad oggetto d’indagine sia il concetto sia quel rapporto universale e necessario che nel giudizio scientifico si pone tra concetti e che non può darsi senza un appello all’esperienza, mediato o immediato, sia quel rapporto universale e necessario che nel sillogismo si pone tra i giudizi: la realtà di una scienza in genere non si riduce a un giudizio, ma a un rapporto con l’esperienza, da cui scaturiscono i concetti la cui esistenza pone insieme il giudizio e il sillogismo. Poiché questa è la realtà in genere delle scienze particolari, il proposito di dedurre tale realtà dalla sua apoditticità non avrebbe dovuto trascurare nessuno dei suoi fattori; la trascuranza di qualche fattore non può giustificarsi se non come dovuta allo spostamento di interesse dalla realtà della scienza alla sua possibilità, ossia come provocata dall’adozione nei confronti della scienza non già dei procedimenti, analitico e sintetico, cui si sottopongono i diversi oggetti quando siano reali, ma di quel procedimento per possibilità che viene assunto nei confronti di un oggetto di cui non siano certe né la realtà né l’irrealtà, e di cui quindi si tratta anzitutto di stabilire quella ragione che consenta di accoglierlo come ente di un processo logico. Tale assunzione non riguarderà mai la totalità di un oggetto in tutte le sue articolazioni, totalità che solo la sua apoditticità o realtà può offrirci, ma la sua più semplice e schematica struttura, che, nel caso della scienza, è la conoscenza più semplice che possa darsi, il giudizio. La dimostrazione della possibilità del giudizio scientifico, che consisterà nella ricerca di una sua ragione, ricerca condotta dal punto di vista di quelle acquisizioni in nome delle quali si è negata una realtà al giudizio scientifico senza tuttavia riuscirne a provare l’irrealtà, provocherà necessariamente in un primo momento il disinteresse per quegli aspetti della conoscenza, anche scientifica, che le acquisizioni suddette hanno ignorato e, in un secondo momento, una volta argomentata la realtà del giudizio scientifico in generale e della scienza in genere, una loro forzata e ingiustificata e contraddittoria introduzione.
c) Da quando il pensiero umano ha applicato l’analisi onde ricavare da un particolare un generale che servisse a spiegare il particolare stesso e si ponesse come sua ragione o causa non ci si è mai fidati del prodotto delle nostre operazioni logiche; sempre si è voluto coonestare il ritrovato per analisi con qualche mezzo che fosse fuori del particolare rapporto per cui dal particolare si era risaliti al generale, e che ci fornisse un’ulteriore garanzia: si è così ricorsi alla sperimentazione, che può considerarsi il più antico o preistorico strumento di controllo dell’induzione; poi ci si è valsi della dimostrazione; per i casi in cui né l’esperimento né l’argomento potevano servire si è fatto capo sempre all’evidenza immediata. A dimostrare questa scarsa fiducia che il pensiero umano nutre in se stesso bastano il senso di disagio che proviamo dinanzi a quelle proposizioni generali le quali vengono assunte dalle scienze come postulati – proposizioni generali che il raziocinio si sforza o di dimostrare o di eliminare -, e la stessa regola di Newton sull’induzione limitata, affermazione che sottrae il dato analitico a qualsiasi forma di garanzia. Se si sostiene che Platone e Kant procedettero per analisi in quanto presero le mosse da quella somma di giudizi universali e necessari che alcune scienze offrono per inferirne il tipo fondamentale di giudizio scientifico del quale poi avrebbero fornito la ragione, si ammette contemporaneamente che il loro procedimento fu analitico-induttivo. Ora, si può consentire per Platone che egli non fosse esperto delle richieste che il pensiero detta a se stesso quando procede per analisi, e che quindi gli sfuggisse la necessità del ricorso alla sperimentazione o alla dimostrazione o alla evidenza – quantunque certi suoi sforzi per dimostrare l’immortalità dell’anima, certi suoi atteggiamenti per procedere per via di esclusione alla teoria delle idee separate come all’unica possibile soluzione genetica del problema del conoscere, lascino intravvedere che egli era tutt’altro che all’oscuro delle leggi del pensare; ma non si può ammettere che di tali leggi e richieste fosse all’oscuro Kant, la cui preoccupazione di dimostrare riempie le pagine della Ragione Pura. Resta allora inspiegabile come mai nella loro dottrina della conoscenza che dovrebbe essersi formata per analisi sui reali giudizi scientifici, il discorso ponga capo a una proposizione generalissima in cui viene enunciata una descrizione della totalità delle cose e che non è sperimentabile né dimostrabile né evidente; questa proposizione non è neppure un postulato, con le funzioni con la struttura con l’autoconsapevolezza di quello euclideo delle parallele; e quindi non ci viene neppure posto dinanzi come qualcosa di convenzionale; infatti, il legame di causalità che vincola la realtà del giudizio universale e necessario alla capacità o facoltà soggettiva e alla struttura del mondo, non permette di farne un ente generalissimo, mutando il quale si determinerebbe un cangiamento in tutta la processione delle deduzioni senza che il pensiero potesse far altro che registrare la nuova situazione; se, infatti, modifichiamo i due principi, ad esempio li permutiamo, il dato reale del giudizio scientifico risente nella sua intima essenza del mutamento, e, pur non cessando di essere un universale e un necessario, da fatto immotivato, richiedente una dimostrazione causale, diviene fatto immotivabile per il quale non si richiede dimostrazione causale. La proposizione generalissima, dunque, non è né uno sperimentabile né un verificabile né un assioma né un’intuizione né un postulato, ma quel che più deve far pensare è che non è nemmeno un unico, la cui unicità reale costituisca, se non altro, quella parziale dimostrazione, che è la dimostrazione di necessità sgorgante dal suo stesso intimo e fornita da essa a se stessa. Ora, un procedimento analitico che ponga capo a una siffatta proposizione prima o è errato o non è analitico. Dal momento che non è possibile pensare che Platone e Kant si siano abbandonati a costruire tutto il loro edificio su un errore evidente, non resta che ritenere che il procedimento induttivo non abbia costituito il vero discorso del loro pensiero, ma sia stato semplicemente la forma che il loro pensiero ha rivestito o in vista di una semplificazione per la struttura drammatica del dialogo o a causa di una assenza di esercizio di controllo su di sé; non resta che ritenere che il fondamento vero del raziocinio sia stato un certo tipo di procedimento per possibilità, del quale appunto il risultato non può essere che una proposizione generalissima avente tutti i caratteri di quelle da cui l’intera spiegazione platonico-kantiana del conoscere procede.
d) Se ci chiediamo a che cosa veramente miri un procedimento induttivo, dobbiamo rispondere che il suo scopo è di trovare quel fatto unico, reale e generale, che renda ragione di una molteplicità di altri fatti reali che rispetto ad esso si pongono come particolari: questo fatto la mente lo tratta come la causa reale di reali particolari, sia nel caso che il rapporto assuma una sfumatura qualitativa, come si dà per la legge di Newton, sia nel caso che il rapporto sussista per semplice relazione funzionale o identità quantitativa, come avviene per la quasi totalità delle leggi della natura. La scoperta della causa che, avendo luogo per via analitica, attende una qualunque verifica di garanzia, permette di prevedere il futuro –di qui la sua funzione pragmatica -, e consente di inferire dalla realtà della causa la necessità dell’effetto – di qui la sua funzione teoretica -: sicché un metodo analitico, in quanto dalla realtà dell’effetto inferisce la realtà della causa e dalla realtà della causa la necessità dell’effetto, è sempre, nel suo ultimo momento, un processo di inferenza del reale dal necessario. Ma la ricerca e la scoperta della causa devono darsi in seguito alla considerazione di tutti gli attributi dell’aspetto del reale particolare, sotto il cui punto di vista ci si installa per sottoporlo ad analisi: qualora uno solo degli attributi non trovi sussunzione sotto il generale, si deve arguire che o non c’è stato processo induttivo o nel processo è intervenuto un errore. Si consideri, ora, la ragione o causa che da Platone e da Kant viene addotta per quei giudizi universali e necessari che dovrebbero essere i reali particolari su cui ha operato l’induzione: se veramente il procedimento seguito dai due pensatori fosse stato di natura analitica e avesse avuto a suo scopo quello di inferire dalla realtà dei giudizi la loro necessità, si dovrebbe concludere che il procedimento è stato viziato da errore perché la causa rende ragione di una sola delle proprietà di un giudizio scientifico, rispettivamente del suo porsi come applicazione di una regola o della sua necessaria connessione con l’esperienza, non di entrambe. Ma poiché l’errore non c’è stato – lo dimostrano gli sforzi che Platone e Kant fecero per dare una giustificazione a quello degli attributi, l’applicazione di una regola o la necessaria connessione con l’esperienza, che non ricavava la propria necessità dalla causa generale del giudizio scientifico in genere, non resta che accettare che il loro procedimento non sia stato induttivo, ma soltanto problematico: nel procedimento per possibilità, infatti, non si tratta già di trovare la causa dei due attributi di un giudizio universale e necessario che si ponga come reale, bensì si tratta di accogliere nel campo logico quel giudizio, e quindi di preoccuparsi anzitutto della sua natura di universalità e necessità e di ritrovare per questa natura la ragione problematica che consente di introdurlo come ente di pensiero nonostante la sua irriducibilità alla giurisdizione del principio di contraddizione.
e)Ammessa la natura analitica delle indagini platonico-kantiane , si deve concludere che, poiché in un processo induttivo che, risalendo dalla realtà di un particolare alla ipoteticità di una causa, dimostra, o per esperimento o per argomentazione, doversi ridurre l’ipotesi a una realtà e ne deduce la necessità del particolare, si pone tra causa ed effetto un rapporto tale che l’effetto postula quella causa e quella sola, e la causa produce quello e quello solo di tutti gli effetti reali, vale a dire un rapporto univoco, tali indagini debbono essere in sé errate e nessuna delle due può essere accolta come inventrice di verità, in quanto la causa postulata dall’effetto è duplice, e due ragioni distinte, entrambe di per sé necessarie e sufficienti, danno luogo allo stesso effetto, il che è assurdo. Ma, in realtà, né Kant né Platone ignorarono e lasciarono nell’ombra quella che dall’altro sarebbe stata assunta come causa necessaria e sufficiente del giudizio universale e necessario: il primo infatti non trascura la concatenazione per cause, che costituisce una delle componenti della causa necessaria e sufficiente, adottata da Platone per giustificare la necessità del giudizio universale e necessario; il secondo terrà ben presto conto di quell’ineliminabile intervento della esperienza, di cui Kant ha fatto uno dei fattori della ragione che garantisce l’apoditticità della conoscenza scientifica. Non si può, quindi, parlare di errori nell’applicazione del metodo analitico. Ma se nel loro processo di ragionamento non è intervenuto errore logico e se il loro processo, pur rimanendo identico, ha condotto a due spiegazioni diverse di uno stesso fatto, il loro medesimo procedimento doveva essere tale da poter produrre conclusioni distinte e diverse: e solo un procedimento per possibilità può contenere in sé tale attitudine.
f) L’indagine analitica affonda le sue radici in quell’atteggiamento generale del pensiero che è provocato dal costante campo di forze che attorno a sé produce il principio di ragione: di ogni fatto che si dà come reale il principio di ragione esige che se ne conosca il principio e impone che nulla si sappia di esso quando se ne ignori la condizione; il principio di ragione pone fra noi e il contingente un abisso che nulla potrà mai colmare; infinite saranno le dimostrazioni che ci potranno essere offerte di una contingenza esistente nella realtà e del suo darsi in quanto contingenza, ma sempre noi guarderemo al dato contingente come a qualcosa che entra nella cittadella della logica con una parte dei documenti non in regola, come un ente mentale che per la sua soggezione al principio di contraddizione potrà anche divenir predicato di un giudizio definitorio o sintetico, ma che non potrà mai in tali giudizi esplicare la funzione di soggetto. In questa atmosfera condizionata, il pensiero non accetterà mai a priori un contingente, ma di fronte a un reale contingente procederà sempre per induzione onde farne un necessario. Qualunque processo induttivo è perciò figlio del principio di ragione e, in quanto tale, nulla può dirci intorno alla realtà di una cosa, tutto invece può fornirci circa la necessità o contingenza di una cosa che già si ponga come un reale. Come già si è detto, per suo mezzo inferiamo dalla realtà la necessità, attraverso un’inferenza che però non è in sé necessaria in quanto è vincolata alla struttura del reale e ai mezzi che noi possediamo per conoscere il reale e controllarne le conoscenze. Un processo induttivo di per sé non è affatto garante di un’apoditticità del reale, e il fatto che noi lo applichiamo a qualsiasi reale non ci assicura affatto di un’apoditticità intrinseca nell’essenza del reale, bensì ci rende soltanto certi che il nostro comportamento nei confronti del reale è costantemente e uniformemente condizionato dall’esigenza di conoscerlo come necessario: l’induzione, in sé, è il segno di una struttura soggettiva non di un’essenza oggettiva. Per questo, oltre che per il controllo del possibile errore derivante dalla norma che dall’effetto si risale solo a una causa in genere, l’induzione si accoppia con i metodi di controllo. Se dunque i metodi di Platone e di Kant fossero induttivi, essi si fonderebbero sui tre presupposti: 1) che di ogni realtà è sempre possibile, ma non necessario, trovare la necessità; 2) che il reale di per sé non è né assolutamente necessario né assolutamente contingente, e che, appunto perché tale, accoglie l’azione analitica del soggetto conoscente, pronto o meno a rispondere alle aspettative che il soggetto conoscente si propone con la sua azione; 3) che, perché sia dato un necessario, dev’essere sempre dato in precedenza un reale in quanto l’inferenza di una realtà da una necessità potrebbe darsi solo alla condizione che fosse stata data dimostrazione dell’essenza apodittica di tutto il reale, essenza apodittica che l’induzione accoglie non come dato dimostrato, ma come dato che riceve dimostrazione da ogni risultato positivo dell’applicazione del metodo, e che trova la sua portata limitata solamente a quell’operazione particolare e a tutte e precedenti, non mai alle successive. Ora, i ragionamenti di Platone e di Kant non muovono da tali presupposti, anzitutto perché essi puntano all’indagine del problema della conoscenza con la convinzione intima che quel reale su cui essi operano, il giudizio universale e necessario, sia un necessario – senza tale convinzione, infatti, essi non s’immetterebbero con tanta sicurezza di risultati nel cammino che porta a stabilire la necessità della scienza, cammino che è l’ultimo che resta aperto dopo che essi stessi hanno dovuto riconoscere legittima l’osservazione che la scienza, almeno in certi campi, è una pretesa, non una realtà; in secondo luogo, perché una volta in possesso di tale convinzione, che la loro indagine successiva dimostrerà valida con l’estensione del principio di necessità dal campo ristretto del conoscere al campo di tutto il reale, possono permettersi di eludere la prima difficoltà, che è quella di stabilire, entro i limiti stessi del giudizio scientifico, se il giudizio scientifico sia veramente un reale, e possono così sostituire al criterio dell’inferenza del necessario dal reale il criterio opposto dell’inferenza del reale dal necessario – e con ciò si sottraggono pure all’esigenza imprescindibile per qualunque procedimento analitico, di convalidare in un modo o in un altro il necessario, cui hanno approdato muovendo dal reale. I presupposti, dunque, di Platone e di Kant non sono affatto quelli di una qualsiasi indagine induttiva. Ma si dirà che non è vero che il procedimento analitico muova dai presupposti che noi abbiamo elencato sopra; si dirà che esso assume proprio quelli che appunto assumono Platone e Kant a principio delle loro ricerche sulla conoscenza; si dirà cioè che l’induzione muove dalla concezione di una universale necessità e che inferisce sempre la realtà dalla necessità; ora se è facile dimostrare che l’induzione muove solo dal reale per argomentarne la necessità – infatti, non si dà mai dal punto di vista di un processo induttivo un generale senza un particolare, un universale senza un generale e quindi un necessario senza un reale -, può apparire addirittura contraria alla stessa esperienza che facciamo su noi stessi, l’affermazione che uno dei presupposti dell’induzione non sia l’universale razionalità, in quanto universale necessità; se questo fosse, poiché l’induzione è una delle componenti necessarie del processo di pensiero e poiché non si dà processo di pensiero in cui non intervenga come fattore determinante l’analisi, quello che è un presupposto dell’induzione dovrebbe essere un presupposto del pensiero, vale a dire un assioma e non un postulato del pensiero; ma se l’universale necessità fosse un assioma, nel nostro pensiero non avrebbe mai dovuto sorgere il concetto di contingente, ma avrebbe sempre e soltanto dovuto darsi il concetto di reale immotivato in atto ma motivabile in potenza. Lo stesso Kant, che ha fatto suo il presupposto dell’universale necessità, dimostra di usarlo come un postulato, e non come un assioma allorché sottrae alla necessità e classifica nella contingenza un certo numero di reali, precisamente tutte le azioni compiute per imperativo categorico. I postulati, dunque, dell’induzione non coincidono con i postulati dell’indagine platonico-kantiana: di conseguenza, l’indagine platonico-kantiana non può dirsi un’induzione e non può essere ritenuta un’inferenza del necessario dal reale. Si potrebbe tuttavia affermare che i presupposti di Platone e Kant sono tipici del procedimento deduttivo, e che appunto per questo la realtà del giudizio universale e necessario sgorga dalla sua necessità argomentata per sillogismi. Ma se l’indagine dei due pensatori fosse in realtà una deduzione, noi ci troveremmo di fronte a una catena di tre sillogismi, il primo dei quali ha come premessa maggiore una certa definizione del reale, il secondo una certa capacità o facoltà del soggetto dedotta dal primo, il terzo la necessità, e quindi la realtà, del giudizio scientifico dedotte dal secondo: ci troveremmo, allora, di fronte allo strano e assurdo procedimento deduttivo, che consente l’inferenza di uno stesso particolare da due generali distinti e diversi. L’affermazione platonica, che verrà fatta propria da tutta la scienza posteriore, che il sapere si costruisce analiticamente, ma trae il proprio valore dalla deduzione (Repubblica), prepone sì la deduzione all’induzione, ma sul piano del reale, non dell’indagine: anche per Platone quindi l’indagine è analitica, la contemplazione sintetica. E Kant spesso ci avverte che la giustapposizione dei Prolegomeni alla Ragione Pura è nata dal bisogno di chiarire il suo pensiero, chiarimento che è stato conseguito mediante un ricorso al fatto primo da cui l’intera sua dottrina è nata, cioè dall’analisi. Platone e Kant hanno perciò seguito un raziocinio analitico, in cui però l’analisi non assume le stesse funzioni che assume nell’induzione: non è l’analisi di un reale, bensì di un ente di cui si deve stabilire la realtà attraverso la necessità mediante un ricorso al principio di ragione, che, non potendo essere quello della deduzione, deve essere quello del procedimento per possibilità.
g) Un’indagine analitica che muova da un particolare per inferirne il generale che ne rappresenti la causa o ragione, tende sempre a fornire una dimostrazione della necessità del particolare; ma di tale dimostrazione mai si serve per argomentare la realtà del particolare. Il particolare che essa scruta è un reale da qualsiasi punto di vista lo si consideri, ad eccezione di quello dell’apoditticità. Una ricerca induttiva pone quindi al suo principio cronologico un dato la cui realtà si pone come indubitabile, in quanto il dato si pone intuitivamente e quindi immediatamente sotto la giurisdizione del principio di contraddizione. D’altra parte, un procedimento sintetico inferisce sempre da una nozione più generale la necessità di una nozione più particolare, necessità che coinvolge la realtà stessa di quest’ultima: il dato ultimo cui conduce un’inferenza deduttiva sarà il dato più particolare e meno generale cui si possa giungere e godrà della necessità e della realtà implicita nella necessità di cui godono tutti i giudizi e tutte le nozioni che entrano a far parte del raziocinio; nessun processo di deduzione possiede la facoltà di condurre a un dato ultimo della cui realtà sia lecito dubitare. Qualora le indagini di Platone e di Kant avessero avuto originariamente un andamento analitico – allo scopo di inferire da un reale la ragione sua e della sua necessità, o un andamento deduttivo – allo scopo di inferire da un necessario la realtà del necessario della conclusione, il termine, rispettivamente primo ed ultimo dei due ragionamenti, cioè il giudizio universale e necessario, avrebbe dovuto sempre porsi come un reale: sia l’uno che l’altro procedimento avrebbero comportato sempre la natura reale del giudizio scientifico. D’altro canto, se si fosse presentata al pensiero umano un’affermazione di irrealtà, predicata del giudizio scientifico, tale affermazione avrebbe richiesto una ragione da ricercarsi o nell’oggetto stesso, nel nostro caso il giudizio, o nel soggetto conoscente. L’andamento, allora, dei raziocini platonico-kantiani avrebbe dovuto arricchirsi di un fattore che in realtà in essi non si ritrova, vale a dire della motivazione della predicazione di irreale o di contraddittorio riferita al concetto di giudizio universale e necessario: il ragionamento, in un certo senso avrebbe dovuto sdoppiarsi in due momenti: nell’uno si sarebbe data la dimostrazione della necessità di quel reale che è il giudizio scientifico, nell’altro si sarebbe argomentata la ragione per la quale al pensiero è concesso negare l’esistenza e la realtà di un giudizio scientifico. Invece, il ragionamento si presenta orientato nell’unica direzione della ricerca di prove apodittiche destinate ad assicurarci della necessità del giudizio scientifico e, di conseguenza, sufficienti a renderci certi della sua realtà. Dell’irrealtà del giudizio scientifico non si fa cenno se non per confutarne la dimostrazione e la correlativa apoditticità: Kant, infatti, demolisce la teoria di Hume della soggettività del rapporto d’identità quantitativa e Platone prende le mosse dalla confutazione dell’argomento che dimostra impossibile una scienza. Sembrerebbe quindi che da entrambi i pensatori il giudizio scientifico venga accettato come un reale di cui si tratta di dimostrare la necessità: ma l’aporia che Hume ha rilevato nel giudizio scientifico, che cioè la sua universalità e necessità non si argomenta dalla particolarità e relatività del dato sensoriale da cui però il giudizio scientifico non può disgiungersi, continua a sussistere anche quando appare chiaro che l’universalità e necessità del rapporto causale non è riducibile a una pura combinazione psicologica, ossia a una elaborazione soggettiva; e l’aporia, che vien rilevata da Menone, che, se la scienza è un noto è inutile, mentre se è un ignoto è un impossibile – aporia che si riallaccia all’inderivabilità della nozione universale e necessaria di natura essenziale della particolarità e relatività del dato sensoriale -, continua a sussistere, come dimostra tutta l’indagine inizialmente svolta intorno ala natura ed alle conseguenze della definizione. Se quindi chi afferma l’irrealtà del giudizio scientifico non è in grado di argomentarla, neppure è in grado di fornire prove sufficienti chi lo dichiara reale. L’universalità e necessità del giudizio scientifico non è, allora, un dato né reale né irreale; non ottempera alle esigenze del principio di contraddizione né le viola. Ora, se è vero che né Platone né Kant prendono le mosse dal giudizio scientifico affermato irreale, non si può neppure affermare che essi muovano dalla certa realtà del giudizio scientifico. Ma se il termine, primo in particolarità, del procedimento non è un reale, il procedimento non può essere né induttivo né deduttivo; resta, dunque, che sia problematico.
h) Assumiamo come reale un giudizio scientifico ed elenchiamone i caratteri: è una predicazione di un concetto da parte di un altro concetto; la predicazione, fondata sul principio d’identità e di contraddizione, stabilisce un’identità fra i due concetti, identità che può essere quantitativa nel qual caso si ha una relazione funzionale reciproca fra il concetto-soggetto e il concetto-predicato, oppure può essere essenziale nel qual caso si pone tra gli stessi concetti una relazione logica di sussunzione, equivalente sul piano ontologico a una causalità genetica; la predicazione è universale e necessaria; la predicazione è gnoseologicamente valida, nel senso che riproduce fra gli enti, in quanto pensati come concetti, la stessa relazione che passa fra gli stessi enti, in quanto pensati come dei reali sussumibili sotto i concetti. Se Platone e Kant hanno posto come scopo della loro indagine sul problema della conoscenza quello di inferire la necessità del giudizio scientifico dalla sua realtà, non possono non avere assunto come reale il giudizio scientifico e non possono non avere accolto come caratteristici del giudizio scientifico tutti gli attributi che lo contrassegnano: debbono quindi averlo assunto anche nel suo valore gnoseologico e debbono aver concepito il rapporto di predicazione tra gli enti mentali del giudizio come riproducente il corrispondente rapporto tra i reali sussumibili sotto gli enti mentali: La loro argomentazione intorno alla necessità del giudizio non deve uscire dall’ambito puramente logico e non deve investire l’aspetto gnoseologico del problema in quanto, se la realtà del giudizio gnoseologico come ente logico comporta l’inferenza di una sua necessità, tale inferenza investirà anche il valore che il giudizio scientifico possiede di fatto, come strumento di conoscenza. Ma quello che veramente presenta il procedimento dei due pensatori è tutt’altro che una semplice inferenza ristretta a un piano logico: l’indagine svolta sul problema della conoscenza non resta mai limitata al semplice aspetto logico, se non nel momento in cui si tratta di stabilire quali siano le condizioni necessarie perché un giudizio si dia come conoscenza scientifica in genere. Non appena fissate le condizioni di necessità, subito si pone il problema sotto il ben diverso punto di vista non già della necessità della sua esistenza logica ma della necessità del suo valore gnoseologico. Se l’apoditticità del giudizio scientifico riveste certe condizioni sul piano puramente logico, anche la realtà delle cose in generale deve porsi in modo tale che il giudizio scientifico la rispecchi e la riproduca in se stesso. Tutta la costruzione mitica del Timeo e le argomentazioni che Kant ci offre sotto il nome di deduzione trascendentale (Transzendentale Deduktion) ci attestano il problema che ai due pensatori si è presentato, che cioè la dimostrazione che il giudizio scientifico è un necessario si riduce a una deduzione del giudizio scientifico da una capacità o funzione soggettiva la quale, a sua volta, è necessitata da una certa struttura delle cose; ma la deduzione della natura del soggetto conoscente dalla struttura delle cose non coincide con la deduzione delle cose dalla loro struttura: la realtà, quale a noi ci si presenta nel dato di esperienza, non viene dedotta contemporaneamente alla natura del soggetto. In termini platonici, si potrebbe dire che l’esistenza distinta delle idee pone l’anteriorità dell’anima umana alla sua esistenza terrena, e questa pone il possesso delle intuizioni ideali, possesso da cui s’argomenta la facoltà del ricordo che sarà facoltà di giudizi universali e necessari; ma la deduzione del giudizio universale e necessario dall’esistenza distinta delle idee non implica affatto una presenza nel dato di esperienza del mondo ideale; sicché la necessità che investe il giudizio scientifico nel suo aspetto logico, non riguarda affatto il valore gnoseologico dello stesso giudizio. In termini kantiani, si potrebbe dire che dall’appercezione originaria trascendentale è lecito argomentare l’intuizione pura spazio-temporale e i concetti puri categoriali, e che dall’intuizione pura e dalle categorie è lecito dedurre l’universalità e necessarietà dei giudizi matematici e fisici; ma le due deduzioni non riguardano se non il modo con cui al soggetto conoscente è dato porre in relazione reciproca intuizioni, anche immaginarie, situate nello spazio e nel tempo, o concetti sussunti sotto le categorie; che il mondo dell’esperienza con le sue intuizioni indipendenti da un arbitrio rappresentativo del soggetto, e con le sue successioni e simultaneità ancora indipendenti da un ordinamento introdotto con consapevole volontà dal soggetto, sia costituito secondo quegli stessi rapporti che nel giudizio rivestono caratteri di universalità e necessità, non è affatto dimostrato dalla deduzione del giudizio scientifico dalla natura attiva del soggetto generico. Se dunque il giudizio viene argomentato nella sua necessità solo sotto l’aspetto logico, ciò vuol dire che, anche ammessa la finalità di dimostrarne la semplice apoditticità, tale finalità non riguarda il giudizio nella totalità dei suoi caratteri, ma solo sotto alcuni; e poiché un argomento che assuma ad oggetto un reale non può e non deve ignorare nessuno degli attributi essenziali, il giudizio che l’indagine platonco-kantiana assume a proprio oggetto è sì un reale, ma un reale non ontologico, bensì logico, cioè un ente puramente pensato, di cui si tratta di dimostrare il diritto che la mente ha di pensarlo. Ma una tale dimostrazione riguarderà l’ente sempre e soltanto come un dato la cui pensabilità è garantita dalla sua ottemperanza al principio di contraddizione, la quale ottemperanza, in questo caso, non potrà essere che quella che gli viene dalla sua subordinazione al principio di ragione, essendo esclusa l’altra forma di ottemperanza che è la realtà, cioè il porsi in congruenza col principio di contraddizione indipendentemente dal principio di ragione. Ed essendo un ente mentale siffatto, ente che entra nel dominio della logica dapprima solo col crisma della possibilità che lo sottrae temporaneamente alla giurisdizione del principio di contraddizione, il giudizio scientifico assunto ad oggetto di indagine da Platone e da Kant è anzitutto un possibile. Che è appunto quanto si voleva dimostrare.