Giordano Bruno Cavagna
La soluzione kantiana del problema epistemologico fondamentale

CAPITOLO SECONDO Inserzione del conoscere entro lo schema di un metodo problematico

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CAPITOLO SECONDO

Inserzione del conoscere

entro lo schema di un metodo problematico

 

La situazione nella quale Platone e Kant trovano sistemato il conoscere, le proposizioni che essi trovano enunciate intorno al fatto del conoscere, sotto certi aspetti sono identichexiv: presentano perciò [però] una differenza destinata a incidere sulla soluzione del problema della scienza. Tra i due ambienti storici vi è un’identità di struttura in cui interviene un fattore che le differenzia profondamente l’una dall’altra: da alcuni si accetta, da altri si rifiuta il carattere che fa del conoscere un sapere universale e necessario; da quanti negano la conoscenza universale e necessaria la negazione viene limitata ad alcune sfere soltanto del conoscere, e precisamente a quelle che sono in necessaria ed evidente dipendenza dai dati dell’esperienza; ma mentre nelle dottrine contemporanee a Platone si rende ragione dell’impossibilità in cui alcune conoscenze giacciono a raggiunger l’universalità e necessità e non si indica esplicitamente ciò che consente ad altre di aggregarsi questi attributi, nelle dottrine che si offrono a Kant sono presenti entrambe le ragioni, rispettivamente identificate con l’impossibilità di un procedimento deduttivo correlativa a una necessità di inferenza induttiva, e con la genesi da un raziocinio deduttivo connessa con l’esenzione da qualsiasi forma di inferenza induttiva. Sarà questa ultima differenza a incidere profondamente sulle differenti soluzioni del problema della scienza.

Il dato contingente che insorge a invalidare la generica fiducia nella esistenza della conoscenza universale e necessaria, provoca l’indagine platonico-kantiana tesa alla soluzione del problema se si dia una conoscenza universale e necessaria. Sia la necessità di unità che l’impostazione stessa del problema porta seco e per cui un’indagine siffatta non può assumere a suo oggetto che l’elemento semplice e generico di una conoscenza che possa essere scienza, cioè il giudizio, sia l’illusorietà, che si rivela nella dicotomia della conoscenza in due sfere, di cui l’una gode delle proprietà di universalità e necessità e l’altra ne è priva, comportano l’unitarietà dell’indagine che non potrà fare distinzioni tra un giudizio, che sarebbe di per sé necessario, e un altro giudizio, che mai potrebbe essereuniversalenecessario. Il fatto che non sussistano nella sfera della conoscenza giudizi che si sottraggano al carattere comune di attingere direttamente o indirettamente il loro contenuto alla sfera dell’esperienza sensibile, impone che nessun giudizio universale e necessario goda di realtà, dal momento che l’esclusione di certi giudizi dai caratteri di universalità e necessità è avvenuta in forza della nozione, che si vuole dotata di evidenza quasi assiomatica, che nulla del - 74 -conosciuto che abbia riferimento alla sfera dell’esperienza sensibile è atto a godere di tali attributi. L’indagine, quindi, sia in Platone che in Kant, riceve una direzione e una sola, identica per entrambi: la necessità di trattare il giudizio universale e necessario come un possibile  trae seco o che tale possibile venga assunto come un eternamente possibile – di esso nella sfera della conoscenza mai si potrà dare realtà giacché per la sua formulazione si sarà sempre costretti ad attingere alla sfera dell’esperienza sensibile, con la conseguenza che dalla particolarità e relatività di questa mai deriveranno al giudizio l’universalità e necessità che in atto non presenta -, oppure che su tale possibile si compiano le operazioni logiche che su qualunque possibile è lecito compiere per trasformarlo da un semplice apolide della logica, pensato perché un qualunque ente può essere pensato, in un cittadino della sfera logica. Le esigenze, che urgono nel sentimento di Platone e di Kant di non poter lasciare il giudizio in una situazione di eterna possibilità, in quanto nessuna decisione potrebbe più prendersi nei confronti dell’oggetto la cui conoscenza tanto stava loro a cuore, rispettivamente la struttura etico-sociale-politica e la natura nei suoi aspetti fisico e metafisico, non lasciano altra via all’infuori della seconda. E allora non resta che applicare al giudizio universale e necessario, di cui si è predicata la possibilità, quel procedimento problematico  che consente di inquadrare un possibile in una argomentazione logica e, quindi, di situarlo nella sfera della logica. La ricerca della ragione che farà del possibile extralogico un pensato logico dev’essere in entrambi indirizzato lungo una stessa rotabile: non ci si potrà cioè rifare a quel fattore oggettivo di conoscenza che è l’esperienza sensibile perché è appunto da tale impossibilità che è sgorgata la predicazione della possibilità, ci si dovrà rifare al soggetto pensante: unicamente la struttura gnoseologica del soggetto conoscente sarà atta a far da ragione di un giudizio universale e necessario. D’altra parte, una struttura gnoseologica della coscienza non sarà sufficiente a garantirci l’universalità e necessità del giudizio sia perché, anche ammessa la generalità o universalità di tale struttura, essa non è in grado di porsi come sorgente di oggettività, riuscendo solo a garantirci una universalità e necessità del giudizio relative alla coscienza e non valide per quella sfera dell’esperienza che, almeno nei suoi fattori costitutivi, si dimostra sottratta all’azione delle facoltà gnoseologiche e pragmatiche del pensante, sia perché la ragione del giudizio universale e necessario nell’atto stesso in cui spoglia il giudizio della predicazione della possibilità assume per sé tale predicazionexv. Dalla struttura gnoseologica della coscienza, che è la ragione immediata della logicità del giudizio universale e necessario, si deve risalire a un’ulteriore ragione, che assicuri logicità alla stessa struttura gnoseologica: tale ragione, ponendosi come principio del pensante, non potrà che essere concepita come trascendente il pensante stesso: la natura della ragione della ragione non potrà che essere un giudizio di natura metafisica che si pone per sua essenza al di fuori del pensante, sia nel caso che si identifichi con una realtà oggettiva sia nel - 75 -caso che si identifichi col pensante stesso. Anche in quest’ultimo caso, infatti, che è quello di Kant, la ragione della ragione è un giudizio che investe la natura profonda, essenziale e non fenomenica della coscienza, perché, dicendo che questa è unità, si afferma insieme che essa è ciò la cui attività riconduce il molteplice ad unità e la si definisce come attività. Anche per la ragione della ragione vale, s’intende, la legge implicita nel procedimento problematico, vale a dire che essa per porsi tale deve caricarsi del predicato di possibile, già riferito a quella ragione di cui essa, ponendosi come sua ragione, ha fatto un reale nella sfera logica.

Allora, le condizioni identiche, e della funzione logica e del fatto contingente che ha determinato l’atto della funzione, hanno provocato un passaggio da condizionato a condizionante identico nella sua formazione generica. Ma le determinazioni particolari delle forme che ciascuna ragione, entro la forma generale, riceve, non possono essere equivalenti per via di quel fattore di differenza che il fatto contingente presenta. In uno dei suoi due atteggiamenti, quello che lo porta al problema, Kant è interessato alla fisica e alla metafisica; la sua attenzione è rivolta come al primo piano di quella natura cui in virtù della bipartizione operata da Hume son spettati i predicati di inconoscibilità e di impossibilità a trovar riscontro in una conoscenza che sia universale e necessaria: la ragione per cui dalla predicazione di inconoscibilità è stata esentata la classe delle conoscenze matematiche, cioè la deducibilità da nozioni che nulla hanno che fare con il dato sensibile, si offre come l’unico mezzo che la logica possieda per dar luogo alla ragione problematica della realtà logica del giudizio universale e necessario in genere, e quindi, del giudizio universale e necessario fisico e metafisico in particolare. Ma due dati di fatto, che la sfera della conoscenza offre come irrefutabili, comportano l’impossibilità di quella ragione e di conseguenza la sua insussistenza logica sia pure sotto l’aspetto della problematicità: in primo luogo una nozione che nulla ha a che fare con il dato sensibile è una nozione a priori, è una nozione innata; se si vuole che Hume dichiari che la matematica procede deduttivamente e si erige a scienza mediante il trasferimento dell’universale e necessario dalla nozione direttamente intuita dalla mente alle nozioni che di questa costituiscono inferenze particolari, si deve pure ammettere che Hume ha con un errore logico firmato il passaporto di ingresso nel reale e nel logico a un ente la cui esistenza e logicità egli stesso aveva negato quando aveva legato i valori gnoseologici di qualunque pensato alla genesi sensibile; se nessuna nozione può dichiararsi presente nella logica e nell’immaginazione senza che non possa non ricondursi a un dato dell’esperienza, e se questa condizione è valida soprattutto per la fisica le cui nozioni riguardanti l’oggetto natura si rivelano necessariamente connesse con il dato  dell’esperienza, non solo non sarà lecito appellarsi alla ragione dell’universalità e necessità del giudizio matematico, vale a dire alla sua inferenza per deduzione, per farne il principio universale - 76 -di un qualsivoglia giudizio universale e necessario, giudizi fisici e metafisici compresi, ma il pensiero dovrà giudicare impossibile ed irreale l’inferenza per deduzione e in sé e in quanto ragione dell’universalità e necessità dello stesso giudizio matematico; in secondo luogo, quell’intuizione che Hume vuole disgiunta e indipendente dall’esperienza sensibile in quanto vi ritrova quelle note di perfezione che la realtà sensoriale mai non offre, è un’intuizione sensibile al pari delle altre; il dichiararla di origine non sensibile in nome di quella perfezione che il sensibile mai riscontra, finisce per avere lo stesso valore di un’affermazione che voglia dichiarare di origine non sensibile qualunque idea di perfezione che noi ci formiamo intorno a un qualsiasi oggetto sensibile per un qualsiasi motivo, perché ne siamo innamorati ad esempio; il fatto che il triangolo equilatero sia veramente pensato da noi con quell’uguaglianza perfetta dei tre lati che nessuna sensazione mai ci offre, non comporta affatto che il triangolo equilatero non abbia un’origine sensoriale al pari di qualunque altra «idea»; tutt’al più comporterebbe il problema del perché la nostra mente abbia la capacità di arricchire certi dati sensibili di certi caratteri che essi non presentano nell’atto in cui sono accolti a far parte del nostro mondo interiore; e inoltre si deve concedere che la perfezione con cui viene pensata un’immagine geometrica, ad esempio, sia il segno della portata universale e necessaria della nozione dell’immagine e delle nozioni che se ne deducono, solo alla condizione che si dimostri che perfezione da un lato ed universalità e necessità dall’altro sono enti reciproci, il che non pare dimostrabile se non per gli intelligibili una volta che se ne ammetta la realtà, in quanto la perfezione di un’immagine intuita, e quindi preda della stessa particolarità di tutti i dati sensoriali, è il segno dell’irripetibilità di un individuale, e l’individuale irripetibile è l’uno escludente i molti e, con ciò, l’universalità e necessità dell’uno attraverso i molti. D’altra parte, neppure il fattore perfezione può essere garanzia dell’indipendenza di un ente mentale dal corrispondente oggetto della sfera dell’esperienza, perché, nel caso appunto degli enti geometrici, i cristalli offrono dati geometrici ricchi della stessa perfezione degli enti mentali corrispondenti, e quell’innalzare al limite della perfezione gli attributi «buoni» di un ente sensoriale qualsiasi, per qualsiasi motivo o impulso avvenga, è lecito giudicarlo funzione apriori, come infatti finisce per fare Kant, solo alla condizione  che si dimostri  che ogni perfezione in genere è un ideale in genere e che questo ideale superlativo o di massimo insorgere nella coscienza indipendentemente dal darsi di una gerarchia di quantità entro il dato sensoriale pensato al superlativo, in altre parole alla condizione che sia dato dimostrare quel che è indimostrabile, che la nozione di insuperabile dal punto di vista quantitativo e qualitativo non è la prosecuzione al limite di attuali comparazioni e superamenti reciproci che si danno entro le quantità e qualità di un ente sensoriale o di più enti sensoriali della stessa classe, prosecuzione al limite che trova un arresto in forza dell’intolleranza del processo all’infinito. Di conseguenza, la matematica - 77 -non offre affatto motivi perché si possano dichiarare i suoi giudizi privilegiati rispetto ai giudizi della fisica e della metafisica. Quindi, il procedimento per problematicità deve escludere come ragione, a sua volta problematica, delle problematiche universalità e necessità di un possibile giudizio universale e necessario l’inferenza mediata o immediata da una nozione universale e necessaria che la mente possieda indipendentemente dall’esperienza.

La ragione allora per la quale un giudizio gode di universalità e necessità, non può essere altro che la peculiare attività con cui il soggetto interviene tra due concetti particolari per vincolarli in quel rapporto universale e necessario che è la predicazione propria di un certo giudizio universale e necessario: infatti, un giudizio universale e necessario, assunto come un possibile della cui realtà logica si debba cercare la ragione, è l’unità di distinti particolari: ciò che di particolare e relativo è presente nel giudizio è costituito dai particolari distinti; ciò che di universale e necessario si nel giudizio è costituito dalla predicazione che è il vincolo che, concatenando i concetti relativi ai due particolari distinti, li pone nella situazione di dover sempre essere pensati insieme da una qualsiasi mente. Mentre i particolari distinti provengono dalla esperienza, il vincolo della predicazione non proviene dall’esperienza né come particolare né come universale, né come relativo né come  necessario; se, allora, la possibilità del giudizio universale e necessario riguarda non già i distinti ma la loro predicazione, se il procedimento problematico comporta che si trovi una ragione  per la predicazione, che è appunto ciò che di puramente possibile si nel giudizio universale e necessario, se la situazione contingente in cui il procedimento problematico si è imposto ha lasciato l’unico sbocco di ricercare nel soggetto conoscente la ragione della possibilità del giudizio universale e necessario, non si potrà non argomentare che la predicazione è un rapporto, che qualunque rapporto è sempre un collegamento tra due enti, che qualunque collegamento  o è un dato ricevuto – il che nella fattispecie è da escludersi – o è l’effetto di una attività che è intervenuto dall’esterno e ha agito sui due distinti, con la conseguenza che la predicazione è frutto di una attività particolare del pensante. La ragione quindi del giudizio universale e necessario è che il pensante è atto a vincolare secondo predicazioni varie i distinti che, mediatamente o immediatamente, entrano in connessione gnoseologica con la sfera dell’esperienza.

A questo punto è lecito considerare gli effetti più evidenti dell’applicazione del procedimento problematico: la trasformazione del giudizio universale e necessario da possibile a reale logico, avvenuta grazie all’intervento dell’attività della coscienza conoscente come principio della sua universalità e necessità, manifesta alcune sue conseguenze inevitabiliassunzione del principio di identità a supremo regolatore della vita logica del pensiero; giurisdizione del principio di contraddizione limitata agli enti mentali che non patiscano elaborazione da parte del soggetto gnoseologico; riduzione di tutta la scienza al giudizio universale e necessario; - 78 -autosufficienza del giudizio universale e necessario; concordanza di natura fra giudizio universale e necessariosillogismo -; di qui sorgono quasi corollari alcune aporie insuperabiliingiustificabilità di un giudizio empirico non universale e necessario; ingiustificabilità del sillogismo che non solo si pone come un doppione inutile del giudizio universale e necessario, ma luogo anche a una sistemazione reciproca di concetti della cui presenza non si sa che uso farexvi.

Ma più difficile da cogliere, perché più profondo, è il carattere logico che determina l’attività del soggetto gnoseologico assunta a ragione sufficiente del giudizio universale e necessario: quest’attività ha accolto in sé la problematicità che caratterizzava il suo condizionato; è riuscita sì a fare di questo un reale logico, un pensabile, come quello della cui natura una ragione che lo fa essere quello che è e che impone che non possa essere altro che quello che è; è riuscita cioè a farlo rientrare sotto la giurisdizione del principio di contraddizione; ma essa stessa ne è rimasta esclusa, come attività che si determina in questo o in quel modo di intervento; le intuizioni a priori e le categorie sono dei possibili, sono degli enti di cui si può dire che sono e non sono senza tema di incorrere nelle sanzioni del principio di contraddizione; sono degli enti extralogici, si impone quindi anche per essi lo stesso procedimento adottato nei riguardi del giudizio universale e necessario, e con tanto maggior forza si impone quanto maggiore è l’interesse che essi suscitano, come quelli che sono la ragione sufficiente del giudizio universale e necessario.

Il nuovo problema che si presenta a Kant consiste, dunque, nel ritrovare la ragione sufficiente della molteplicità determinata di interventi che la coscienza conoscente compie sugli infiniti soggetti logici che si danno come enti gnoseologici; la presenza di una ragione sufficiente esenterà i molteplici interventi particolari dalla nota della possibilità e ne farà dei reali logici. In apparenza, il problema in Kant non si è mai dato e quindi, sempre in apparenza, non solo il problema non è mai esistito, ma non è neppure esistita la situazione che l’ha posto, vale a dire il procedimento problematico applicato al giudizio universale e necessario. Poiché le prove non solo dell’esistenza di un tale procedimento, ma anche che l’intera costruzione kantiana non può aver assunto il giudizio universale e necessario se non con il predicato di possibile e non può aver proceduto alla sua indagine se non con l’unico procedimento che la logica consente verso i possibili, cioè con il procedimento problematico, sono state date, non resta che dimostrare che anche il problema della ragione delle ragioni del giudizio universale e necessario, come possibile, si è posto e ha trovato una sua soluzione. Se di esso e della sua soluzione non si ha chiara e distinta enunciazione, ciò si deve al fatto che esso è sembrato far tutt’uno con il problema della validità  gnoseologica del giudizio universale e necessario, vale a dire dell’oggettiva corrispondenza tra la relazione di predicazione tra due concetti nel giudizio universale e necessario e la relazione tra gli enti fenomenici sussumibili sotto i - 79 -concetti: da tale convinzione è nata la congiunzione dei due problemi in un’unica indagine comportante un’unica soluzione; ma tutta l’indagine, se seguita passo passo, manifesta interiormente il duplice corso dei concetti, la duplice ricerca e quindi la duplice soluzione. Mi pare che, analizzando l’indagine sul valore gnoseologico dei giudizi universali e necessari, indagine che in Kant passa sotto il nome di deduzione trascendentale, la presenza in essa di due problemi e di due soluzioni appaia evidentexvii

Il lungo e tutt’altro che chiaro discorso che Kant ha dedicato alla dimostrazione della validità gnoseologica dei concetti puri è in apparenza rivolto a risolvere una questione di diritto riguardo all’uso dei concetti puri. Questo diritto deve essere dedotto o inferito da una condizione che sia necessaria alla conoscenza e che sia tale che, una volta posta, ne vengano come necessarie conseguenze i concetti puri: il fatto che si assume a condizione coincide con l’attività della coscienza in quanto investe il molteplice sensoriale e vi immette dei rapporti generici, la cui determinazione non può essere che quella corrispondente ai tipi di predicazione universale e necessaria, resi logicamente reali dai concetti puri. Il problema che ha trovato la sua soluzione, è quello di una totale equivalenza tra il giudizio universale e necessario e il rapporto che gli deve corrispondere nell’esperienza: la realtà, oggetto della conoscenza, deve avere una struttura parallela e simmetrica alla struttura universale e necessaria dei concetti che ad essa corrispondono. Si direbbe quindi che l’argomentazione sia limitata semplicemente a provare la validità gnoseologica del giudizio universale e necessario, limitatamente alla riproduzione nel suo rapporto di predicazione della relazione intercorrente fra gli oggetti. In verità però, se il discorso kantiano si rivela esplicitamente diretto a provare che il mondo naturale dell’esperienza è ordinato in modo che i giudizi universali o necessari hanno tutti il diritto di proclamarsi formule o regole valide per gli oggetti dell’esperienza, il processo del discorso è tale che, più che dare una soluzione convincente e completa di quell’aspetto del problema del giudizio universale e necessario che è la sua validità di ente conosciuto, tende a dare compiutezza all’applicazione del procedimento problematico al giudizio universale e necessario assunto come possibile, e a completarla in quei momenti che ancora rimanevano irresoluti. Il giudizio universale e necessario è stato assunto dal pensiero logico come un possibile; dalla sua situazione di estraneità al principio di contraddizione è stato tolto col ritrovare una sua ragione sufficiente nell’intervento della coscienza conoscente, intervento articolato in tanti modi determinati quanti sono i tipi di predicazione che si danno in un giudizio universale e necessario. Ma la problematicità da cui è stato liberato il giudizio si è trasferita nella sua ragione, la quale si è posta come un possibile. La problematicità di questa ragione può essere annullata in due  modi, o mediante il riscontro di una sua esistenza nella realtà, e quindi di una sua naturale logicità per ottemperanza al principio di contraddizione, o mediante il ricorso - 80 -a una sua ragione sufficiente che, pur facendo propria la problematicità della ragione da essa condizionata, la sottopone al principio di contraddizione e con ciò la rende logica. Ora, Kant ha in realtà tentato la prima dimostrazione, quella di un riscontro, ma nel far questo ha nello stesso tempo fatto ricorso alla seconda. L’unica realtà, che di per sé si pone sotto il principio di contraddizione, è l’esperienza: gli oggetti che la costituiscono sono o sensazioni o rapporti tra sensazioni; nulla ci attesta dell’universalità e necessità né delle sensazioni né dei rapporti; se già da tempo il giudizio scientifico ha abbandonato la pretesa di ritrovare una universalità e necessità di alcune se non di tutte le sensazioni, ha conservato però la pretesa di riprodurre l’universalità e la necessità di certi rapporti; la dimostrazione che si ha conoscenza solo a condizione che il molteplice venga intuito da un’unità che permane, al di e nonostante il vario molteplice susseguirsi inesausto dei dati sensoriali, e che conosce tali dati, sottoponendoli alle condizioni della propria essenza unitaria, vale a dire donando ad essi l’unificazione, e insieme a se stessa, in quanto ragione ragionante, l’argomento che tale unificazione non è generica – infatti, il rapporto, oggetto che suscita una unità attraverso una unificazione, non è costantemente identico ma si determina in un certo numero di tipi  che si riproducono sempre uguali e che quindi sono classificabili -, pone come proprio corollario che l’unità che immutata riconduce a sé e fa sue le sensazioni molteplici, esplichi una attività su di esse, attività che lasciando invariata la loro essenza, si limita a farne quel complesso ordinato di strutture relazionali che chiamiamo mondo. Ora, l’unità per esplicare l’attività ordinatrice ed unificatrice si vale di quei meccanismi già montati che sono i concetti puri o rappresentazioni sintetiche funzionali; dunque l’attività dell’uno conoscitore si esplica attraverso le funzioni sintetiche le quali danno luogo nel reale dell’esperienza a quegli oggetti che sono i rapporti. Il riscontro è confermato. Ma quell’unità attiva che ha ordinato in un insieme di relazioni determinate le sensazioni, è riuscita a far ciò solo in virtù del possesso di un insieme di funzioni relazionali che sono intervenute nel caos sempre insorgente delle sensazioni; in altre parole, ha fatto di sé un’attività unificatrice in atto in forza di un complesso di meccanismi promanati dalla sua stessa essenza, ai quali è attribuita la funzione di unificare, ciascuno secondo un suo modo, il molteplice e con ciò di circoscriverlo in quell’unità che è la condizione per cui l’unità conoscente li conosce, facendoli entrare in sé come degli omogenei in un omogeneo; non ci si deve rappresentare il rapporto tra l’unità in sé e le unità funzionali sintetiche secondo lo schema della relazione di successione cronologica che si ha in una fattura o in una generazione, ma secondo lo schema della connessione che lega un indeterminato alle determinazioni che l’indeterminato stesso trae da sé, e che si ritrova nel passaggio dal genere alla specie, dal principio essenziale alla conseguenza particolare, dalla funzione biologica all’organo; l’unità prima si pone quindi a principio dei rapporti sintetici funzionali come quella che, essendo la ragione in generale - 81 -dell’ordine fenomenico, è insieme il principio o ragione prima delle singole funzioni relazionali. Per aversi una funzione relazionale è necessario che sussista in generale un’attività che abbia tutte le caratteristiche della relazione funzionale, ad eccezione di una, la determinazione della funzione relazionale stessa: infatti si ha funzione relazionale quando si ha una facoltà particolare capace di agire su di un complesso di distinti e diversi, privi di qualunque relazione, e capace di connotare ogni diverso e distinto del complesso in modo che tutti i distinti acquistino una certa nota non già in sé ma nei loro rapporti reciproci e diversi, essendo la nota tale da rimanere immutata o da venir meno o da subire alterazioni quantitative secondo che contemporaneamente la nota o le note corrispondenti dell’altro o degli altri diversi e distinti del complesso, divenuto sintetico, si conservino immutate o vengano meno o subiscano alterazioni quantitative; si dirà, allora, che le note di una funzione relazionale sono l’unità, l’attività, l’unificazione o rapportazione sintetica e la modalità dell’unificazione, ossia il tipo di note in rapporto funzionale che vengono inserite nei distinti e diversi di un complesso; il numero dei tipi di note in rapporto funzionale stabilirà il numero delle funzioni relazionali particolari. La nozione di una unità che sia attività tesa a unificare secondo un rapporto funzionale, sarà la condizione per poter concepire e possedere nozione di quel modo particolare e determinato di azione unificatrice che è la relazione funzionale. Ma una siffatta nozione costituisce appunto la ragione sufficiente per quell’intervento entro la comprensione del soggetto del giudizio universale e necessario, che la coscienza conoscente opera al fine di renderla ottemperante al principio di contraddizione, sotto il punto di vista del rapporto secondo il quale nel giudizio il soggetto vincola a sé il predicato. Kant quindi dimostrando la necessità di un soggetto gnoseologico uno, attivo, unificatore in generale, ritrova al tempo stesso la ragion d’essere degli interventi particolari della coscienza conoscente e apporta l’ulteriore completamento al suo procedimento per possibilità: il giudizio universale e necessario, assunto come un possibile extralogico, riceve realtà logica dalla ragione sufficiente di un intervento del pensante in quanto atto ad elaborare in modo particolare il soggetto logico di un giudizio; questa ragion sufficiente, capace di situare nella realtà logica il giudizio universale e necessario, è essa stessa un possibile, un extralogico, che rientra però nel dominio della logica non appena interviene a porla in ottemperanza con il principio di contraddizione la sua stessa ragione, che è l’esistenza di un pensiero uno attivo unificatore. L’unità e attività di questo garantiscono la realtà logica dell’intervento particolare determinato della coscienza pensante, ma divengono nello stesso istante soggetti di una predicazione di possibilità e  quindi affette da problematicità. Nessuna nuova ragione può essere ritrovata per il termine ultimo, cui il procedimento di possibilità ha posto capo. Infatti, fra tutti i concetti che il pensiero possiede, ricavati dal campo della conoscenza, com’è stato indagato e analizzato da Kant, non - 82 -ce n’è nessuno che possa porsi come ragione sufficiente dell’unità e attività del pensante in generale: non le intuizioni sensoriali le quali non sono che determinazioni di una passività e che quindi, come passivi determinati, non possono condizionare un attivo, e insieme, come determinazioni mediate dell’unità del pensante, sono solo conseguenza e non ragione di esso; non le singole relazioni funzionali che sistemano le intuizioni sensoriali nell’unità di un’esperienza determinata, in quanto, a parte il fatto che la loro universalità e necessità è tutt’altro che argomentata, non sono se non effetti particolari di questo o quell’intervento della coscienza conoscente e, con ciò, come condizionati di un condizionato non possono erigersi a condizione della condizione; non l’intervento attivo in genere del conoscente, che ritrovando la propria ragione nell’attività dell’uno originario non potrà mai costituirne il principio. Nel mondo gnoseologico kantiano al di del soggetto conoscente non può darsi condizione più estesa e più generale: la ragione dell’attività gnoseologica unificatrice in genere è destinata a costituirsi come suprema ragione del giudizio universale e necessario e a rimanere nella sua costante problematicità logica, almeno per ciò che riguarda la sua funzione di strumento di realizzazione logica di possibili ossia il suo grado logico di ragione sufficiente suprema.

È da dirsi, intanto, che questo soggetto dev’essere qualcosa di più che una semplice funzione trascendentale. Tutto ciò che si di reale o di sottoponibile al principio di contraddizione può essere ripartito nei due grandi generi dell’empirico e del trascendentale; empirico è tutto ciò che è fornito  dai sensi; di esso abbiamo il diritto di dire che è intuito, che è frutto di una reazione, che è reale o soggetto al principio di contraddizione non già perché sia universale e necessario, ma perché, nell’atto del conoscere, quel particolare contingente che è una sensazione si come identico a se stesso e non può essere, in quanto sensazione, predicabile se non di se stesso; trascendentale è tutto ciò che non ha rapporto con la recettività; il trascendentale è quindi puro in quanto non sussumibile sotto nessun concetto che sia inferito da sensazioni o che abbia attinenza in qualsiasi modo con sensazioni; è a priori, in quanto deve porsi come logicamente anteriore ad ogni possibile conoscenza; è intellettivo in quanto è dato possederne nozione solo nella forma di un concetto, non dandosi intuizione di esso neppure quand’esso entra in rapporto diretto con le intuizioni; è relazionale in quanto esso è predicabile esclusivamente dei modi universali e necessari del conoscere, che sono esclusivamente dei rapporti; è causativo in quanto ha il diritto di assumere la funzione di predicato non già in generale di qualsiasi conoscenza universale e necessaria, ma soltanto di quelle tra le conoscenze universali e necessarie che si pongono come ragioni sufficienti di altre conoscenze universali e necessarie. Il pensante, definito come l’unità dell’autocoscienza, non ha quindi nulla che fare con il senso di identità e di immutabilità soggettiva che ciascuno di noi possiede di se stesso; non è l’io con tutti i suoi stati, l’io che di tutti i suoi stati - 83 -può dire miei in quanto ciascuno è connotato da quel senso di riferimento a un centro che permane identico a sé ed immutabile, e quindi trasferisce l’identità e l’immutabilità al punto di riferimento e al centro, facendo di quest’ultimo un reale. Il pensante definito come l’unità dell’autocoscienza è il concetto di una relazionalità pura e a priori che è il supremo causativo o la suprema ragione di tutte le conoscenze universali e necessarie. Ora, una ragione può essere o logica, nel senso che costituisce quel fattore intelligibile che immane in un ente, ne fa un intelligibile e lo rende necessario nella sua esistenza e nel modo in cui tale esistenza dev’essere pensata – ad esempio, un genere è sempre la ragione logica di una specie, in quanto la funzione di genere che un concetto opera rispetto ad un altro rende questo e la sua struttura dei logicamente necessari -, o ontologica, nel senso che costituisce quel fattore di cui, una volta appresa la realtà e le sue connessioni con un altro reale, questo acquista, oltre alla realtà, la necessità sia rispetto alla sua realtà sia rispetto alle determinazioni della sua realtà  - una causa, ad esempio, costituisce la ragione ontologica del suo effetto, in quanto ne rende necessarie la realtà e le determinazioni della realtà. La ragione logica non  necessariamente è concepita come un pensabile necessariamente - 84 -distinto dal suo condizionato – ad esempio, si pensa un negro come un uomo e come un uomo la cui pelle è nera: questo concetto, rispetto all’umanità, assume necessità dalla ragione logica di certe note che lo connotano e che pertanto fanno tutt’ uno con esso, le quali sono pensabili o in sé, ma solo in quanto ragioni, o nel connotato in quanto necessariamente non distinte da esso; lo stesso concetto, rispetto alla pelle nera, assume necessità dalla ragione logica di certe note che risultano connotanti sia il concetto che un concetto diverso e che quindi almeno in parte debbono essere pensate distintamente dal loro connotato. La ragione ontologica non può essere concepita che come distinta e separata nella sua realtà dalla realtà del condizionato, perché, se fosse pensata o come identificantesi o come immanente nel condizionato, dovremmo dichiarare un reale causa sui, il che mai finora abbiamo potuto fare se non nei confronti di una sola ragione ontologica: per tutte le altre ragioni ontologiche, siano esse state concepite come cause efficienti o come semplici antecedenti necessari o come le condizioni consenzienti l’atto delle funzioni in un rapporto di identità funzionale, si deve affermare necessaria la discrezione dal suo condizionato. La ragione ontologica quindi corrisponde sempre a una ragione logica concepita come un pensabile necessariamente distinto. Deriva di qui che tutte le ragioni è consentito porle nell’unica classe delle ragioni logiche, purché si distinguano in essa le ragioni logiche, non necessariamente concepite come pensabili necessariamente distinti, dalle ragioni logiche necessariamente concepite come pensabili necessariamente distinti. Le due classi di ragioni logiche si distinguono non soltanto sotto il loro punto di vista funzionale, ma anche sotto il punto di vista della loro natura di concetti: mentre la ragione logica, non costituita da un pensabile necessariamente distinto, appartiene allo stesso ordine o sistema di concetti al quale appartiene il concetto di cui essa si pone come ragione, la ragione logica coincidente con un pensabile necessariamente distinto, e assumente in sé almeno in parte la ragione ontologica, non appartiene allo stesso ordine o sistema di concetti di cui è membro il concetto condizionato. Con Aristotele, le due ragioni logiche avevano ricevuto una distinzione di grado, non di natura, nel senso che la ragione logica concepita come un pensabile non necessariamente distinto corrispondeva a una ragione logica immanente nel concetto condizionato, la quale non avesse ancora esplicato completamente la sua funzione determinatrice oppure avesse già ricevuto la sua completa determinazione: la ragione logica, invece, concepita come un reale necessariamente distinto e rappresentante almeno in parte una ragione ontologica si poneva come equivalente alla ragione logica immanente nel concetto condizionato, la quale o avesse attuato completamente la funzione determinatrice oppure non avesse ancora ricevuto completamente la propria determinazione; con la ripulsa dell’aristotelismo la distinzione tra le due ragioni logiche e quindi tra ragione logica e ragione ontologica è divenuta assoluta, e si è posta come differenza di natura, non di grado.

Dunque, si deve osservare anche la differenza di natura che passa tra le due: una ragione logica concepita come un non necessariamente distinto dal condizionato non fa altro che rendere necessario il reale ma solo sul piano logico, nel senso che il ritrovamento delle ragioni logiche del primo tipo di un qualunque reale, coincide con l’introduzione di questo in una delle tante strutture gerarchiche di concetti in cui il campo logico si distingue e con l’acquisto da parte sua di una necessità che gli fornisce l’immanenza degli intelligibili sue ragioni; ma una ragione logica, concepita come un non necessariamente distinto dal condizionato, non dona nessuna realtà al reale in un altro campo che non sia il logico, in quanto la distinzione di tali ragioni dal condizionato ha valore sul piano logico, ma non sul piano gnoseologico o sul piano ontologico; conoscendo tutte le ragioni logiche non necessariamente distinte si conosce in definitiva la struttura essenziale di un pensato, ma non si conoscono né la sua realtà gnoseologica né la sua realtà ontologica. Non si fa quindi altro che obbedire al principio di contraddizione che esige che di un pensato logico si diano le ragioni, onde sia nota l’esatta sua predicazione e si possa rifiutare come falsa la predicazione contraddittoria. Qualunque concetto può entrare in tal modo nel campo della logica e assumervi la tinta della realtà logica, senza per questo che la nostra mente debba concepirlo come un reale in sé e per sé: in fondo, adducendo le ragioni logiche non necessariamente distinte, non si fa altro che  costruire una zona di pensiero obbediente alle leggi logiche, senza peraltro avere né la volontà né la facoltà di controllare la realtà ontologica del condizionato – tutti i miti, le favole, le teorie scientifiche, le teorie religiose sono complessi ordinati di ragioni logiche non necessariamente  distinte, e si reggono sul piano logico, approfondendo sempre più il pensato da cui - 85 -muovono e ricercandone le ragioni logiche non necessariamente distinte che suffraghino sempre più la non contraddittorietà del pensato-. Ma la ragione logica necessariamente distinta ha tutt’altri effetti: la sua concezione comporta non solo la necessità logica del consecutivo-condizionato, ma anche le sue necessità ontologica e gnoseologica; infatti, le ragioni non necessariamente distinte nascono tutte da un processo analitico che distingue in un pensato il necessario dal non necessario e finiscono quindi per costituire una piramide che si regge su una punta che gode di realtà logica, ma deve chiedere a prestito ad altro le sue realtà gnoseologica e ontologica; le ragioni necessariamente distinte invece appartengono a tutt’altro ordine di concetti: le relazioni che il pensiero ha stabilito tra le due nozioni della ragione e del consecutivo-condizionato non derivano dalla semplice analisi del pensato di cui è stata trovata la ragione, ma solo dall’esperienza; non si tratta qui di vedere se l’adduzione delle ragioni necessariamente distinte e il loro riferimento a un pensato dipende o da una ragione universale e necessaria o da un’abitudine o da checchessia; non si tratta qui di dimostrare il valore del fatto, si tratta solo di descrivere un comportamento logico del pensiero; anche in un sistema deduttivo del tipo platonico o aristotelico non c’è analisi di un pensato che ci faccia ritrovare le ragioni logiche necessariamente distinte – il pensamento di questo uomo non ci fornirà mai il pensamento delle determinazioni dei suoi genitori, né il pensamento del rapporto di identità che passa tra la diagonale di un quadrato e il lato del quadrato doppio, per quanto analizzato, ci avrebbe  mai fatto conoscere l’essenza del quadrato che ne è la ragione logica necessariamente distinta, se non avessimo intuito nel mondo delle idee il quadrato nella sua essenza; né il pensamento del moto circolare dei corpi celesti ci avrebbe mai fatto conoscere la quinta essenza, se non fosse stato concepito come una manifestazione dell’etere, e quindi non come un analizzabile, ma come un sintetizzabile -; e ciò a maggior ragione nel pensiero postaristotelico nel quale la ragione ontologica e, quindi, la ragione logica necessariamente distinta si differenziano, per natura e non per grado, dal concetto consecutivo-condizionato; dunque se per conoscere la ragione logica necessariamente distinta ci si deve appellare a un’esistenza che è giudicata, a torto o a ragione, indipendente dal pensiero e che insieme è data in atto, ossia all’esperienza, il pensamento della ragione, in quanto ragione logica, trae il proprio diritto ad essere quel che è, ossia la realtà logica di sé come pensato, dalla realtà logica ontologica e gnoseologica del consecutivo-condizionato, ma la connotazione sua di concetto pensato in sé la trae dalla realtà ontologica di ciò di cui essa è rappresentazione. In conclusione, una ragione logica non necessariamente distinta non dona alcuna realtà, tranne quella logica, al consecutivo-condizionato; la ragione logica necessariamente distinta dona necessità logica al consecutivo-condizionato ma trae la propria realtà ontologica e la propria validità gnoseologica da qualcosa che è altro dal suo consecutivo-condizionato, e questo perché i rapporti logicignoseologici che legano la ragione al suo - 86 -consecutivo sono in atto connessioni tra concetti eterogenei, almeno sotto alcuni punti di vista.

Ora, il soggetto trascendentale kantiano si è stabilito essere una ragione logica, nel senso che è la nozione di un principio universale e necessario da cui colano principi universali e necessari intermedi che danno luogo infine ad entità particolari o logiche o immanenti nel fenomenico che sono universali e necessarie: si tratta ora di stabilire se quel soggetto trascendentale appartenga al tipo delle ragioni logiche concepite come dei pensabili necessariamente distinti o all’altro tipo di ragioni, quelle concepite come pensabili non necessariamente distinti. Stando alla definizione che Kant ha dato del trascendentale, la funzione del concetto di soggetto trascendentale dovrebbe essere quella di una ragione logica non necessariamente distinta dal suo consecutivocondizionato, quasi un semplice principio che ontologicamente e gnoseologicamente non si distingue dalla sua conseguenza e che solo sul piano logico, per le esigenze analitiche del discorso, può venirne distinto. Ma vediamo le conseguenze di questo: sia il supremo che i secondi di tutti i trascendentali  si riducono sul piano del reale a note funzionali immanenti nel reale condizionato; debbono quindi entrare con esso in rapporti tali per cui gli cedono necessità trasferendo alla sua essenza l’intelligibilità che possiedono nella propria, e insieme mutuano da esso realtà ontologica e gnoseologica; ciò in virtù del carattere comune a tutte le ragioni logiche non necessariamente distinte. Che se poi il soggetto trascendentale deve identificarsi – anche contro tutte le argomentazioni e gli sforzi di Kant – con una ragione logica necessariamente distinta, anche in questo caso la situazione è tutt’altro che semplice: in quanto la nozione di soggetto trascendentale deve richiedere la propria funzione logica di ragione alla realtà ontologica, o se si vuole in termine kantiano oggettiva, e gnoseologica, o se si vuole in termine kantiano trascendentale, dell’ultimo dei suoi consecutivi-condizionati, il giudizio universale e necessario, mentre per ciò che riguarda la sua portata o validità ontologica e gnoseologica deve rivolgere appello a un ontologicamente e gnoseologicamente reale altro dal giudizio universale e necessario.

 

 

 





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Quando Kant affronta il problema della conoscenza, due sono le possibili condizioni sotto cui si il conoscere: o nel conoscere il soggetto è chiuso in se stesso e non ha bisogno di fuoruscire da se stesso in quanto trova innate e presenti in sé nozioni che, o esplicitamente o implicitamente, contengono tutto ciò che può essere conosciuto, e allora il conoscere si riduce a una analisi di un dato posseduto e noto, e ha per sua natura i caratteri dell’universalità e necessità, oppure sulla base dell’osservazione che di innato nulla nella conoscenza si perché un innato dovrebbe essere sempre conosciuto, il che l’esperienza non verifica, tutto il conoscere non può che derivare dall’esperienza. A lato delle due osservazioni  si pongono le due osservazioni particolari che possono farsi sulle due classi di scienze a cui tutte le scienze particolari si riconducono, le scienze deduttive e le scienze induttive: le scienze deduttive godono di universalità e necessità in quanto frutto di una esplicitazione di quanto era contenuto nella nozione intuitiva che si è data come prima intorno ad un qualsiasi oggetto; poiché tale oggetto per la mente è vero indipendentemente da qualsiasi esperienza, la catena delle proposizioni che si dipartono dalla nozione-principio sarà vera in sé e per sé; le scienze induttive, invece, non sembrano godere di nessuna universalità e necessità in quanto la nozione-principio da cui partono non è mai una nozione intuitiva di un oggetto bensì quella di una relazione intorno a due oggetti dati da un’esperienza, che non offre se non la particolarità e contingenza dei due enti fenomenici e rifiuta l’universalità e necessità del rapporto. Tenendo presenti sia le osservazioni generali che le osservazioni particolari, si danno due teorie generali intorno al conoscere: assunta la matematica a modello, si può estendere anche alle scienze induttive il carattere delle matematiche facendo dei giudizi induttivi delle proposizioni che sono per deduzione ricavate da nozioni elementari e prime innate che con la loro universalità e necessità garantiscono l’universalità e la necessità di tutte le altre di cui esse forniscono l’inferenza; considerato che matematica e fisica differiscono essenzialmente pel fatto che l’oggetto della prima è di natura  puramente mentale e viene posseduto dalla mente indipendentemente da ogni esperienza, mentre gli oggetti della seconda mai si danno senza i dati di un’esperienza, si stabilisce un dualismo fra le due scienze e, nell’atto in cui si assicura alla prima la necessità che le deriva dal processo deduttivo, si nega all’altra una qualunque necessità.

Le osservazioni generali, invece, che Platone trovava a sua disposizione intorno al fatto del conoscere, erano molto più semplici: da un lato si era notata l’esistenza di due modi di conoscere, l’uno particolare e relativo offrente una visione del mondo affetta da una molteplicità in cui era impossibile ritrovare una qualsiasi unità e da una mobilità in cui nulla d’identico e di statico poteva darsi, l’altro universale e necessario, la cui visione del mondo era ineluttabilmente unitaria e statica; d’altro canto, facendo perno su questi due modi di conoscere, si era sfociati in due distinte teorie intorno alla nostra conoscenza: pur lasciando sussistere la mobilità e la molteplicità del sensoriale, si era cercato di armonizzare con i dati dell’esperienza l’esigenza della ragione, o fissando con l’eraclitismo le leggi generali del divenire o riducendo con i pluralismi la mobilità e la molteplicità a una variazione indefinita dei rapporti intercorrenti fra enti immutabili ed essenzialmente unitari, o affermando col socratismo la riducibilità dei mobili e molteplici sensoriali all’unità statica degli intelligibili definitori; dichiarando l’impossibilità di ritrovare staticità unità unitarietà nell’esperienza, si era ridotta la conoscenza all’esperienza e si erano modellate le proprietà del conoscere in generale sui caratteri del sentire.



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Altrove si indagherà quale fra le connotazioni della nozione di possibile sia da ritenersi principio di cui le altre sono determinanti: qui ci limitiamo ad accettare il possibile nel significato di sottratto al principio di contraddizione, che è significato di assoluta purezza logica in quanto nella sfera della connotazione manca qualunque altra nota che sia indice di altri modi o proprietà sovraggiungentisi: per questo sarei gìà fin d’ora portato a dichiarare questa nozione principio fondamento e sorgente generica di tutte le altre. Ma, messa da parte questa questione, resta il fatto che la predicazione di possibilità connessa a un ente mentale fa di questo un pensabile, ma sotto certe condizioni, e precisamente che l’ente affermato possibile non possa entrare così connotato in nessun altro giudizio se non a patto che il nuovo giudizio non abbia alcuna validità logica o gnoseologica, nel senso che il discorso ruotante attorno alla nozione possibile pur obbedendo alle norme del raziocinio sia sterile dei frutti che i raziocini portano e che sono l’entrata nella consapevolezza di nozioni prima assenti e la validità delle nuove nozioni nei confronti dell’oggettività: qualunque deduzione dalla nozione possibile è un esercizio fine a se stesso perché la nozione non ha il diritto di erigersi a ragione di alcunché; è questo da tenersi presente come il limite al procedimento che ruota attorno alla nozione predicata possibile e che ho chiamato problematico: sia data la nozione A e sia A un possibile, in quanto si sottrae, per ciò che riguarda la sua realtà sotto i tre punti di vista ontologico gnoseologico e logico, alla giurisdizione del principio di contraddizione, dovendo l’intelletto accettare come equivalenti i due giudizi «A è» «A non è», binomio che si determina in ulteriori binomi quali «A è reale» «A non è reale», «A è una nozione» «A non è una nozione», «A è un conosciuto» «A non è un conosciuto», ecc.; il farla ragione di qualche altro ente mentale, ad esempio B, vuol dire  farla soggetto di un giudizio ipotetico del tipo «se A è, è B» con funzioni di premessa maggiore o premessa minore di un sillogismo ipotetico; ma allora delle due l’una: o A viene assunto dall’intendimento come un puro pensato indipendente da un suo valore ontologico e gnoseologico, e in questo caso l’A soggetto dell’ipotetico manca nella propria comprensione della nota della possibilità e non è più identico all’A che è soggetto del giudizio problematico «A può essere»; oppure si pretende che l’A soggetto dell’ipotetico sia lo stesso A soggetto del problematico, e allora il giudizio ipotetico  o diventa un contraddittorio «se A (che è e non è) è, è B» o diventa impossibile  a pensarsi equivalendo a «[(se A è, è B) = (se A non è, è B)]»; il giudizio ipotetico regge alla condizione che A soggetto dell’ipotetico ≠ A soggetto del problematico; poiché qualunque raziocinio che muova da una nozione per analizzarla oppure per ritrovare tra essa e un’altra rapporti di generale a determinato i quali consentano di estendere a questo quanto è stato conosciuto in quello è sempre riducibile almeno nella sua originaria operazione a un giudizio ipotetico, la nozione possibile non si pone mai a principio  di un’inferenza deduttiva. La nozione possibile sarebbe con ciò destinata a rimanere inutilizzata ai margini dell’attività razionale, se per ogni possibile non fossero date due ragioni sufficienti o due serie di ragioni sufficienti la cui indagine consente al pensiero in primo luogo di utilizzare la particolare nozione possibile ai fini di un’estensione del sapere, in secondo luogo di fornire a se stesso la consapevolezza del diritto che ha avuto di predicare la possibilità a quella particolare nozione, in terzo luogo di sottrarre la nozione possibile alla sua inerzia e di farla entrare in un ragionamento logicamente valido e legittimo: la prima o ragione o serie di ragioni riguarda la nozione in quanto predicata possibile ed è costituita dalle conoscenze che hanno imposto al pensiero di rendere equivalenti le due proposizioni contraddittorie e di pensare la nozione come al di della sfera di giurisdizione della legge di contraddizione; la sua ricerca trova a suo esempio le operazioni che hanno suscitato in Platone e in Kant il giudizio                                  «il giudizio universale e necessario è possibile» e di conseguenza il problema della conoscenza in generale; per esse rimando a quanto detto sopra. Per ciò che riguarda la seconda o ragione o serie di ragioni, si dirà subito che la riflessione su questo punto deve distinguere l’indagine sulla ragion sufficiente dall’indagine sulla serie delle ragioni sufficienti. La nozione possibile non è in fondo che una determinazione puramente logica della stessa nozione considerata in sé: è cioè una specie del genere costituito dalla nozione in sé, specie che prosegue in un certo senso la piramide concettuale cui la nozione appartiene con un’appendice destituita di validità ontologica e gnoseologica e ricca solo di valore logico – ad esempio, la possibilità del giudizio universale  e necessario si pone come la specie infima di una serie concettuale che potrebbe schierarsi così «conoscenza», serie la cui ultima nozione è una cre[a]zione dell’intendimento e conserva il suo valore  solo entro i confini dell’intendimento. Ogni nozione possibile, in quanto specie infima, potrà essere analizzata in modo da separare ciò che in essa è generico da ciò che è determinazione del generico, sicché, tolta la possibilità che è la determinante che fa di un genere una specie, resta il genere che non è se non la nozione possibile considerata in sé in quanto nozione; su di essa il pensiero sarà in grado allora di proseguire l’analisi al fine di ritrovare ciò che vi si di essenziale, o generico che è la stessa cosa; il ritrovamento dell’essenza coincide con la conoscenza della ragione della nozione possibile in quanto nozione e l’acquisto di questa conoscenza esistenza a un giudizio ipotetico il cui soggetto è la ragione-essenza, il cui predicato è la nozione spogliata della nota della possibilità e con ciò immessa di pieno diritto nella sfera dei raziocinii logicamente validi e reali: da A, connotato dalla possibilità, e da B, ritrovato come ragione di A, viene il giudizio «se B è, è A», nel quale A è spoglio di possibilità, non giace più inutilizzato ai margini delle operazioni raziocinative ed obbedisce al principio di contraddizione, acquistando così cittadinanza logica. Con la scoperta della ragione e con la formulazione del nuovo giudizio ipotetico, dinanzi all’intelletto stanno due conoscenze, il giudizio problematico e il giudizio ipotetico, evidentemente e irrefutabilmente connesse tra loro in forza della comunanza di una stessa nozione che nel problematico è assunta con una determinazione, quella della possibilità, e con le funzioni di soggetto, e nell’ipotetico è assunta spoglia di queste determinazioni, ricondotta al valore di genere e con le funzioni di predicato; poiché nonostante la differente latitudine delle connotazioni la nozione resta essenzialmente identica, l’analisi di questa nozione dalla duplice funzione rivela la ragione della duplicità e al tempo stesso le sue conseguenze; la nozione predicata possibile in forza di ragioni determinate, è in sé una specie di un certo genere, il quale da un lato si è arricchito di una o più note che l’hanno determinato e gonfiato di ulteriori conoscenze e funzioni, dall’altro si è connesso in modo inscindibile alla o alle nuove note come quello che trova in queste l’esplicazione totale della propria natura; ma allora le note sopraggiunte fanno tutt’uno  con la componente generica che determinano e quel che vale per le prime deve valere anche per il secondo, con la conseguenza che la nota della possibilità, aggiunta dall’intendimento alla specie in forza di condizioni che la denunciavano affetta necessariamente della nota di possibilità, deve estendersi a quanto di generico si in essa e quindi al suo genere che è la sua ragione – si tenga presente che questo ragionamento che in apparenza è valido solo per nozioni che soddisfino alle esigenze del principio di ragione mediante quel particolare rapporto reciproco che è il rapporto di genere a specie, si estende di fatto a qualsiasi altro rapporto che soddisfi a quanto è richiesto dal principio di ragione, in quanto anche nella connessione tra una causa naturale e il suo effetto naturale l’intelletto presuppone un vincolo di immanenza tra i due, vincolo che, ignorato di fatto e artificialmente trascurato per le condizioni del conoscere, è necessariamente pensato  dalla mente. Con ciò la nota della possibilità si trasferisce dalla nozione predicata  possibile nel primo momento dell’operazione, alla ragione-genere; di qui alcune conseguenze, che al primo giudizio problematico -«A è possibile» - se ne aggiunge un secondo - «B, ragione di A, è possibile» - il quale trova la propria ragione nel rapporto di ragione a conseguenza che lega il soggetto del secondo giudizio al soggetto del primo - «se A è possibile , B è possibile in quanto sua ragione» - e che comporta per la nuova nozione ritrovata possibile le condizioni cui tutti i possibili sono soggetti, e precisamente la sua esclusione da qualunque raziocinio deduttivo che l’assuma a principio, la sua adattabilità solo alle operazioni mentali che tendono a conoscere le sue ragioni sia in quanto nozione possibile sia in quanto ente che in sé è nozione; perciò lo specificarsi della nozione-ragione in nozione possibile toglie fondamento e validità logica al giudizio ipotetico di cui essa è soggetto e apre la strada all’intelletto sia a ricercare le ragioni  della possibilità – già possedute in fondo in quanto costituite dai raziocini in nome dei quali la possibilità si è estesa di necessità dalla nozione originaria alla nozione trovata come sua ragione -, siano [sia] a ritrovare le ragioni di essa in quanto in sé nozione: siano A  il soggetto di un giudizio problematico e B la sua ragione, a lato del giudizio originario «A può essere» e del giudizio ipotetico derivato «se B è, è A» l’intelletto elabora il nuovo giudizio problematico «B può essere», la cui esistenza annulla in quanto contraddittorio o inutile il giudizio ipotetico, e insieme impone come unico modo di utilizzare A e B la ricerca di una nozione C che sia ragione-genere di B e il cui ritrovamento da un lato consente il giudizio ipotetico «se C è, è B» e il sillogismo ipotetico «se B è, è A ; se C è, è B; se C è, è A», dall’altro pone l’intendimento nella necessità di operare per C quel che ha operato per B. Il ritrovamento della ragione immediata trascina seco la ricerca per un’altra ragione, che sarà mediata di primo grado e che imporrà la ricerca tesa a scoprire un’ulteriore ragione che sarà mediata di secondo grado, e così via. Di qui  lo schema del metodo problematico: ogni giudizio problematico pone un ipotetico che ha come predicato il soggetto del primo, il quale nell’ipotetico fuoriesce dalla problematicità e consente l’utilità e validità delle operazioni logiche che l’utilizzano, il che si in quanto la nozione che è soggetto nel problematico si spoglia della sua natura di specie per assumere quella di genere quando entra come predicato nell’ipotetico; la possibilità del soggetto del giudizio problematico, estendendosi al soggetto del giudizio ipotetico, genera un secondo giudizio problematico il quale cassa il primo giudizio ipotetico, pone un giudizio ipotetico che utilizza a predicato il genere della specie che fa da soggetto del secondo giudizio problematico, un secondo giudizio ipotetico  che utilizza a soggetto e a predicato rispettivamente il soggetto del primo e il soggetto del secondo giudizio problematico – per comodità daremo l’attributo, improprio, di problematico sia a questo giudizio ipotetico che al sillogismo ipotetico in cui esso compare come premessa maggiore – e al tempo stesso un sillogismo ipotetico mediante il quale sia il primo giudizio ipotetico che il suo predicato riacquistano validità logica; il processo continua, trasferendosi le operazioni a una terza, quarta, ecc. ragione-genere.  Delle condizioni in forza delle quali il raziocinio, che ho chiamato metodo o procedimento problematico, si arresta a un ultimo giudizio ipotetico che rimanda a un ultimo giudizio problematico che esistenza a un polisillogismo ipotetico problematico e cassa il polisillogismo ipotetico apodittico nato dal porsi  del primo giudizio problematico, oppure prosegue all’infinito in una serie ininterrotta di salti dalla problematicità all’apoditticità e dall’apoditticità alla problematicità, si parla in altre pagine, come pure in queste si parla delle condizioni in virtù delle quali è lecito fuoruscire dal procedimento problematico e dal saltare dalla problematicità all’apoditticità e viceversa, per sostare in una problematicità definitiva che annulla il sillogismo o il polisillogismo ipotetici apodittici lasciando sussistere solo un sillogismo o un polisillogismo ipotetici problematici che a nulla servono, oppure per sfociare in una situazione di impossibilità o di irrealtà che cassa sia la problematicità che l’apoditticità, oppure per conseguire una conoscenza  assertoria che impone all’intelletto la quiete nell’apoditticità.



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Ci rendiamo così conto sia del particolare significato e valore che Kant ha attribuito al principio di contraddizione sia del principio che Kant ha eretto a legge suprema della conoscenza scientifica. Se il giudizio universale e necessario cessa di essere un possibile per divenire un reale logico, se cioè si annulla l’equivalenza delle due proposizioni «il giudizio universale e necessario è» «il giudizio universale e necessario non è» perché al suo posto subentra l’unica proposizione ottemperante al principio di contraddizione «il giudizio universale e necessario è», e se la realtà logica del giudizio universale e necessario viene ricondotta come a sua ragione all’attività del pensante che vincola in un rapporto di universalità e di necessità il soggetto particolare e il predicato particolare di un giudizio determinato facendo di questo un giudizio universale e necessario, l’attività della coscienza conoscente che opera sulla predicazione e ne fa una relazione universale e necessaria, è sottoposta a due condizioni: anzitutto non può essere generica e indeterminata, ma deve determinarsi in tanti modi particolari quanti sono i modi generali della predicazione; in secondo luogo, non può limitare il suo intervento a un semplice collegamento di due distinti, perché se la sua efficacia si riducesse esclusivamente a dare universalità e necessità alla predicazione, il giudizio universale e necessario ottempererebbe al principio di contraddizione non per virtù intrinseca, ma per l’intervento arbitrario e immotivato di un fattore esterno: tutta la struttura logica di una scienza verrebbe meno e si ridurrebbe a un edificio che il soggetto conoscente erige per sottomettere le conoscenze a certe sue leggi, quelle d’identità e di contraddizione, che in altro modo non potrebbero mai venir soddisfatte. In realtà l’attività del pensante opera sì sulla predicazione e opera in differenti modi secondo che il tipo della predicazione sia questo o quello, ma la sua funzione non avviene al di fuori del principio di contraddizione, nel senso che non si riduce a un semplice allacciamento immutabile di due concetti, la cui immutabilità comporta solo una parvenza di ottemperanza al principio di contraddizione: la coscienza conoscente, in realtà, posta di fronte a due distinti, destinati a divenire rispettivamente soggetto e predicato di un giudizio universale e necessario – per servirci degli esempi kantiani, il concetto somma di 7 + 5 e il concetto numero di 12, il concetto di linea retta e il concetto di linea più breve tra due punti, il concetto di una totalità di classe e il concetto di una qualità, il concetto di un ente e il concetto di un altro ente -, agisce sul concetto destinato a divenire soggetto, lo sussume o sotto un certo carattere dello spazio o sotto un certo carattere del tempo o sotto un certo concetto generalissimo, che è una  delle dodici categorie; attraverso tale sussunzione fa del concetto genere una nota determinante l’essenza generica del concetto-soggetto e dalla nota generica desume l’identità totale o parziale del concetto-predicato col concetto-soggetto. In tal modo, il fatto dell’intervento della coscienza conoscente nella predicazione si riduce a un intervento indiretto che, fondato direttamente sull’elaborazione del concetto-soggetto, non infrange quell’identità che il principio di contraddizione impone si trovi fra il concetto-predicato e concetto-soggetto onde sia lecito procedere alla loro reciproca predicazione in un giudizio.

L’attività della coscienza conoscente è un’attività formale, nel senso che incide nei rapporti tra un concetto e un altro concetto distinto senza intaccare la loro essenza qualitativa quale viene stabilita dalla genesi empirica, essenza la cui sussistenza permane perfettamente autonoma, in quanto non dipende né dal pensante né dal suo intervento - tant’è vero che un qualunque concetto non muta la propria peculiare essenza qualitativa sia nel caso che entri a far parte di un giudizio percettivo sia nel caso che si ponga come soggetto o predicato di un giudizio d’esperienza -; l’attività del conoscente è formale in quanto inserisce nel concetto-soggetto una nota qualitativa essenziale la quale sussiste solo alla condizione che il concetto-soggetto entri in rapporto con quel determinato concettopredicato; non appena il concetto-soggetto esce dalla relazionalità col concetto-predicato, il conoscente cessa di agire su di esso, e il concetto soggetto perde la nota essenziale qualitativa di funzione relazionale; la formalità dell’attività del conoscente non incide quindi  sulla natura della predicazione che è identità e che per porsi deve trovare degli identici, incide bensì sulla natura essenziale del concetto-soggetto quand’essa è in relazione con la natura essenziale di un altro concetto, rendendola identica e quindi identificabile con quest’ultima. Dire che l’attività del conoscente è formale equivale ad affermare che tale attività si applica alla predicazione alla condizione però che l’applicazione non consista in una determinazione, ma nella liceità del suo uso; dire che l’attività del conoscente, in quanto formale, è necessaria e universale e quindi rende universale e necessario il giudizio cui si applica equivale ad affermare che il suo intervento nella predicazione al giudizio il valore di necessario e universale, purché però tale intervento si limiti a rendere universale e necessaria la nota essenziale qualitativa che caratterizza il concetto-soggetto nei confronti del concetto predicato e ne fa due identici e quindi due relazionabili in forza di quell’identificazione che è la predicazione. L’intervento del conoscente non crea il concetto generico di identità che è già posseduto dal pensiero come legge cui il giudizio deve ottemperare e non contravvenire, bensì genera una serie di casi  speciali in cui insorge una identità universale e necessaria e nei quali, di conseguenza, s’impone una predicazione e un concomitante giudizio universale e necessario. Il conoscente è attivo nel senso che non coarta il principio di contraddizione, ma semplicemente  ne rende possibile l’ottemperanza universale e necessaria. Il principio di contraddizione resta, quindi, l’unico vero ispettore della conoscenza e in particolare l’unico vero controllore della conoscenza universale e necessaria. L’intervento del conoscente non fa altro che dar luogo a fatti che possano patire impunemente il controllo di un siffatto ispettore.

Nella concezione kantiana il vero e proprio sovrano della conoscenza scientifica è il principio d’ identità. Se l’attività del conoscente investe il concetto-soggetto di una nota essenziale qualitativa che ha valore solo in relazione al concetto destinato a divenir predicato e che è tale che, introdotta nel concetto-soggetto, lo rende o totalmente o parzialmente identico al concetto-predicato, il pensiero umano è in grado di costituire un giudizio scientifico solo perché il suo principio supremo, che è indice della sua funzione suprema, è quello di riconoscere le identità dove sussistono e di enunciarle. In definitiva, l’intervento del conoscente consiste nell’assumere il concetto-predicato e nel renderlo nota essenziale del concetto-soggetto, secondo un certo rapporto, costringendo quindi il pensiero a enunciare l’identità e ad accettare l’universalità e necessità che il conoscente ha immesso nell’identità. Il giudizio scientifico  è tale perché da un lato il pensiero tocca con mano qualunque identità in tutte le forme in cui si , dall’altro il conoscente  in certi casi luogo esso stesso a identità la cui universalità e necessità sono garantite dall’universalità e necessità, sotto il cui segno  ne è stata operata la fattura da parte del conoscente. Di qui due conseguenze: la funzione particolare che il principio di contraddizione esplica nella sfera del reale e la limitazione del suo uso, limitazione che equivale a una limitazione della sfera del reale in cui è lecito l’uso del principio di contraddizione; una distinzione particolare nell’uso stesso che del principio di contraddizione può farsi.

È nota la differenza che Aristotele e Kant hanno introdotto nella definizione del principio di contraddizione. Il filosofo greco fa del principio di contraddizione la norma per cui «non è possibile che la stessa cosa inerisca e non inerisca allo stesso soggetto nello stesso tempo e sotto il medesimo punto di vista». Il filosofo tedesco fa del principio di contraddizione un giudizio negativo in cui il predicato e il soggetto vengono distinti e dichiarati irriferibili l’uno all’altro: per meglio dire, la formula, sotto cui Kant – non si pone qui in rilievo l’identità dell’enunciato di Kant con quello di Leibnizenuncia il principio di contraddizione, (A non è non –A) = (A ≠ non-A), può essere ridotta alla definizione che fa del principio di contraddizione la norma per cui si deve affermare assenza di identità dove identità non si . Delle due definizioni non si può dire solo che siano due differenti enunciazioni di uno stesso principio, o meglio che sia l’una, quella kantiana, la formulazione generale di una legge di pensiero, di cui l’aristotelica considererebbe solo l’applicazione pratica a un caso particolare: la differenza cioè non si riduce solo al fatto che la definizione aristotelica riguarda il rapporto fra due giudizi i quali, qualora si pongano come affermante l’uno e negante l’altro un concetto di un altro nello stesso tempo e nello stesso rapporto, non possono essere entrambi né verifalsi, mentre l’enunciazione kantiana sposterebbe l’azione del principio di contraddizione al rapporto tra soggetto e predicato di uno stesso giudizio, che sarebbe falso nel caso in cui i due concetti si contraddicessero; la differenza, quindi, non riguarda solo l’ampiezza d’uso del principio di contraddizione, che in Aristotele sarebbe limitata al solo giudizio, mentre in Kant investirebbe concetto, giudizio, ragionamento, sistemi scientifici, sistema totale di tutte le scienze, in quanto qualunque ente mentale, sia esso elementare o complesso, può divenir sempre soggetto di un giudizio il cui predicato, se in contraddizione col soggetto, dimostra la falsità del giudizio e quindi la falsità del soggetto, nel caso che il predicato debba essere necessariamente riferito al soggetto in quanto analiticamente inferito dall’essenza di quest’ultimo. Se la differenza delle due definizioni si riducesse esclusivamente a una differenza di estensione del concetto, allora il principio di contraddizione in sé non verrebbe toccato e conserverebbe sempre la stessa funzione, quella di una legge ben determinata del pensiero e, in fondo, eterogeneamente distinta dal pensiero, funzione consistente nel dichiarare l’illogicità e quindi l’impensabilità e quindi l’irrealtà di qualunque ente che assunto nel pensiero manifesti in se stesso la contraddizione mediante un giudizio il cui predicato necessariamente desunto dal soggetto si manifesta contraddittorio col soggetto – in questo caso l’irrealtà o illogicità sta tutta nel soggetto – oppure che, assunto nel pensiero come un distinto dal soggetto e predicato a questo, si riveli esserne, in tutto o in parte, la negazione – nel qual caso non si rivela l’irrealtà di alcun ente pensabile in sé, ma l’irrealtà e impensabiltà di un rapporto tra due enti. Il ridurre le due definizioni a una semplice differenza dell’estensione attribuita al loro soggetto, il principio di contraddizione, può costituire uno strumento di comodo per definire il principio di contraddizione da un punto di vista puramente logico, sganciato da qualunque dipendenza da una teoria gnoseologica o metafisica; quando, infatti, si voglia cogliere nella sua semplice essenza logica il principio di contraddizione, la cui azione non può essere negata in forza dell’esperienza che il pensiero ricava da sé dell’inaccettabilità del contraddittorio, si deve definire il principio di contraddizione come la norma che impone al pensiero l’incapacità di pensare il contraddittorio; con ciò, se ne fa un eterogeneo dal principio di identità: invero, qualora si volesse definire il principio di contraddizione come l’aspetto negativo del principio di identità, si cadrebbe nell’errore di misconoscere la funzione del principio di contraddizione che non è semplicemente quella di inibire: il principio di contraddizione, ridotto alla negazione del principio d’identità, è un inutile, perché un pensiero governato dalla legge di poter solo pensare l’identico, cioè di poter riferire concetti a concetti o giudizi a giudizi o classi di giudizi a classi di giudizi solamente quando questi manifestino identità totale o parziale fra loro, è naturalmente governato dalla legge, che non sussisterebbe in sé ma sarebbe implicita nell’altra, di non poter fare il contrario: se ci si impone con una determinazione infrangibile di attraversare la strada solo se davanti agli occhi si accende il verde, ci si vieta contemporaneamente , senza che per questo ci sia bisogno di altra legge normativa, di non [ _ ] attraversare la strada al segnale rosso. La logica, poiché nota che il principio di contraddizione entra realmente in vigore e poiché quindi non può non considerarlo una legge del pensiero, ne trae la ragion d’essere e la funzione positiva dal fatto che il pensiero è atto a pensare il contraddittorio, vale a dire a pensare come identici enti che in realtà non lo sono, e necessita per questo di una norma – essa è sussidio di ricerca, il maggiore che abbiamo, ma non già determinante di ricerca – per la quale, non appena nella strada intrapresa ci si presenta un contraddittorio tosto il campanello d’allarme del principio di contraddizione ci avverte che stiamo pensando  un impensabile e un illogico, cioè che pensiamo zero, e che dobbiamo rifarci indietro e mutar strada. Ma questa definizione che attribuisce al principio di contraddizione una funzione gnoseologica positiva e che rende tale principio eterogeneo dal principio d’identità, limita se stessa alla pura sfera della logica. La definizione kantiana e quella aristotelica invece considerano il principio di contraddizione non già in connessione colla semplice sfera logica, ma con la sfera gnoseologica, e, poiché questa è diversa nei due, diverso sarà il concetto e la definizione che Aristotele e Kant si formano del principio di contraddizione.

Anche per Aristotele la conoscenza universale e necessaria si riduce a un giudizio nel cui predicato si afferma qualcosa di identico al soggetto. Ma la possibilità di identificare soggetto e predicato non consiste in una particolare attività esercitata dal conoscente sul soggetto del giudizio, bensì consiste nella conoscenza che il conoscente ha della causalità o essenza del soggetto del giudizio. Sotto questo punto di vista quindi il principio di contraddizione ha un valore ontologico, in quanto il riferimento del predicato al soggetto sempre riferimento di un causato alla causa, ed essendo la contravvenzione al principio di contraddizione contravvenzione alla struttura ontologica del reale, l’impossibilità di pensare due cause contrarie presenti nello stesso concetto attesta l’esistenza reale di una sola e possibile causa: Aristotele, infatti, si rifà a questa interpretazione del principio di contraddizione per controbattere l’eraclitismo. Ma poiché la causalità o essenza degli enti ontologici non è l’unica loro componente, poiché interviene nella loro struttura qualcosa che imprime loro il divenire, un concetto non è mai assolutamente identificabile con la sua causa essenziale, ma con una sintesi, a noi nota, fra la causalità essenziale permanente e una causalità avventizia e diveniente, e quindi l’identificazione in un mondo sottoposto a divenire non è mai immutabile e costante, il che tuttavia non comporta affatto l’esistenza nelle cose del mondo di due essenze contrarie equivalenti a due contraddittori sul piano logico. Allora, nella sfera del reale dove gli enti si riducono ad intelligibili essenziali, la predicazione stabilisce un’identità immutabile e permanente fra due enti e l’insubordinazione alla legge d’identità costituisce un’infrazione alla norma di contraddizione, la quale si pone come garanzia dell’eterogeneità degli intelligibili essenziali, della loro irriducibilità ad intelligibili essenziali sovraordinati che siano contrari, della loro necessaria riduzione a un solo intelligibile sovraordinato; nella sfera del reale invece dove gli enti si riducono alla sintesi di un intelligibile essenziale  con qualcosa d’altro diveniente, la predicazione stabilisce ancora un’identificazione, che questa volta è però mutevole e incostante; sarà quindi lecita un’inapplicabilità della legge d’identità, la quale non costituirà infrazione alla norma di contraddizione alla condizione però che la predicazione di due contraddittori avvenga nel tempo. Per questo, Aristotele erige il principio di contraddizione, nella connotazione che ne , alla più elevata delle norme del pensiero, alla più filosofica, in quanto essa è la garanzia che la pensabilità di contraddittori non è equivalente  all’esistenza di contrari, bensì semplicemente e [è] una successione cronologica di stati cui un soggetto, che non sia pura essenza, non può sfuggire; per questo, Aristotele enuncia il principio di contraddizione come una vera e propria legge che fissa l’impossibilità di predicare enti diversi di uno stesso ente, limitatamente però al fatto che le due predicazioni siano simultanee e avvengano sotto lo stesso punto di vista, in quanto la struttura reale  delle cose del mondo e degli enti mentali, che ne sono il simmetrico identico, comporta, come reale, la successione dei diversi nel tempo, la compresenza di opposti negli enti, la compresenza di distinti nelle essenze, cose tutte che giustificano la pensabilità di contraddittori, contrari o diversi che siano, in stati cronologicamente diversi e in diversi riferimenti dello stesso concetto. Quindi Aristotele ignora un vincolo fisso tra soggetto e predicato, perché tale vincolo condurrebbe a dar ragione ad Eraclito; pertanto, non sdoppia l’uso del principio di contraddizione: il principio di contraddizione è lo stesso ed è usato nello stesso modo tanto che si tratti di giudizi, quanto che si tratti di ragionamenti.

Per Kant, invece, per il quale sulla base dell’identificazione di conoscente o soggetto pensante con attività la realtà dell’esperienza nella sua elementarietà è l’unico dato di origine non soggettiva, non si ontologia, se per ontologia s’intende una struttura reale che non dipenda dal soggetto, in quanto i reali elementari dell’esperienza si riducono a un fascio di molteplici particolari contingenti eterogenei e diversi che di per sé non tollerano alcun riferimento reciproco e che quindi sono puri da qualunque struttura o rapporto reciproco. L’esperienza elementare e i concetti che direttamente le si connettono non solo non patiscono alcuna relazionalità, ma rifiutano qualsiasi rapporto, compreso quello di identità: un mondo che si riducesse a pura esperienza sensoriale sarebbe un mondo privo di giudizi. Un giudizio che si dia non può essere dovuto che all’apporto del soggetto, apporto - ed è qui una delle aporie - che è di duplice natura: il conoscente può accostare concetti senza procedere ad alcuna elaborazione di essi, oppure può accostarli concependoli però l’uno come identico all’altro in seguito ad un lavorio di identificazione. Poiché, in questo ultimo caso, il lavorio identico e permanente consente un’identificazione e, di conseguenza, una predicazione che sono universali e necessarie, il principio di identità viene a sostituirsi a quello di contraddizione come suprema norma sovrana del pensare, che garantisce che ciò che è vero è sempre universale e necessario perché permanentemente identico. Allora nel campo dei giudizi universali e necessari non potrà mai darsi una predicazione che non sia identificazione: pertanto, il principio di contraddizione non ha presa su di esso. Ma nel restante campo dei giudizi percettivi, cioè dei giudizi particolari e contingenti, in cui il soggetto accosta nella predicazione due distinti senz’alcuna opera d’identificazione agisce di pieno diritto il principio di contraddizione come quello che ci avverte che il concetto-predicato è stato riferito a quell’essenzialmente diverso che è sempre il concetto-soggetto, e che quindi il giudizio non ha alcun diritto a penetrare nella sfera della scienza. L’enunciazione del principio di contraddizione non può non assumere l’aspetto di una formula che solo indirettamente  può trasformarsi in una norma: «A ≠ non-A» è la proprietà di cui godono tutti i dati sensibili, è il segno e il simbolo della sensibilità; per essa sappiamo che questo rosso non è quel giallo né quel suono, e che quindi i due non sono riunibili in un qualsiasi giudizio; che se poi vogliamo riunirli in un rapporto di predicazione, allora delle due l’una: o li abbiamo precedentemente identificati , e allora la formula «A ≠ non-A» cessa di essere la loro espressione generica; o non li abbiamo identificati  e allora abbiamo fatto di essi un uso non consentito dalla formula. Per questo, la formula può indirettamente esser considerata legge, nel senso che essa avverte che non può essere identificato se non l’identificabile, norma che non è affatto una formulazione negativa  del principio di identità ma è la legge che domina tutti i giudizi percettivi, avvertendoci della loro insussistenza e illogicità. Kant, in realtà, non ha bisogno di una formula normativa del principio di contraddizione in quanto l’attività del conoscente, che è quella che identifica e che identificando consente il giudizio, necessita solo della facoltà di riconoscere gli identici ossia del principio d’identità, e non ha bisogno nemmeno di una formulazione del principio di contraddizione che tenga conto della successione temporale, in quanto questa è uno dei mezzi di identificazione del soggetto conoscente e non investe affatto la natura essenziale dell’individualità di ogni reale sensibile, giacché la sensazione non ha tempo né è tempo  ma è nel tempo e si col tempo. Il principio di contraddizione quindi ha in Kant una funzione puramente logica di avvertire che tutti i distinti sono impredicabili l’uno dell’altro; tale funzione è la legge per la quale gli enti vengono accolti nel pensiero come enti, la legge che ci avverte che ogni ente che accogliamo nel pensiero è un distinto e, con ciò, in sé un impredicabile di qualsivoglia altro ente, a meno che non passi, per l’azione trascendentale del conoscente, sotto il dominio del principio d’identità. In tale funzione logica esercita anche un limitato imperio gnoseologico su quei giudizi, che essendo stati formulati dal conoscente senza appello alla legge d’identità, restano privi della reale natura di giudizi – si accetta qui la distinzione dei due tipi di giudizi indipendentemente dal fatto che Kant non ci renda ragione sufficiente del loro porsi -.

 Può apparir strano e contrario a quanto Kant stesso in varie parti afferma il dire che nella teoria della scienza kantiana le funzioni principali vengono affidate al principio d’identità e non al principio di contraddizione, e che a questo si riserva il ben limitato ufficio di governare il mondo dell’empiria disorganizzato e i giudizi che ad esso si riconducono. Ma se si considera a quali condizioni si pone un giudizio universale e necessario, se si considera cioè che un giudizio universale e necessario consiste sempre in una predicazione necessaria coincidente con un’identificazione che non può essere elusamisconosciuta, in quanto il conoscente è attivamente intervenuto nell’elaborazione del soggetto logico inserendo in questo il concetto-predicato secondo un certo rapporto e, quindi, identificando parzialmente i due concetti del giudizio, si vedrà che in siffatto giudizio la contraddizione, consistente nel predicare di un concetto un concetto che non si identificaparzialmentetotalmente col primo e, quindi, nel comportare la predicazione del contraddittorio del predicato come necessaria, non può affatto intervenire e che, di conseguenza, il principio di contraddizione non può per nulla erigersi a normativo del giudizio universale e necessario. Solo in un sistema di tipo aristotelico in cui per la molteplicità dei rapporti intercorrenti fra i concetti è possibile una predicazione  di contraddittori, il principio di contraddizione si pone come il sovrano del pensiero. Per la verità, Kant stesso non si rese pienamente conto della nuova e limitata funzione che il principio di contraddizione veniva ad assumere nella sua soluzione del problema della possibilità di un giudizio universale e necessario: quando un giudizio universale e necessario fonda la propria realtà sulla possibilità di una sussunzione del soggetto logico, che può essere molteplice in quanto possono variare i punti di vista da cui la sussunzione viene compiuta o le situazioni cronologiche cui la sussunzione viene riferita, è naturale che il principio di contraddizione si sovrapponga al principio d’identità, assumendosi il compito di trascegliere fra tutte le possibili identificazioni quella che, sotto il punto di vista da cui si procede per le sussunzioni e nella situazione cronologica in cui il soggetto logico è stato posto, è effettiva, e di respingere quelle che risultano impossibili in quanto irreali; ma, quando la realtà di un giudizio universale e necessario trova fondamento nella possibilità di un intervento del conoscente, intervento che non sia indifferenziato e quindi indeterminato, ma si ponga in un certo modo necessario, univocamente determinato e destinato a rimanere immutato, nei confronti del concetto-soggetto e del concetto-predicato, non si vede come sia possibile l’intervento di un principio  che avverte il pensiero dell’impossibilità della predicazione per la contraddizione che non la consente, dove la contraddizione non può mai essere reale ed esistere. Per la incomprensione che nutrì nei confronti dell’unica funzione che il principio di contraddizione poteva assumere nella sua logica e nella sua gnoseologia, per l’insistenza ad affidare al principio di contraddizione quelle funzioni sovrane che l’aristotelismo e tutte le dottrine di stampo aristotelico gli affidano, Kant finì  per attribuire al principio di contraddizione  una duplice funzione, una duplicazione nelle operazioni logiche, duplice funzione che è puramente apparente e che dipende dal duplice significato che implicitamente e ingiustificatamente attribuiva al principio.

            Un giudizio è universale e necessario in quanto soggetto al principio di contraddizione per Aristotele, in quanto soggetto al principio d’identità per Kant: infatti, per Aristotele un giudizio universale e necessario mutua la propria ragion d’essere dall’azione esplicata nel soggetto logico da parte dei molteplici componenti essenziali che lo costituiscono, mentre per Kant il giudizio universale e necessario va debitore della propria universalità e necessità all’azione esplicata nel soggetto logico da quel componente essenziale che vi ha introdotto il conoscente e che non è se non lo stesso predicato. La concezione quindi che Aristotele si è fatta del giudizio e della funzione esplicata dal principio di contraddizione nei confronti del giudizio, è tale che investe tutti i procedimenti mentali, dai più semplici, costituiti dal giudizio stesso, ai più complessi, rappresentati dai polisillogismi; la concezione invece che si è fatta Kant del giudizio non solo esclude una funzione esercitata su di esso dal principio di contraddizione, ma impone che qualunque altro procedimento logico che non sia il giudizio debba attingere la propria validità dal giudizio e solo dal giudizio. Nel sillogismo fondamentale, costituito dai quattro tipi della prima figura – di cui, come oggetto di questa dimostrazione, sceglieremo solo il sillogismo in Barbara -, per Aristotele l’universalità e necessità della conclusione è argomentata dallo stesso procedimento in virtù del quale risulta la verità di un qualsiasi giudizio cioè dal riferimento al soggetto del predicato inferito per analisi dal soggetto stesso: l’unica differenza tra il sillogismo e il giudizio è che l’inferenza del predicato dal soggetto ha luogo nel primo mediatamente, nel secondo immediatamente; il soggetto logico di un giudizio è determinato dal predicato, e quindi i due concetti, qualora siano distinti in conformità col principio di contraddizione, sono predicabili l’uno dell’altro in virtù del principio di contraddizione; Aristotele avrebbe potuto a buon diritto distinguere un duplice uso del principio di contraddizione, l’uso metodico dall’uso normativo: la sua definizione, infatti , del principio di contraddizione racchiude in sé i canoni di un metodo e il rigore di una legge, in quanto stabilisce i canoni della analisi, fissandone come condizioni la simultaneità cronologica e la permanenza dell’osservazione, e in quanto dicotomizza il risultato nei due grandi generi del reale e dell’impossibile, nel primo dei quali ha il diritto di essere sussunto il risultato che è la predicazione, nel caso che questa soddisfi alle due esigenze metodiche, nel secondo dei quali deve venir invece sussunta la predicazione, quando abbia contravvenuto alle condizioni del metodo. Ma quanto qui si è detto del giudizio nella concezione aristotelica, può essere riferito con buone ragioni anche al sillogismo, quale Aristotele lo intende: poiché quando si danno tre concetti l’ultimo dei quali determini la natura essenziale del secondo, qualora questo sia tale da determinare l’essenza del primo, sarà sempre reale che l’ultimo determina il primo nella sua essenza, e quindi può essere predicato di questo per le stesse buone ragioni per le quali veniva predicato del secondo e questo veniva predicato del primo; in fondo, per Aristotele anche il sillogismo vive di vita logica quando si ponga in conformità del principio di contraddizione, quando cioè la separazione analitica dei concetti destinati a divenire soggetti logici e predicati abbia luogo in ottemperanza ai canoni metodici fissati dal principio di contraddizione, il quale non solo stabilisce che di due contraddittori solo l’uno sia vero, ma stabilisce anche che è vero quello che è frutto di un’analisi obbediente al canone della simultaneità e della permanenza dell’osservazione. Ma una siffatta distinzione, in Kant, non ha più ragion d’essere; in Kant il principio di contraddizione ha assunto l’enunciato di una formula. Questa formula è il carattere generale di tutti i distinti, in quanto distinti; non contiene in sé nessun dato metodico in quanto il suo uso è in fondo universale, essendo tutti i dati di pensiero dei distinti in sé; non può esercitare nessun imperio se non quello genericissimo che due distinti, in quanto distinti, sono impredicabili. Quando si assuma come enunciato del principio di contraddizione la formula kantiana, non si possono definire né i casi in cui un ente logico è in conformità col principio di contraddizione né i casi in cui un ente logico è in virtù del principio di contraddizione: tutti gli enti logici infatti, in quanto tali, sono in virtù del principio di contraddizione, in quanto tutti obbediscono alla sua normatività di non potersi relazionare reciprocamente in una predicazione in quanto distinti; nessun ente logico può essere in conformità del principio di contraddizione, perché, pure ammesso che il canone metodico sotteso alla formula kantiana del principio di contraddizione sia la necessità di inferire

per analisi da un ente mentale solo gli enti che vi sono contenuti, non solo nessun ente può essere in sé e per sé oggetto di un’analisi qualsiasi in quanto nel pensiero nulla si di originariamente ed essenzialmente sintetico, ma anche ogni ente che entra in un rapporto di predicazione con un altro, rapporto che sia fondato su una identità tra i due, vi entra grazie a un’attività che ha introdotto il secondo ente nel primo e glielo ha connesso come nota secondo rapporti essenziali e necessari, e che quindi ha logicamente preposto un atto sintetico che costituisce la ragione d’essere della predicazione, che si pone in tal modo come un’identità per analisi, solo se al termine analisi si il significato generico di identificazione parziale; d’altra parte, neppure si può parlare di una virtù del principio di contraddizione, vale a dire di una sua causalità efficiente: infatti, se ogni predicazione di giudizio universale e necessario è avvenuta in forza della sussunzione del concetto del soggetto logico al concetto del predicato, limitatamente a quel solo predicato e al rapporto in cui il predicato si è posto col soggetto, vale a dire se la predicazione universale e necessaria si fonda sulla connotazione del soggetto logico mediante la nota di quel solo predicato, non sarà mai possibile altra predicazione ossia altra identificazione di un altro concetto con lo stesso concetto-soggetto in un giudizio dello stesso tipo e della stessa classe, e di conseguenza non sarà mai possibile contraddizione. Quindi, su di un giudizio universale e necessario la cui realtà sia fondata sulla possibilità di un intervento del conoscente nell’elaborazione del concetto-soggetto, e di conseguenza neppure sulla genesi del giudizio il principio di contraddizione non può esercitare alcuna causalità efficiente. In tali condizioni, il sillogismo non riceve alcuna ragione sufficiente della propria esistenza, per le stesse ragioni per le quali non riceve ragione  sufficiente del proprio esistere il giudizio percettivo. Tralasciamo che le finalità per cui si il sillogismo non sono affatto quelle per cui si il giudizio universale e necessario, mirando questo a una rapportazione universale di concetti, tendendo l’altro a un ordinamento gerarchico di concetti sovraordinati l’un l’altro della cui esistenza non si vede la necessità; resta però il fatto che neppure il sillogismo in sé e per sé procura una giustificazione logica alle operazioni d’identificazione che gli consentono di porsi e di sussistere. Kant ci dice che il sillogismo si costruisce grazie a una sua conformità al principio di contraddizione, ma non è valido in virtù del principio  di contraddizione: sembrerebbe dunque che egli voglia introdurre e porre in chiaro quel duplice valore implicito nella definizione aristotelica del principio di contraddizione, con lo scopo di estromettere dal sillogismo il secondo valore, quello della causalità efficiente. Ragionando secondo la concezione che Kant si è fatto del sillogismo, la facoltà di predicare il predicato della conclusione al soggetto della conclusione scaturisce da questo che il predicato della conclusione è stato predicato di un concetto il quale a sua volta è stato predicato del soggetto: in questa operazione che scaturisce dai vari passaggi sta l’accordo o conformità col principio di contraddizione; tale accordo non può consistere se non nella rispondenza al criterio metodico fissato dal principio di contraddizione, che la predicazione di un concetto ad un altro deve avvenire entro gli schemi di un’analisi esatta; non è lecito infatti identificare tale accordo con il principio, sempre dettato dalla legge di contraddizione, che quando per analisi sia stato ritrovato come nota di un concetto un altro concetto, questo non può non essere predicato del primo e nessun altro concetto può essergli sostituito in quel particolare rapporto in cui si è posta la predicazione di quel giudizio; tale principio infatti s’identifica con la causalità efficiente del principio di contraddizione, con la sua virtù e non con la sua normatività metodologica. Confesso che per quanti sforzi io abbia compiuti non sono riuscito a trovare altra connotazione di quell’«accordo» o «conformità» o di quella preposizione «secondo», con cui Kant vuol differenziare l’uso e il valore che il principio di contraddizione può avere in generale. Ma non si tenga pur conto del fatto che nella formula kantiana del principio di contraddizione non ha luogo una canonica metodica, e che quindi non si può parlare di una conformità, nel senso di una rispondenza al principio di contraddizione che non consista in un’ottemperanza a ciò che il principio di contraddizione impone, vale a dire nel senso di una rispondenza al principio di contraddizione che riguardi solo le ragioni per cui al principio è consentito esercitare il suo imperio, e non la scelta stessa dell’enunciato che avviene in nome dell’obbedienza alla normatività o causalità efficiente o virtù del principio; resta pur sempre l’altra difficoltà che, ammessa una qualsivoglia conformità al principio di contraddizione, ammessa cioè una qualsiasi ottemperanza al principio che non sia ripudio di una predicazione rivelatasi contraddittoria – in questo caso alla conformità subentra la virtù o causalità efficiente del principio -, nello stesso sillogismo tale conformità non si , perché anche nel sillogismo, una volta accettata la soluzione kantiana del problema della possibilità del giudizio universale e necessario, cessa un qualsiasi intervento del principio di contraddizione: infatti, un sillogismo trae la propria validità raziocinativa, non la propria validità gnoseologica, vale a dire ricava la propria ragion d’essere di ragionamento, dalla premessa minore; è la premessa minore che, assumendo a predicato del soggetto logico della conclusione quel concetto che è soggetto logico della premessa maggiore, trasferisce al soggetto logico della conclusione l’identificazione che la premessa maggiore ha stabilito tra il proprio predicato e il proprio soggetto; se la validità gnoseologica del sillogismo dipende dalla verità dell’identificazione della premessa maggiore, la validità logica del sillogismo dipende tutta dalla verità dell’identificazione della premessa minore; per un Aristotele, la verità della premessa minore è in un certo senso già data come universale e necessaria, in quanto l’analisi del concetto destinato a divenir soggetto della conclusione ha già rivelato o rivela nel presente, nella propria connotazione, la presenza della nota destinata a divenir predicato della premessa minore, e la rivelazione si è dimostrata vera e valida perché ottenuta in seguito all’applicazione dei canoni metodici del principio di contraddizione e quindi in conformità col principio stesso; ma per Kant mai una simile analisi potrà darsi, e quindi mai la premessa minore potrà erigersi a giudizio universale e necessario per una semplice operazione analitica; la premessa minore per presentare  i caratteri dell’universalità e necessità dovrà sempre nascere da un’operazione sintetica e con ciò non ricaverà mai la propria validità da un’ottemperanza al principio di contraddizione, bensì solo dall’intervento del principio d’identità. Poiché dunque tutto il sillogismo trae la propria logicità dalla premessa minore, dal sillogismo viene bandito il principio di contraddizione sia nel suo uso di conformità che nel suo uso di causalità efficiente. Che se poi si accetta assieme ad Aristotele e a Kant, che la premessa maggiore  non sia in grado di fornire da sola caratteri di universalità e necessità con il semplice riferimento alle virtù del principio di contraddizione in quanto, aristotelicamente  parlando, la predicazione del concetto-predicato al concetto-soggetto, nella premessa maggiore non offre in sé alcuna garanzia di essere una analisi, e in quanto, kantianamente parlando, la predicazione del concetto-predicato al concetto-soggetto nella premessa maggiore  non sarà mai dovuta all’analisi ma all’intervento dell’attività del conoscente, pel quale la premessa maggiore si sottrae alla garanzia del principio di contraddizione, il principio di contraddizione, dal punto di vista kantiano, non può intervenire sotto nessuna forma nel sillogismo. Anche il sillogismo, quindi, viene a cadere del tutto sotto l’imperio del principio d’identità e viene a mutuare  la propria validità logica dalla sua verità gnoseologica, che è quello che Aristotele aveva voluto evitare. Le conseguenze immediate di questo sono varie: non sarà vero che nel ragionamento matematico penetri la certezza apodittica pel tramite del principio di contraddizione; ciò potrebbe esser vero se, ad esempio, in uno dei sillogismi con cui si dimostra che la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due retti, la premessa minore che un angolo alla base è alterno interno dell’angolo formato al vertice dalla parallela alla base col lato adiacente all’angolo alla base considerato, fosse analitica e non sintetica; nella realtà della gnoseologia kantiana questo giudizio è sintetico, in quanto non solo per porsi come universale e necessario deve considerarsi giudizio universale affermativo col conseguente intervento delle due categorie dell’universalità e della realtà, ma nel predicato del giudizio «l’angolo α e l’angolo β sono alterni interni» è contenuta una nota sintetica che non si nel concetto dei due soggetti né nella loro congiunzione; quindi, il sillogismo godrà di una validità logica che dipende in tutto e per tutto dalla validità gnoseologica che ne consente la presenza nel pensiero, e perciò la distinzione  tra giudizio e sillogismo sarà artificiale  non solo dal punto di vista della logica tradizionale, ma anche dal nuovo punto di vista della logica trascendentale, perché la ragion sufficiente del giudizio universale e necessario è la stessa del sillogismo in genere; donde deriva che l’affermazione che una proposizione sintetica può venir dedotta da un’altra proposizione sintetica, o, in termini logici tradizionali, che un giudizio universale e necessario può venir appreso da un altro giudizio universale in conformità al principio di contraddizione non è valida, non tanto perché l’universalità e necessità del giudizio-conclusione si pone di per sé, quanto perché la sua posizione dipende dalla posizione dell’universalità e necessità della premessa minore nella quale il principio di contraddizione non ha alcuna possibilità di intervento; infine, quella piramide di concetti, cui danno luogo il sillogismo e l’uso del sillogismo, godrà dello stesso valore di cui godono i giudizi universali e necessari in genere, cioè sarà anch’essa frutto della attività del conoscente, e dal suo vertice, in cui si dispongono i concetti assiomatici e le leggi del pensiero, compreso il principio di trascendentalità, fino alla base in cui si dispongono gli individui empirici, i concetti si sovraordineranno secondo una gerarchia stabilita dal conoscente.



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Anzitutto il concetto di deduzione trascendentale ha a sua connotazione di essere la dimostrazione della legittimità dell’uso che facciamo di un giudizio universale e necessario, e quindi del legittimo diritto che hanno i concetti puri di appropriarsi del concetto del predicato come di una loro determinazione e limitazione, e di identificarsi, così definiti, con una nota essenziale del concetto del soggetto, consentendo la predicazione come una necessaria identificazione scaturente da una analisi cui però è sottesa una sintesi, diritto offerto da questo che i due dati empirici di cui i concetti rapportati nella predicazione del giudizio sono le unità logiche o di classe verificano nel loro rapporto condizioni equivalenti all’identificazione della predicazione intellettiva. Ora, il concetto di deduzione trascendentale non è limitato affatto alle categorie, come potrebbe apparire dalle ripetute affermazioni di Kant. Lo spazio e il tempo, concepiti come particolari modi dell’intervento del conoscente nella formulazione dei giudizi universali e necessari della geometria e dell’aritmetica, con somma evidenza si rivelano nello stesso tempo trame relazionali di tutti i dati sensibili, lo spazio dei dati esterni, il tempo sia dei dati interni che degli esterni. Poiché senza lo spazio nessun dato sensoriale esterno può essere reale, senza il tempo nessun dato sensoriale in genere può attingere realtà, la dimostrazione che la natura dello spazio e del tempo è quella di una relazionalità che il pensante pone – senza attingerla ad alcun sensibile, sia questo la totalità dei sensibili o la totalità delle relazioni tra i sensibili – fra tutti gli enti che godono della proprietà tipica delle sensazioni, la conoscenza immediata o intuizione, non solo prova che un qualsiasi giudizio in cui la predicazione avvenga in virtù dello spazio e del tempovale a dire ogni giudizio in cui l’identificazione del predicato col soggetto è assicurata dalla identità delle relazionalità spaziali o temporali che caratterizzano il soggetto e il predicato, come ad esempio il giudizio «7 + 5 = 12» in cui la predicazione è possibile fra quei due diversi  qualitativi che sono l’unità sintetica del 12 e la giustapposizione delle due unità sintetiche del 7 e del 5, in quanto le relazioni temporali che caratterizzano rispettivamente la giustapposizione e l’unità sono identiche; così nel giudizio «la linea retta è la più breve linea congiungente due punti» la predicazione è possibile, nonostante l’evidente eterogeneità del concetto-predicato dal concetto-soggetto, in quanto le relazioni spaziali in cui giacciono rispettivamente una linea concepita con l’attributo della rettilineità e una linea concepita con l’attributo della minor lunghezza possibile sono identiche per entrambi i concetti – è universale e necessario, ma prova nello stesso tempo che il rapporto spaziale e temporale presente nei concetti che nei giudizi fanno  da soggetto e da predicato, deve ritrovarsi identico in qualsiasi ente o reale o immaginario che, situato o in uno spazio essenzialmente identico allo spazio puro della geometria o in un tempo essenzialmente identico al tempo puro dell’aritmetica, venga a rientrare nello stesso rapporto che connota i concetti corrispondenti. Lo spazio e il tempo, infine, non sono esplicazioni particolari di una vera e propria attività, ma sono piuttosto dei complessi quasi indefiniti di relazioni di simultaneità o di successione che sono dei modi della recettività sensoriale: in questi modi, che il conoscente possiede innati, viene inserito qualunque ente nell’atto della sua intuizione; con essi il conoscente ordina le sensazioni in intuizioni fenomeniche e sistema quelle intuizioni pure della geometria e dell’aritmetica cui corrispondono i concetti matematici e i giudizi o rapporti di identità fra i concetti matematici.

Contro queste e altre osservazioni analoghe che Kant adduce per stabilire la netta differenza che separa le intuizioni pure dai concetti puri, se ne levano altre di non minore importanza agli effetti di una necessità della deduzione trascendentale anche per lo spazio e il tempo; deduzione trascendentale che dev’essere una e identica a quella delle categorie. È vero che l’uso delle intuizioni pure e dei concetti della geometria legittimati nella loro universalità e necessità dalla connotante spaziale, essendo limitato esclusivamente al mondo esterno ossia al fascio delle sensazioni esterne caratterizzate dalla stessa relazionalità spaziale, garantisce la perfetta equivalenza fra le verità della geometria, che sono affermazioni universali e necessarie su relazioni spaziali e su loro conseguenze, e le corrispondenti strutture fenomeniche, ma è altrettanto vero che quando la geometria vuol garantire se stessa, ignorando la ragione dell’universalità e necessità dei suoi giudizi fa ricorso alla deduzione ossia all’analisi, assumendo l’universalità e necessità dei suoi giudizi come l’esplicitazione di note essenziali ai suoi concetti primi. È vero che l’intervento del conoscente nella sistemazione dei sensibili nello spazio e nel tempo non gode degli stessi caratteri dell’intervento del conoscente nella connotazione dei soggetti logici dei suoi giudizi universali e necessari, essendo il primo una condizione o modo della recettività o passività, essendo il secondo un tipo della elaborazione o trattamento che i concetti debbono subire ad opera del conoscente per poter divenire soggetti di giudizi universali e necessari; ma è altrettanto vero che la differenza non tocca in fondo l’attributo essenziale dell’intervento generico del conoscente, quanto piuttosto riguarda la determinazione cui l’intervento deve assoggettarsi in funzione dell’oggetto cui si applica: se questo è e deve essere giudicato un’unità assoluta – quando cioè l’ente su cui l’intervento deve effettuarsi è tale che il suo concetto ha una connotazione coincidente con l’ente stesso, e concetto ed ente sono convertibili – l’intervento  del conoscente deve limitarsi esclusivamente a sistemare l’ente in un rapporto reciproco di simultaneità e di successione con altri omogenei; se invece l’ente o non è o non concepito come un’unità assoluta  - quando cioè l’ente è pensato molteplice e divisibile e non coincidente e convertibile col suo concetto immediatamente sovraordinato – l’intervento del conoscente può anche esercitarsi nel senso di un ampliamento della sua connotazione, ampliamento che affianca ai rapporti spazio-temporali altri rapporti in virtù dei quali l’ente può entrare in relazioni reciproche, o con omogenei o con eterogenei, altre da quelle puramente matematiche. Pare, a questo proposito, azzardato o arbitrario voler ricercare in generale la ragion sufficiente della diversità dei modi di intervento del conoscente e in particolare volerla andare a trovare entro gli enti stessi che si sottopongono all’intervento; e il rischio e l’arbitrio sarebbero attestati sia dall’estrema difficoltà di ritrovare entro gli enti delle differenze tali da giustificare la diversità di comportamento del conoscente sia dal fatto che il comportamento è di fatto molto meno diverso nella sua essenza di quanto Kant stesso voglia far apparire: si potrebbe pensare che la ricerca sia inutile in quanto l’intervento attivo del conoscente è il frutto di una serie di leggi elaborate dallo stesso conoscente e da esso sovraimposte a se stesso, in nome delle quali certi modi del suo intervento son riservati ai dati della recettività, certi altri agli stessi dati già però elaborati dai primi; l’obiezione sarebbe valida se fra i primi modi, la relazionalità spazio-temporale, e i secondi modi, la relazionalità categoriale, - tralasciamo, per semplificare, la relazionalità dell’immaginazione pura e degli schemi trascendentali che la determinano -  ci fosse una distinzione  tale che i primi non avessero la facoltà di intervenire dove intervengono i secondi – se cioè il rapporto spazio-temporale investisse soltanto le sensazioni – e che ai secondi  non fosse dato intervenire dove agiscono i primi – se cioè i rapporti qualitativi quantitativi modali determinassero solo le intuizioni spoglie di sussunzioni categoriali; ma questo non si perché la simultaneità e la successione riguardano anche le intuizioni-oggetti e le categorie della quantità e della qualità agiscono anche sulle sensazioni pensate fuori non solo dalla loro oggettività, ma anche dalla loro situazione spazio-temporale, il che Kant ha in parte rilevato dove distingue le categorie in matematiche e dinamiche; inoltre mi pare di avere anche il diritto di osservare che quest’ultima distinzione kantiana sarebbe da accettarsi nella sua pienezza se non si verificasse mai che il rapporto causale intervenga tra due enti che non siano entrambi intuizioni-oggetti, il che però si verifica avendosi delle causalità che da un’intuizione sensoriale semplice, o assunta in assoluto isolamentoappartenente a un intuito-oggetto, si trasferiscono a un intuito-oggetto, o altro dal primo o comunque non connotato dalla intuizione, e viceversa; c’è in realtà una sola categoria per la quale si può dire che il suo intervento è essenzialmente diverso da quello della relazionalità spazio-temporale, e precisamente la categoria di sostanza, la quale introduce nelle intuizioni una unità assolutamente eterogenea dall’unità propria di tutte le altre relazioni trascendentali; è possibile pensare che Kant, in forza di questa differenza e dell’omogeneità ch’egli ritrovava tra gli effetti dell’intervento della categoria di sostanza e gli effetti dell’intervento delle altre categorie, abbia misconosciuto le differenze tra l’una categoria e le altre, e tutte le abbia racchiuse in un’unica classe dal comportamento differente da quello della trascendentalità spazio-temporale. Non pare dunque che la distinzione entro i modi dell’intervento sia da farsi risalire a una legislazione affatto soggettiva, in quanto le norme sovraimposte dal conoscente a se stesso non hanno o non mi sembra che abbiano portata univoca; perciò credo di dover andare a cercare la distinzione entro l’oggetto ossia il passivo dell’attività del conoscente, affermando che l’intervento del conoscente sotto la forma della trascendentalità matematicaspazio, tempo e tutte le categorie ad eccezione di quella di sostanza – si applica  dove ente e concetto dell’ente sono convertibili – questo rosso e il concetto del rosso, questo quadrato e il concetto del quadrato, questo Socrate vivo e il concetto di Socrate vivo hanno connotazioni costituite dalle stesse note e dall’identico numero di note -, mentre l’intervento dell’unica categoria di portata esclusivamente fisica, ossia della categoria di sostanza, si solo sugli enti che non sono convertibili col loro concetto, in quanto in questo si danno sia delle note in più, la sinteticità l’immutabilità la necessità, sia delle note in meno, la situazione spazio-temporale la sostituibilità di un componente l’indipendenza reciproca dei fattori componenti ecc. Comunque, l’essenza dell’universo non muta. È vero che la dimostrazione della legittimità gnoseologica dei giudizi universali e necessari della matematica può avvenire su di un piano diverso da quello in cui si svolge l’argomento della legittimità di uso dei giudizi universali e necessari della fisica, ma è altrettanto vero che se nessun giudizio fisico può prescindere dallo spazio e dal tempo, la deduzione trascendentale delle categorie include in sé la deduzione trascendentale delle intuizioni pure.

In secondo luogo, se la dimostrazione della legittimità gnoseologica dei giudizi universali e necessari che debbono la loro universalità e necessità all’inserimento, nelle note connotanti il concetto del soggetto logico, di una nuova nota costituita da un concetto generico determinato dal concetto del predicato, coinvolge necessariamente anche l’argomentazione della legittimità gnoseologica dei giudizi universali e necessari della matematica, la coimplicazione delle due argomentazioni  è imposta dall’aspetto essenziale e generico della funzione che vita al giudizio universale e necessario in genere: essa si rivela nella sua necessità unicamente dal punto di vista dell’identità della funzione con l’intervento elaboratore del conoscente; poiché sussiste una distinzione tra il modo dell’intervento nel giudizio matematico e il modo dell’intervento nel giudizio fisico, dal punto di vista di questa differenza unicamente determinata dalla relazione con cui il soggetto gnoseologico entra con gli oggetti da elaborare – questi oggetti godono di una connotazione nel caso che si pongano come oggetti della matematica, godono di differente connotazione nel caso che si pongano come oggetti della fisica -, sarà possibile pure procedere a una distinta dimostrazione della legittimità gnoseologica delle due classi di giudizi. Dal confronto delle due distinte dimostrazioni scaturisce un carattere che è tipico della dimostrazione della legittimità gnoseologica del giudizio universale e necessario della fisica, ma che è pure destinato a qualificare  la dimostrazione della legittimità gnoseologica dei giudizi matematici, sia perché tale carattere è implicito in quest’ultima dimostrazione particolare sia perché la prima implica in sé la seconda. La deduzione trascendentale – o con termine più accessibile, la dimostrazione della legittimità gnoseologica – dei giudizi della matematica non ha bisogno di concetti che siano estranei e sovraordinati al concetto assunto come ragione sufficiente dell’universalità e necessità dei giudizi stessi. Il motivo per cui  un giudizio matematico gode di universalità e necessità  è determinato dalla struttura dei concetti che compongono il giudizio: la relazionalità spaziale o temporale che caratterizza il concetto del soggetto è, a priori, identica alla relazionalità spaziale o temporale che caratterizza il concetto del predicato. Tale relazionalità è in un certo senso imposta dal pensante alle intuizioni pure, o immagini perfette e non coincidenti con nessun ente fenomenico dato, che verranno poi assunte nel giudizio come concetti; grazie a tale imposizione identica in tutti gli enti conoscenti e strutturata in tutti secondo uno ed un solo modo immutabile, la relazionalità acquista un valore di universalità e necessità che si rifrange nell’universalità e necessità di quel riconoscimento di identità che è la predicazione. Poiché i modi delle relazioni possono essere ricondotti a un certo numero di tipi, grande a piacere  ma pur sempre limitato, alla classe intera dei rapporti concepita come unità vien dato il nome di spazio quando le relazioni godono della nota comune della simultaneità, vien dato il nome di tempo quando le relazioni godono della nota comune della successione. L’identità della nota spaziale o temporale non solo caratterizza le intuizioni pure o concetti matematici, ma può essere affermata  anche di tutti gli enti sensoriali in genere: anche gli enti fenomenici sussistono secondo relazioni spaziali o temporali che possono presentarsi identiche in due gruppi fenomenici costituiti ciascuno da un numero vario di sensazioni – il fenomeno di una successione, ritmata da intervalli uguali o disuguali, di sette lampi, cui tien dietro un’altra successione, pure ritmata da intervalli regolari o irregolari, di cinque lampi, si rivela caratterizzato dalla stessa relazione temporale propria di una successione ritmata di 12 tuoni-. La considerazione della totalità delle possibili relazioni o di simultaneità o di successione, rende noto che nessuna delle due inerisce al fenomenico con gli stessi caratteri della sensorialità propri delle sensazioni in genere che compongono un fenomeno, e che nessuna delle due totalità può essere considerata né un sensibile di essenza uguale agli altri sensibili in quanto non si compone di nessun dato acquisibile coi sensi né un concetto di origine empirica. Il confronto fra tutti i tipi di relazione che compongono la totalità dello spazio e la totalità del tempo in cui rispettivamente si giustappongono o si susseguono le intuizioni pure, e le relazioni che costituiscono la totalità dello spazio e del tempo in cui si verificano le sensazioni, rivela una loro assoluta e perfetta identità. La dimostrazione della universalità e necessità del giudizio matematico ha coinciso con la dimostrazione della sua validità gnoseologica, la quale non ha dovuto appellarsi a un concetto che fosse diverso e sovraordinato a quei concetti di spazio e di tempo di cui ci si è serviti per argomentare la realtà logica del giudizio matematico universale e necessario. Ma il problema si presenta ben altrimenti complicato quando si entra nella classe dei giudizi universali e necessari della fisica.

La dimostrazione che Kant ci della validità gnoseologica dei giudizi universali e necessari della fisica muove da alcune osservazioni sul conoscere in generale, che forniscono alcune nozioni di carattere tanto generale da potersi assumere a principi del ragionamento. Sia data una conoscenza in genere; questa abbia ricevuto, da considerazioni fatte sul reale in genere, condizioni costituenti altrettanti limiti invalicabili, e quindi abbia visto ridotte le proprie possibilità di manovra entro i dati irrefutabili a) che non esistono idee innate, b) che gli unici dati da cui si deve partire da un lato sono le sensazioni  dall’altro l’atto di autocoscienza assieme al quale le sensazioni si pongono e in virtù del quale le sensazioni acquistano la nota di enti  conosciuti, c) che tali sensazioni  sono delle intuizioni ossia delle rappresentazioni immediate dotate del carattere di essere dei conosciuti nei quali è fornito tutto il conoscibile e dai quali nulla di ciò che di essi può essere conosciuto resta escluso, d) che a tali sensazioni corrispondono altri enti dotati dello stesso carattere di autocoscienza e quindi conosciuti al pari delle sensazioni ma differenziantisi da esse in quanto non intuiti non immediati non caratterizzati dalla molteplicità omogenea e inoltre rappresentati senza che si possa dire di essi che tutto il conoscibile è conosciuto e mediati e connotati da un’unità escludente l’omogeneità, e) che essendo due i complessi di conosciuti si deve parlare di due funzioni della conoscenza, la sensibilità e l’intelletto, f) che né nell’una funzione né nell’altra sussiste possibilità di un rapporto reciproco uniforme e costante tra i singoli elementi loro riferibili, g) che non è dato un giudizio universale e necessario se non alla condizione di ammettere un intervento, estraneo al complesso degli enti costituenti la nozione, il quale consista nell’introdurre una relazionalità uniforme e costante, il quale mediante tale inserzione garantisca esistenza al giudizio universale e necessario e il quale esiga la dimostrazione della validità gnoseologica del giudizio; in una siffatta conoscenza anzitutto si deve tener conto di quattro fattori primi la cui esistenza non può essere negata e neppure ridotta ad altri fattori più semplici. Il primo fattore è costituito dalle sensazioni (Empfindung) che saranno oggetti nel senso di reali che di per sé si pongono in ottemperanza al principio di contraddizione, ed oggetti caratterizzati dall’esistenza nel senso di reali che, nell’atto in cui si pongono sotto il principio di contraddizione, la facoltà dotata di autocoscienza, che li pone, si rende conto di non essere intervenuta per nulla nella loro natura essenziale ed irrelata per farne quel che essa è – la terminologia kantiana può essere semplificata dicendo che le sensazioni sono delle rappresentazioni della cui genesi la facoltà che le conosce nulla può dire; il secondo fattore è costituito dai concetti empirici, che non sono degli oggetti in quanto la realtà in nome della quale si pongono in ottemperanza al principio di contraddizione non coincide immediatamente con la loro struttura, bensì è propria di quelle sensazioni, a cui essi debbono essere di conseguenza ricondotti pel fatto che la loro conoscenza si in seguito alla conoscenza delle correlative sensazioni; questi concetti empirici sono dei semplici conosciuti, reali in quanto è reale la rappresentazione sensoriale cui essi corrispondono e reale è l’atto di pensiero che li pensa, ed esistenti, in quanto al pari della sensazione, nell’atto in cui si pongono sotto il principio di contraddizione, alla facoltà autocosciente che li giudica propri, risulta immediatamente che non è dipesa da lei la loro realtà, cioè la loro ottemperanza al principio di contraddizione; essi presentano, inoltre, la caratteristica di essere delle unità nelle quali vien fornita la conoscenza di alcune note che si ripresentano identiche in una molteplicità di sensazioni e mediante le quali può essere pensata con un unico atto consapevole una molteplicità di sensazioni; con termine in parte ricavato da Kant li chiamiamo rappresentazioni sintetiche empiriche. Il terzo fattore è costituito dagli oggetti puri: Kant non usa questa locuzione; designa però gli oggetti che abbiamo chiamato oggetti puri, con circonlocuzioni che attestano la validità della nostra espressione : - «oggetti che essi (concetti) non traggono punto dall’esperienza (… die sie doch aus keine Erfahrung hernehmen.)»; «oggetti che è possibile conoscere solo mediante una rappresentazione (… so ist doch die Vorstellung in Ansehung des Gegenstandes alsdann a priori bestimmend, wenn durch sie allein es möglich ist, etwas als einen Gegenstand zu erkennen.)»; «oggetto in generale la cui intuizione è considerata come determinata rispetto a una delle funzioni logiche di giudizio (… Sie sind Begriffe von einem Gegenstande überhaupt, dadurch dessen Anschauung in Ansehung einer der  logischenFunktionen zu Urteilen als bestimmmt angesehen wird…)» - :  si deve premettere che la definizione e descrizione di questi oggetti puri è quanto di più arduo si presenti nelle pagine della Critica, perché le insormontabili aporie presenti nei presupposti kantiani e il circolo vizioso in cui disperatamente si dibatte sono tali che gli impongono ineluttabilmente una totale mancanza di chiarezza in quei paragrafi13 e 14 – della Logica Trascendentale, in cui al problema della dimostrazione della validità gnoseologica dei giudizi universali e necessari della fisica la sua impostazione, sulla cui base cercare poi una soluzione al problema. Gli oggetti puri sono dei reali in quanto si pongono in ottemperanza con il principio di contraddizione; non sono degli esistenti, se per esistente s’intende un reale della cui realtà la facoltà autocosciente che lo possiede non può affermare di essere alla sua genesi; non sono dei sensibili, se per sensibile s’intende l’oggetto reale ed esistente di una rappresentazione immediata; non sono dei pensati, se per pensato s’intende una rappresentazione sintetica che si ponga con gli altri enti nello stesso rapporto in cui l’uno si pone con il molteplice. Sono dei conosciuti, se per conosciuto s’intende una rappresentazione autocosciente; sono dei conosciuti oggettivi, se per oggetto s’intende una rappresentazione che sia posseduta nella struttura ed essenza da tutte le facoltà autocoscienti che si possono dare e che non possa non essere posseduta e non possa non essere posseduta in modo diverso da quello in cui è posseduta, vale a dire se per oggettivo si intende l’universale e necessario; sono degli individuali, se per individuale s’intende l’ente che non possa essere predicato se non di se stesso. In parole più semplici, l’oggetto puro è il rapporto universale e necessario che deve sussistere tra le sensazioni, onde sia lecito applicare alle sensazioni quel qualsivoglia giudizio universale e necessario che esse di per sé non tollerano. L’oggetto puro quindi, è un reale conosciuto per intuizione ed oggettivo il quale immane nel fenomenico pur essendo da questo eterogeneo e pur non essendo colto in esso con lo stesso determinato atto di intuizione che offre la sensazione. Il quarto fattore, infine, è costituito dai concetti puri o apriori (reine Begriffe a priori): sono le rappresentazioni sintetiche degli oggetti puri; sono dei reali in quanto ottemperanti al principio di contraddizione: sono dei conosciuti in quanto rappresentazioni con autocoscienza; non sono degli esistenti in quanto rappresentazioni sintetiche di molteplici non esistenti; non sono dei sensibili in quanto non oggetti di una rappresentazione immediata. A questi caratteri generali se ne debbono aggiungere altri, particolari, che per Kant hanno un rilevante valore: a) sono «dei determinati anche per l’uso puro apriori (completamente indipendente da ogni esperienza)» (…gibt es einige, die auch zum reinen Gebrauch a priori (vollig unabhängig von aller Erfahrung…) – vale a dire sono degli enti di intelletto definiti la cui connotazione comporta una struttura di universalità e necessità non soltanto in sé, in quanto una qualsiasi rappresentazione sintetica è nella sua essenza universale e necessaria, anche se questa è o è destinata a rimanere indeterminata e indefinita, ma anche rispetto alla loro funzione di generi sotto cui sono sussumibili altri concetti: dunque il concetto puro è un ente pensato, completamente conosciuto in tutte le componenti della sua connotazione, universale e necessario per la sua natura di rappresentazione sintetica, e atto a donare universalità e necessità a tutti i concetti che vengono sussunti sotto di esso; è quindi una rappresentazione sintetica non solo di essenza universale e necessaria, ma anche di funzione universalizzatrice e necessitante, a differenza delle rappresentazioni sintetiche in genere che posseggono essenza ma non funzione di universalità e di necessità; - b) «Tali concetti si riferiscono ciascuno nel suo ambito a priori agli oggetti» (sie beiderseits vollig a priori sich auf Gegenstände beziehen…) – vale a dire, giacché la loro universalità e necessità è non solo un fatto di essenza, ma anche portato di una funzione, se dall’intuizione in generale è dato anche che siano offerti oggetti che sono universali e necessari, ma non si offre mai un oggetto che sia capace di rendere altri universali e necessari, i concetti a priori debbono si, al pari di tutte le rappresentazioni sintetiche, costituire  il simmetrico intellettivo di oggetti intuiti, ma non possono in alcun modo essere tali che di essi si possa dire che senza gli oggetti intuiti essi non avrebbero avuto realtà di rappresentazioni sintetiche, ossia debbono essere tali da non aver diritto alla predicazione di rappresentazioni sintetiche indotte da oggetti corrispondenti intuiti nell’esperienza; - c) di essi si può quindi dire che «si riferiscono ai loro oggetti senza dover mutuare nulla dall’esperienza per la loro rappresentazione» (…sie sich auf ihre Gegenstände beziehen, ohne etwas zu deren Vorstellung aus der Erfahrung entlehnf zu haben…) – vale a dire, qualora nell’esperienza si trovino enti reali che hanno una qualunque connessione con i concetti puri, tale connessione non potrà mai essere considerata un’inferenza dall’esperienza al pensiero; di qui l’apriorità assoluta dei concetti puri, apriorità che non consiste tanto nell’universalità e necessità, di cui godono entro certi limiti anche i concetti empirici, quanto piuttosto nel fatto che la loro presenza nell’intelletto coincide  con la loro esistenza indipendente dall’esperienza e con la loro necessità-universalità assoluta e dotata delle note di originarietà e attività che si rifrangono sul resto della loro connotazione e ne fanno delle funzioni: - d) i concetti puri «parlano di oggetti, non mediante predicati dell’intuizione e della sensibilità, ma del puro pensiero a priori, si riferiscono genericamente agli oggetti, senza alcune delle condizioni della sensibilità» (…weil, da sie von Gegenständen nicht durch Prädikate der Anschauung und der Sinnlichkeit, sondern des reinen Denkens a priori redet, sie sich auf Gegenstände ohne alle Bedingungen der Sinnlichkeit allgemein beziehen…) – vale a dire, in quanto concetti o rappresentazioni sintetiche godranno sempre dell’attitudine a divenir predicati di giudizi, che abbiano, mediatamente o immediatamente, a soggetto un’intuizione sensoriale od oggetto, ma nell’atto in cui assumono la funzione logica di predicato, essi definiscono l’oggetto non già con determinazioni empiriche ma con determinazioni universali e necessarie possedute dall’intelletto anteriormente a qualunque esperienza, e di conseguenza sottraggono l’oggetto alle condizioni in cui l’oggetto è sentito, particolarità relatività contingenza spazialità temporalità, lo assumono spoglio di tutti i caratteri dell’intuizione, compreso quello dell’individualità, per lasciargli l’unica nota della realtà e dell’esistenza che non è se non nota in generale; in parole più semplici, la loro funzione universalizzatrice e necessitante consiste in una sussunzione sotto di sé, ossia in una denotazione, di un oggetto, sussunzione che per il fatto di darsi comporta la determinazione della connotazione dell’oggetto con nuove note nessuna delle quali è fornita dall’intuizione sensoriale e ciascuna delle quali, invece, dona all’oggetto un valore di universalità e necessità che l’oggetto di per sé non avrebbe diritto di avere, ma che può acquistare in quanto le nuove note nell’atto di connotare l’oggetto lo spogliano di tutte le altre, di carattere intuitivo-sensoriale, che entrerebbero in contraddizione con le sovraggiunte; e) gli stessi concetti a priori «poiché sono fondati sull’esperienza, non possono indicare alcun oggetto neppure nell’intuizione pura, oggetto sul quale fondino, prima di ogni esperienza, la loro sintesi» (…die, da sie nicht auf Erfahrung gegründet sind, auch in der Anschauung a priori kein Object vorzeigen können, worauf sie vor aller Erfahrung ihre Synthesis gründeten…) – ossia, i concetti puri sono assolutamente a priori, nel senso che di essi non si nessuna traccia né nell’esperienza fenomenica né in qualsiasi delle conoscenze che si danno sotto quel modo caratteristico della conoscenza per esperienza che è l’intuizione; perciò neppure nell’intuizione pura sarà dato ritrovare un oggetto che loro corrisponda, e quindi neppure il campo geometrico-aritmetico offre elementi che entrino nella costituzione e nella struttura dei concetti puri; ne viene di conseguenza che si debba stabilire una netta distinzione fra due specie di enti puri, quelli spazio-temporali e quelli categoriali, i primi tipici dell’intuizione, i secondi dell’intelletto: entrambi presentano il carattere comune di porsi a priori rispetto agli oggetti che una qualunque conoscenza intuitiva può offrire, ossia di godere di realtà indipendentemente dalla realtà degli oggetti che possono darsi in corrispondenza simmetrica nell’intuizione – e questo per quel carattere di universalità e di necessità che non investe solo la loro essenza, ma anche la loro funzione -; ma tra i due sussiste una differenza: gli enti puri dello spazio e del tempo ritrovano una corrispondenza nella realtà dell’esperienza, in quanto l’esperienza del mondo esterno presenta, come oggetti, quei rapporti spaziali che il concetto di spazio contiene come componenti strutturali, sicché la sussunzione di un qualunque ente intuito in una certa situazione spaziale sotto il concetto di spazio è argomentata dalla nota spaziale che caratterizza l’intuito, e la sussunzione non ha altre funzioni che di universalizzare e necessitare, rendendola essenziale, una nota che in quanto presente in un oggetto intuito, non possiederebbe di per sé i caratteri dell’universalità e necessità; i concetti puri intellettivi, invece, non trovando riscontro in nessun oggetto dato dell’esperienza, o sotto forma di intuizione fenomenica o sotto forma di intuizione pura, acquistano senz’altro quel carattere di apriorità, per il quale c’è stato bisogno di una particolare dimostrazione nella Estetica Trascendentale nei confronti dello spazio e del tempo, ma non appena usati nella loro funzione di enti universalizzanti e necessitanti, nella loro funzione trascendentale, per poter sussumere sotto di sé un oggetto, debbono spogliare tale oggetto di tutti i caratteri dell’intuizione, tranne quelli della realtà e dell’esistenza, e debbono predicar loro attributi che nessuna esperienza può offrire; poiché di tale loro prerogativa, la funzione del sussumere, si valgono anche nei confronti degli oggetti non fenomenici, ma intuiti mediante  intuizioni pure, nei riguardi cioè di enti matematici, non solo non offrono in nessuna parte del reale al eccezione del puro pensiero logico nessun motivo sufficiente per la loro applicazione, ma estendono questa loro deficienza anche allo stesso spazio e tempo, ponendo anche per questi la necessità di una dimostrazione di validità gnoseologica; - f) i concetti puri intellettuali «non ci presentano affatto le condizioni, sotto le quali gli oggetti vengono dati nell’intuizione» (…Die Kategorien des Verstandes dagegen stellen uns gar nicht die Bedingungen vor, unter denen Gegenstände in der Anschauung gegeben werden…) – vale a dire, a differenza dello spazio e del tempo, nelle cui rappresentazioni sono riprodotti tutti i tipi possibili di relazioni di successione o di simultaneità che ritroviamo nel’esperienza fenomenica, e che rappresentano le condizioni formali sotto le quali può darsi un’esperienza fenomenica, i concetti puri intellettivi sono connotati da note relazionali  che non compaiono affatto nell’esperienza, cosicché nell’esperienza vengono offerti alla conoscenza degli oggetti, «senza che si riferiscano necessariamente a funzioni dell’intelletto e questo pertanto contenga le condizioni di essi a priori»; - g) i concetti a priori sono condizioni per le quali solamente è possibile «che qualcosa, anche se non intuito, venga tuttavia pensato come oggetto in generale» (… Nun frägt es sich, ob nicht auch Begriffe a priori vorausgehen, als Bedingungen, unter denen allein etwas, wenngleich nicht angeschaut, dennoch, als Gegenstand überhaupt gedacht wird …) – vale a dire i concetti puri possono concepirsi reali solo alla condizione che la loro funzione di elaboratori di un dato non intuito, cioè di un dato spogliato di tutti i caratteri che ne fanno un oggetto di intuizione, sia tale da non poter essere negata, pena la conseguenza che nessun dato, sia pure non intuito, possa essere concepito come reale ed esistente cioè come oggetto: in parole più semplici, si potrà parlare della realtà dei concetti puri, quando negata tale realtà, gli oggetti dell’esperienza, sia pure dotati di tutti gli attributi propri dell’intuizione, appaiano spogli di altri caratteri che non provengono dall’intuizione ma senza i quali nessun dato può porsi come oggetto di esperienza, cosicché i concetti puri debbono essere concepiti «come condizioni a priori della possibilità dell’esperienza». Con un termine che ci serva di abbreviazione e di definizione chiamiamo i concetti puri rappresentazioni sintetiche funzionali, ossia rappresentazioni che nell’atto di riferirsi a un oggetto, cioè di predicarlo ossia di sussumerlo sotto di sé, lo spogliano di tutte le proprietà intuitive che ne fanno un’individualità distinta e inconfondibile con le altre, lo privano di tutte le possibili determinazioni intuitive,e , quindi, lo genericizzano, non però al fine di trasformarlo in un concetto e di renderlo ente semplicemente pensabile, bensì col fine e col risultato di renderlo oggetto atto a divenir soggetto di uno dei dodici tipi di giudizio; in tal modo quella conoscenza dell’oggetto, che si era vista privata di tutte le caratteristiche intuitive, si arricchisce di tutta una serie di nuove caratteristiche, che la determinano relativamente a una delle dodici possibili predicazioni e, sotto questo punto di vista, la differenziano da tutte le altre possibili intuizioni e da tutte le altre possibili situazioni in cui essa stessa può darsi. La rappresentazione sintetico-funzionale dell’intelletto rende quindi l’oggetto atto a essere pensato, così come la rappresentazione sintetica funzionale dell’intuizione rende l’oggetto atto ad essere intuito: questo intende dire Kant con la definizione data della categoria: un concetto «di un oggetto in generale, onde l’intuizione di esso è considerata come determinata rispetto a una delle funzioni logiche del giudicare».

Dopo che i quattro elementi del conoscere, sensazioni oggetti puri rappresentazioni sintetiche empiriche rappresentazioni sintetiche funzionali, sono stati ricavati per analisi dal campo della conoscenza, definiti e descritti, Kant procede all’esame della conoscenza per vedere di impostare il problema che qui sorge della realtà e della validità gnoseologica delle rappresentazioni sintetiche funzionali e delle loro conseguenze. Se chiamiamo esperienza il complesso delle sensazioni, quest’esperienza offre non solo sensazioni, ma anche oggetti puri ossia strutture formalitralascio la distinzione fra oggetti puri dell’intuizione e oggetti puri dell’intelletto, su cui Kant tanto insiste, ma che è affetta da tali contraddizioni chiaramente palesi nel testo kantiano, che la sua introduzione in questa che vuol essere un’esplicazione del pensiero kantiano  non mi consentirebbe di evitare la contraddizione -; a tale complesso ordinato di sensazioni e di oggetti puri l’intelletto contrappone il complesso delle sue rappresentazioni sintetiche empiriche e delle sue rappresentazioni sintetiche funzionali. Riducendo l’estensione delle rappresentazioni sintetiche empiriche ai semplici concetti di dato sensorialeconcetto di rosso, di salato, d’acuto, ecc. - , si deve dire che la dimostrazione della validità gnoseologica di essi si limita al semplice riconoscimento della loro esistenza e della loro genesi dalla riflessione sui dati d’esperienza; non si fa qui la questione della legittimità degli universali e della facoltà astrattrice, in quanto l’universalità e necessità del conoscere non sta più nella conoscenza dell’essenza di una cosa, ma solo nella conoscenza dei rapporti universali e necessari tra le cose. Ma quando si passa alle rappresentazioni sintetiche funzionali non solo non si può limitare la dimostrazione della loro validità gnoseologica al fatto della loro esistenza e della loro genesi dalla riflessione, ma non è neppure lecito procedere a una siffatta dimostrazione. In primo luogo, infatti, anche ammessa una corrispondenza con i loro oggetti d’esperienza, l’origine della rappresentazione sintetica funzionale dall’esperienza comporterebbe l’universalità e necessità propria dei concetti empirici, non l’universalità e necessità propria dei concetti puri: il concetto di rosso è un universale e necessario nel senso che stabilisce che tutti i colori intuiti che sono sussumibili sotto di esso presentino il carattere sensoriale generico del rosso e solo perché presentano carattere tale siano sussumibili sotto di esso: l’universalità e necessità del concetto empirico è l’universalità e necessità della classificazione che si fin che si danno oggetti da classificare e che cessa nell’istante in cui gli oggetti non si danno più; ma l’universalità e necessità di una rappresentazione sintetica funzionale investe non solo l’oggetto ma i suoi rapporti con uno o altri oggetti, in modo tale che, posto il primo, si daranno sempre i secondi, e non si potranno non dare i secondi, e i secondi si daranno sempre con quelle certe qualità e quelle certe quantità che presentavano nel momento della predicazione, e viceversa; quindi anche se la rappresentazione sintetica funzionale trova la sua corrispondenza  in un oggetto dell’esperienza, non si può dire che sia stata inferita da esso, in quanto questo gli avrebbe fornito l’universalità e necessità dell’essenza, non l’universalità e necessità del rapporto – le intuizioni di tre corde, disposte a triangolo, rispettivamente di lunghezza 3-4-5 forniscono l’universalità e necessità dell’essenza della figura, cioè di un triangolo con lati 3-4-5, ma non forniscono affatto l’universalità e necessità del rapporto «triangolo di lati 3-4-5  = triangolo rettangolo»-. Poiché la rappresentazione sintetica funzionale riguarda non già un dato singolo ma un rapporto fra dati, tale rapporto è offerto sì dall’esperienza presente ma non coi caratteri dell’universalità e necessità, e quindi non può essere considerato sorgente del concetto puro.

In secondo luogo, la rappresentazione sintetica funzionale ha un compito nell’intelletto che è diverso da quello delle rappresentazioni sintetiche empiriche; queste si limitano a porsi come le unità statiche e immutabili a cui deve riportarsi un qualsiasi dato di esperienza che verifichi in se stesso le note che entrano nella comprensione del concetto empirico; sono dunque  dei punti di riferimento e di raccolta che l’intelletto possiede per classificare i dati di esperienza; la loro è quindi una funzione di comodo che si fin che si danno i dati sussumibili - ad esempio, una mente di un paleolitico doveva avere il concetto empirico di odore dell’orso delle caverne e tale concetto è rimasto nella mente umana  finché sono stati intuiti tali odori; poi, con la scomparsa dell’intuizione degli odori, è scomparso anche il concetto relativo - ; ma la rappresentazione sintetica funzionale non è un semplice punto di riferimento per una classificazione, è un’unità che, non appena sussume sotto di sé un dato intuito, tosto esige che il nostro intelletto concepisca come universalmente e necessariamente  collegato a quel dato uno o più dati che col primo entrano in una relazione di identità funzionale – sempre in riferimento all’esempio dato, l’odore dell’orso delle caverne era necessariamente  e universalmente collegato con una serie di visioni terrificanti, in modo tale che la presenza del primo comportava sempre e per tutti e non poteva non comportare la serie visiva -; ora, nessun rapporto che cogliamo come oggetto in un’esperienza è tale da presentare fra i suoi termini un’identità funzionale siffatta; tutt’al più la realtà dell’esperienza offre un complesso di relazioni che riproduce la stessa gamma delle possibili relazioni universali e necessarie che l’intelletto può pensare, ma tale complesso è in sé un insieme di relazioni che sono sempre particolari e contingenti. In terzo luogo, fra la rappresentazione sintetica empirica e la rappresentazione sintetica funzionale passa questa fondamentale differenza, che la prima sussume sotto di sé i dati dell’esperienza, lasciando loro, come fondamentali, i caratteri che li rendono oggetti di intuizione sensoriale, mentre la seconda sussume sotto di sé i dati dell’esperienza solo per porli in un rapporto reciproco che deve prescindere se non da tutti, almeno da quei caratteri che costituiscono le note essenziali di un’esperienza sensoriale; la prima quindi ha tutti i diritti di appellarsi all’esperienza, mentre la seconda invece ha il diritto di affermare di darsi in completa indipendenza da qualsiasi intuizione. Infine, mentre la rappresentazione sintetica empirica è tale che col suo porsi nulla aggiunge alla realtà  dell’esperienza intuitiva in quanto si limita semplicemente a fissare quello che nell’esperienza stessa si – cioè una relativa identità fra i vari oggetti dell’esperienza, identità che permette di trattarli come uno solo -, mentre quindi la rappresentazione sintetica empirica può essere considerata come la conoscenza isolata di un aspetto che è realmente presente nell’esperienza ed è quindi tale che il pensarla assente non toglierebbe nulla all’esperienza e alla conoscenza che può aversi dell’esperienza, la rappresentazione sintetica funzionale aggiunge in realtà qualcosa all’esperienza o meglio alla conoscenza che si ha dell’esperienza in quanto introduce nei rapporti, sotto cui cogliamo gli oggetti nell’atto di intuizione, una nota di universalità e di necessità che essi non posseggono: l’esperienza, con ciò riceve dall’esperienza  della rappresentazione sintetica funzionale un arricchimento di cui andrebbe spoglia, se quest’ultima rappresentazione non esistesse, con la conseguenza che il pensare mancante la rappresentazione sintetica funzionale significherebbe ammettere un depauperamento dell’esperienza e della conoscenza dell’esperienza; tutto ciò comporta che dall’esperienza non possa venir tratto quel di più che l’intelletto presenta quando si come pensiero dell’esperienza, quel di più che deve essere un apriori. Dalle quattro osservazioni che sono state apportate come motivi dell’impossibilità di argomentare la ragion d’essere dei concetti apriori dall’esperienza, potrebbe derivare un’accusa alle rappresentazioni sintetiche funzionali, quella di essere  delle semplici fantasime del pensiero prive  di qualunque oggettività, dei modi di conoscere del tutto relativi al soggetto che nei confronti dell’oggetto non hanno alcuna validità gnoseologica, strumenti soggettivi di cui ci serviamo senza alcun diritto di uso e quindi senza alcuna utilità pratica e reale. È il dilemma in cui il pensiero si dibatte: se le rappresentazioni sintetiche funzionali vengono assunte come atti di pensiero che mutuano la loro realtà  dalla realtà dell’esperienza – a parte il fatto che tale inferenza è infondata in quanto dedotte dall’esperienza mutuerebbero dall’esperienza  i caratteri fondamentali dell’esperienza in genere, vale a dire la particolarità e contingenza, nei riguardi proprio di quella loro funzionalità che dovrebbe essere universale e necessaria - , si corre il rischio di farne degli universali e necessari in sé, e, perciò, di utilizzarli anche dove l’esperienza non offre presa per un loro uso. In altre parole, come dalla realtà delle intuizioni empiriche risaliamo alla realtà dei concetti corrispondenti e della realtà di questi ci serviamo per inferirne la realtà di intuizioni empiriche possibili – se qualcuno  mi parla del sapore dei nidi di rondine cinesi, che mai ho assaggiato, e cita come punto di riferimento un concetto di sapore a me noto, dichiaro reale  tale sapore che mai ho intuito -, così, pretendendo di risalire dall’universalità e necessità di rapporti oggettivi assunti come dati reali di esperienza, alla realtà delle rappresentazioni sintetiche funzionali, è sempre dato argomentare una loro universale applicazione anche dove la sussunzione è fatta rispetto a un solo dato privo di un rapporto con altro dato intuitivamente conosciuto; se faccio del rapporto causale un ente da me appreso dalla realtà dell’esperienza, dovrò universalizzarlo ed estenderlo a tutti quegli aspetti dell’esperienza che, anche senza presentare empiricamente la completa relazionalità causale, presentano un momento o aspetto solo della relazionalità, e mi renderò così possibile, ad esempio, di pensare che, poiché è universalmente reale nell’esperienza che, dovunque vi sia una modificazione di un ente, tale modificazione si dia in rapporto con un altro ente diverso e distinto dal primo, a fianco della mia entità di reale conoscente modificatosi secondo le sensazioni si dia un’altra entità di un reale che non si identifica con le sensazioni che sono modificazioni di un me diverso e distinto, ma che sussiste al di e al di fuori delle sensazioni. Se, invece, sia per evitare questo pericolo sia per rimanere ottemperante all’impossibilità di un’inferenza delle rappresentazioni sintetiche funzionali da corrispondenti oggetti dell’esperienza, nego l’esistenza di tali oggetti, mi precludo la possibilità di concepire una relazione universale e necessaria di identità che dovrebbe essere presente nell’esperienza, senza tuttavia che l’intelletto riesca a coglierla, e, con ciò, mi pongo nella necessità di affermare che tale relazione di identità, che l’intelletto non può ritrovare nei suoi concetti tutti derivati dall’esperienza, deve  ritrovarsi nell’esperienza, ma con tutti i caratteri di questa, con la particolarità la contingenza e soprattutto la relatività ossia soggettività che viene da me scambiata per oggettività in virtù di una ripetizione. Prima ancora quindi di formulare nella sua completezza il problema  è necessario dimostrare l’oggettività delle rappresentazioni sintetiche funzionali, dimostrazione che non cade affatto in contraddizione con l’asserita ininferibilità dei concetti puri da oggetti di esperienza. Se, infatti, si fa distinzione tra oggetto sensoriale e oggetto puro, e se per oggetto sensoriale si intende un reale esistente e per oggetto puro un reale conosciuto, l’esperienza consta degli uni e degli altri; poiché i reali esistenti si danno nell’esperienza solo in connessione coi reali conosciuti e non possono darsi  reali esistenti  nell’esperienza senza la presenza di reali conosciuti, i reali conosciuti, che non presentano in alcun modo una genesi identica a quella dei reali esistenti, debbono necessariamente avere altra genesi che non può essere  che la funzione gnoseologica stessa che coglie il reale esistente sotto forma di intuizione o di concetto empirico. Ma la funzione gnoseologica non può dar luogo a reali conosciuti, se non grazie all’attività delle rappresentazioni sintetiche funzionali; perciò, se nell’esperienza si danno dei reali conosciuti, cioè degli oggetti puri, i quali debbono la loro reale presenza nell’esperienza alla reale presenza dei concetti puri nella facoltà del conoscere, ne viene non solo che le rappresentazioni sintetiche funzionali sono delle realtà che in alcun modo possono essere dedotte dagli oggetti di esperienza corrispondenti, ma che sono delle realtà oggettive che ricavano prova  della loro oggettività di pensati dall’oggettività dei conosciuti nell’esperienza: fuori della terminologia kantiana, con parole più semplici, se l’esperienza che abbiamo è costituita da sensazioni e da rapporti tra sensazioni, poiché la sensazione e il rapporto si rivelano dotati di essenze totalmente eterogenee in quanto le sensazioni sono in correlazione con modificazioni di organi sensoriali, mentre per i rapporti tra le sensazioni non esiste alcun organo sensoriale apposito alla cui modificazione corrisponda una loro conoscenza, tali rapporti dovranno considerarsi di natura puramente soggettiva ed essere ricondotti a certe funzioni relazionali possedute dal soggetto gnoseologico, funzioni che non potranno certo essere effetti dei loro effetti, ma dovranno essere cause dei loro effetti, sicché l’oggettività o reale presenza nell’esperienza di questi è argomento dell’oggettività o reale intervento nell’esperienza di quelle - interviene la consueta aporia che dalla funzione necessaria e universale derivi un rapporto particolare e contingente -. Dimostrata quindi l’oggettività o realtà della rappresentazione sintetica funzionale, il problema può essere posto  in tutta la sua chiarezza: le rappresentazioni sintetiche funzionali sono delle realtà dell’intelletto, realtà in quanto non solo sono presenti nell’intelletto e nelle funzioni giudicatrici di questo, ma corrispondono anche ad oggetti dell’esperienza; è evidente che tali rappresentazioni sintetiche funzionali non possono essere inferite dai loro oggetti, in quanto questi sono particolari e contingenti mentre esse sono universali e necessarie; ora quale diritto hanno esse di erigere quei rapporti particolari e contingenti ad enti universali e necessari e, quindi, quale valore gnoseologico hanno, in quanto il loro uso comporta una predicazione o relazione di identità universale e necessaria tra i concetti sotto cui sono stati sussunti quegli oggetti il cui rapporto empirico era soltanto particolare e contingente?

Se la presenza delle rappresentazioni sintetiche funzionali nelle facoltà della conoscenza è quella che consente l’universalità e necessità del rapporto di distinti e diversi, si tratterà di indagare in che cosa consista questa relazione universale e necessaria; abbiamo relazione universale e necessaria quando si un giudizio universale e necessario ossia una predicazione universale e necessaria di un concetto ad un concetto distinto e diverso; tale predicazione consiste sempre in un’identificazione parziale; quindi alla base di una relazione universale e necessaria sta l’atto di un’analisi che ritrova come connotante un concetto una nota la quale, estratta dal concetto e concepita a sé, potrà sempre essere identificata con il tutto di cui si come costitutiva. Ma se l’analisi è stata compiuta  sul concetto, questo doveva essere tale da presentare in unione sintetica una molteplicità di note, riducibile almeno a due, vale a dire all’essenza che rende il concetto distinguibile da tutti gli altri e alla determinazione di questa essenza, determinazione atta ad essere concepita di per sé e ad essere identificata con l’unione sintetica di cui fa parte; ora, un’unione sintetica o è data dall’esperienza come oggetto reale ed esistente, e in questo caso la realtà gnoseologica non fa che assumerla, o non è data dall’esperienza, e allora, poiché l’unione è data come reale nella facoltà gnoseologica la quale, appunto per la sua realtà, può procedere per analisi su di essa, non può essere costituita che dalla facoltà gnoseologica stessa. Essendo noi certi che l’esperienza di per sé non offre che il molteplice, questa certezza ci rende insieme sicuri che dovunque vi sia sintesi vi è un intervento della facoltà gnoseologica che la possiede. E poiché l’analisi che luogo alla relazione universale e necessaria e al giudizio universale e necessario richiede un’unione sintetica, l’atto sintetico della facoltà gnoseologica deve precedere qualunque atto analitico. D’altra parte, il fatto che noi parliamo di unione sintetica di un concetto comporta che nel concetto noi non avvertiamo affatto un’unità, bensì che nel concetto noi avvertiamo un’unificazione, vale a dire la sintesi di un molteplice. Ma se per poter pensare un’entità come un’unificazione è necessario che siano presenti al pensiero i concetti di molteplice e di sintesi del molteplice, non è possibile che il pensiero concepisca una sintesi in generale del molteplice e quindi un’unificazione, se contemporaneamente non gli è presente la nozione di unità. Noi possiamo parlare di un’unificazione, quando identifichiamo un molteplice con un’unità di una sintesi che investe il molteplice e gli dona l’aspetto di un’unità. Il concetto di unità che costituisce il predicato dell’unificazione sintetica di un molteplice non è inferito per analisi dal concetto generico di unificazione, ma è posseduto di per sé dal pensiero come una nozione che nessuna unificazione può dare, se non in quanto un’unificazione è un’unità particolare, l’unità che nasce dalla sintesi di un molteplice. Sul piano logico quindi fra unità e unificazione passa un particolare rapporto di genere a specie, quello che si in quanto un’unificazione è sempre una forma di unità, ma non passa il rapporto di genere a specie che nasce dall’astrazione; l’unificazione mai avrebbe potuto fornire il concetto di unità perché non è già analizzando una sintesi che vi si ritrova come carattere essenziale suo e di tutte le sintesi, l’unità: l’analisi, che è scomposizione, non potrebbe mai fornire il suo contraddittorio che è l’indecomponibile; ma muovendo dall’analisi di tutte le unità è dato ritrovare la distinzione delle unità che sono indecomponibili perché semplici, e delle unità che sono decomponibili perché composte e costituite di molteplici vincolati da rapporti che ne fanno un uno. Quindi il rapporto di genere a specie che sopra si è inserito tra i concetti di unità e di unificazione è un rapporto non di genesi induttiva, ma di natura deduttiva. Tutti i possibili tipi di giudizi universali e necessari sono delle analisi consentite da una sintesi a priori, sia rispetto all’esperienza che rispetto allo stesso atto analitico; l’atto sintetico che con la sua universalità e necessità dona universalità e necessità all’analisi, e quindi alla predicazione, è di tanti tipi quanti sono i giudizi; dunque nessuno dei concetti puri o categorie che con il loro intervento sintetizzatore fondano un’unificazione, può considerarsi sorgente della nozione di unità: nessuna delle categorie interviene nella connotazione dell’unità in genere. Tale unità, allora, sarà un concetto non di natura empirica in quanto non può essere inferito da nessuno dei concetti e delle operazioni che l’intelletto compie sulla base dell’esperienza, ma non sarà neppure una rappresentazione sintetica funzionale complanare alle altre categorie in quanto è presupposta da tutte le categorie e dagli stessi giudizi matematici, che, al dire di Kant, avrebbero a loro fondamento rappresentazioni sintetiche funzionali diverse dalle categorie. Sarà una rappresentazione non solo sintetica in quanto se essa rende possibile la nozione dell’indecomponibile esistenziale assoluto, rende possibile anche la nozione di un indecomponibile esistenziale sintetico e quindi analizzabile, ma per di più funzionale, giacché, se è una sintesi di tipo categoriale che consente l’unificazione e se l’unificazione è un’unità, sarà una sintesi genericissima quella che consente tutte le sintesi di tipo categoriale che sono unificazioni. E se l’intelletto nel suo uso logico e trascendentale s’identifica con le categorie e se le categorie hanno a loro fondamento l’unità, il principio dell’intelletto è l’unità.

Poiché l’indagine sul valore gnoseologico delle rappresentazioni sintetiche funzionali, ossia del giudizio universale e necessario, ha rivelato che alla base dell’analisi, cui ogni giudizio di tal fatta si riduce, sta una sintesi, la quale mai avrebbe potuto aver luogo senza l’intervento di una rappresentazione sintetica funzionale che costituisse in generale  l’unità come reale del pensiero, unità alla cui costituzione mirano i vari tipi di rapportazione del molteplice in sintesi, l’indagine dovrà risalire alla natura di questa rappresentazione sintetica funzionale che è principio di tutte le altre.

Fra tutte le rappresentazioni che si danno nelle due facoltà dell’intuizione e dell’intelletto, ve n’è una comune ad entrambe e che si differenzia essenzialmente da ogni rappresentazione che può darsi per l’intuizione o per l’intelletto: questa rappresentazione che è l’autocoscienza ha i seguenti caratteri: a) si unisce a tutte le rappresentazioni come nota determinante della loro essenza di rappresentazioni, come sta a dimostrare il fatto che non si nessuna rappresentazione che non sia autocosciente; b) ha la stessa natura delle sensazioni intuitive, in quanto è un dato immediato della conoscenza che precede quella qualsivoglia elaborazione dell’intuizione in cui consiste il pensiero, ma si differenzia essenzialmente da qualunque altra intuizione perché, mentre le intuizioni debbono ricevere sempre almeno quella determinazione estranea alla loro essenza che è l’autocoscienza, l’autocoscienza non può essere determinata da nessun altro fatto del conoscere; c) riceve la definizione della sua funzione non già dal fatto generico di accompagnarsi a qualsiasi atto del conoscere, bensì dal fatto di permanere identica nella determinazione di qualunque conoscenza e di rendere, con ciò, tutte le conoscenze atte ad essere riportate a lei come ad un’unica intuizione, l’intuizione autocosciente, la quale si erige come il loro termine di possesso comune; d) come punto di universale riferimento, l’autocoscienza si pone come l’unità sintetica per eccellenza di un qualsiasi molteplice, unità in quanto come atto costantemente identico di rappresentazione non identificantesi con nessuna unificazione particolare, non ha bisogno di nessun particolare rapporto per sussistere, ma si pone di per sé come un uno che permanentemente rimane fisso e immutabile, unità sintetica perché il suo darsi comporta il riferimento del molteplice in generale alla sua unità e quindi l’unificarsi in generale del molteplice in generale; e) se la sua natura unitaria si manifesta nel fatto che le unità gnoseologiche comportano quel particolare senso di identità con un sé, che non si identifica con questa o quella delle due facoltà, ma con la sintesi di entrambe e che non si identifica con nessuna delle rappresentazioni particolari sebbene le accompagni tutte, la sua natura sintetica si manifesta nel fatto che un qualsiasi dato gnoseologico di cui l’autocoscienza prenda possesso acquista il carattere di autoconsapevolezza solo in quanto viene unificato o vien ritenuto atto ad unificarsi in una molteplicità sintetica in generale; f) la sua natura di unità che si manifesta nella sintesi unificatrice in genere del molteplice è la condizione del senso di identità che permanentemente ne accompagna la rappresentazione – solo ciò che è uno e semplice, siano pure la sua unità e semplicità puramente funzionali, è al tempo stesso identico. Quindi la rappresentazione sintetica funzionale dell’unità coincide con l’autocoscienza o rappresentazione di unità e di identità, a cui le due funzioni gnoseologiche si rifanno non già come a rappresentazione di un oggetto, bensì come a rappresentazione di un’unità generica e indifferenziata; quest’attività riconduce alla propria unità il molteplice delle sensazioni intuite e il molteplice dei concetti e ciò facendo li unifica in una sintesi in generale, consentendo in tal modo alle due funzioni gnoseologiche di sussistere e di sussistere in quei modi secondo cui ciascuna si pone, e in quei rapporti con cui l’una si allaccia all’altra, e insieme donando a quella molteplicità di intuizioni concetti e facoltà, in cui finora l’essere si era frazionato, un’unificazione generale e generica che fa della loro dispersione la sintesi di un solo oggetto cui corrisponde un solo concetto, il concetto di soggetto, identificantesi col concetto di conoscente o di pensante. Tale autocoscienza sarà un apriori, in quanto non coincide con nessuno degli enti sensibili che entrano nell’esperienza, e con nessuno dei rapporti universali e necessari che articolano l’intelletto e si rifrangono nell’esperienza; ma sarà pure una rappresentazione sintetica in quanto coinvolge in sé, nella propria unità, la molteplicità delle intuizioni e dei concetti, e funzionale, in quanto la sua realtà è stata già dimostrata dal fatto che la serie di unificazioni particolari la presuppongono come loro principio; la sua universalità e necessità è provata dalla sua apriorità.

Un molteplice non può esistere in una rappresentazione intuitiva senza assoggettarsi all’unificazione generale dell’unità sintetica dell’autocoscienza; quest’unificazione si pone solo come principio di quelle particolari unificazioni che sono le condizioni formali dell’intuire e del pensare – il principio non essendo distinguibile, se non solo logicamente, dal condizionato, cioè dal molteplice sensoriale che per essere conosciuto deve unificarsi in genere nell’unità, tale unità  il molteplice sensoriale non potrà conseguire se non assoggettandosi alle unificazioni dello spazio e del tempo prima, delle categorie poi. Essendo le condizioni generali di una conoscenza un molteplice intuito e la sua unificazione nell’unità di un’autocoscienza, e non attuandosi mai siffatta unificazione in sé, ma solo nelle unità particolari proprie dell’intuizione e dell’intelletto, le condizioni reali del conoscere staranno nel molteplice e nella sua unificazione per lo spazio, pel tempo e per le categorie. I molteplici sensibili, ricondotti all’unità dell’autocoscienza, si ordinano nelle unificazioni quei rapporti spazio-temporali e nelle unificazioni  dei rapporti concettuali: in tal modo nasce l’esperienza, che è ordine di relazioni spaziali tra sensazioni esterne, ordine di relazioni temporali tra sensazioni interne, ed ordine di rapporti oggettivi, o traducibili in concetto, tra intuizioni. Tali ordini sono delle unità per sintesi, cui hanno piena rispondenza quelle unità per predicazione che sono i giudizi universali e necessari; le une e le altre sgorgano dalla duplice azione unificatrice esplicata dai concetti puri sulle sensazioni e sui concetti, azione che è necessaria in quanto costituisce l’attuazione della condizione generale di unità cui un molteplice deve assoggettarsi per penetrare nella conoscenza; perciò, resta provato: a) che i concetti puri hanno completo diritto ad esercitare la loro influenza sui concetti empirici in quanto contemporaneamente esercitano un intervento sulle sensazioni che costituiscono la molteplicità elementare dell’esperienza; b) che tale diritto essi esercitano sia perché non fanno che applicare quel loro intimo principio che è l’unità dell’autocoscienza sia perché, in virtù di tale applicazione, essi danno luogo da un lato a dei rapporti tra sensazioni che costituiscono l’unità nell’esperienza, dall’altro a dei rapporti tra concetti che costituiscono l’unità nella conoscenza, rapporti che sono degli oggetti nell’esperienza, dei concetti nella conoscenza, e che si pongono in perfetta corrispondenza reciproca; c) che, quindi, sussiste una perfetta corrispondenza tra la struttura oggettiva o relazioni oggettive dell’esperienza e i rapporti di predicazione dei giudizi universali e necessari. Il che è appunto quanto si voleva dimostrare.



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