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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
nella dottrina kantiana della conoscenza
Da quanto si è detto nel capitolo precedente viene come conseguenza che si deve riprendere l’esame del concetto di trascendentale quale si dà in Kant, sia nella forma del principio della trascendentalità che nella forma di trascendentale condizionato. I trascendentali danno realtà logica al giudizio universale e necessario, ma non gli danno alcuna realtà né gnoseologica né ontologica; il che appunto conferma quel che già si è detto, costituire la catena dei trascendentali una serie ordinata per sovraordinazioni di ragioni sufficienti di un dato problematico e quindi extralogico, serie la cui presenza comporta un procedimento per problematicità; questi trascendentali non solo non forniscono realtà gnoseologica ed ontologica al giudizio universale e necessario, ma attendono di ritrarla da esso, secondo quell’interscambio di attributi tra il possibile e le sue ragioni che è appunto la legge di tutti i procedimenti problematici; quindi una loro verifica nel reale e nel gnoseologico comporta sempre, come presupposto, una realtà del giudizio universale e necessario, che, in tal modo dal punto di vista della validità nell’essere e nel conoscere, invece di porsi come un ente-conclusione di una dimostrazione si pone a principio della dimostrazione. Ma a parte questa difficoltà su cui ritornerò, ammettendo la realtà ontologica e gnoseologica del giudizio universale e necessario, l’erigere a sue ragioni i trascendentali trae seco strani effetti: ci dev’essere una zona di reale, la cui realtà non ha alcuna ragione di essere e quindi che non può essere argomentata né con ragioni logiche necessariamente distinte né con ragioni logiche non necessariamente distinte, una zona di reale che non è né logicizzabile né reale; questa parte di realtà s’identifica con le sensazioni le quali sono delle semplici affezioni di una recettività, cioè di una modificabilità, l’esistenza delle quali è quindi condizionata dall’esistenza di un recettivo, di un modificabile; ora questo modificabile è lecito, nella concezione kantiana, identificarlo o con un’altra sensazione particolare o con un complesso di sensazioni o con la totalità delle sensazioni o con un rapporto come oggetto o con un trascendentale o col complesso dei trascendentali o con una sensazione interna o col complesso delle sensazioni interne o con la rappresentazione dell’autocoscienza. Non può essere una sensazione particolare perché, a parte il fatto che ogni sensazione è un particolare contingente relativo mentre la relazione fra modificazione e recettività deve essere un assoluto un permanente un uniforme, di nessuna sensazione può dirsi altro se non che è un modo della - 118 -recezione, e quindi è impossibile che un effetto di una funzione possa identificarsi con la funzione stessa; se ciò vale per una sensazione in genere, varrà per tutte le sensazioni sia interne che esterne sia prese nel loro complesso che nella loro distinta individualità; nulla quindi di ciò che è sensazione può porsi come recettività; il rapporto, d’altra parte, è una funzione attiva o meglio un modo o effetto di una funzione attiva e quindi non può identificarsi né con un effetto di una funzione passiva né tanto meno con la funzione passiva stessa; ciò che si dice di un rapporto particolare varrà per gli stessi motivi per il complesso di tutti i rapporti possibili e inoltre, a maggior ragione, per quei principi dei rapporti che sono i trascendentali; le sensazioni quindi non sono dei reali, e questo lo aveva detto anche Kant, ma non sono dei reali nel senso più generale del termine, non sono cioè degli esistenti sotto nessuna forma, né quella di fenomeno perché non si dà la loro recettività né quella di sogni perché non si dà nessuna passività in generale; d’altro canto, quella parte di reale che si affianca alla zona delle sensazioni, una volta che non solo non si riesca a dimostrare una realtà delle sensazioni, ma si sfoci addirittura nella prova della loro impossibilità, perde anch’essa ogni ragione di essere e quindi al pari della prima e a maggior ragione, non può essere né argomentata con alcuna delle due ragioni logiche, non essendo né logicizzabile né reale; un mondo i cui elementi siano stati ridotti a sensazioni e che, nonostante ciò, voglia considerarsi come oggetto di una scienza, deve necessariamente offrire dei rapporti che possano essere tradotti in predicazioni necessarie e universali; ma un rapporto non sussiste in sé e per sé e non ha il diritto di appellarsi a nessuna ragione che lo renda logico e reale, se non sono logici e reali gli elementi che entrano nel rapporto; parlare di un’identità di un’identificazione funzionale di un’antecedenza necessaria, ecc., senza identici senza identificabili senza antecedenti, è un dire nulla; dimostrata l’insussistenza delle sensazioni, ne viene che neanche i rapporti hanno ragione di esistere, né come delle abitudini né come degli illusori né come degli universali e necessari; non solo non è intelligibile parlare di un loro modo di essere, ma non si può non affermare la loro inesistenza; il trascendentale diviene una parola senza senso perché, tolti i rapporti, viene meno il loro principio; ma non si ha il diritto neppure di parlare di un esistere di una conoscenza in generale, e quindi si dovrebbe dare l’assurdo di un conosciuto senza una funzione del conoscere: se infatti riduciamo le funzioni gnoseologiche alle due dell’intuire e del pensare, la prima non si dà senza recettività, la seconda senza la riflessione sui dati della recettività; ora, a parte il fatto che è stata appunto l’impossibilità di argomentare una recettività che ha tolto realtà sia alla recettività che ai suoi dati, a parte quindi il fatto che per assenza dei loro effetti debbono considerarsi assenti anche le cause, le due funzioni gnoseologiche debbono considerarsi dei dati generici intuiti o pensati, appresi cioè come modificazioni della recettività o come concetti, o in se stesse o attraverso i prodotti della loro - 119 -attività i quali fan tutt’uno con esse; ma perché ciò possa darsi è anche necessaria una recettività e, poiché questa non si dà, non solo le due funzioni non esistono, ma non esiste neppure una funzione generale del conoscere; quindi si dà un conosciuto senza il conoscere. Neppure il senso dell’autocoscienza può esistere in quanto non si dà una sua ragione: è vero che la rappresentazione dell’autocoscienza non è che un «sintomo» secondario che accompagna ogni dato gnoseologico come manifestazione della suprema funzione trascendentale, ma è altrettanto vero che questa funzione trascendentale si riduce al principio inesistente di un’inesistente identificazione funzionale universale e necessaria la cui inesistenza è dovuta all’inesistenza dei fattori che possono entrare in un qualsiasi rapporto, ed è altrettanto vero che tale senso di autocoscienza è un impossibile, in quanto non può darsi senza accompagnarsi ad ogni sensazione come indice del carattere condizionato della sensazione di essere un elemento di un molteplice che per essere conosciuto dev’essere ridotto ad un’unità in genere; ma la sensazione è un impossibile, un impossibile la sua molteplicità, un impossibile la sua unità; se quindi è impossibile la sensazione, la sua impossibilità si trasferirà sull’elemento che essa condiziona. In una parola, l’impensabilità e l’indimostrabilità della funzione del ricevere porta a che non possa esistere nulla né sotto forma di reale né sotto forma di fenomeno né sotto forma di sogno: Kant ha voluto trarre le estreme conseguenze dell’empirismo e quindi ha vanificato il pensante, ma vanificando il conoscente ha vanificato tutto. Ma se un ragionamento porta a che nulla esista in nessun modo, mi dev’essere pure lecito dire che il principio da cui discende questo totale e assoluto nulla dev’essere fondamentalmente errato e affetto da contraddizione perché contraddittorie sono le sue conseguenze; infatti può darsi benissimo che questo foglio bianco, su cui la penna stretta dalla mia mano mossa dai miei muscoli traccia questi segni neri, sia un risibile sogno e un’apparenza, dietro i quali nulla per me si cela in quanto non ho il diritto di andare oltre il limite dell’onirica o fenomenica loro natura, ma che non ci siamo neppure per sogno o per fenomeno questo è contraddittorio. Quindi se la contraddizione delle conseguenze va ricercata nella contraddizione del principio, poiché il principio è la natura puramente trascendentale del conoscente, questo dev’essere inficiato di contraddizione, e la contraddizione deve stare nel fatto che il conoscente è trattato da Kant come un puro principio logico immanente nel giudizio universale e necessario, ed è da lui, al tempo stesso e sotto il medesimo punto di vista delle funzioni da attribuirsi ad esso in quanto soggetto di conoscenza, necessariamente e implicitamente concepito come una ragione logica necessariamente distinta dal suo condizionato, con tutte le conseguenze che questa concezione comporta.
Per intendere la contraddizione insista nella nozione del soggetto come supremo principio trascendentale, si deve riprendere in esame questa funzione e spingerne il più a fondo possibile l’indagine. Per Kant il principio dei trascendentali non differisce in nessuna nota dalla connotazione
- 120 -di un trascendentale in genere, e quindi neppure da quei trascendentali che si pongono come condizioni delle cognizioni sintetiche a priori o giudizi universali e necessari, e che ritraggono la condizione della loro funzione dall’appercezione originaria. In entrambi i casi si tratta di principi o mediati o immediati la cui conoscenza consente la conoscenza della logicità o possibilità dei giudizi universali e necessari, o, per dirla con terminologia non kantiana, la cui nozione si pone come ragione logica diretta o indiretta della necessità logica del giudizio universale e necessario. Tra la natura e funzione dell’appercezione originaria e la natura e funzione delle particolari rappresentazioni sintetiche funzionali non dovrebbe sussistere alcuna differenza, se non di grado, non essendo il soggetto trascendentale se non il principio ultimo immanente nei trascendentali spazio-temporali e categoriali, a loro volta immanenti nel giudizio universale e necessario: la distinzione, operata nel campo logico e determinante una processione di sovraordinati per genericità, per cui dalla pluralità dei dati, giudizi universali e necessari, si risale al concetto del dato, giudizio universale e necessario in genere, donde poi si passa come ad astratto generico e condizionante alla nozione di predicazione per identità attuata per una analisi presupponente una sintesi e condizionata dall’intervento di quelle particolari funzioni identificatrici e unificatrici che sono le rappresentazioni sintetiche e funzionali, per porre capo alla nozione di un’unità che è la condizione suprema da cui muove una qualunque unificazione, è quindi una distinzione che analizza e separa dei dati facendone non già dei distinti eterogenei, ma dei distinti logici, differenziati non per natura, ma per estensione e genericità. Se questa fosse la reale analisi logica che, muovendo dai dati particolari, i giudizi universali e necessari, ne induce le condizioni comuni ed erige tali condizioni a semplici ragioni logiche che fondano unicamente la necessità logica dei dati, si dovrebbero verificare nella sovraordinazione gerarchica dei concetti – concetti di giudizi universali e necessari determinati → concetto di giudizio universale e necessario in genere → concetto di rappresentazione sintetica funzionale → concetto di trascendentale conoscente – dei particolari caratteri e attributi che in realtà mancanoxviii. Per tale mancanza resta acquisito che il soggetto o conoscente puro trascendentale kantiano, se per certi aspetti è un semplice immanente nei rapporti oggettivi o pensati, per altri aspetti è un assoluto. Anzi può dirsi che l’assolutezza prevale. Sì che la condizione prima del giudizio universale e necessario è l’esserci di un soggetto o conoscente attivo il quale non è riducibile a semplice unità funzionale, anche se le sue tracce le ritroviamo solo nell’esplicazione di tale sua funzione; il soggetto o conoscente kantiano è un reale noumenico e non fenomenico. Di più non possiamo dire. Da tutto ciò deriva che la ragione prima del procedimento problematico che dà pensabilità logica al giudizio universale e necessario è l’esistenza problematica di un essere che conosce e conoscendo elabora attivamente dando luogo a dei rapporti, non ponendosi esso stesso come rapporto anche se la sua - 121 -esistenza si manifesta a noi come quella di un rapporto in forza dei rapporti che esso pone a condizioni e forme del suo conoscere: un ente di realtà assoluta che, conoscendo un molteplice attraverso la di lui sottomissione a certe relazioni, lo accoglie nella propria conoscenza, si pone certo come l’unità generica del molteplice conosciuto, ma non per questo è esclusivamente unità unificante; tra l’ente assoluto conoscente e l’unità generica attuata per i trascendentali passa lo stesso rapporto che lega questo uomo all’umanità da lui travasata nel blocco di marmo attraverso le forme particolari emanate dalla sua stessa umanità.
D’altra parte, se consideriamo la deduzione trascendentale una soluzione data sia al problema della validità gnoseologica delle rappresentazioni sintetiche funzionali, soluzione ottenuta con l’argomentazione di un loro necessario intervento non solo nel campo del conoscere, ma anche nel campo del reale, sia al problema dell’esistenza di un giudizio universale e necessario, soluzione ottenuta con il procedimento per possibilità che pone capo all’attività del soggetto conoscente come all’ultima insuperabile ragione problematica, le aporie che si ritrovano nella prima soluzione sono tali e tante, che si può affermare che l’unica validità logica che il ragionamento della deduzione trascendentale conserva è quella della seconda soluzione.
Se per aporia intendiamo una spiegazione del reale o di una parte del reale la quale dia una descrizione o incompleta o incongruente o artificiale di quella realtà o aspetto di realtà indagati, l’aporia viene assunta come un fatto attivo cui la mente stessa ha dato vita, non come un dato di fatto che la mente ha dovuto accettare e subire: in questa sua natura, l’aporia è destinata a sfociare in errori logici, in quanto quel momento dell’oggetto indagato la cui trascuranza o il cui travisamento o la cui predicazione contraddittoria costituisce il nucleo dell’aporia, non potrà venire introdotto nella sua reale completezza e natura entro il quadro dell’intera teoria, se non per deduzione da un principio suo e questo non potrà porsi suo principio se non per riferimento al momento stesso che in sé è assente dalla teoria. La prima aporia che la dottrina kantiana pone è quella della soggettività o individualità empirica. Il soggetto individuale empirico, inteso come quel particolare ente che conosce e sente e vuole e vive in una maniera sua propria che è differente da tutte le altre maniere che son proprie degli altri enti omogenei, non trova sistemazione nella interpretazione che Kant ci dà del reale: nella teoria della conoscenza di Kant non c’è posto per la persona. Accettate l’assolutezza del soggetto o conoscente puro e la inferibilità da tale assolutezza della trascendentalità del soggetto o conoscente puro, l’unità in generale e le sintesi rappresentative funzionali divengono modi del soggetto puro; ma anche i fenomeni o le intuizioni sensoriali, in quanto modificazioni della recettività, divengono affezioni di un modo, la recettività, che quantunque eterogeneo del [dal] modo fondamentale dell’attività con cui si pone il soggetto assoluto, dev’essere considerato proprio del soggetto assoluto. Con nessun diritto può porsi allora il soggetto - 122 -particolare o individuo empirico: i suoi sentimenti i suoi moti le sue affezioni le sue passioni non sono dei reali, né come oggetti in quanto sono dati della recettività, e quindi fenomeni, né come affezioni della recettività in quanto come affezioni della recettività sono modi del soggetto in generale. Quel fondo primo, dunque, per cui possiamo parlare di una distinzione fra uomini, viene meno e si riduce a complessi di dati che appartengono non all’uomo particolare, ma all’umanità in generale. Per ciò che riguarda la differenza di tutte le sensazioni – proprio per questa differenza nessuna sensazione che si dia negli stessi rapporti spaziali e temporali, si pone a un uomo nello stesso modo in cui si pone a un altro -, anche tale differenza in nome della quale parliamo di una particolarità delle sensazioni, non è sufficiente ad assicurare reale esistenza a questo o a quello o all’altro degli uomini: ogni sensazione, infatti, appartiene alla recettività ed è un modo della recettività, e la recettività appartiene alla soggettività in generale, sicché, invece di una molteplicità di individui aventi una molteplicità di sensazioni ricondotte a identici rapporti spaziali e temporali, si dovrà piuttosto parlare di un solo ente che, nell’atto in cui pone uno stesso rapporto spaziale e temporale, è in grado di inserirvi una gamma indefinita di molteplici distinti, ed è allo stesso tempo capace di oltrepassare tale molteplicità distinta, di farla sua in forza dell’identico rapporto che tutte le avvince e sintetizza; d’altra parte, anche se si danno sotto rapporti spaziali e temporali diversi, le sensazioni in generale non sono sufficienti a fondare l’individualità dell’uomo-persona: infatti le sensazioni che possono essere date in una molteplicità unificata da un rapporto spaziale alla quale la determinazione da parte di certi modi della simultaneità assicuri differenza dall’identico molteplice diversamente unificato da rapporti spaziali determinati secondo un differente modo della simultaneità, o che possono darsi in un rapporto temporale differente da un altro rapporto temporale per i medesimi motivi, non sono che affezioni di una stessa e sola e identica recettività in generale, così come la diversità di rapporti non è che diversa maniera di sistemare le affezioni da parte di una stessa e sola e identica recettività in generale, così come la diversità di rapporti non è che diversa maniera di sistemare le affezioni da parte di una stessa e sola e identica attività e forma funzionale in generale. Poiché, dunque, le sensazioni che, a prescindere dalla loro particolarità, si danno in tempi e luoghi diversi, non si danno in virtù di una differenza spaziale e cronologica investente la coscienza, ma sono dei particolari riconducibili a due generali da cui l’individualità è estranea, non si potrà parlare di una pluralità di soggetti che conosce il mondo da una pluralità di punti di vista diversi e di istanti diversi, ma si dovrà parlare di un solo ed unico soggetto, che elabora le modificazioni della sua recettività secondo rapporti spazio-temporali che non permangono costanti e che si giustappongono, nella loro differenza, l’uno a lato dell’altro, senza connessioni reciproche, o meglio secondo ordini discreti ma di un’equipollenza tale che il conoscente generico, dalla recettività modificata secondo tutti quegli ordini, o dall’uno di essi può trasferirsi in uno qualunque degli altri oppure può viverli tutti in un solo istante - 123 -quasi indefinito numero di sogni simultaneamente sognati da un solo sognantexix. Che se poi si pensa che la realtà dell’individuo empirico è figlia della molteplicità degli individui pensanti e conoscenti e questa molteplicità è a sua volta figlia di un’oggettività dello spazio e del tempo, la trascendentalità spazio-temporale, negando come suo contraddittorio la oggettività dello spazio e del tempo, negherà insieme quelle che dell’oggettività sono conseguenze. Dunque, non solo la sintesi dei molteplici fenomenici non è persona, ma, ammesso che lo sia, tale persona non può determinare né spazio né tempo, ma si deve servire dello spazio e del tempo come di enti a lei estranei. Il necessario riferimento di una relazione spazio-temporale determinata allo spazio e al tempo in genere, comporta il riferimento di tutte le relazioni spazio-temporali determinate, e quindi di tutto il reale fenomenico al soggetto in generale, e la conseguente eliminazione dei soggetti individuali. Infine, poiché appare evidente che la sussistenza di un soggetto particolare non può essere argomentata da nessuna relazione generale, universale e necessaria, l’ultimo fattore che potrebbe addurre prove a favore dell’esistenza di un soggetto individuale e personale, non può essere che l’autocoscienza. Anzitutto, dobbiamo negare, assieme a Kant, che la rappresentazione dell’identità del senso di possesso del conosciuto sia prova dell’esistenza di un soggetto personale: l’autocoscienza è una rappresentazione che accompagna sempre identica tutte le altre, per quanto eterogenee queste siano l’una dall’altra; ora, è impossibile che la rappresentazione dell’autocoscienza sia una determinazione che accompagna i differenti stati di coscienza in quanto entità diverse e inconfondibili l’una con l’altra, non tanto perché, come dice Kant, in un caso simile si verrebbe ad avere una soggettività costruita a mosaico, bensì perché un’identità non può mai porsi come un determinato da parte di una differenza. Se l’autocoscienza può essere definita come il senso che accompagna ogni stato di coscienza in quanto tale, senso che consiste nel permanere di un’identità – al permanere diamo il nome di io o soggetto -, tale identità permanente non può essere, per natura e non solo per l’assurdità dei suoi effetti, una determinazione propria dei singoli stati; d’altra parte, è impossibile identificare la soggettività col senso dell’autocoscienza; infatti, una rappresentazione che si ripete sempre identica tante volte quanti sono i contenuti di coscienza che si danno, o fa conoscere un oggetto e in questo caso è conoscenza di un oggetto che permane identico o non fa conoscere alcun oggetto e allora deve considerarsi o come manifestazione di un oggetto che permane identico e quindi si rivela sempre in identico modo, o come ente autonomo da qualunque oggetto, come quello che si riduce a una funzione relazionale a priori, il cui possesso determina la presenza dei corrispondenti oggetti del reale nell’esperienza – sono questi tutti i possibili rapporti che si danno tra una rappresentazione e un oggetto: ad esempio, a) la rappresentazione rosso, che se è intuizione di un rosso che permane identico, dovrà essere considerata per ciò che riguarda la sua identità con se stessa, conoscenza di un oggetto - 124 -immediato che si dia sempre identico; b) la rappresentazione dell’universale e necessario, che in quanto definibile sempre nello stesso modo deve considerarsi permanente nella sua costante identità non perché sia conoscenza di un oggetto ma perché deve concepirsi come manifestazione di certi oggetti, nel nostro caso, tra l’altro, i rapporti spaziali quali sono intesi da Kant, i quali pur nella loro diversità essenziale si pongono come oggetti la cui esistenza dà come effetto, nel campo del conoscere, rappresentazioni le cui note comuni sono l’universalità e la necessità; c) infine la rappresentazione di causa, che non può essere, stando ad una interpretazione trascendentale, conoscenza a posteriori di un oggetto qualsiasi, e l’identità che l’accompagna e che si sottende a qualunque rapporto causale particolare e determinato, identità che non può concepirsi se non come indice del permanere di una costante funzione relazionale; sono questi e soltanto questi i possibili modi che intercorrono tra una rappresentazione e un oggetto, da qualunque punto di vista la relazione venga considerata -. Ora, la rappresentazione dell’autocoscienza, che si è dimostrato non potersi identificare con una nota propria e assolutamente intrinseca ad uno stato di coscienza, non potrà avere a suo oggetto l’oggetto delle singole rappresentazioni cui si accompagna, dovendosi di conseguenza dare un oggetto particolare che entri in relazione con l’autocoscienza: tale oggetto non sarà un oggetto conosciuto mediante la rappresentazione stessa dell’autocoscienza perché in tal caso riusciremmo a definire l’autocoscienza in termini ben più precisi di quelli di un permanere identico, e potremmo parlare dell’oggetto, la cui rappresentazione è l’autocoscienza, in termini ben meno vaghi di quelli con cui, finché ci limitiamo a quella sua manifestazione che è l’autocoscienza, siamo costretti a definirlo, e che si riducono alla semplice permanenza o sussistenza e all’identità. Inoltre, se l’autocoscienza fosse la rappresentazione o conoscenza di un oggetto, essa fruirebbe di strane prerogative, di cui nessuna rappresentazione che sia conoscenza di un oggetto gode, e precisamente quella di non potersi mai dar da sola ma solo in connessione necessaria con un’altra rappresentazione qualsiasi e quella di accompagnarsi a qualsiasi genere di rappresentazione siano esse di tipo o intuitivo o concettuale o discorsivo. Non esiste quindi un oggetto che sia conosciuto mediante l’autocoscienza, e l’autocoscienza non è conoscenza di nessun oggetto. Non resta allora che sia o manifestazione di un oggetto che permane identico o rappresentazione di una funzione relazionale apriori; ma se fosse manifestazione di un oggetto che permane identico, tale oggetto dovrebbe darsi identico per tutte le rappresentazioni che ad esso sono connesse; ma le rappresentazioni dell’autocoscienza sono uguali per tutte le coscienze individuali – ne è prova il fatto che nessuna individualità personale può definire i sentimenti di autocoscienza che essa prova se non con i termini o di un permanere identico o di un possesso costantemente identico, o con concetti analoghi -; allora, l’oggetto di cui le singole coscienze dovrebbero essere manifestazione relativamente alla rappresentazione - 125 -dell’autocoscienza, dovrebbe essere uno e identico per tutte; dovrebbe, in altre parole, darsi una sola soggettività per tutte dal momento che solo la soggettività, cioè un oggetto che è tale da conoscere sé come esistente nell’atto in cui esiste, può considerarsi oggetto la cui manifestazione sia una rappresentazione di autocoscienza. Ora, da un punto di vista kantiano, un tale oggetto dovrebbe essere un noumeno e quindi non esistere ossia esser tale che il conoscente non abbia diritto di parlare né di una sua nozione né quindi di una sua esistenza. La rappresentazione allora dell’autocoscienza non può essere che una rappresentazione sintetica funzionale. È questa la strada che Kant ha seguito nella sua indagine volta alla ricerca della dimostrazione della validità gnoseologica dei giudizi universali e necessari. A questo punto, a parte le contraddizioni interne ad un tale concetto, al concetto cioè di una rappresentazione sintetica funzionale che sia suprema condizione del conoscere senza porsi al tempo stesso come unico assoluto – della contraddizione è controprova il fatto che la rappresentazione sintetica funzionale non è concepita senz’altro come identificantesi con la rappresentazione sintetica della funzionalità del soggetto in genere, bensì in un rapporto con questa che è di un manifestato alla sua manifestazione -, non si capisce in chi e in che cosa la rappresentazione funzionale suprema riesca a suscitare quella manifestazione particolare che è il senso dell’autocoscienza, dal momento che non la può suscitare in sé perché un rapporto che riesca a farsi sentire a se stesso come rapporto o è un semplice rapporto e allora c’è da chiedersi come faccia a divenire recettivo, o è un conoscente e allora è un attivo assoluto che manifesta la sua attività come rapporto; si deve concludere che, se l’autocoscienza è o identificazione o manifestazione di una relazionalità sia pure funzionale, l’autocoscienza non potrà costituirsi ad argomento di un soggetto che sia individualizzato in persone, particolari molteplici e distinte, potrà tutt’al più identificarsi o considerarsi manifestazione di una soggettività individualizzata in persona, una identica assoluta, che è la conclusione a cui giunge anche una argomentazione che, senza muovere dall’interpretazione trascendentale della coscienza, voglia valersi dell’autocoscienza come termine primo per l’inferenza di una soggettività qualsiasi. Se, allora, neppure l’autocoscienza può fondare i soggetti come persone molteplici e distinte, non solo in una dottrina di tipo kantiano ma in una qualsiasi indagine di stampo trascendentale – come dimostra la metafisica di Schopenhauer – si deve concludere che nessuno degli elementi o principi cui le interpretazioni s’appellano come a loro fondamenti, sono sufficienti a stabilire la realtà delle molteplici coscienze individuali empiriche o per dirla in breve la realtà della molteplicità di quei pensieri e coscienze che chiamiamo uominixx. Guardiamo ora le conseguenze di questa aporia.
Da essa deriva il primo errore logico in cui la dimostrazione kantiana della validità gnoseologica del giudizio universale e necessario cade, quando venga ridotta a semplice dimostrazione della presenza nella realtà dell’esperienza di rapporti universali e necessari, di cui i giudizi non - 126 -sono che i corrispondenti simmetrici gnoseologici.
Come vedremo, tale circolo vizioso non si estende all’altro aspetto implicito nella dimostrazione, quello cioè di porsi come completamento definitivo del procedimento problematico adottato nei confronti del giudizio universale e necessario. Un soggetto empirico la cui esperienza valga unicamente per lui, nel senso che si costituisce come centro gnoseologico di una sintesi di intuizioni sensoriali nella quale non è dato ritrovare alcun elemento, sia esso oggetto o rapporto, che si presenti identico nelle sintesi fenomeniche degli altri molteplici centri gnoseologici, si dà necessariamente e non può non darsi per Kant: la sua esistenza, infatti, comporta la necessità di concepire il giudizio universale e necessario come un semplice possibile e non come un reale. Se infatti il giudizio universale e necessario si desse di per sé come un reale, dovrebbero esistere delle conoscenze prive del carattere di esperienza e quindi apriori, e costituite di rapporti sussistenti tra enti in sé e non tra fenomeni; ma una conoscenza siffatta non sarebbe propria di un soggetto che intuisce sensazioni, ma di un soggetto che intuisce intelligibili; ora, i soggetti che intuiscono sensazioni non possono che pensare classi di sensazioni, e la relazionalità tra classi di sensazioni non può mai essere universale e necessaria in quanto i termini del rapporto, cioè le sensazioni, nulla di universale e necessario contengono in sé: la relazionalità che essi ineriscono nei concetti empirici non può essere che una relazionalità relativa, valida cioè per chi la pone pensandola, non per ciò che l’accoglie nell’atto in cui è pensato. Un soggetto che intuisce sensazioni e pensa classi di sensazioni correlate da rapporti di predicazione relativi, non può essere che un soggetto che si pone come particolare e non universale e che pone sé come particolare, solo alla condizione di riconoscersi individualità distinta da altre individualità della sua stessa natura; solo alla condizione di riconoscersi particolare il soggetto può dubitare della propria capacità di porre una scienza, e solo alla condizione di ammettere reali altri soggetti identici a sé il soggetto può giudicarsi particolare. La condizione prima quindi del problema della possibilità della scienza è l’esistenza di una molteplicità di soggetti individuali la cui conoscenza è relativa: se il soggetto non si riconoscesse individuale e insieme moltiplicato e moltiplicabile, il soggetto non potrebbe fare distinzione fra particolare e universale, fra giudizio percettivo e giudizio di esperienza. Ma la dimostrazione che il giudizio universale e necessario è non un possibile ma un reale, è argomentata dall’esistenza di un soggetto assoluto o, se si vuole ignorare la contraddizione implicita nel concetto di appercezione originaria trascendentale, dall’esistenza di una rappresentazione sintetica suprema da cui sgorgano conoscenze universali e necessarie; la presenza di siffatto trascendentale comporta la negazione e l’inesistenza di un soggetto empirico, cioè della condizione prima per la quale è stato possibile porre il trascendentale stesso. Di qui la palese contraddizione: la conoscenza universale e necessaria che si dà in un soggetto empirico è una conoscenza universale e necessaria che può darsi solo alla condizione - 127 -che non esista un soggetto empirico; poiché una conoscenza universale e necessaria è determinata dalla realtà della sua condizione, e questa è la conoscenza universale e necessaria di un soggetto trascendentale e non empirico, si deve concludere che la conoscenza universale e necessaria di un soggetto empirico è la conoscenza universale e necessaria di un soggetto non empirico. La contraddizione che ci offre questa posizione, dopo la riduzione ai suoi termini logici, si manifesta in tutta la sua evidenza quando è guardata nelle sue conseguenze: se ammettiamo l’intervento in una molteplicità fenomenica di un fattore relazionale che richiede la riduzione ad unità del molteplice – tralasciamo i problemi gnoseologici che insorgono in seguito a tale concezione e dei quali già si è parlato – ed ottiene tale riduzione mediante un certo numero di relazionalità universali e necessarie, non è lecito ammettere nessun’altra relazionalità oltre a queste ultime; ma queste ultime sono tutte universali e necessarie; quindi non dovrebbe né porsi il problema del giudizio universale e necessario nella sua generica possibilità, in quanto tutti i giudizi dovrebbero risultare universali e necessari, né darsi, per lo stesso motivo, la possibilità e la realtà di un giudizio percettivo valido in uno spazio e in un tempo determinati e non in tutti i tempi e spazi possibili; tanto meno dovrebbe porsi la questione del noumeno in quanto un concetto di noumeno può porsi solo in una coscienza che abbia il concetto di fenomeno, e questo può darsi solo per una coscienza che avverta di conoscere le proprie modificazioni non come delle realtà assolute ma come realtà relative; e una conoscenza siffatta dovrebbe argomentare la realtà relativa delle sensazioni dalla loro particolarità la quale è riconoscibile solo in quanto le sensazioni entrino in un rapporto che non sia universale e necessario e che per il principio della percezione originaria trascendentale è impossibile. Il fatto che Kant ponga il giudizio universale e necessario come un possibile, il fatto che ammetta giudizi particolari e contingenti, il fatto che stabilisca la fondamentale questione del noumeno, comportano che egli debba inserire nella sua interpretazione del conoscere un soggetto individuale particolare ed empirico, ed insieme che la struttura da lui assegnata al conoscere escluda da sé siffatto soggetto; Kant quindi da un lato attribuisce esistenza alla soggettività individuale, dall’altro gliela nega, e precisamente non appena tenta di risolvere il problema della possibilità del giudizio universale e necessario con l’argomento della trascendentalità, non appena contrappone al giudizio percettivo il giudizio di esperienza, non appena introduce il concetto di noumeno se non altro come concetto limitexxi.
Ma proprio per ciò che si riferisce alle ragioni trascendentali in genere si pone una ultima e più grave aporia. Ammesso un loro effettivo intervento nel campo del conoscere, si hanno delle strane conseguenze: il conoscere viene ricondotto a tre tipi o classi generalissime: in primo luogo, il giudizio percettivo che è la rappresentazione particolare e contingente che il soggetto conoscente effettua secondo una relazione della - 128 -cui relatività e quindi assenza di universalità e necessità è completamente consapevole: tale giudizio si riduce alla istituzione di un rapporto tra concetti nelle cui note non sussiste nessun fattore di identità essenziale e che quindi non possono essere identificabili per analisi; in secondo luogo, il sillogismo che è una rappresentazione di concetti in sé universale e necessaria, in quanto due dei concetti contengono un aspetto o nota di identità che comporta la loro necessaria identificazione, ma che nulla ci dice della necessità e universalità dell’identificazione operata nella premessa maggiore e quindi nulla ci garantisce circa la validità della predicazione della conclusione; infine il giudizio universale e necessarioxxii.
Una volta ridotto il campo del conoscere alle tre forme del sillogismo del giudizio particolare e del giudizio universale, si deve concludere che il soggetto nel suo aspetto gnoseologico viene spezzato in due parti, che sono irrimediabilmente disgiunte e che con il loro scisma determinano un dualismo insanabile nella conoscenza del soggetto e quindi nel soggetto stesso. Il conoscere è fondamentalmente sillogismo perché se conoscere significava rapportare, la rapportazione ultima si dà sempre nella forma del sillogismo. Ma il conoscere si dà nel duplice risultato di un giudizio che è valido solo per il soggetto e di un giudizio che è valido per tutti i soggetti; perciò si dovrà parlare di una conoscenza soggettiva o particolare e contingente e di una conoscenza oggettiva o universale e necessaria. Ora, a parte il fatto che una sola delle due conoscenze, quella universale e necessaria, ha la sua ragione mentre l’altra è un dato di fatto privo di ragione, nelle due conoscenze non si dà alcun elemento che permetta di trascorrere dall’una all’altra: non può essere infatti il soggetto empirico a costituire il principio unico di entrambe in quanto esso fonda solo i giudizi percettivi; non può essere il soggetto trascendentale il principio unico di entrambi in quanto esso si pone a principio solo dei giudizi di esperienza; non può essere l’esperienza stessa in quanto questa è solamente la sorgente dei giudizi d’esperienza, elaborata com’è dalle rappresentazioni sintetiche funzionali. Neppure il fatto che entrambi i giudizi siano forme del conoscere e come tali rivelino come comune essenza una rapportazione di concetti e si pongano necessariamente come fattori di un sillogismo, può costituire l’anello di saldatura della loro eterogeneità, in quanto tale fatto può tutt’al più costituire la nota generica racchiudente in sé la possibilità della nota specifica dell’universalità e necessità e pertanto, in virtù del fatto che la conoscenza è rapportazione in quanto è sintesi, può porsi solamente come genere della specie dei giudizi d’esperienza, ma non può porsi come genere della specie dei giudizi percettivi. Questi, infatti, non ritrovano la genericità necessaria nel conoscere come sintesi, il quale essendo di per sé universale e necessario, come quello che esige che i molteplici sintetizzati siano ricondotti a un’unità che è una uniforme e costante, non tollera la determinazione della particolarità e della contingenza. Nessun fattore comune lega quindi il giudizio particolare col giudizio universale se non la nota dell’autocoscienza e del riferimento a un soggetto conoscente. Ma è appunto - 129 -questo riferimento che introduce nel soggetto conoscente lo scisma dualistico che incide sulla conoscenza. La conoscenza del soggetto e il soggetto conoscente risultano insanabilmente scissi e scissi in modo tale che nessun fattore, presente nel giudizio percettivo, consente al pensiero di passare da questo al giudizio universale, giacché il giudizio universale non trova affatto le sue radici in un rapporto già dato, sia pure particolarmente e contingentemente, bensì nell’atto creativo di un rapporto universale e necessario; e conseguentemente nessun fattore, presente nel giudizio d’esperienza, consente al pensiero di ritrovare in questo alcun legame con il giudizio percettivo, perché il rapporto universale e necessario, una volta creato e introdotto sia come relazione di identità fra due concetti sia come relazione oggettiva fra due reali, non può più venir cancellato. Già nel campo della soggettività gnoseologica si ritrova sotto aspetto affine quel dualismo che si ripresenterà nel campo morale, per cui il soggetto individuale da un lato è condizionato nel conoscere e nell’agire, dall’altro è incondizionato e libero nella cognizione e nell’azione, con l’unica differenza che nel campo morale il condizionamento è correlativo della particolarità e l’incondizionatezza dell’universalità, mentre nel campo gnoseologico il condizionamento è in rapporto diretto con l’universalità e l’incondizionatezza con la particolarità. Ma il dualismo non investe solo il conoscere, investe anche l’esperienza o realtà stessa: infatti, il giudizio d’esperienza è valido gnoseologicamente in quanto il trascendentale che lo pone condiziona al tempo stesso i sensibili secondo certi rapporti che godono della stessa universalità e necessità della predicazione del giudizio e che sono l’oggetto a priori del giudizio; ma anche il giudizio percettivo deve avere un suo oggetto, cioè un suo rapporto nell’esperienza, perché quando il soggetto conoscente predica un concetto di un altro, privando al tempo stesso la predicazione delle note di universalità e necessità, intende pur sempre che il suo giudizio particolare e contingente non sia per lui una vana e fallace immaginazione, ma sia espressione di una relazione che egli ritrova nell’esperienza, sia pure in una esperienza che non è di tutti ma soltanto sua, e che non è neppure tale da conservarsi inalterata al suo stesso cospetto – quando dico che «lo zucchero è dolce», e , affermando la dolcezza dello zucchero non pretendo affatto né che la predicazione sia valida per tutti né che sia valida sempre per me, non per questo dichiaro che, nella mia esperienza attuale, questa zolletta di zucchero, oltre a tutte le qualità visive olfattive tattili sonore che vi ritrovo, non possegga anche quella gustativa che chiamo dolcezza -. Ê logico quindi che se nell’esperienza posso ritrovare due forme di relazioni oggettive, anche l’esperienza sarà preda di un dualismo che è in fondo l’antico dualismo di sensibile e di intelligibile in cui Kant dopo tanto aggirarsi è andato anch’egli a finire: perché, si badi bene, quel suo giudizio universale e necessario è tale non solo perché l’identità predicato-soggetto logico è garantita dalla azione della rappresentazione sintetica funzionale, ma anche perché quest’ultima è in grado di esplicare un’elaborazione delle sensazioni che - 130 -rende le sensazioni stesse atte ad essere sussunte sotto i due concetti universalmente e necessariamente relazionati, vale a dire è in grado di instaurare fra le sensazioni rapporti oggettivi, o universale e necessari, di cui la predicazione del giudizio universale e necessario è la rappresentazione simmetrica; e d’altra parte quel suo giudizio percettivo è tale non solo perché il soggetto avverte che l’identità predicato-soggetto logico è relativa a lui e non a tutti, ma anche perché il soggetto ritrova nelle sue sensazioni quel rapporto oggettivo, almeno per lui, di cui il rapporto di predicazione è la rappresentazione simmetrica. Sicché quella determinazione dell’«oggettivo» che Kant ha voluto darci per distinguere in una concezione empiristica il relativo dall’assoluto, finisce per essere annullata dal fatto che le oggettività ritornano ad essere due, quella per me, quella in sé. Si dirà che tutto il ragionamento vale per i giudizi categorici, ma non per gli ipotetici; si dirà che quando si predica un concetto di un altro secondo un’identificazione particolare e contingente ci si limita a stabilire un rapporto di accidente-sostanza cui si nega qualunque forma di assolutezza, e che quindi un’assenza di assolutezza comporta necessariamente l’esclusione da tale situazione del rapporto di causalità: si dirà cioè che al giudizio di esperienza «l’uomo è mortale» potrà sempre corrispondere il giudizio percettivo «lo zucchero è dolce», mentre al giudizio d’esperienza «se il sole batte sulla pietra, la pietra si riscalda» non potrà mai corrispondere un concetto mutuato da un giudizio percettivo, se non alla condizione che venga eliso il rapporto causale e al rapporto causale venga sostituito un rapporto di semplice successione non costante e non uniforme del tipo «quando il sole batte sulla pietra, la pietra si scalda» - fra i due giudizi sussiste la stessa relazione che passa, in modo più evidente, fra i due giudizi: «se il batacchio colpisce la porta, questa rimbomba» «quando il batacchio colpisce la porta, tu vai ad aprire» -; ma se è vero che il giudizio particolare esclude da sé l’esplicita espressione di causalità, non è però vero che non ne racchiuda una implicita, in quanto anche il rapporto di sostanza e di inerenza non cessa di essere, in fondo, un rapporto causale – l’individuo che non mette lo zucchero nel caffè perché per lui il caffè amaro è gustoso e che non pretende per questo che gli altri facciano come lui, muove certo da un giudizio percettivo categorico «il caffè amaro è gustoso», ma introduce nel giudizio stesso il rapporto causale che sia l’amarezza del caffè a suscitare il gusto, tant’è vero che non la elide con lo zucchero onde impedire la scomparsa dell’effetto attraverso la negazione della causa. L’accettazione dei due giudizi comporta quindi un dualismo che dal modo del conoscere si ripercuote nel mondo del reale; ma dal dualismo scaturisce il secondo errore logico che si dà quando si voglia fare della dimostrazione della validità gnoseologica kantiana una dimostrazione volta a ritrovare nel reale gli oggetti della conoscenza universale e necessaria; l’errore logico consiste questa volta in un circolo vizioso.
Il soggetto conoscente, in una concezione empirista, riceve la sua - 131 -individualità empirica dalla particolarità delle sensazioni e dei rapporti; tale particolarità non investe nel suo fondo la natura del soggetto, che ci permane sconosciuta, eccettuata la sua attitudine generale a rapportare sensazioni; di esso nulla possiamo dire, né circa le facoltà della recezione e del pensiero né circa la realtà dell’individualità empirica; quel che di sicuro possiamo affermare è soltanto che il soggetto conoscente è atto ad unificare secondo relazioni che non permangono costanti ed uniformi nel tempo o che non si ha il diritto di dire che necessariamente permangono tali. Se ora in questo soggetto scopriamo, a lato delle predicazioni particolari e contingenti, delle predicazioni universali e necessarie, delle predicazioni cioè che non solo siano valide per tutti gli istanti di conoscenza in cui il giudizio verrà formulato e non possano esser altro da quel che sono, ma siano pure tali da dover essere formulate in modo costante e uniforme, sì che costantemente e uniformemente vengano poste in relazione un certo numero di sensazioni, dell’attitudine ad unificare che abbiam riconosciuto propria del soggetto si dovrà dire qualcosa di più, e precisamente che essa almeno in certi casi si dimostra atta ad agire in modo universale e necessario sia nel campo del pensiero che nel campo dell’intuizione: la realtà dell’unificazione universale e necessaria del giudizio d’esperienza è argomento per la trascendentalità dell’unità dell’autocoscienza, ossia per l’unità funzionale del soggetto conoscente che in tal modo si pone uno unico universale necessario, trascendente le singole individualità empiriche. Ma il ragionamento avrebbe completo valore se veramente nell’intuizione e nel pensiero del soggetto conoscente si dessero rapporti universali e necessari: pur accettando la discutibile tesi kantiana che la geometria goda di una posizione di privilegio in quanto le sue costruzioni pure nello spazio a priori danno luogo a rapporti la cui uniformità e costanza si riproduce nello spazio empirico, sì che i suoi giudizi universali e necessari godono di una evidente universalità e necessità, Kant stesso non può ignorare che uguale discorso non può essere tenuto per le conoscenze fisiche: la considerazione di un qualsiasi giudizio fisico può rivelarcene l’universalità e necessità di cui gode nel campo del pensiero, ma non ce ne mostra la validità gnoseologica, in quanto nel rapporto che, inserito tra i dati sensibili e sussumibili sotto i concetti del giudizio, ricalca la relazione della predicazione del giudizio, non si riscontra alcun fattore che con la propria costanza e uniformità garantisca l’universalità e necessità del giudizio. Se quindi, sia pur ammettendo una polarità di conoscenza nel campo della matematica, la stessa polarità non si riscontra nel campo della scienza della natura in genere, l’esistenza del giudizio universale e necessario non si pone di per sé. Dunque, solo garantendo al soggetto conoscente in genere una attività funzionale generica, una unica costante uniforme, consistente in un’azione cui tutto il molteplice sensoriale si sottopone onde conformarsi all’unità che è la condizione cui deve sottostare per divenire oggetto del conoscere del soggetto, si darà diritto di esistenza al giudizio d’esperienza in quanto universale e necessario - 132 -in sé e perfettamente simmetrico ad oggettivi rapporti costanti ed uniformi presenti nella esperienza: quell’unità trascendentale che prima era argomentata dall’universalità necessità e validità gnoseologica del giudizio d’esperienza, diviene nello stesso tempo e sotto lo stesso punto di vista, argomento per dichiarare esistente nel soggetto il giudizio da cui essa mutuava la propria realtàxxiii. Infine, quando si consideri l’aspetto particolare della deduzione trascendentale, quello cioè che ne fa un discorso volto a provare la presenza nell’esperienza di rapporti oggettivi che godono degli stessi caratteri della predicazione di un giudizio universale e necessario, si presentano alcune aporie, le quali conducono, insieme, a un secondo circolo vizioso.
Se volessimo confrontare il pensiero di Hume con quello di Kant sotto il solo punto di vista del problema della scienza, dovremmo dire che in entrambi è presente un giudizio comune, il quale però nell’uno si pone come considerazione destinata a dar luogo a un discorso ben diverso da quello cui lo stesso giudizio dà occasione nell’altro. I due pensatori si sentono tenuti, entrambi, a riconoscere alla matematica la dignità di un ordine di conoscenze universali e necessariexxiv. Al termine delle sue indagini, Kant conclude con lo stabilire la natura delle condizioni generali del giudizio matematico: il giudizio matematico è universale e necessario, e questo è un carattere accettato come dato di fatto, ma è insieme identificazione ossia enunciazione di un’identità immanente nei due concetti; tale identità consiste nell’identità di tipo di rapporto spaziale o di rapporto cronologico che inerisce come nota essenziale nei due concetti; tale identità può essere rilevata solo con un confronto fra i due concetti discreti e distinti, non già con la deduzione dell’uno dall’altro. Ma poiché l’acquisizione di un concetto discreto e distinto da un altro concetto può avvenire solo mediante l’esperienza che dà luogo alla distinzione dei due concetti, non potrà mai darsi un giudizio che sia espressione dell’esplicitazione di un solo concetto; ogni giudizio matematico è sempre e soltanto sintetico. Per poter poi trovare la ragione di un giudizio che nonostante la sua sinteticità è universale e necessario, basterà indagare su quel rapporto spaziale e cronologico in genere che inerisce sia al concetto, come nota essenziale, sia all’ente empirico, come situazione di relazione rispetto ad altri enti, sia al giudizio, come identità di due note essenziali presenti in due concetti distinti. Dimostrato che spazio e tempo sono rappresentazioni sintetiche funzionali che intervengono nella sistemazione dei dati empirici e nella formulazione dei concetti matematici, e stabilito che tali rappresentazioni sono costanti ed uniformi nella loro funzione, da tali nozioni si inferisce da un lato la necessità e universalità del giudizio matematico, dall’altro la necessità e universalità del rapporto spaziale o temporale empirico e quindi l’oggettività del giudizio matematico, oggettività che non è altro che congruenza e non contraddittorietà delle tre note del giudizio stesso, ossia la sinteticità l’oggettività l’universalità. L’argomentazione kantiana appare impeccabile, ma a guardarci ben dentro si deve notare che essa - 133 -non è così esente da errori come potrebbe apparire. Da un lato infatti non s’intende bene quale sia la funzione di quello spazio e di quel tempo funzionali e puri; se sono semplici forme della recettività, non si richiede che essi intervengano nel concetto matematico, che può benissimo essere universale e necessario, e insieme a posteriori, in quanto l’universalità e necessità dell’ordinamento spazio-temporale dell’esperienza garantisce universalità e necessità ai singoli rapporti e quindi ai singoli concetti empirici e ai correlativi giudizi; ma l’universalità e necessità dei rapporti spazio-temporali non è assolutamente garantita dall’esperienza, in quanto l’esperienza non ci offre mai con uniformità e costanza nessun rapporto. Intendo dire non già che se noi potessimo sentire le linee di forza che pervadono l’universo, l’identità tra i tre angoli di un triangolo avente il vertice coincidente con un punto di una retta e i tre angoli supplementari al vertice e un angolo piatto non sarebbe più universale e necessaria, bensì intendo dire che l’identificazione di un angolo alla base di un triangolo con un angolo alterno interno è verificata volte per volta, mai però con apoditticità; da ciò deriva che per garantire l’apoditticità a un giudizio matematico è necessario concepire spazio e tempo non come semplici forme della recettività, ma come rappresentazioni sintetiche funzionali, atte ad intervenire anche nei concetti. D’altro canto, si deve ammettere assieme con Hume che la realtà empirica non offre mai se non eccezionalmente rapporti spaziali perfetti quali sono quelli che concepisce la geometria – nessun cerchio tracciato da un qualunque strumento umano avrà uno ed un solo punto in comune con la tangente -; quindi si deve o porre la perfezione del rapporto spaziale come nota essenziale del concetto, introdotta nel concetto da un intervento attivo del soggetto, oppure si deve pensare che spazio e tempo costituiscono delle forme in cui il soggetto può costruire rapporti fra enti fittizi, col che si viene a sdoppiare la conoscenza e sorge sempre il problema di dimostrare la perfetta corrispondenza fra lo spazio e il tempo come forme della rappresentazione immaginativa e lo spazio e il tempo come forme dell’esperienza reale. Ma ciò che veramente inficia di errore la dimostrazione kantiana, al pari di quella di Hume, è l’accettazione aprioristica e incondizionata dell’universalità e necessità del giudizio matematico: in tutti, certo, se ci esaminiamo mentre cerchiamo di mettere in dubbio l’universalità e necessità del giudizio matematico, sorge un vero e proprio senso di ripugnanza intellettuale al pensiero che, dato lo spazio euclideo in cui fino ad ora tutte le sensazioni ci sono state date, possa sussistere, in un tale spazio ripeto, una retta, da un punto della quale possano dipartirsi due semirette senza che i tre angoli che in tal modo si formano non siano sempre ed ovunque equivalenti ad un unico angolo di 180º; ma proviamo ad esaminarci mentre ci chiediamo se veramente, data una causa, possa considerarsi con certezza apodittica la successione di un certo effetto; proviamo praticamente a chiederci se veramente sia vero che è possibile che, data una certa causa, una pietra che cade sulla testa, non sia possibile che ne sussegua un certo effetto, la rottura della testa; - 134 -vedremo che proviamo una ripugnanza altrettanto forte, tanto forte che nessuno di noi starà fermo sotto una pietra che cade; e se anche la ripugnanza è meno forte, ciò dipende dal fatto che noi sappiamo legata la causa a un certo cumulo di situazioni, che possono anche non darsi, senza le quali la causa non produce l’effetto; la differenza, quindi, che sussiste tra il rapporto matematico e il rapporto fisico è una differenza di complicazione, essendo il primo un rapporto semplice e sussistente sempre in assoluta semplicità, essendo invece l’altro un rapporto sussistente necessariamente in una situazione estremamente complicata da altri rapporti per i quali non possediamo una certezza di conoscenza identica – la ripugnanza che proviamo a credere che domani il sole non sorgerà, è minore di quella che proviamo a credere che la perpendicolare a una retta non formerà quattro angoli retti; il che è dovuto al fatto che, mentre dei rapporti spaziali tutto ci è noto, dei rapporti fisici la maggior parte ci resta ignota, sicché la frase «il sole domani non sorgerà» può venire da noi pensata insieme alla sua contraddittoria «il sole domani sorgerà», solo in quanto facciamo intervenire la possibilità di una nuova causa che impedisca al sole di sorgere o la rottura della legge che impone al sole di sorgere, rottura che si è data essendo venuta meno la causa che gli impone di spuntare - ; ma se consideriamo esclusivamente l’esperienza, sia quella reale che quella immaginaria,noteremo che, una volta ammessa come necessaria la sua intuizione onde procedere all’enunciazione di un giudizio, la concezione che ci siamo fatti della esperienza – come di una somma di enti sensoriali particolari e contingenti fra cui sussistono rapporti di varia natura, i quali non paiono inerire alla natura essenziale dell’ente – c’impedisce di affermare universale e necessario il giudizio: e questo è valido sia per la fisica che per la matematica; anche i giudizi matematici, in fondo, non fanno che rispecchiare rapporti empirici della cui universalità e necessità nulla si può dire. L’interpretazione kantiana della matematica quindi non tiene in realtà conto di quelle che sono le condizioni a cui ogni giudizio sintetico deve sottostare, quelle cioè di verificare in sé l’universalità e necessità per ciò che riguarda il passato, ma non per ciò che concerne il futuro. Alla base della nozione della matematica da cui Kant muove, sta quindi un’insanabile contraddizione che ritroveremo ancora e che costituisce la ragione di tutto il discorso kantiano: ogni giudizio matematico, in quanto sintetico, dev’essere oggettivo, ma non può essere universale e necessario; d’altra parte, ogni giudizio matematico, nonostante la sua sinteticità, è universale e necessario, e trova la ragione della sua universalità e necessità non già nell’analisi o nell’inferenza deduttiva, ma nella struttura formale cui enti empirici e concetti matematici sottostanno, struttura formale che non è se non una rappresentazione sintetica funzionale del soggetto gnoseologico. Avendo così Kant ritrovato la ragione dell’universalità e necessità del giudizio matematico, non gli resterà che applicare lo stesso metodo al giudizio fisico, o meglio raggiungere identiche soluzioni per ciò che riguarda il giudizio fisico, ritrovando nel soggetto logico di questo la connotazione - 135 -di una rappresentazione sintetica funzionale che interviene parallelamente nell’ambito dell’esperienza. In questo modo vengono garantite al giudizio della matematica universalità necessità e oggettività. Si potrebbe dunque dire che il kantismo sta tutto nell’utilizzazione delle ragioni sufficienti trovate per l’universalità e necessità del giudizio matematico, in vista della soluzione del problema dell’universalità e necessità del giudizio fisico. In certo senso, Kant opera la sutura dei due tronconi di conoscenza in cui la critica di Hume aveva spezzato la scienza. Si potrebbe ritenere che fosse vero il contrario, che cioè è stata l’estensione della sinteticità del giudizio fisico alla natura del giudizio matematico che ha provocato l’accostamento e la considerazione dei due modi di conoscere da uno stesso punto di vista; ma la sinteticità del giudizio matematico, a parte il fatto che già era stata rilevata, sia pure entro certi limiti, da Hume, è una sinteticità in fondo differente da quella del giudizio fisico, in quanto questo identifica due enti empirici, quello coglie l’identità di due rapporti spaziali o di due rapporti temporali; le ragioni dell’estensione del metodo trascendentale dalla matematica alla fisica vanno ricercate anzitutto nella scoperta di una sinteticità particolare immanente nei giudizi matematici e consistente nella necessità di prendere contatto con l’esperienza onde ritrovare le diverse determinazioni di uno stesso rapporto spaziale o temporale, e nell’assunzione aprioristica dell’universalità e necessità del giudizio matematico, sì che, una volta ritrovato nel soggetto conoscente un modo o facoltà per la quale e lecita l’enunciazione di un giudizio matematico universale e necessario e gnoseologicamente valido, ossia oggettivo, non resterà che ritrovare identico modo per i giudizi fisici.
Cominciamo anzitutto con lo stabilire che quest’estensione non ha nulla che fare né con l’estensione della natura e dei procedimenti matematici alla scienza della natura né coi motivi che hanno determinato quest’ultima estensione. Dopo un secolo durante il quale si è costantemente cercato di dare veste matematica al giudizio fisico, Kant dimostra non solo di disinteressarsi del nuovo aspetto della fisica, ma anche – così mi è parso – di non averne afferrato con chiarezza le ragioni profonde: certo, egli ci dice che la fisica si è lasciata permeare dalla matematica e ci offre anche le ragioni di ciò, concepite dal suo punto di vista trascendentale, ma quando egli prende un giudizio fisico e s’accinge ad applicare ad esso la sua indagine, il giudizio fisico ha perduto la sua natura di identificazione quantitativa funzionale per ridursi all’antico giudizio in cui l’identità fra il concetto-predicato e il concetto-soggetto ha perduto la sua natura quantitativa e funzionale, per conservare quella di inerenza o sostanziale o causale. Un giudizio fisico, in veste matematica, sottostà al principio di identità in quanto verifica in sé identità totale essendo le due quantità, o successioni cronologiche, per dirla con Kant, perfettamente identiche nell’uno e nell’altro membro dell’equazione; un giudizio fisico quale ce lo descrive Kant, è un giudizio che sottostà alle condizioni del principio di identità in quanto verifica in sé solo l’identità - 136 -parziale del predicato col soggetto logico. È logico quindi che a Kant sfugga quella che è la differenza profonda fra la natura quale viene concepita da un giudizio fisico di veste matematica e la natura quale viene concepita dal punto di vista del suo giudizio fisico. Il giudizio matematico in sé è necessariamente funzionale e necessariamente funzionale è quindi il giudizio fisico che ne assume i principi e la forma, è naturale che una natura, qual è concepita dal punto di vista di un giudizio fisico che si strutturi come identificazione funzionale quantitativa, debba ridursi ad omogenei diversi che entrano in una relazione reciproca tale che a una variazione quantitativa dell’uno deve necessariamente corrispondere una simultanea variazione quantitativa in tutti i fattori correlati; la fisica, in definitiva, non ha fatto altro che convenzionalizzare gli enti empirici che entrano nei suoi concetti, così come han fatto geometria e aritmetica, ed inserire fra tali enti rapporti quantitativi determinati e funzionali, sì che una volta costruito il giudizio sull’identità dei rapporti quantitativi dei due concetti, il principio d’identità impone che a una variazione quantitativa del primo membro corrisponda una variazione quantitativa del secondo e viceversa; il mondo della fisica, matematicamente interpretato, è quindi un mondo omogeneo o un mondo che deve assoggettarsi alla omogeneità. Il mondo kantiano invece è il mondo dei sensi, arricchito di certi rapporti tra queste o quelle sensazioni; poiché i rapporti debbono essere nel tempo e nello spazio, e poiché alcuni rapporti possono essere solo nello spazio, altri solo nel tempo, anche la matematica vi penetra, ma solo di soppiatto e, in fin dei conti, senza poter esercitare pretese di esclusivo dominio; in un simile mondo non può sussistere l’omogeneità, ma soltanto l’eterogeneità, e l’universalità e necessità devono ridursi alla costanza e uniformità di certi rapporti reciproci fra gli eterogenei. È vero che un siffatto concetto di fisica è molto più estensivo del concetto che pensiamo col vocabolo «fisica»; è vero che la fisica kantiana è scienza della natura in generale e tende ad abbracciare tutte le scienze che possono darsi della natura, ma è altrettanto vero che non riesce a far presa sulla costante tendenza che hanno tutte le scienze della natura a trasformare le loro leggi di identità fondate sull’inerenza a leggi di identità quantitativa e funzionale, e perciò non riesce neppure a spiegare perché l’esperienza sia pervasa di matematica, anche oltre i semplici rapporti spazio-temporali immediatamente evidenti, o meglio perché tutti i rapporti siano suscettibili di essere ricondotti a rapporti spaziali e temporali. Una volta dunque concepita la scienza della natura come un essenzialmente distinto dalla scienza matematica, l’estensione del metodo trascendentale dalla matematica alla fisica diviene qualcosa di molto arbitrario e costituisce una vera e propria aporia. Si accetti pure la distinzione che Kant introduce entro il campo delle conoscenze universali e necessarie a-priori; si distinguano quelle che sono conoscenze universali e necessarie di oggetti o di rapporti, da quelle che sono le conoscenze sia delle ragioni dell’universalità e necessità delle prime sia della loro corrispondenza con la realtà dell’esperienza; in altre parole, non si confondano il giudizio - 137 -«lo spazio è una omogeneità di rapporti costruibili secondo tre dimensioni e aventi tutti a loro principio i cinque postulati di Euclide» oppure il giudizio «l’angolo alla base di un triangolo è alterno interno ecc.» col giudizio «il soggetto conoscente nulla può ricevere intuitivamente senza situarlo in un rapporto spaziale»; di questa distinzione anzi ci si serva come di un canone generale del metodo trascendentale. Anzitutto tale canone potrebbe avere valore, se la nostra immaginazione interpretativa fosse assolutamente incapace di immaginare spazi diversi da quello euclideo; ma in realtà noi possiamo immaginare una serie di rette che siano tutte o soltanto parabole o soltanto iperboli, e quindi elaborare rappresentazioni fittizie, ma pur sempre intuitive, i cui rapporti spaziali non sono affatto quelli dello spazio euclideo. Si dirà che appunto questo ha voluto evitare Kant e che appunto per sottrarsi a questo pericolo Kant ha rifiutato l’interpretazione humiana della geometria, eliminando tra esperienza reale e geometria l’esperienza fittizia e riconducendo immediatamente la scienza alla realtà. Ma a questa obiezione è da rispondersi: a) che l’eliminazione non è stata totale, perché un’infinità di espressioni di affermazioni di frasi lasciano intravedere che l’immaginazione rappresentativa ha continuato ad essere presente al pensiero di Kant durante la sua indagine sulla geometria e che anzi tale immaginazione produttiva s’identifica, in fondo, con l’intuizione pura dello spazio in cui la geometria costruisce le sue forme pure e perfette, e con ciò si pone come fondamento assoluto della geometria e come condizionatore di tutta questa scienza; b) che l’eliminazione non può essere in sé totale, perché nessun oggetto empirico reale offre gli attributi che debbono caratterizzare un oggetto empirico perché questo possa venir sussunto sotto il corrispondente concetto geometrico; c) che nulla ci garantisce che l’esperienza concreta e reale coi suoi rapporti geometrici, tutti obbedienti ai cinque postulati di Euclide, continui a permanere invariata, o invece non debba assumere aspetti tali da richiedere differenti postulati, qualora si riesca, ad esempio, a rendere percettibili le linee di forza che pervadono l’universo. Inoltre, a parte queste difficoltà che colpiscono soltanto gli enti geometrici e la loro trascendentalità, resta pur sempre l’altra difficoltà che un giudizio geometrico è universale e necessario in sé, ma non è certo universale e necessario in sé il corrispondente rapporto geometrico colto entro gli enti sensibili. Ma, anche ammessa una costanza e una uniformità come immanenti nei rapporti matematici dell’esperienza, e quindi un diritto del giudizio matematico ad erigersi ad universale e necessario, anche ammessa la trascendentalità sia del rapporto empirico sia del rapporto concettuale, cioè la conoscenza della loro origine da un unico fattore a priori, resta ancora la grave aporia che l’estensione del metodo della trascendentalità dalla matematica alla fisica urta contro una sostanziale differenza tra il rapporto matematico e il rapporto fisico quale lo concepisce Kant.
Per Kant il rapporto matematico è quello che comunemente viene accettato, cioè identità fra le posizioni che due enti assumono o in - 138 -simultaneità o in successione rispetto ad altri enti; il rapporto matematico conserva tale natura sia quando lo cogliamo nell’intuizione sia quando lo contempliamo nella immaginazione rappresentativa sia quando lo pensiamo nel concetto. Ora, una siffatta posizione non dipende affatto dalla natura qualitativa dell’ente o degli enti che entrano nel rapporto: il fatto che noi possiamo misurare linee superfici volumi e che possiamo contare botti banchi strade, è dovuto appunto al privilegio, di cui gode il rapporto matematico, di non essere in alcun modo condizionato dalla essenza degli enti misurati o contati; il fatto che noi possiamo applicare alla realtà dell’esperienza le leggi della geometria è dovuto appunto a questo, che nell’atto in cui misuriamo, ad esempio, gli angoli di una finestra o di una piramide o di un tappeto, in realtà non misuriamo né la finestra né la piramide né il tappeto, bensì i limiti, i confini tra questi oggetti e i qualsivogliano oggetti circostanti, limiti che si riducono necessariamente a una o due o tre dimensioni a seconda del punto di vista da cui li consideriamo; essi, appunto perché limiti, perdono la eterogeneità che caratterizza tutti gli enti il cui contatto dà luogo al limite per assumere l’unica essenza indifferenziata di limite, che ne fa degli assolutamente omogenei - un universo caleidoscopico rifiuterebbe, certo, la conoscenza concettuale per l’inettitudine assoluta a dar luogo a classi di oggetti a causa della universale eterogeneità che lo pervaderebbe, ma consentirebbe sempre la conoscenza geometrica, la quale potrebbe considerare come suoi enti i limiti tra sensazione e sensazione, limiti che sono degli omogenei rapportati nello spazio -. Il fatto che noi possiamo applicare alla realtà dell’esperienza le leggi dell’aritmetica è dovuto anch’esso a questo, che non appena, spontaneamente o necessariamente, facciamo rientrare gli oggetti empirici nel ritmo del tempo, tosto che quegli oggetti smarriscono la loro natura o la loro essenza, tosto non vengono più guardati e sentiti nella loro eterogeneità e si trasformano in istanti che scandiscono la successione o per andare ad arricchire il cumulo degli istanti precedenti considerati esistenti o per scomparire nell’inesistenza venendo meno al cumulo dei precedenti reali, proprio come avviene dentro di noi quando contiamo per unità. Il giudizio matematico quindi non fa che riprodurre la natura del rapporto matematico quale si dà nell’esperienza, e le condizioni cui si deve piegare l’esperienza per entrare in un rapporto matematico: l’unico problema, pertanto, è quello dell’universalità e necessità del rapporto concettuale che si rifrange nel problema dell’universalità e necessità del rapporto empirico. Se Kant fosse partito dal dubbio circa l’universalità e necessità del rapporto concettuale matematico, come avrebbe nella realtà dovuto partire, il problema non avrebbe offerto soluzioni, giacché l’asserita sinteticità del giudizio, e quindi del concetto, e la necessaria particolarità e contingenza dell’esperienza l’avrebbero chiuso in un vicolo cieco, da cui solo una affermazione fideistico-metafisica poteva farlo uscire. Se, infatti, il giudizio e il concetto matematici si alimentano dall’esperienza, sia questa reale o immaginaria, non può essere che la costanza e uniformità - 139 -del rapporto matematico empirico a garantire l’universalità e necessità del rapporto matematico concettuale; e allora, o si assumono come dati di fatto la costanza e uniformità e le si argomentano con discorsi che non possono essere altro che metafisici, o si rinuncia alla metafisica e allora la costanza e uniformità si spogliano del carattere di dati di fatto, e con ciò, il giudizio e il concetto matematici vengono privati di universalità e necessità. Ma Kant assume come dato di fatto l’universalità e necessità del giudizio e del concetto matematici e, una volta dimostratane la sinteticità, ne proclama insieme l’apriorità, apportando come prova l’apriorità dello spazio e del tempo, e quindi di tutti i rapporti spazio-temporali e adducendo come ragione l’intervento del soggetto gnoseologico. La limitazione, tuttavia, di questo intervento a un semplice modo di intuire, cioè di sistemare le percezioni, crea il dilemma che o il soggetto gnoseologico si limita veramente a determinare l’ordine spazio-temporale delle intuizioni, e allora il giudizio matematico è sintetico, ma non a-priori – è il caso contemplato sopra, che porta al dogmatismo -, o il giudizio matematico è sintetico apriori, e allora il soggetto gnoseologico deve necessariamente agire in duplice direzione sia nell’elaborazione del giudizio che nell’ordinamento delle intuizioni – ed è questa in fondo la posizione che Kant viene ad assumere nella deduzione trascendentale delle categorie, dopo aver abbandonato ed essere entrato in contraddizione con la tante volte affermata inattività delle forme spazio-temporali. Ma un intervento del soggetto gnoseologico nella formazione del concetto, e quindi del giudizio, non potrà mai assumere nella matematica gli stessi modi che assume nella fisica: il soggetto gnoseologico determina l’universalità e necessità del giudizio fisico con un atto attivo accompagnato da una determinazione passiva – l’universalità e necessità del giudizio «il fuoco brucia le dita» è l’effetto dell’intervento della categoria di causalità, intervento che non è se non la sussunzione, che è poi connotazione, del concetto di «fuoco» sotto la categoria di causa, determinata però dal particolare oggetto empirico «bruciore delle dita» -; il soggetto gnoseologico, invece, per determinare l’universalità e necessità del giudizio matematico non può affatto limitarsi ad agire sul concetto-soggetto mediante una particolare nota universale e necessaria determinata dal concetto-predicato, ma deve estendere il suo intervento sia sul concetto-soggetto sia sul concetto-predicato, inserendo in essi non già una nuova nota, bensì colorendo di universalità e necessità quel rapporto spaziale che in entrambi si dà identico. Dovremo quindi concludere che la trascendentalità del giudizio matematico consiste nella conoscenza delle ragioni che ne fanno una predicazione universale e necessaria, ragioni che consistono unicamente in un certo timbro impresso sui rapporti spaziali o temporali concepiti nelle due nozioni che compongono il giudizio, e non intervengono affatto nella connotazione; dovremo ancora concludere che il timbro impresso sui rapporti spaziali o temporali non investe affatto l’essenza degli enti empirici rapportati, in quanto questi, per entrare in detti rapporti, - 140 -già si sono spogliati dell’essenza; infine, dovremo concludere che il giudizio matematico coincide perfettamente con la realtà empirica, sì che basta l’universalità e necessità del soggetto trascendentale per garantire l’uniformità e costanza del rapporto e della predicazione matematici.
Si tratta ora di considerare la natura del giudizio, quale può darsi in una fisica kantianamente concepita, e di vedere se essa è tale da poter accogliere su di sé l’estensione del metodo trascendentale. La scienza della natura, quale Kant ce la presenta, trova a suoi principi le nozioni di sostanza e di causa: pertanto i giudizi della fisica si riconducono tutti a predicazioni reciproche di due concetti che verificano in sé o il rapporto di sostanza e attributo o il rapporto di sostanza e accidente o il rapporto di causa ad effetto. Questi rapporti sono tali che non possono darsi senza la conoscenza dell’essenza degli enti; poiché il loro intervento nella realtà instaura una struttura di eterogenei, si dà tra la matematica e la fisica questa prima differenza, che il rapporto logico-empirico delle matematiche è realmente ritrovabile nell’esperienza, sia pure privo di universalità e necessità, ma il rapporto logico-empirico della fisica è ritrovabile nell’esperienza alla duplice condizione che nell’esperienza si diano degli eterogenei che siano essenze e che di queste nature essenziali si dia cognizione. Dal momento che l’esperienza è costituita nei suoi termini irriducibili di sensazioni, è lecito affermare che nella esperienza si danno degli eterogenei, ma non è lecito affermare che tali eterogenei siano essenze in quanto ogni sensazione è un’affezione della recettività del soggetto conoscente, ossia una modificazione della nostra conoscenza, modificazione da noi non voluta né determinabile, ma ciononostante non certo trattabile come essenza in quanto di per sé insussistente e bisognosa dell’autocoscienza per esistere, né che l’eterogeneo sia conosciuto nella sua natura essenziale sia perché della sensazione si conosce solo quanto ci è noto attraverso la sua intuizione – e quindi la sua natura essenziale o si riduce alla sua natura empirica o ci resta ignota – sia perché ci sarebbe dato conoscerne la natura essenziale alla condizione che potessimo conoscere la nostra stessa natura essenziale e potessimo quindi instaurare un rapporto tra la sensazione data e l’essenza del soggetto – questo non è consentito dal fatto che del soggetto non conosciamo se non le leggi cui il suo conoscere pensare sentire patire sottostanno, e i fenomeni che obbediscono a tali leggi. L’assenza di essenze e l’inconoscibilità di nature essenziali comportano che non si possa[no] affatto ritrovare nell’esperienza rapporti del tipo sostanza-attributo sostanza-accidente causa-effetto; infatti il primo rapporto richiede l’esistenza e la conoscenza di nature immutabili di cui l’una inerisca all’altra come una proprietà costante ed uniforme ad un esistente che non è proprietà di nulla; il secondo rapporto richiede l’esistenza e la conoscenza della natura mutevole di un ente che contingentemente affetta la natura immutabile di un altro ente; il terzo rapporto esige l’esistenza e la conoscenza della natura immutabile di un ente il cui darsi si pone necessariamente ogni volta che si pone la natura immutabile di un altro ente - 141 -che ha in sé come suo attributo quello di dare esistenza al primo. Nell’esperienza quindi, in cui non si ritrovano sostanze, non si ritrovano come oggetti i rapporti fisici: tutt’al più, è possibile ritrovare un rapporto di simultaneità o di successione la cui costanza e uniformità sembra ricalcare quella costanza e uniformità che deve sussistere in un rapporto sostanziale o in un rapporto causale. La prima differenza fondamentale, dunque, fra il giudizio matematico e il giudizio fisico è che il primo ritrova i propri oggetti nell’esperienza, il secondo non ve li ritrova: quando perciò diciamo «l’angolo alla base di un triangolo è alterno interno ecc.» descriviamo un rapporto oggettivo presente nell’esperienza e, a rigore, siamo tenuti a rendere ragione dell’apoditticità che inseriamo nel giudizio e in nome della quale pretendiamo che qualunque angolo alla base di un triangolo sia alterno interno ecc.; quando diciamo «la pietra è pesante» oppure «il fuoco brucia le dita», non solo siamo tenuti a render ragione dell’apoditticità dei due giudizi, ma siamo anche tenuti a spiegare perché mai nel primo caso abbiamo raccolto fra tutte le simultanee sensazioni che ci si davano alcune riunendole in unità e affermando reale sia l’unità che l’appartenenza a tale unità della sensazione «pesante», nel secondo perché mai intendiamo attribuire a quell’unità di sensazioni che chiamiamo «fuoco» non tanto la capacità di ritrovarsi in universale e necessaria antecedenza rispetto alla sensazione del bruciore, quanto l’attitudine attiva a dare esistenza e realtà a tale sensazione. A meno che non si riduca artificialmente la connotazione dei due concetti, non si riuscirà mai a riportare il giudizio fisico kantiano in una situazione che riproduca identiche le condizioni del giudizio matematico, vale a dire la sua corrispondenza, sia pure valida solo per l’attualità dell’esperienza, tra la predicazione e il rapporto oggettivo. Infatti la riduzione può essere fatta per il concetto di causa che dalla connotazione di principio generatore può essere facilmente ricondotta a quella di antecedente necessario, ma difficilmente può farsi sul concetto di sostanza, perché la connotazione di questo rimane quella di un’unità fra sensazioni simultanee o meglio quella di una molteplicità di unità fra sensazioni momentanee, e l’esperienza darà sempre una molteplicità di sensazioni momentanee, ma non darà mai delle unità di tali sensazioni. Possiamo quindi affermare che il giudizio della fisica, qual è concepito da Kant, esprime predicazioni che o non ritrovano o ritrovano solo limitatamente il loro oggetto nell’esperienza, mentre il giudizio della matematica ritrova sempre l’oggetto corrispondente alla sua predicazione nella matematica. Si può, è vero, fare un’obiezione: anche la matematica si vale del concetto di sostanza perché quando diciamo che l’angolo acuto di un triangolo rettangolo isoscele è uguale alla metà di un retto, ci rifacciamo a un’essenza di cui enunciamo degli attributi; questo è vero fino a un certo punto, in quanto non è già l’appartenenza del nostro angolo acuto a un triangolo di tal fatta a farne un angolo di 45º; esso in sé e per sé resta tale, e come tale potrebbe appartenere benissimo a un’altra essenza, quella per esempio dell’angolo retto tagliato dalla bisettrice; inoltre col - 142 -nostro giudizio noi non intendiamo affatto cogliere l’essenza e la sostanzialità del triangolo rettangolo isoscele, bensì intendiamo stabilire che, date tre linee disposte reciprocamente in un certo modo, si determina sempre un certo rapporto e tra le loro lunghezze e tra gli angoli che esse formano, rapporto che continuerebbe a sussistere anche se distruggessimo la sostanza; la matematica quindi si vale del concetto di sostanza, ma non fonda i suoi giudizi su di esso; una fisica invece che, come quella di Kant, faccia appello ai concetti di sostanza e di causa, non solo si varrà del concetto di sostanza, ma non ne potrà fare a menoxxv. La seconda differenza, che immediatamente consegue come corollario, è che mentre il giudizio matematico per dir così si adagia sull’esperienza e in fondo non fa che ricalcarla, il giudizio fisico non si adagia per nulla e si costituisce per dir così su se stesso senz’affatto trovar rispondenza nella realtà dell’esperienza. E ancora: il giudizio matematico è costituito di concetti che ritrovano tutta la loro essenza nell’esperienza; un concetto matematico geometrico, dai più semplici ai più complessi, è quello di un certo rapporto spaziale sussistente fra un certo numero di enti empirici o di enti a cui gli enti empirici possono ricondursi; il giudizio fisico invece è costituito da concetti che non ritrovano affatto la loro essenza nell’esperienza; un rapporto fra sostanza e accidente abbisogna di un concetto sostanziale che nella realtà non è dato; lo stesso può dirsi per il giudizio causale. Infine, il trascendentale interviene nei giudizi matematici con un semplice sigillo di uniformità e costanza, mentre invece nei giudizi fisici opera un intervento di vera e propria costruttività; con la conseguenza che, poiché nei giudizi matematici l’intervento si limita a un semplice suggello di universalità, il giudizio matematico si vale dell’identità completa in quanto la sua identificazione è affermazione di un’identità che non riguarda la qualità dell’essenza bensì la quantità di uno o più note essenziali e che, in quanto riferita esclusivamente alla quantità, non può essere che totale; nei giudizi fisici in cui l’intervento opera mediante la costruzione del concetto, basta che il predicato venga introdotto come nota del concetto perché l’identificazione possa limitarsi alla semplice enunciazione di un’identità del tutto con la parte. Concludendo, cinque differenze si danno tra il giudizio matematico e il giudizio fisico: a) il giudizio matematico trova corrispondenza in oggetti empirici, il giudizio fisico non trova corrispondenza in oggetti fisici; b) il giudizio matematico aderisce all’esperienza, il giudizio fisico non aderisce all’esperienza; c) il giudizio matematico riguarda solo la nota essenziale quantitativa, il giudizio fisico ha a suo fondamento note essenziali qualitative; d) il giudizio matematico mutua dalla ragione trascendentale solo il suggello dell’universalità e necessità, il giudizio fisico della [dalla] stessa ragione mutua l’intera propria struttura; e) il giudizio matematico ottempera al principio d’identità secondo un’identità totale, il giudizio fisico ottempera allo stesso principio secondo un’identità parziale. Per tutto ciò, i due giudizi divengono due eterogenei gnoseologici per i quali non è assolutamente lecito estendere all’uno quel metodo mediante - 143 -il quale si è tentato di provare l’universalità e necessità dell’altro. Il metodo trascendentale, nei confronti del giudizio matematico, si è limitato a stabilire un intervento passivo del soggetto: infatti la trascendentalità della ragione del giudizio matematico consiste nell’universalità e necessità delle modalità secondo cui il soggetto conoscente viene modificato, e, anche se tale trascendentalità non giustifica affatto l’apriorità del giudizio matematico, gli garantisce però quell’universalità e necessità che la sinteticità metteva in pericolo; ma alla ragione del giudizio fisico non è più lecito conservare un’identica trascendentalità: il soggetto conoscente, infatti, non può più limitarsi ad accogliere secondo determinate modalità, ma deve elaborare e costruire non solo concetti ma anche oggetti, perché è vero che le categorie di sostanza e di causa si limitano a lasciarsi determinare dal concetto-predicato e a connotare, così determinate, il concetto-soggetto, ma è altrettanto vero che esse hanno la funzione condizionata dalla presenza del concetto-soggetto nel pensiero e dell’oggetto corrispondente nell’esperienza, presenza che è dovuta solo all’attività del soggetto. L’estensione quindi è valida solo alla condizione che il soggetto non si limiti più a ricevere quell’esperienza che è l’intuizione ma proceda a costruire quell’esperienza che è la natura; l’adduzione della ragione sufficiente dell’universalità e necessità del giudizio fisico coincide, dunque, non con una semplice applicazione di un metodo a un nuovo caso, ma con l’assunzione del principio generale del metodo, attribuzione al soggetto conoscente della cagione dell’universalità e necessità, arricchito e ampliato di nuovi criteri, quello dell’intervento del soggetto pensante nel pensiero, quello della costruzione dell’esperienza da parte del soggetto contemplante. L’estensione del metodo ha quindi alle sue radici due presupposti: anzitutto, che essendo il giudizio matematico universale e necessario ed essendo esso riproduzione di rapporti presenti nell’esperienza, è sufficiente universalizzare i rapporti dell’esperienza, senza far ricorso alla metafisica, per garantire dignità di scienze alla geometria e all’aritmetica; in secondo luogo, che in assenza di identica universalità e necessità del giudizio fisico in quanto il rapporto fisico incide sull’ignota essenza degli oggetti in rapporto, basterà far ricorso allo stesso criterio in nome del quale si sono universalizzati i rapporti matematici empirici, per garantire alla fisica dignità di scienza pari a quella della geometria e dell’aritmetica.
Di qui, il lungo travaglio cui Kant si sottopone per erigere per il giudizio fisico un edificio che presenti altrettanta robustezza di quello, tanto facile a costruirsi, che è stato eretto per il giudizio matematico. Ma se ci chiediamo i motivi per i quali Kant ha affrontato l’aporia di applicare un metodo adatto ad un oggetto a un oggetto eterogeneo, forse potremo anche ritrovare la stessa ragione per la quale Kant ha rifiutato alla fisica quella veste matematica che ormai la fisica, come scienza in atto, aveva assunto da un secolo. La fisica galileiana presentava netto in sé il doppio carattere, di ripudiare qualunque degli enti - 144 -metafisici senza i quali un’interpretazione filosofica del reale non è possibile, in particolare i concetti di causa e di sostanza, e di non tener in nessun conto la natura coi suoi molteplici oggetti quale si dà nell’esperienza, diciamo così, macroscopica; aveva però il netto vantaggio di riportarsi in pieno alla matematica e di assumerne tutti i caratteri, in particolare quello di conoscenza deduttiva e analitica insieme. Da Galileo in poi, la scienza della natura si è venuta come a sdoppiare, da un lato tendendo a far coincidere sempre più i propri giudizi con equazioni quantitative funzionali, dall’altro a conservare le antiche strutture di predicazioni ancora vincolate ai concetti di sostanza e di causa; infatti, per quanto la fisica faccia, non potrà mai eliminare i concetti di forza. In nome di quest’ultimo appiglio, l’empirismo di Hume e il presupposto empiristico di Kant assumono la scienza della natura come complesso ordinato di giudizi sintetici le cui predicazioni ancora coinvolgono il concetto di causa che la matematica ormai ha tralasciato, o, come meglio s’avvede Kant, il concetto di causa e di sostanza. Da un lato, quindi, la loro realtà, cioè l’esperienza, non accoglie altro che i rapporti spazio-temporali e ripudia non solo i rapporti sostanziali ma anche i rapporti causali, sia pure intesi come successioni necessarie, dall’altro, la conoscenza riflessa, qual è da essi concepita, si costruisce ancora mediante giudizi di inerenza e di causalità: l’unica conclusione che si deve trarre è che questi giudizi sono infondati, a meno che non si riesca a trovare per essi un mezzo che li riconduca alla matematica, senza però assoggettarli alle condizioni della conoscenza matematica. Da queste premesse deriva l’obbligo di estendere il metodo trascendentale, adottato per la matematica, anche alla fisica, con l’aggiunta però di alcune varianti, e precisamente le nuove note a) dell’intervento attivo del soggetto nell’esperienza, dettato dal bisogno di giustificare quell’esperienza come natura che la trascendentalità dell’intuizione non giustificava, b) dell’intervento attivo del soggetto nel giudizio fisico, intervento attivo imposto dal fatto che nel giudizio matematico universale e necessario la costanza e uniformità è insita nel rapporto che affetta i concetti, mentre nel giudizio fisico la costanza e uniformità è insita nell’essenza stessa del concetto. Ciononostante l’aporia non vien meno, in quanto il dualismo tra matematica e fisica si rifrange in un dualismo che viene ad affettare la funzionalità trascendentale, che si riduce da un lato a modalità di recezione e dall’altro ad attività di costruzione, e in un dualismo che viene a instaurarsi nell’esperienza che è insieme intuizione e natura. Ora, i due ultimi dualismi non solo non trovano ragione in se stessi e la possono trovare solo nell’eternamente inconoscibile struttura del soggetto, ma neppure si danno come dati di fatto, perché nessuna esperienza s’è mai data al livello dell’intuizione e tutta l’esperienza si manifesta pervasa di recettività, sia nel caso che io colga diverse sensazioni in rapporto spazio-temporale sia che le colga in rapporto sostanziale o causale; in entrambi i casi mai io mi sento attivo; e se la mia attività nell’intuizione si riduce ad una semplice rapportazione di - 145 -dati intuitivi, anche nell’esperienza tale mia attività deve ridursi a una semplice rapportazione di dati intuitivi, senza alcun intervento nei concetti. Da questa differente struttura della ragione trascendentale che è una nell’intuizione, altra nell’intendimento, discendono ancora aporie: in primo luogo, la definizione dello spazio e del tempo come semplici maniere secondo cui il soggetto è modificato nella recettività dell’intuizione, non è adeguata alle esigenze del giudizio matematico come giudizio sintetico apriori; infatti, come abbiamo già visto, o lasciamo alla trascendentalità del soggetto esplicata sul piano dell’intuizione la semplice funzione di stabilire il modo secondo cui viene modificato – allora il giudizio matematico non sarà più un apriori, neppure se ricolleghiamo la sua predicazione al rapporto spazio-temporale che si instaura nei plessi matematici rappresentati nello spazio puro e nel tempo puro o, in parole più semplici, nell’immaginazione rappresentativa, oppure alla trascendentalità del soggetto sul piano intuitivo attribuiamo una funzione estesa anche al giudizio – in questo caso, non possiamo più concepire tale trascendentalità come un semplice modo. In secondo luogo, non è accettabile la differenza che Kant stabilisce tra lo spazio-tempo e le categorie dell’intelletto: l’intelletto è unificazione, in quanto riduce il molteplice sensoriale ordinato nello spazio e nel tempo ad oggetti e a rapporti tra oggetti; c’è da chiedersi perché anche lo spazio e - 146 -il tempo non siano concepiti come funzioni unificatrici: certo, il fatto che essi siano semplici modi della recettività può lasciar dubitare della loro funzionalità, ma non lascia dubbi circa il risultato della loro presenza, che è sempre un’unificazione. In terzo luogo, non molto accettabile appare la distinzione che si vuol fare tra le rappresentazioni sintetiche funzionali e le intuizioni pure, le prime atte a rendere pensabile un oggetto, le seconde a renderlo intuibile: le prime, infatti, allo scopo di trasformare un oggetto da intuibile in pensabile lo spogliano di tutti i caratteri della sensorialità, compresi quelli dello spazio e del tempo, per arricchirlo di una serie di determinazioni che lo rendono atto ad essere pensato, ossia a divenir concetto-soggetto di uno o di alcuni dei dodici giudizi o, per essere più esatti, fanno del molteplice sensoriale un’unità, distinguendo nel molteplice due componenti, l’una delle quali conserva le caratteristiche essenziali della propria intuitività e l’altra le perde, essendo la prima l’individuale particolare e la seconda il generico essenziale, e l’una delle quali è resa intelligibile dalla sua riducibilità alla seconda in essa immanente; ora, a parte il fatto che non tutti i caratteri che si trovano nell’oggetto intuito vengono meno quando l’oggetto viene pensato, a parte il fatto che, almeno per ciò che riguarda alcune categorie, neppure lo spazio e il tempo debbono scomparire dall’oggetto onde questo possa divenir soggetto logico di giudizio categorico o ipotetico, se la scomparsa dei caratteri sensibili è la condizione perché un oggetto divenga termine di pensiero, anche lo spazio e il tempo, per poter far proprio un oggetto e per poterlo inserire nei propri rapporti, debbono spogliarlo delle sue caratteristiche intuitive, e quindi anche lo spazio e il tempo, in fondo, rendono un oggetto termine di pensiero: due sensazioni, infatti, conservano tutta la loro eterogeneità qualitativa e la loro distinzione o spaziale o temporale, fin che vengono conosciute con la intuizione o immaginate con rappresentazione intuitiva; ma non appena vengono considerate nei loro puri rapporti spaziali o temporali, tosto perdono le loro differenziazioni qualitative o meglio queste non costituiscono più oggetto di attenzione – e mi riferisco a quanto già ho osservato: a) che la condizione per la quale è lecito applicare la geometria all’esperienza è che l’esperienza venga tradotta in complessi di limiti reciprocamente rapportati secondo un modo dello spazio, e quindi in complessi di omogenei; b) che la condizione per la quale è lecito applicare l’aritmetica all’esperienza è che questa venga ridotta a sintesi di molteplici che sono determinate da un modo del tempo e in cui i molteplici sono delle semplici pause di un ritmo o interruzioni in una successione continua, quelli che chiamiamo istanti, e quindi degli omogenei; allo stesso modo, quando di questo individuo, che è qui ed è in questo momento, diciamo che è uomo e lo giudichiamo da questo punto di vista, tosto tutte le differenziazioni intuitive che lo rendono inconfondibile con qualsiasi altro individuo vengono meno -. Un oggetto quando è colto nei suoi rapporti spazio-temporali e giudicato dall’unico punto di vista dello spazio e del tempo viene spogliato dei suoi caratteri intuitivi e se questo significa pensarlo, allora anche lo spazio e il tempo rendono pensabile un oggetto. E quest’ultima aporia derivata si riallaccia alla seconda grande aporia che sorge quando appunto confrontiamo le nozioni che Kant si è fatto della matematica e della fisica.
La matematica, come pura scienza dei rapporti o spaziali o temporali, dovrebbe costruire i suoi giudizi unicamente mediante predicazioni che sono identificazioni totali, ossia affermazioni di totale identicità fra il concetto del predicato – che è un rapporto o la quantità di un rapporto spazio-temporale intrinseco agli enti convenzionalizzati -, e il concetto del soggetto che è pure un rapporto o la quantità di un rapporto spazio-temporale. I giudizi della matematica dovrebbero quindi, in un certo senso, sottrarsi alla classificazione dei giudizi in generale e quindi alla logica. La matematica, tutt’al più, enuncerebbe giudizi affermativi, in cui si dà come vera l’identità quantitativa e giudizi negativi in cui si dà come falsa l’identità quantitativa; ma tali giudizi, appunto in quanto ossequienti al principio di identità in nome di un’identità totale, non possono in alcun modo considerarsi dei veri giudizi affermativi o negativi, come li considera la logica in quanto sarebbero delle vere e proprie tautologie che nulla farebbero apprendere al pensiero – se dire che «(a + b) (a + b) = a2 + 2 ab + b2 » significa dire che il rapporto spaziale o temporale del primo concetto è quantitativamente identico al rapporto spaziale o temporale del secondo, dal momento che a e b sono enti omogenei, il giudizio in fondo non ci insegna nulla di nuovo, anche se in apparenza il concetto del soggetto e il concetto del predicato hanno veste differente, il che appare ampiamente dimostrato - 147 -dall’unicità del quadrato che da una parte ha per lato a + b e dall’altra ha come superficie la somma delle superfici a2, b2, ab, ab-. La matematica quindi deve essere estromessa dalla logica, se per logica non intendiamo solo la codificazione del pensamento dei rapporti in quanto non offendano uno o due dei principi supremi, ma intendiamo la codificazione del pensiero che pensa rapporti che non offendano nessuna delle leggi prime e che insieme ci facciano conoscer qualcosa di più che la semplice connotazione di un concetto già noto. La fisica invece ha tutti i diritti di essere accolta come scienza logica, non già perché ottemperi al principio di identità, ma perché assumendo a suoi fondamenti la nozione di sostanza e quella di causa, si pone nelle condizioni di sottoporsi a tutti i principi logici e di fare dei propri concetti dei soggetti logici di tutti i possibili tipi di giudizio: la fisica quindi viene a identificarsi con l’intera scienza della logica, mentre la matematica si pone in rapporto con la logica soltanto per quelle condizioni generalissime che sono imposte dalla logica e a cui una qualunque conoscenza, compresa quella di un giudizio percettivo, deve sottostare per poter albergare in una coscienza umana. Uno scisma quindi separa matematica da fisica: la prima, in quanto conoscenza intuitiva, obbedisce a leggi logiche, ma non s’identifica con la logica; la seconda invece, come conoscenza intellettiva, obbedisce alle leggi logiche e fa tutt’uno con la logica, tant’è vero che possiamo benissimo indagare sull’universalità e necessità dei giudizi logici, sicuri che, una volta dimostrate reali queste caratteristiche come proprietà del giudizio logico in genere, ne viene contemporaneamente dimostrata la realtà anche come attributi del giudizio fisico. In nome di questa differenza, la trascendentalità dello spazio e del tempo è sufficiente a garantire l’universalità e necessità del giudizio matematico, mentre per l’universalità e necessità del giudizio fisico occorre la trascendentalità delle rappresentazioni sintetiche funzionali. Ci si deve ora chiedere se veramente la matematica, in quanto conoscenza che fonda se stessa esclusivamente sull’identità totale di due rapporti, faccia astrazione dalle nozioni di sostanza e di causa, nel qual caso essa si limita ad obbedire ai tre principi di identità di contraddizione del terzo escluso, procede rapportando concetti in giudizi di identità totale e, con ciò, fuoriesce coi suoi giudizi dal sistema dei dodici giudizi, o se invece anch’essa non faccia appello ai concetti di sostanza e di causa, nel qual caso essa rientra nelle strutture logiche al pari della fisica. Per ciò che riguarda la nozione di sostanza, si può affermare con sufficiente tranquillità che la matematica ne fa necessariamente uso, sia pure in modo diverso da quello della fisica: anche la matematica si serve di enti sostanziali connotati da note essenziali, enti costituiti dagli elementi semplici e da tutti i complessi cui gli elementi semplici possono dar luogo; tali enti sono sostanziali in quanto a) sono concepibili in sé e per sé senza dover far ricorso ad altri concetti, b) presentano attributi o proprietà essenziali ed accidenti o proprietà non necessarie, c) trovano corrispondenza in oggetti empirici che si pongono come loro specie infime; tuttavia, - 148 -poiché tali enti sostanziali coincidono sempre con parti di spazio, sono soggetti alla suddivisione e quindi alla decomposizione in altri enti sostanziali omogenei dal punto di vista logico, ma eterogenei dal punto di vista geometrico; inoltre, poiché risultano costituiti da un certo numero di rapporti spaziali intrinseci a un certo numero di enti e ricondotti a un determinato rapporto spaziale che si assume a fondamentale, è sempre possibile la sostituzione all’ente dato di un altro ente il quale verifichi in sé un certo numero di identici rapporti spaziali, ma ricondotti a un rapporto spaziale assunto come fondamentale, quantunque diverso dal precedente – ad esempio, un parallelogramma è un ente sostanziale geometrico, come tale ha una certa somma di rapporti spaziali insiti entro quattro segmenti: l’incontro dei quattro segmenti alle rispettive estremità, la formazione di quattro angoli, ecc.; di tutti questi rapporti se ne assume a fondamentale uno, quello del parallelismo dei lati opposti, attorno al quale si giustappongono tutti gli altri; anche il triangolo è un ente sostanziale geometrico dotato di certe note essenziali o rapporti spaziali, di cui si assume a fondamentale la presenza di tre soli angoli nella serie dei punti che costituiscono l’ente; ora un parallelogramma può essere trasformato in un triangolo della stessa altezza ma di base doppia, in quanto la superficie della nuova figura sarà sempre equivalente alla superficie del parallelogramma e in quanto i rapporti spaziali permangono sostanzialmente identici; è naturale quindi che in qualsiasi giudizio in cui compaia come soggetto o come predicato il concetto di parallelogramma, a tale concetto potrà sempre venir sostituito il concetto del triangolo equivalente -. Nonostante questa relativa indipendenza della matematica dalla nozione di sostanza, che non è affatto dovuta al semplice uso del rapporto di uguaglianza quantitativa, come voleva Hume, ma che si riconduce al rapporto di predicazione come identità totale - la possibilità di trasformare un parallelogramma in un certo triangolo si fonda non già sul concetto di equivalenza o di eguaglianza spaziale, che nel nostro caso l’esperienza non potrebbe mai verificare, bensì su una serie di giudizi di identità di rapporti spaziali -, la matematica fa uso della nozione di sostanza, e quindi necessariamente pone capo a giudizi categorici, affermativi negativi indefiniti, universali particolari individuali. Quanto al concetto di causa, anche la matematica ne fa uso: anche senza accettare il punto di vista ontologico per cui l’uso del concetto di sostanza comporta necessariamente anche quello di causa in quanto l’intelligibile è causa del reale, e anche senza ridurre la causalità matematica all’apoditticità del teorema nel senso che una volta acquisita come dimostrata una certa nota inerente a un certo ente sostanziale, la presenza dell’ente sostanziale comporterà sempre la necessità della nota, vi sono casi in cui la matematica fa ricorso al concetto di causa, se per concetto di causa s’intende un certo rapporto spaziale o temporale che una volta instaurato determina necessariamente un altro rapporto spaziale o temporale eterogeneo rispetto al primo: il rapporto causale matematico non è mai un rapporto temporale, non consiste mai - 149 -in una necessaria e universale antecedenza, ma è piuttosto un rapporto di ragion sufficiente, cioè di principio logico; sotto tale aspetto quindi il rapporto causale matematico sta al rapporto causale fisico come una specie cogenere sta a un’altra specie cogenere; anche gli antichi egiziani in un certo senso lo conoscevano e ne facevano uso per costruire angoli retti; - di tale strumentalità è espressione logica l’inverso del teorema di Pitagora; il collegamento a triangolo dei lati di tre quadrati che sono l’uno equivalente alla somma degli altri due comporta necessariamente che il triangolo sia rettangolo; vi sono tutti i caratteri del rapporto di causalità, l’eterogeneità della causa rispetto all’effetto, la necessità dell’effetto ad ogni darsi della causa, l’impossibilità di risalire dall’effetto alla causa -. La matematica quindi fa uso del concetto di causa e necessariamente quindi costituisce se stessa anche attraverso giudizi ipotetici, disgiuntivi, apodittici problematici assertori. Ma allora tutta la struttura della matematica è pervasa dalla logica e tutta la matematica coincide con la logica al pari della fisica. Non pare allora sufficiente estromettere la matematica dall’intendimento e argomentarne l’universalità e necessità mediante la semplice trascendentalità delle forme dell’intuizione pura; con queste giustificheremo sì l’apoditticità dei giudizi di identità quantitativa, ma non giustificheremo mai né i giudizi categorici né gli ipotetici di cui la matematica fa uso; la categoria quindi deve far sentire il proprio intervento anche nella matematica. La distinzione che Kant fa tra matematica e logica-fisica è arbitraria ed errata, con la conseguenza che una sua correzione comporta l’intervento della trascendentalità intuitiva nell’intelletto e della trascendentalità intellettiva nell’intuizione, il che però darebbe luogo all’aporia di un’esperienza che abbia già come suoi elementi le strutture oggettive e causali e di una trascendentalità intellettiva che agisca come semplice modo della intuizione recettiva.
Non mi soffermerò a lungo sull’altra aporia dell’insufficienza e ingiustificabilità della distinzione tra concetto empirico e concetto puro – l’aporia consiste soprattutto nel fatto che un concetto è sempre sostanziale e insieme universale e necessario: è sostanziale in quanto nozione di ente che viene concepito in sé e per sé senza l’ausilio di alcun’altra nozione, è universale e necessario perché si dà come idea di classe in cui rientrano tutti i dati empirici omogenei e, come tale, prescinde dalla particolarità e contingenza di tali dati per conservare solo quei caratteri che si danno identici per tutti e senza i quali il dato non può essere reale; anche il concetto empirico dev’essere tale e deve comportare la connotazione della categoria corrispondente, connotazione che trae seco di necessità la predicazione di un altro concetto in un giudizio che non può non essere universale e necessario; quindi, il fatto stesso che noi pensiamo per concetti, siano questi empirici oppur no, comporta che ogni nostra conoscenza sia universale e necessaria; questo contro la nostra stessa esperienza che possiamo fare del nostro modo di conoscere e contro la stessa teoria trascendentale. Intendo invece soffermarmi su di - 150 -un’altra aporia, quella della distinzione tra oggetti puri spazio-temporali e oggetti puri categoriali e del conseguente rapporto tra categoria ed oggetto puro corrispondente. La dimostrazione dell’universalità e necessità del giudizio matematico è venuta in certo senso a coincidere con la dimostrazione della sua validità gnoseologica; in altre parole, la dimostrazione della validità gnoseologica non ha dovuto appellarsi a un qualsiasi altro concetto che fosse diverso e sovraordinato a quei concetti di spazio e di tempo di cui ci si è serviti per dimostrare logicamente reale il giudizio universale e necessario matematico; in fondo, l’unica differenza che passa tra la dimostrazione kantiana e gli ignoti argomenti egiziani in nome dei quali con una corda di lunghezza 3 + 4 + 5 si era certi di giungere sempre alla costruzione di un angolo retto, o il noto argomento galileiano dell’essenziale struttura matematica dell’universo, sta nella diversità della sorgente della struttura matematica delle cose, che per Galileo è dio, per gli egiziani deve supporsi una divinità, per Kant è un intervento del soggetto gnoseologico: la ragion sufficiente dell’identificazione quantitativa del soggetto e del predicato è identica alla ragion sufficiente dell’identificazione quantitativa di tutti gli enti reali sussumibili sotto i concetti del soggetto e del predicato; non occorre uscire da tale ragione per dimostrare l’identità del reale e del pensato: l’impossibilità di intuire alcunché fuori dello spazio e del tempo è ragion sufficiente di tutte le relazioni di identità che si diano nello spazio e nel tempo, quando si faccia di questo spazio e di questo tempo due enti uniformi e costanti nelle loro astratte relazionalità. Solo il principio generale che dall’empirico nulla possa inferirsi di universale e necessario e che nessun giudizio universale e necessario possa darsi senza l’empirico ha portato a quella distinzione tra la matematica del pensiero e la matematica della natura, la cui argomentazione è una ed unica. Ma la situazione muta profondamente quando si entra nella classe dei giudizi universali e necessari della fisica. I giudizi della fisica, in particolare i giudizi categorici e gli ipotetici di cui tutti gli altri non sono che o variazioni o conseguenze o applicazioni, accolgono da un lato delle unità oggettive la cui sostanzialità garantisce l’universalità e necessità dei rapporti di inerenza, dall’altro dei rapporti causali che mutuano dalla connotazione di una sostanza l’universalità e necessità di una certa conseguenza o successione: ma nell’esperienza data per intuizione, sia questa intuizione o a posteriori o a priori, sia essa cioè l’intuizione immediata e totalmente passiva della recezione o l’intuizione immediata e parzialmente volontaria dell’immaginazione rappresentatrice, non comparirebbero mai né una unità che coordini i dati intuitivi in rapporti di simultaneità diversi da quelli spaziali e che quindi possa essere assunta come nota di concetto né una successione necessaria che sovraggiunga all’inevitabile successione temporale la nota della determinazione del susseguente da parte dell’antecedente. La fisica, quindi, a rigor di termini, non dovrebbe ritrovare i suoi oggetti, ossia i rapporti su cui si fondano le sue predicazioni, nell’esperienza. Guardiamo ora il ragionamento che ci offre Kant: partendo - 151 -dalla distinzione fra conoscenza ed esperienza e chiamando rappresentazioni gli enti che costituiscono la prima, oggetti gli enti della seconda, tra i due campi entrambi soggettivi si pone una duplice relazione, o l’oggetto dà luogo alla rappresentazione, nel qual caso si danno nella conoscenza gli enti empirici corrispondenti ai fenomeni sensoriali, o la rappresentazione dà luogo all’oggetto, nel senso non che dà luogo ad oggetti, ma che fa sì che gli oggetti dell’esperienza, i fenomeni sensoriali, vengano conosciuti in un certo modo. A questo punto Kant ricorre al solito parallelismo tra matematica e fisica: come nel campo dell’esperienza si danno come determinazioni degli oggetti determinazioni che sono a loro volta oggetti, ma oggetti puri, i rapporti spazio-temporali che non possono assolutamente considerarsi della stessa natura dei fenomeni sensoriali e a cui corrispondono le rappresentazioni sintetiche della matematica, e come per tali rapporti è stato dimostrato che debbono la loro presenza nell’intuizione al fatto che la rappresentazione che ne possediamo apriori dà loro origine in quanto si pone come un modo necessario con cui l’oggetto sensoriale può essere intuito, ossia può entrare a far parte dell’esperienza, così poiché nella fisica si danno concetti mediante i quali determiniamo gli oggetti dell’esperienza, non già in modo che possano essere intuiti ma in modo che possano essere pensati, cioè in modo che possano adattarsi agli schemi pei quali solo possiam pensare un oggetto – schemi della sostanza e della causa -, il fatto che tali determinazioni e rapporti siano presenti nell’esperienza e insieme non possano considerarsi oggetti dotati della sensorialità che caratterizza gli oggetti sensibili dell’esperienza, prova che essi sono oggetti puri, la cui presenza nell’esperienza è dovuta all’intervento della rappresentazione sintetica funzionale. Il ragionamento non peccherebbe in nulla, se gli oggetti puri della fisica si ritrovassero nell’esperienza nelle stesse condizioni in cui si ritrovano gli oggetti puri della matematica, e se gli oggetti puri della matematica potessero ricondursi ai semplici rapporti spazio-temporali: ora, si può notare che non si dà sensazione che non sia in un certo rapporto spaziale e temporale, e che quindi tutta l’esperienza è pervasa di determinazioni matematiche o quantitative; quindi il giudizio matematico può sempre presentarsi come un rapporto di predicazione che trova il proprio corrispondente nell’esperienza, quantunque non sia in grado di provare la propria apoditticità, ossia la costanza e uniformità del rapporto; ma se è vero che non si dà sensazione che oltre ad essere inserita in un certo rapporto spazio-temporale, è contemporaneamente associata ad altre sensazioni in un rapporto di unità o di costanza di successione, è altrettanto vero che sia l’unità che la costanza della successione non solo non godono di apoditticità ma non possono in alcun modo essere ridotte all’unità di una sostanza o al rapporto causale, in quanto nell’esperienza non si danno e non si daranno mai né il fattore della unità né il fattore della causalità; quindi il giudizio fisico non solo non può presentarsi come un rapporto di predicazione che nessuna garanzia può offrire della propria apoditticità, - 152 -ma neppure può porsi come un rapporto di predicazione che ritrovi una corrispondente relazione nell’esperienza: a parte il fatto che analoga critica può essere elevata anche al giudizio matematico in quanto questo nella realtà della conoscenza non si riduce mai a un semplice rapporto di identità quantitativa ma fa anch’esso appello ai concetti di sostanza e di causa, resta pur sempre l’aporia che quando dico «l’angolo alla base di un triangolo è alterno interno ecc.» enuncio un rapporto che i miei occhi vedono nell’esperienza, anche se nell’esperienza non ne colgono l’apoditticità, mentre quando dico «Socrate è mortale» i miei occhi vedono l’unità delle sensazioni che chiamo Socrate, ma non vedono quel fattore dell’unità, cioè l’umanità, che è non solo garanzia dell’apoditticità del giudizio ma è anche principio di quella unità che chiamo Socrate, allo stesso modo, quando dico «il fuoco fonde i metalli» i miei occhi non solo non vedono il fattore dell’unità entro le due unità sensoriali che chiamo fuoco e metallo, ma non vedono neppure quella nota che affetta il fattore dell’unità fuoco rendendolo atto a porsi come causa della fusione dei metalli. Nel giudizio fisico o logico c’è sempre qualcosa di più rispetto all’esperienza, vi è una aggiunta che nessuna trascendentalità può pareggiare: il rapporto della predicazione di un giudizio fisico è destinato a rimanere sempre privo del suo oggetto; perché, anche quando in nome della trascendentalità, faccio intervenire nell’esperienza una simultaneità necessaria o una necessità di successione, queste saranno oggetti puri che non adegueranno mai i concetti di sostanza e di causa. Il divario tra pensiero ed esperienza permane insuperabile.
Delle tre aporie a) dell’inesattezza dell’estensione del metodo trascendentale adottato per la matematica alla fisica, b) dell’errore della distinzione tra matematica e fisica, c) della necessaria inesistenza di un oggetto puro che adegui il concetto puro della fisica, deriva l’ultimo errore logico della deduzione trascendentale che è ancora un circolo vizioso.
Stabilito a) che anche se ammettiamo che una parte dell’esperienza, vale a dire tutti gli oggetti relazionali che intervengono ad ordinare gli oggetti empirici, sia un’elaborazione o intervento soggettivo, tale intervento non spiega affatto la reale struttura dell’esperienza, in quanto non si capisce perché un intervento universale e necessario dia luogo ad un’intuizione particolare e contingente –la categoria di causalità, unita al corrispondente schema trascendentale, dovrebbe dar luogo all’intuizione di un rapporto universale e necessario che nella realtà non si dà e che quindi non coordina affatto l’esperienza e la conoscenza, b) che il metodo trascendentale può tutt’al più aver valore per la matematica, spogliata in parte della sua natura logica, ma non può certo estendersi alla fisica, c) che sia la matematica che la fisica necessitano di trovare certi rapporti nell’esperienza, rapporti che di fatto nell’esperienza non si danno; ne viene che l’oggettività dei giudizi sintetici apriori può solo argomentarsi con un’effettiva presenza dei rapporti nell’esperienza: ora, a parte - 153 -il fatto che la deduzione trascendentale non riesce ad argomentare questa presenza, si ha che il giudizio sintetico apriori con la propria presenza nel pensiero è argomento dell’esistenza di corrispondenti relazioni nell’esperienza, e che le corrispondenti relazioni nell’esperienza debbono darsi come argomento della possibilità del giudizio sintetico apriori; il che è un vero e proprio circolo vizioso, che non solo non tiene conto del problema iniziale che è il dubbio elevato sull’esistenza di un giudizio universale e necessario e oggettivo quando si muova da presupposti empiristici, ma anche muove dall’esistenza del giudizio per argomentare l’esistenza del rapporto nell’esperienza e muove dall’esistenza del rapporto nell’esperienza per provare l’esistenza del giudizio.
I tre errori logici che inficiano la deduzione trascendentale quando venga interpretata come risoluzione del problema dell’oggettività del giudizio universale e necessario, comportano che la deduzione trascendentale venga privata di quest’aspetto che per Kant era fondamentale e che le venga conservata l’altra funzione di essere l’ultima tappa richiesta dal procedimento problematico. La possibilità del giudizio universale e necessario rinvia alle trascendentalità determinate del soggetto gnoseologico come a sua ragion sufficiente; e queste postulano una loro ragione nella trascendentalità generica e indeterminata del soggetto gnoseologico.
In primo luogo, poiché la distinzione si dà solo sul piano logico e non sul piano gnoseologico e sul piano reale, l’acquisizione dei giudizi universali e necessari, come reali, dovrebbe comportare l’esistenza reale in essi dei loro principi o ragioni logiche sovraordinate, e non dovrebbe essere necessaria alcuna deduzione trascendentale dei medesimi: come dai concetti di Socrate e di Platone, che godono di necessità logica in virtù della loro ottemperanza alle leggi logiche e di validità gnoseologica ed ontologica in quanto almeno sono assunti come rappresentazioni di quei reali che sono gli individui Socrate e Platone, è lecito risalire al concetto di uomo di mammifero di vertebrato, ecc., senza aver bisogno di una «deduzione» logica di questi che sono stati indotti e non ipotizzati come ragioni, così dal concetto di giudizio matematico geometrico aritmetico fisico, dovrebbe esser data, con gli stessi caratteri e nelle stesse condizioni dialettiche, la inferibilità dei concetti di giudizio universale e necessario di funzione trascendentale determinata di funzione trascendentale generica. L’inferenza dei generici sovraordinati dovrebbe far conoscere la struttura logica del concetto di giudizio geometrico aritmetico e fisico, dovrebbe cioè offrire le ragioni della sua pensabilità logica e della sua necessità logica, in forza delle quali si verrebbe a possedere una somma di cognizioni universali intorno al giudizio universale e necessario in genere, cognizioni che si dovrebbero poi applicare per sintesi e per deduzione ad ogni altro giudizio che si presentasse con gli attributi di universalità e necessità. La realtà del giudizio aritmetico geometrico e fisico dovrebbe essere posta di per sé, o come ontologica o come gnoseologica, e nulla dovrebbe ricevere dalla catena delle ragioni logiche sovraordinate all’infuori dell’esplicitazione delle sue ragioni, allo stesso modo che nulla la realtà di Socrate riceve dalla sua pensabilità necessaria di uomo mammifero, vertebrato, ecc. Poiché Kant invece si rifà alle ragioni logiche per dimostrare non tanto la necessità logica quanto la necessità gnoseologica ed ontologica del giudizio universale e necessario, questo comportamento trae seco che la conoscenza delle ragioni logiche sia non il frutto dell’analisi del concetto di siffatto giudizio in quanto reale determinato o gnoseologicamente od ontologicamente, ma di una ricerca di ragioni ontologiche che ne determinino l’esistenza reale come giudizio universale e necessario individuale e concreto e che, assumendo la veste di concetti, si debbono porre come nozioni necessariamente distinte dalle nozioni di cui si pongono come ragioni logiche. Per questa loro natura quindi non possono affatto considerarsi appartenenti allo stesso sistema gerarchico di concetti cui appartengono i singoli giudizi universali e necessari, ma debbono affermarsi inerenti a tutt’altra sfera gerarchizzata di concetti; e questo intende dire Kant stesso quando afferma che non si deve affatto confondere la conoscenza universale e necessaria determinata con la conoscenza trascendentale: la prima riguarda gli oggetti, la seconda riguarda i principi di un conoscere che sia a priori. Ma appartenere ad altra sfera di concetti significa appartenere ad altra sfera di realtà gnoseologica ed ontologica: questo parallelismo per cui la distinzione dei sistemi logici di concetti che sono ragioni logiche non necessariamente distinte dal condizionato, dai sistemi logici di concetti che sono ragioni necessariamente distinte dal condizionato, si riproduce nel gnoseologico e nell’ontologico, è valida sia per le dottrine che identificano la causa muovendo da una distinzione tra le ragioni del primo tipo e le ragioni del secondo che è soltanto di grado, sia per le dottrine che identificano la ragione ontologica accettando una distinzione tra le ragioni del primo tipo e le ragioni del secondo che è di natura: per un Aristotele la ragione logica corrispondente alla condizione ontologica del movimento dell’acqua è diversa dalla ragione logica del movimento dell’acqua: questa consiste nell’essenza e natura finalistiche dell’acqua, nella sua essenza che fa tutt’uno con essa; quella si identifica con una certa situazione in cui per la sua essenza l’acqua viene a trovarsi, e che ne offende la natura finalistica; per un fisico moderno, la ragione logica nozione della ragione ontologica dei mutamenti che i membri dell’equazione S = VT subiscono consiste nell’identità funzionale che sussiste nei tre fattori, quando entrano in relazione reciproca, identità funzionale che è il principio dell’essenza dell’equazione data e di tutte le equazioni consimili, ma la ragione logica che è nozione della condizione ontologica dei mutamenti che si verificano nei membri dell’equazione S = VT, non si identifica per nulla con l’essenza della equazione – ossia con il sistema dei concetti omogenei sovraordinati -, bensì con quel fattore che, ad esempio, provoca modificazioni di V – questo fattore non appartiene per nulla a tale sistema, ma è da ricercarsi in un concetto che appartiene ad altro sistema e che sussume sotto di sé V. Di qui la prima contraddizione che inficia il concetto di trascendentale di Kant: da una parte, tale concetto deve appartenere all’ordine delle ragioni logiche non necessariamente distinte dal concetto di giudizio universale e necessario in quanto nella realtà gnoseologica ed ontologica sono immanenti ad esso come suoi principi agenti dall’interno; dall’altra lo stesso concetto deve appartenere all’ordine delle ragioni logiche corrispondenti a ragioni ontologiche necessariamente distinte dal concetto di giudizio universale e necessario perché nella realtà gnoseologica ed ontologica sono distinte ed eterogenee da esso: solo infatti una tale distinzione consente di pervenire dialetticamente a quella realtà gnoseologica ed ontologica del giudizio universale e necessario, che altrimenti dovrebbe essere data e argomentata di per sé. In parole povere, come per provare la realtà di Mario mi sarebbe perfettamente inutile appellarmi ai concetti di uomo mammifero vertebrato ecc., se non mi fosse dato o di conoscere Mario stesso nella sua realtà ontologica, vedendolo, o di conoscere Mario nella sua realtà gnoseologica, vedendo i suoi genitori, così per provare la realtà del giudizio universale e necessario mi sarebbe perfettamente inutile appellarmi alla nozione di trascendentale, se non mi fosse concesso o di prendere contatto col giudizio universale e necessario nella sua realtà ontologica, o col giudizio universale e necessario nella sua realtà gnoseologica. E se affermo che la prima facoltà di possedere la nozione di giudizio universale e necessario mediante la presa di contatto con la sua realtà ontologica mi è negata, e dichiaro che, ciononostante, tale facoltà mi proviene solo dal piano gnoseologico mediante la presa di contatto con le sue ragioni che sono i trascendentali, allora io debbo fare di questi trascendentali dei distinti dal giudizio universale e necessario, distinti che son tali non solo sul piano logico, ma anche sul piano gnoseologico ed ontologico. I trascendentali quindi sono immanenti nel giudizio universale e necessario in quanto, come puri principi logici non necessariamente distinti, non possono sussistere di per sé e insieme sono dei distinti e diversi dal giudizio universale e necessario in quanto, come ragioni logiche corrispondenti a ragioni ontologiche, debbono sussistere di per sé e non debbono confondersi col giudizio universale e necessario, altrimenti non potremmo coglierli nella loro realtà gnoseologica ed ontologica, così come non cogliamo nella sua realtà gnoseologica ed ontologica il giudizio universale e necessario.
In secondo luogo, poiché la distinzione tra le funzioni trascendentali seconde e la funzione trascendentale prima si verifica solo nel campo logico ed è impossibile che si dia nel campo gnoseologico ed ontologico, dovrebbe sussistere tra quelle e questa una pura differenza di grado e non di natura, vale a dire si dovrebbe poter affermare che la connotazione delle funzioni trascendentali seconde e la connotazione della funzione trascendentale prima differiscono tra loro soltanto per quantità di note non per qualità di note, nel senso che la rappresentazione sintetica funzionale del soggetto trascendentale è la nozione di una unità generica, mentre le rappresentazioni sintetiche funzionali o intuitive o intellettive sono connotate dall’unità generica determinata da un modo particolare di unificazione. In parole più semplici, il soggetto trascendentale dovrebbe essere l’unità del molteplice, spoglia delle distinzioni dei modi in cui l’unità può darsi, mentre spazio tempo e categorie dovrebbero essere unità di un molteplice i cui componenti si sono posti in questa e non in quella relazione reciproca. Esaminiamo il concetto di categoria – quel che di esso può dirsi vale anche per l’unificazione in virtù dello spazio e del tempo: una categoria è prima di tutto un concetto, concetto che possiamo anche connotare; infatti Kant enuncia la definizione della causa; ma è un concetto che, a differenza dei concetti empirici, non trae origine da un oggetto, bensì dà origine ad un oggetto. Il concetto categoriale è in grado di fare ciò in virtù della sua duplice funzione che è da un lato quella di lasciarsi determinare da un concetto empirico e di inerire così determinato ad un altro concetto empirico, dall’altro quella di investire una molteplicità di sensazioni e di interporre in esse un certo rapporto universale e necessario – l’intervento della immaginazione produttrice può essere qui trascurato, in quanto non serve che a superare un certo gruppo di aporie, ed è quindi un sopraggiunto che nulla incide nella presente indagine - ; ma ciò può fare solo in quanto si pone come strumento di una certa esigenza implicita in un conoscere in genere. Le note della categoria sono quindi a) la strumentalità nei confronti di un’esigenza – è questa la nota prima e fondamentale senza la quale la categoria perde ogni ragion d’essere ed ogni essenza: il fatto che la categoria è mezzo ad un fine è il principio della categoria, ossia il carattere senza il quale la categoria non si dà -, b) l’intervento attivo nei campi gnoseologico ed ontologico, c) una particolare modalità assunta in tale intervento per cui ogni categoria si distingue dalle altre e non può essere sostituita da nessun’altra. Consideriamo, ora, il soggetto trascendentale: anch’esso è attività in quanto da un lato afferra tutti i concetti e li riconduce alla propria unità, non solo i concetti empirici ma gli stessi concetti trascendentali, dall’altro fa sue tutte le sensazioni costringendone la molteplicità a conglobarsi in unità; per far questo si vale delle categorie sia nei confronti delle sensazioni e dei concetti empirici sia delle categorie stesse: infatti, mediante la connotazione della categoria in genere tutte le rappresentazioni sintetiche funzionali sono state ricondotte, nonostante la loro molteplicità, all’unità di una sintesi, sia questo avvenuto in virtù dell’uso di una categoria o in virtù di un’azione diretta del principio unitario trascendentale supremo – questo Kant non ci dice né noi vogliamo ricercare al lume dei suoi principi perché non è nostra intenzione completare gli aspetti manchevoli della dottrina kantiana. Il suo intervento non è condizionato da nessuna modalità di procedimento, e si limita esclusivamente a porsi come un determinabile, nel senso più generico del termine, da parte di un qualsivoglia altro ente e a inserirsi con tale casuale e accidentale determinazione in un altro qualsivoglia ente: quella sua manifestazione che è appunto la rappresentazione dell’autocoscienza, ossia l’atto con cui diciamo nostro un qualsiasi ente conosciuto, consiste appunto in una facoltà indeterminata di lasciarsi determinare da qualsivoglia altro conoscibile e di inserirsi come nota connotante l’ente conosciuto. Finora, le note determinanti la nozione del soggetto trascendentale rispondono al particolare rapporto che dovrebbe sussistere tra soggetto trascendentale e trascendentali secondi onde possa tra loro stabilirsi il rapporto che deve sussistere fra un ente logico e la sua ragione logica non necessariamente distinta. Ma al soggetto trascendentale manca la nota fondamentale della strumentalità: il soggetto trascendentale non si pone come mezzo per nessuna esigenza. Si dirà che Kant proprio questo intendeva dire quando faceva della unità, ossia dell’Io puro trascendentale, la nota immanente, come condizione, nelle rappresentazioni trascendentali seconde. Certo, questo egli intendeva dire e fare; ma resta pur sempre il fatto che se vogliamo lasciare all’Io puro trascendentale il suo carattere di principio immanente nelle rappresentazioni sintetiche funzionali determinate in quanto loro condizione, dobbiamo trasferire la nota della strumentalità anche alla suprema ragione trascendentale; e allora, se tale strumentalità nelle rappresentazioni sintetiche funzionali seconde poteva essere determinabile nei confronti dell’unità dell’Io puro trascendentale, la strumentalità dell’Io puro trascendentale non può essere determinata che o nei confronti di un conoscere in generale o nei confronti di se stesso. Ma se concepiamo la nota della strumentalità come la rispondenza a un’esigenza insita nell’Io puro trascendentale, allora questo cessa di essere un trascendentale, cioè una semplice attività esercitata sul molteplice, un uno funzionale – vale a dire una attività che si esplica dinanzi a un molteplice, esigendo che nel molteplice cali un rapporto che ne faccia una sintesi -, e diviene un’attività, un’unità funzionale, una attività per rapporto sintetico generico, che ha in sé qualcosa di più che la semplice esistenza formale, l’esistenza cioè che nella realtà si dà solo nella struttura della sintesi e che solo da tale struttura riceve significato, potendo essere concepita in sé dopo che è stata colta nella sintesi; diventa un’unità funzionale che acquista un significato, e quindi un’essenza, anche al di fuori del rapporto: di esso, se non altro, si potrà dire non solo che è un rapporto di unità perché dovunque vi sia o unità o possibilità di unità lo si ritrova, ma anche che è un rapporto che ha in sé le ragioni di esistere per l’unico motivo, se si vuole, che non può non esistere dato che esso pone se stesso. Tutto ciò urta contro la natura puramente trascendentale dell’Io puro che ci obbliga a parlare di esso semplicemente come di un rapporto che esiste perché esiste un rapportabile. Se invece concepiamo l’Io puro trascendentale come un determinato, rispetto alla nota della strumentalità, dalle esigenze di un conoscere in generale, resta pur sempre il compito di definire che cosa sia questo conoscere: questo conoscere potrà essere la sistemazione di un molteplice; ma poiché la sistemazione del molteplice non può darsi senza il molteplice e poiché il molteplice si dà per una recettività, non resta che identificare la sistemazione con l’attività del recettivo, il quale recettivo da semplice funzione – questo recettivo, in quanto funzione, o s’identifica con le sensazioni stesse, togliendo loro la ragion d’essere e l’essere, oppure s’identifica con una facoltà di un ignoto, e allora presuppone un ignoto di cui, se non altro, si potrà dire che sogna -, trapassa a carattere di un’attività che è quella di darsi delle modificazioni e di disporle a suo piacimento. Ora, quest’attività è comunemente conosciuta, sin da quando il pensiero ha preso contatto con se stesso col nome, più gonfio di responsabilità, di anima o con il nome meno impegnativo di soggetto. E così, ancora una volta il trascendentale supremo ci rimanda a un qualcosa che s’identifica con esso, privato però della nota della trascendentalità. Lo stesso conoscere potrà essere invece il tentativo di ripristinare un ordine venuto meno; ma una serie di facili considerazioni comporta che tale tentativo sia riferito a qualcosa che non è né fenomeno né trascendentale. Dobbiamo quindi concludere che nel concetto dell’Io puro trascendentale kantiano è implicita una duplice contraddizione, riducibile però a una sola fondamentale: il fatto che i trascendentali in generale debbano sussistere nella realtà gnoseologica ed ontologica intrinsecamente nel rapporto particolare, o di relazione oggettiva o di predicazione, e nello stesso tempo distintamente da esso, e il fatto che il trascendentale supremo, o soggetto puro, debba sussistere nella realtà gnoseologica od ontologica intrinsecamente nei trascendentali secondi e nello stesso tempo distintamente da essi sono riducibili all’unica contraddizione, che nella concezione trascendentale del soggetto il soggetto deve sussistere come un assoluto per poter esplicare una funzione, e non può esplicare una funzione, se non riducendosi a un puro e semplice rapporto la cui esistenza è relativa ai rapportati. Questa è la contraddizione in cui tutte le filosofie trascendentali cadono, da quella di Schopenauer a quella di Rosmini: la rappresentazione di Schopenauer, che sarebbe un’entità sintetica di un soggetto per l’oggetto e di un oggetto per un soggetto, e in cui l’analisi che vi distingue l’oggetto dal soggetto avrebbe una portata puramente logica, è un predicato che s’adatta ad ogni atto particolare del conoscere – in quest’atto l’autocoscienza non può disgiungersi dall’ente conosciuto, e questo non può andar separato dal senso dell’autoconsapevolezza -; ma non può servire come predicato del conoscere in generale, perché in tal caso cadremmo in una relatività assoluta che non può in alcun modo essere concepita: qualora infatti la rappresentazione fosse il predicato di ogni esistente, che sarebbe tale in quanto conosciuto, non solo non potremmo parlare di nessun assoluto – la stessa volontà non avrebbe ragione di sussistere come ente in sé, in quanto conosciuto, del che ci dà atto lo stesso Schopenauer quando riferisce la sua conoscenza a un modo speciale di acquisizione gnoseologica, e sottopone la sua validità a un principio di verità che non rientra tra quelli da cui i comuni conosciuti dipendono -, ma neppure potremmo parlare di qualcosa, e si darebbe di nuovo l’assurdo di una totale inesistenza di un totale nulla che non è il cosiddetto annullamento del nirvana, bensì la vacuità dello zero; infatti tutto l’esistente si ridurrebbe a una relatività che non è quella a noi nota, a relatività cioè o causale o quantitativa, ma è la relatività di essenza per la quale la natura di qualcosa è relativamente alla natura di un qualcosa d’altro la cui natura è relativamente alla natura del primo ente: è la relatività cioè del relativo di se stesso, il che è un assurdo. Ma la contraddizione è implicita nella stessa dottrina delle cui aporie Kant rappresenta il catalizzatore, l’empirismo: l’empirismo infatti pone ad origine di tutto il conoscere le sensazioni che sono dei relativi per un soggetto, e non può non concepire il soggetto stesso se non come un conosciuto, e quindi un relativo o una somma di relativi. La contraddizione perciò è dovuta al misconoscere ciò che di necessariamente presupposto è implicitamente contenuto in una qualsiasi posizione empirista: che, cioè, il soggetto deve essere assunto a priori come un assoluto di cui nulla si può dire se non che la sua assolutezza è postulata dall’esistenza delle sensazioni. Anche la dottrina kantiana che nasce dall’accettazione di tutti i postulati dell’empirismo, ad eccezione di quello che la riduzione del conoscere alla sensazione comporti la relatività di tutte le conoscenze e l’impossibilità di un giudizio universale e necessario, accoglie fra tutti i postulati anche quello dell’assolutezza del soggetto, postulato al quale, per tenere fede al postulato fondamentale dell’universale e necessaria fenomenicità, si cerca di sfuggire senza peraltro riuscirvi. L’idealismo romantico non fece altro che enucleare questa necessaria condizione e dargli la veste che una metafisica immanentistica esigeva.
Si dirà che nella nostra interpretazione ci sono tre errori, quello di riferire la particolare relazione temporale e il particolare rapporto spaziale alla funzione trascendentale in generale e non a quella somma, già data, di molteplici fenomenici raccolti in unità che è il soggetto empirico, vale a dire questo determinato uomo-persona; quello di costituire la funzione trascendentale spazio-temporale ad attività funzionale a sé stante e indipendente dalla ricettività, mentre invece quella funzione è per Kant immanente in questa di cui non rappresenta che il modo necessario e universale in cui le sue affezioni si danno; infine quello di ritenere la ricettività una facoltà del soggetto in generale, e non dei soggetti empirici particolari. Che la ricettività debba essere considerata come una funzione o facoltà o attitudine propria del soggetto in generale e non dei soggetti-persone, mi pare che non si possa se non argomentare indirettamente da Kant, in quanto Kant mai ha posto il problema: Kant non ci parla che di una nostra ricettività, senza dirci se questa è da considerarsi come un attributo del soggetto-persona o del soggetto in generale; si potrebbe pensare che la particolarità delle intuizioni sensoriali dovesse costituire prova sufficiente di un’appartenenza della ricettività all’individuo e non al soggetto generico; ma di qui sorgerebbero due insormontabili difficoltà, una di carattere gnoseologico – attinente alla dottrina kantiana – e una di carattere logico, la cui contraddittorietà comporta la verità del suo contrario: anzitutto, se la ricettività fosse individuale e se la distinzione fra la ricettività dovesse considerarsi ridotta alle differenze qualitative che intercorrono tra le sensazioni situate per tutti gli oggetti individuali in uno stesso rapporto spaziale e temporale e che fondano la particolarità della sensazione, tale distinzione dovrebbe limitarsi alla pura essenza qualitativa senza investire il rapporto spazio-temporale e allora o si dovrebbe ammettere un’assolutizzazione dei soggetti empirici, dovuta alla loro partecipazione individuale a quell’assoluto che è il soggetto puro – e non si potrebbe più parlare di empiricità del soggetto individuale -, oppure si dovrebbe negare una partecipazione dell’individuo empirico all’assoluto del soggetto puro, e allora dovremmo accettare lo strano spettacolo di infiniti caos che ricevono l’ordine dall’alto, come luce emanata da uno stesso centro di intellettualità universale e necessaria, spettacolo che non solo ci richiama, per analogia, la dottrina medievale dell’intelletto separato, ma si presenta pure affetto delle stesse conseguenze, la contingenza e l’insussistenza come assoluti dei soggetti empirici; in secondo luogo se la ricettività fosse individuale, la distinzione tra le molteplici ricettività non potrebbe essere limitata alle differenze qualitative in quanto queste giocano entro limiti o margini che si danno identici per tutte le ricettività; le particolarità delle sensazioni sono particolarità di specie, non di genere, nel senso che si riducono a determinazioni diverse di uno stesso modo di ricettività; un colore è quello che è per le infinite conoscenze che se ne possono avere e per gli infiniti modi in cui si può dare e, per questo, detto colore è non in sé ma per tutte le infinite coscienze che lo conoscono, ciascuna a modo suo; ma, anche posto questo, non cessa tuttavia di essere un colore cioè una sensazione appartenente all’ordine dei fatti visivi; le sensazioni si riducono quindi a un certo gruppo di classi, gruppo che si dà numericamente e qualitativamente identico per tutte le ricettività; perciò non è lecito parlare di tante ricettività quante sono le coscienze, così come la molteplicità della specie non è argomento per dichiarare molteplice il genere cui si riconducono; avremmo il diritto di parlare di una molteplicità di ricettività solo alla condizione che fosse dato parlare di una molteplicità di complessi di classi di sensazioni, e avremmo il diritto di far ciò solo alla condizione che eliminassimo l’identità fondamentale del fenomenico e l’identità fondamentale della forma del fenomenico, che sono le condizioni sotto cui si dà la conoscenza – e quindi la possibilità di una molteplicità di coscienze individuali -; se l’unità fondamentale del mondo è la condizione di qualunque interpretazione della conoscenza del mondo, anche di quella trascendentale, dichiarare la ricettività individuale significherebbe entrare in contraddizione con lo stesso presupposto da cui si è mossi per parlare di una ricettività in genere; e se l’individualità è un predicato della ricettività che offende il principio di contraddizione in quanto la ricettività è condizione dell’unità del conoscere, unità che non può darsi in un’eterogeneità di ricettività, la ricettività potrà accogliere solo il predicato dell’inindividualità o genericità; resta pur sempre, è vero, quella particolarità specifica delle sensazioni; ma questa non può essere argomento sufficiente di individualità, almeno sulla base di una dottrina trascendentale la quale, nell’atto in cui riconduce alla genericità di un soggetto assoluto la ricettività con la sua serie di classi di sensazioni eterogenee, riporta insieme alla stessa genericità le specie che sono dei componenti ineliminabili delle singole classi; resta così dimostrato che la ricettività dev’essere un attributo del soggetto puro e non può fondare quindi l’individualità. Quanto poi al fatto che le intuizioni a priori si erigano ad attività funzionali non implicite nella ricettività, quest’affermazione solo in apparenza contraddice al pensiero kantiano; è certo che lo spazio e il tempo sono i modi con cui il soggetto accoglie in sé le modificazioni della sua ricettività, e che quindi spazio e tempo sono direttamente connessi con la passività sensoriale da cui non si possono scindere se non per un’analisi astratta, ma è altrettanto certo che spazio e tempo sono forme dell’intuizione sensoriale, e che come forme non si possono, è vero, distaccare e separare dal formato, ma non si possono neppure confondere e identificare con esso, spazio e tempo sono immanenti nella ricettività allo stesso modo che un rapporto è sempre immanente nella struttura di reciprocità di due rapportati; tale immanenza però non s’identifica affatto con l’immanenza dell’essere e natura ma con l’immanenza dell’esistere, che comporta la contemporaneità e l’inseparabilità di fatto e non la contemporaneità e inseparabilità di diritto; le ripetute affermazioni con le quali Kant vuol ribattere la diversa natura dello spazio-tempo e delle categorie, non significano per nulla che la diversità di natura investa la diversità logica in quanto i due gruppi di trascendentali si differenziano per gli oggetti cui si applicano, non per la funzione che esplicano; spazio e tempo, anche se distinti dalle categorie, non cessano di essere delle attività funzionali di relazionalità, e quindi in alcun modo la loro immanenza nell’intuizione in generale può essere scambiata per un’identità essenziale con quello che è solo uno dei fattori essenziali dell’intuizione in genere, cioè con la ricettività; per ciò le intuizioni pure sono in sé e per sé delle attività e come tali sono degli attributi del soggetto in generale che in alcun modo possono fondare una distinzione di persona tra i soggetti; d’altra parte, anche ammessa una loro immanenza essenziale nella ricettività, la dimostrazione già data della necessaria genericità di quest’ultima trarrebbe seco la genericità di ciò che in essa è immanente per essenza. Quanto poi al fatto che l’impossibilità di un’individualità personale dipenda dal riferimento del rapporto spazio-temporale particolarmente determinato alla funzione spazio-temporale in genere e non alla somma dei molteplici costituenti la soggettività personale, - questo riferimento sarebbe in sé un errore -, appare chiaro che una somma o sintesi di molteplici fenomenici non potrà mai costituire una soggettività di individualità personali in quanto l’unità che la fonda dovrebbe sgorgare o dalla sintesi stessa – e questo è un assurdo, sia perché l’unità è richiesta dalla sintesi stessa come suo principio sia perché una sintesi, sia pur vasta quanto si vuole, di enti che sono per un altro non potrà mai costituire di per sé un ente che sia in sé -, o da un nucleo assoluto di individualità personale, nucleo che verrebbe ad esplicare nel campo del conoscere quella funzione trascendentale di unità già esplicata dal soggetto trascendentale e la cui inutilità gnoseologica è fondamento per un’inutilità ontologica. D’altra parte, anche ammessa l’esistenza in sé di una sintesi di molteplici fenomenici autosufficiente, l’utilizzazione che questa fa dello spazio e del tempo sarà sempre un uso particolare di una funzione generale, non sarà mai un uso proprio – in altri termini, lo spazio e il tempo in cui essa immetterebbe sé e la propria esperienza, sarebbero uno spazio e un tempo generici e indeterminati, la cui determinazione non dipenderebbe dall’esistenza della sintesi e dalla sua natura particolare, bensì dalle altre determinazioni spazio-temporali in funzione delle quali la prima si dà; ad esempio, l’affermazione che questa penna con cui scrivo è qui e alle ore 11 del 2 ottobre 1958, sarebbe una determinazione dello spazio e del tempo dipendente dalla mia soggettività individuale e personale, se mi fosse lecito affermare che il qui e l’ora sono una determinazione i cui limiti vanno ricercati nella mia soggettività personale; ma il qui significa un certo rapporto spaziale, dipendente dai rapporti spaziali circoscritti, i quali a loro volta sono determinati da altri rapporti che li circoscrivono, e così via, e questi rapporti circoscritti, con cui si determina il qui non dipendono affatto dalla mia personalità; lo stesso si può dire del tempo.
Accetto volentieri l’obiezione fondamentale che al termine di questo mio discorso intorno all’esistenza degli individui empirici mi può esser mossa, avere io commesso il duplice errore da un lato di condurre un ragionamento tessuto con immagini e con concetti e quindi costellato di relazioni universali e necessarie ma trascendentali, il quale ha la pretesa di utilizzare strumenti puramente logico-gnoseologici per entità ontologiche e non fenomeniche, dall’altro di pretendere di oltrepassare i limiti del fenomenico per attingere il noumenico. Ora, io penso che quest’obiezione venga molto a proposito per risolvere alcuni momenti confusi che si racchiudono nei concetti di noumeno di fenomenico di trascendentale e di uso del trascendentale. Partiamo pure dalla definizione che Kant dà di noumeno in quanto concetto-limite e vediamo se di essa sono state poste in luce tutte le conseguenze implicite e se per caso l’intero discorso della Ragion pura non abbia usufruito del concetto e delle sue conseguenze.
«Chiamo – dice Kant – problematico un concetto, che non contiene alcuna contraddizione, il quale è pure connesso, come limitazione di concetti dati, con altre conoscenze, ma la cui oggettiva realtà non può essere conosciuta in alcun modo» ( …Ich nenne einen Begriff problematisch, der keinen Widerspruch enthält, der auch als eine Begrenzung gebener Begriffe mit anderen Erkenntnissen zusammenhängt, dessen objektive Realität aber auf keine Weise erkannt werden kann…); da questa definizione Kant non deduce affatto, almeno in apparenza, che il noumeno sia un concetto problematico, ossia che tra quello di noumeno e un concetto problematico passi un rapporto da particolare a generale o da specie a genere; dice solo che il concetto di noumeno, non essendo affetto da contraddizione – il noumeno è l’oggetto di una intuizione non sensoriale e non fenomenica che, come sua ragion sufficiente, non essendo negata da nessuna impossibilità, trasferisce il suo diritto ad essere pensata come un possibile da sé al suo condizionato -, avendo il compito di limitare la validità gnoseologica della conoscenza fenomenica al fenomeno (…Der Begriff eines Noumenon, d.i. eines Dinges, welchex gar nicht als Gegestand der Sinne, sonders als ein Ding an Sich selbst, (lediglich durch einen reinen Verstand) gedacht wereden soll, ist gar nicht widersprechend…) – di qui, il noumeno acquista l’attributo di necessario, nel senso che il suo pensamento ha la funzione di legge positiva in quanto impone alle nozioni fenomeniche di ritenersi valide sol per se stesse, e negativa in quanto impedisce alle conoscenze fenomeniche di estendere il loro dominio e quindi i loro caratteri a ciò che pensa l’intelletto, dovendosi in questo «ciò che pensa l’intelletto» (was der Verstand denkt) vedere delle nozioni intellettuali, intuitive però e non discorsive, giacché queste ultime mediatamente sono conoscenze sensoriali (…Ferner ist dieser Begriff notwending, um die sinnliche Anschauung nicht bis über die Dinge an sich selbst auszudehnen, und also, um die objektive Gültigkeit der sinnlichen Erkenntnis einzuschränken, (denn das übrige), worauf jene nicht reicht, heissen eben darum Noumena, damit man dadurch anzeige, jene Erkenntnisse können ihr Gebiet nicht über alles, was der Verstand denkt, erstrecken…) -, e infine non avendo un contenuto suo, sicché non offre nessuna rappresentazione determinata che sia nozione parallela e simmetrica di un reale intuibile non sensorialmente – è impossibile pensare determinatamente il concetto del noumeno possibile e riempirlo quindi di note che siano altre da quelle meramente logiche e funzionali, in quanto mancando la funzione dell’intuizione non sensoriale sarà lecito pensarla possibile, ma non intuirla reale e mutuare da essa e dai suoi atti un giudizio assertorio che investa l’esistenza della funzione stessa e del noumeno che sarebbe il suo prodotto (…Am Ende aber ist doch die Möglichkeit solcher Noumenorum gar nicht einzusehen, und der Umfang ausser der Sphäre der Erscheinungen ist (für uns) leer, d.i. wir haben einen Verstand, der sich problematisch weiter erstreckt, als jene, aber keine Anschauung, ja auch nicht einmal den Begriff von einer möglichen Anschauung, wodurch uns ausser dem Felde der Sinnlichkeit Gegenstände gegeben, und der Verstand über dieselbe hinaus assertorisch gebraucht werden können…) – è «di conseguenza»soltanto un concetto-limite («Grenzbegriff») «per circoscrivere le pretese della sensibilità e di uso puramente negativo» (…Der Begriff eines Noumenon ist also bloss ein Grenzbegriff, um die Anmassung der Sinnlichkeit einzuschränken, und also nur von negativem Gebrauche…). Il ragionamento è partito dalla definizione di un concetto generico, il concetto problematico, è passato attraverso il ritrovamento delle note connotanti tale concetto generico entro il concetto particolare del noumeno, ed ha concluso nel proclamare il diritto, in nome di tale ritrovamento, di pensare logicamente reali il rapporto da particolare a generale e la conseguente predicazione del generale al particolare tra il concetto particolare del noumeno e il concetto generico di concetto-limite; il discorso, con ciò, è valido alla condizione che concetto problematico e concetto-limite siano identici e reciproci, ossia due nomi differenti per una sola e stessa entità dell’intelletto o due differenti vedute di una sola e stessa entità dell’intelletto; e infatti, se stiamo al discorso di Kant, il concetto problematico non è altro che il concetto-limite guardato dal punto di vista della sua natura puramente logica di ente che è e non può essere altro che soggetto di un giudizio problematico, e il concetto-limite non è altro che lo stesso concetto problematico considerato però dal punto di vista delle funzioni che esso viene ad esplicare entro la sfera di tutti i contenuti dell’intelletto; ma queste funzioni non appaiono evidenti se non alla condizione di mettere in luce il rapporto da conseguenza a principio che di fatto lega un concetto problematico a un concetto-limite: la prima nota di ciò che Kant chiama concetto problematico è una nota negativa, il non contenere contraddizione, e così pure è negativa la terza nota, l’impossibilità della sua realtà oggettiva ad esser conosciuta in alcun modo; ora, per me, questa terza nota non può avere significato altro da questo, che non è data conoscenza del suo oggetto ossia di quel reale che a) è fuori dalla sfera dell’intelletto conoscente e pensante per concetti, b) perciò è altro da un concetto, c) quindi non è pensato dall’intelletto, d) quindi non è un reale perché reale per la coscienza è tutto ciò che in sé non è affetto da contraddizione e che per essere pensato tale deve essere comunque pensato. La prima e la terza nota quindi in quanto si contraddicono a vicenda non possono assumersi a fondamenti della definizione. Resta la seconda nota e su questa si deve lavorare: il concetto problematico è un concetto che limita altri concetti dati e con questi, che sono conoscenze, entra in un rapporto che è di limitazione: poiché concetti limitativi sono tutti i determinanti e poiché di determinanti ne troviamo di due tipi, essendo determinanti tutte le note specifiche che affettano un genere facendone una specie mediante il connotarlo con nozioni la cui analisi dà luogo a giudizi apodittici affermativi, ed essendo determinanti pure tutte quelle note specifiche che, aggiungendosi a un genere e facendone una specie, lo connotano con nozioni la cui analisi dà luogo a giudizi apodittici negativi, e poiché questi ultimi determinanti sono tutti concetti contrari e contraddittori di altri concetti in quanto sono la mera negazione di questi ultimi, dall’osservazione che solo i determinanti del secondo tipo sono tali da poter non essere contraddittori e da potere al tempo stesso e sotto lo stesso rapporto non essere paralleli e simmetrici di nessun concetto che sia il pensamento intellettivo di un reale che non è concetto ma è ente non contraddittorio di una sfera non intellettiva, si deve concludere che il concetto problematico coincide con il concetto-limite che è in sé il contrario e il contraddittorio per negazione di un altro concetto; d’altra parte, poiché il concetto contrario e contraddittorio per negazione di un altro concetto è destinato a rimaner tale – e quindi ad essere soggetto solo di giudizi apodittici negativi - fino a che non viene a coincidere con un concetto positivo nozione di un reale non contraddittorio in sé, ma contraddittorio del contraddittorio del concetto-limite negativo, e poiché finché tale coincidenza non si verifica il concetto-limite negativo resta un possibile ossia il soggetto di giudizi puramente problematici, si ha che la prima e la terza nota della definizione kantiana di concetto problematico sono conseguenze dell’essenza del concetto-limite negativo ossia dell’essenza di tutti i determinanti del secondo tipo, e in quanto conseguenze sono corollari di quel teorema che è la definizione di siffatto concetto; per completar la quale è da tener presente la facoltà posseduta dall’intelletto di pensare la negazione di qualsiasi suo concetto, ossia di pensare il «non» di qualsiasi suo contenuto – come quella che dalla negazione di tutte le note che connotano il concetto positivo ritrae la propria osservanza al principio di contraddizione per ciò che riguarda il suo diritto logico ad esser pensata in generale, ritrae la propria esclusione dal principio di contraddizione e quindi la sua possibilità come non offesa e non ottemperanza a tale principio rispetto alla sua portata gnoseologica ed ontologica. Per chiarezza sintetizzo in breve: sia A un concetto; l’intelletto può e deve pensare non-A, il quale si connota delle note non-a1, non-a2, non-a3, non-an che sono le contrarie contraddittorie per negazione delle corrispondenti a1, a2, a3, an, connotanti A: in forza di questa connotazione non-A è un reale logico, ossia un concetto ottemperante al principio di contraddizione; tuttavia per ciò che riguarda la validità gnoseologica ed ontologica di non-A, ossia l’identità «non-a1 ( = nota di non-A) = b1 ( = reale in sé in quanto in sé non contraddittorio) ≠ a1 ( = nota di A)», «non a2 ( = nota di non–A) = b2 (= reale in sé in quanto in sé non contraddittorio) ≠ a2 ( = nota di A) », ecc., non essendo dati né b1 ( = non-a1) né b2 ( = non-a2), né bn (= non –an), non-A è destinato a rimanere sul piano della possibilità non essendo lecito affermare né che «non-A non è» né che «non-A è» e quindi dovendosi accettare l’equipollenza dei due giudizi, equipollenza che fa di non-A un possibile. Siano dati poi i concetti A B C, di cui A sia genere, B specie, C nota specificante; si ha che «B = A. C.»; ma il pensiero potrà e dovrà pure pensare che «D = A.non-C», per la quale identitàsi ha che non-C è concetto contrario contraddittorio per negazione di C, destinato con ciò a) a limitare la portata di A, b) a limitare negativamente la portata di C, nel senso che le modificazioni apportate da C ad A permangono in B e sono limitate a B, ma non investono tutta la portata di A né di eventuali altri concetti che siano generi sovraordinari ad A, c) a mutuare dalla non contraddittorietà di C la propria non contraddittorietà e pensabilità, d) a rimanere vuoto di qualsiasi conoscenza che non sia la negazione in genere e in particolare di C finché non intervenga l’identità «non-C = X », essendo X concetto positivo e contraddittorio di C, e quindi fino a quel momento a restar vuoto di note positive, con la conseguenza di sfuggire al principio di contraddizione perciò che riguarda la sua identità con X e quindi la sua validità gnoseologica ed ontologica. Diremo quindi che un concetto-limite è un concetto contrario contraddittorio per mera negazione di un altro, che assieme a questo ha la funzione di determinare secondo due specie contrarie e contraddittorie per negazione un concetto generico con tutta la sua connotazione, mentre di per sé ha la funzione di negare l’opera di determinazione compiuta dal suo contraddittorio sul concetto genere e quindi di circoscrivere l’azione del suo contraddittorio all’ambito della sfera della specie di cui il suo contraddittorio è determinante; diremo ancora che corollari della definizione del concetto-limite sono la sua non-contraddittorietà sul piano logico e la sua vuotezza di connotazione positiva che gli impone di fuoruscire dalla giurisdizione del principio di contraddizione, secondo un modo che cassa la contraddittorietà delle due note-corollari, dandosi quella della non –contraddittorietà sul puro piano della logica, dandosi l’altra, quella dell’esenzione dalla giurisdizione del principio di contraddizione, sul piano della determinazione positiva che è piano gnoseologico ed ontologico; aggiungeremo ancora che poiché il concetto-limite così definito abbraccia una funzione che è propria anche di altri concetti che pure non sono contrari contraddittori per mera negazione, sarà opportuno distinguere le due classi e chiamare quel concetto che ora Kant predica come limite ora come problematico, concetto-limite problematico e gli altri concetti-limite apodittici. Il concetto di noumeno è concetto-limite problematico come quello che è nota specifica del concetto generico di atto della funzione di conoscenza per intuizione in genere, articolantesi nelle due specie di atto della funzione di conoscenza per intuizione sensoriale e di atto di conoscenza per intuizione non sensoriale; esso coincide con il concetto di intuizione non sensoriale, che è concetto negativo anche se coincide con intuizione intellettuale, da un lato essendo lecito sostituire intellettuale a sensoriale in quanto oltre alle due funzioni del conoscere per intuizioni e del conoscere per concetti altre funzioni sono impossibili, dall’altro non potendosi l’intuizione intellettuale connotare se non con la negazione delle note connotanti l’intuizione per sensazioni. Sistemato in questo modo il concetto di noumeno dal punto di vista della sua natura di ente meramente logico, resta da vedere ai fini della questione da cui siamo partiti quale uso l’intelletto abbia il diritto di farne.
Finora abbiamo studiato il noumeno solo come concetto da classificarsi in una delle classi in cui si dividono gli enti intellettivi e questo allo scopo di sapere in generale con che cosa avevamo che fare; ma se vogliamo sapere l’uso che abbiamo il diritto di farne, dobbiamo deciderci a connotarlo nei limiti in cui esso si lascia connotare, ossia con note contrarie contraddittorie per negazione a quelle connotanti l’intuizione sensoriale: è conoscenza non particolare e non contingente in generale, è conoscenza che non sostituisce alla particolarità e alla contingenza l’universalità e la necessità in forza del ricorso a trascendentali, è conoscenza che non consente l’intelligibilità mediante il riferimento a concetti principi costituiti dai trascendentali e perciò da eterogenei, è conoscenza che non è intelligibile per altro, è conoscenza che non limita la portata universale e necessaria al conoscente e alla propria appartenenza alla sfera del conoscente, il che equivale a questo che è conoscenza dall’universalità e necessità non relative; da queste connotazioni è lecito dedurre connotazioni positive, le quali però son destinate a rimanere vuote da reale acquisizione di nuovo in quanto la loro genericità non si specifica in nessuna nozione particolare che offra la struttura concreta e non astratta, e quindi particolareggiata nei suoi modi e nelle sue leggi, di una conoscenza noumenica: è conoscenza universale e necessaria in generale, è conoscenza che pone una universalità e una necessità proprie o peculiari, è conoscenza che consente l’intelligibilità in virtù del riferimento a concetti principi che essa racchiude in sé immanenti nella sua essenza e quindi totalmente omogenei con essa, è conoscenza intelligibile per sé, è conoscenza che pone una propria portata universale e necessaria al di là del conoscente in quanto possiede in assoluto gli attributi dell’universalità e necessità. Mancano nozioni determinate di cui la nozione di noumeno così connotata possa considerarsi genere in quanto, stando a Kant, nel nostro intelletto non c’è nozione di una cosa che abbia universalità e necessità in genere, come sue peculiari, come conseguenze di note in essa immanenti ed omogenee al tutto, oggettive, di una cosa intelligibile per sé e non per quell’altro che è il suo conoscente. E allora l’utilizzazione che del concetto di noumeno si farà non sarà certo quella di un concetto genere al quale si riconducano concetti per sussumerli sotto di esso e dedurre, una volta constatata la coessenzialità e la simultanea differenza di comprensione, quanto dell’essenza propria del genere si debba trasferire all’essenza della specie. Non si potrà dunque farne l’uso gnoseologico ed ontologico che i concetti offrono quando sono utilizzati in conformità ed ottemperanza alle leggi dell’intendimento. Si potrà farne soltanto un uso indiretto, ossia quello di escludere l’azione della nozione contraddittoria del concetto di noumeno, ossia del concetto di intuizione sensoriale, da quella sfera che non è né intuizione sensoriale né sua conseguenza o che, il che poi è lo stesso, non è predicata né intuizione sensoriale né sua conseguenza, quindi, niente metafisica, niente discorsi di teologia di cosmologia di indagine storica da un punto di vista metafisico, ecc. Ma a ben guardare il risultato è di gran lunga inferiore alla fatica che è costato in quanto non è una legge impediente che rimasta celata fino ad ora abbia condotto ad errori senza fine e che ora soltanto la sua messa in luce mette in opera, e neppure è una legge che una volta scoperta divenga di attuazione automatica: dall’età della pietra a Galilei nessun bravo tecnico e nessun scienziato sgombro da presupposti si erano accinti a studiare la natura o non facendo uso dei rapporti riconducibili a principi razionali presenti nell’intelletto e insieme nella natura o valendosi di quei rapporti per raggiungere un’intelligibilità dei fatti della natura attraverso la connessione di enti immanenti nella natura con enti esistenti fuori di essa; e questo metodo «innato» è l’equivalente pragmatico e spontaneo di quel controllo autolimitatore che l’intuizione sensoriale e i suoi prodotti esercitano su di sé dopo averne tratta nozione dalla riflessione sul concetto-limite di noumeno; per ciò quindi che riguarda gli errori della scienza la scoperta della legge non reca gran vantaggio; d’altra parte ne reca poco anche nell’altro senso, quello di una sua applicazione automatica e inesorabile, se, come Kant stesso dirà dopo, la metafisica è un errore o una dialettica naturale e inevitabile.
Ma non è questo quel che m’interessa: vorrei vedere se l’assunzione del concetto di noumeno e della sua azione limitatrice escluda davvero una qualsiasi nozione speciale che sia riconducibile al concetto come a suo genere, ossia qualunque conoscenza di quella cosa in sé della cui possibilità ontologica il concetto di noumeno è segno e della cui irrealtà ontologica la vuotezza del concetto di noumeno dovrebbe essere prova. C’è un punto nel passo della Ragion Pura riguardante la definizione del concetto problematico che «pare» abbastanza pieno di conseguenze per la questione che mi sta a cuore: là dove s’introduce la necessità di non estendere oltre certi limiti la validità dell’intuizione sensoriale, si pone al di là di questi confini «anche ciò che pensa l’intelletto», il quale pensato si sottrarrebbe al dominio della conoscenza sensibile. Ora, che cos’è questo «ciò» che è pensato dall’intelletto? Riferendoci alle parole testuali di Kant è zero: «noi abbiamo un intelletto che si estende al di là problematicamente, ma non una intuizione né un concetto d’una possibile intuizione, onde possano esser dati oggetti, oltre il campo della sensibilità…» Mi pare a questo punto di avere il diritto di fornire all’intera questione la soluzione sotto forma di un dilemma imperniato attorno al «livello ontologico» e all’apprendimento gnoseologico dei trascendentali. Di un trascendentale in generale si accetta tutto quello che esso indubitabilmente è, un’entità che è per altro e non per sé, un ente che è puro rapporto o insieme di rapporti, qualcosa che è in funzione d’altro, uno strumento del conoscere in vista di un certo modo del conoscere, un dato che immane entro altri dati; ma alla domanda in qual modo viene appreso dalla coscienza si deve rispondere che se è vero che esso non è mai conosciuto in sé – né mai lo potrebbe in quanto rapporto - e se è vero che esso non è mai appreso apriori, ma soltanto aposteriori essendo conosciuto assieme ai rapportati entro cui immane i quali sono dei sensibili o dei derivati dai sensibili, pure l’organo o la funzione che l’apprende non possono essere lo stesso organo o la stessa funzione che apprendono i sensibili e i loro derivati; data l’eterogeneità assoluta che divide i sensibili dalla loro forma non pare possibile che la sensorialità o ricettività e l’intendimento siano in grado di offrire alla coscienza conoscente entrambe le classi di dati; Kant non mi pare che si sia soffermato su questo punto e che non abbia accettato la presenza nel conoscente di entrambi i gruppi di dati, i fenomenici e i trascendentali, senza giustificare come mai una sola funzione sia atta a fornirli entrambi alla consapevolezza del conoscente, d’altra parte, anche l’origine dei due è differente, stando alla genesi del sensibile e dell’empirico il passivo della ricettività e alla genesi del trascendentale e dell’informatore universale e necessario l’attivo dell’elaborazione. Ora, non è mia intenzione qui di risolvere il problema dell’acquisizione del trascendentale ed opera del conoscente, se cioè sia frutto di un’analisi e quindi di un discorso oppure di un’intuizione, perché a ciò sarei tenuto se accettassi l’intera dottrina kantiana, il che non è; resta però questo che la mia ragione muovendo dai principi kantiani deve concludere in una differenza di apprendimento dell’empirico e del trascendentale e inoltre in una distinzione di natura dei due, con la conseguenza che se la facoltà con cui s’apprende l’empirico è l’intuizione sensoriale, una funzione non sensoriale deve apprendere il trascendentale, e che se ciò che è offerto dalla prima facoltà è il fenomenico, il trascendentale comunque appreso dev’essere non fenomenico. A questo punto non restano che due strade: dato che il trascendentale non è un fenomenico e non è appreso per le stesse vie del fenomenico, il parlare di esso, come Kant fa nell’Estetica Trascendentale e nell’Analitica Trascendentale, è un discorrere di esso applicando ad esso tutti i trascendentali mediante i quali il nostro intendimento procede a giudizi universali e necessari, e allora delle due l’una: o il trascendentale è di uso puramente fenomenico e allora di esso non è lecito far uso se non nelle scienze matematico-fisiche, restando qualunque altro discorso su qualsiasi altro oggetto che sensazione o derivato da sensazione non sia un puro esercizio della coscienza privo di alcun fondamento – con la conseguenza che le mie pagine non hanno alcun valore, ma neanche l’hanno tutt’ e tre le Critiche kantiane -; oppure il trascendentale e le sue applicazioni sono atte a travalicare i limiti del fenomenico alla condizione però di limitarsi a quelle tracce di noumenico che si danno entro il fenomenico stesso, rinunciando così alla pretesa di fare della metafisica come scienza assoluta e completa e insieme conservando il diritto limitatissimo sia di usare il predicato di noumeno per qualcosa che risulta tale entro il fenomenico stesso sia di cogliere i rapporti che intercorrono tra il fenomenico e siffatto noumeno, e allora a Kant è data licenza di scrivere le tre Critiche e a me di portarmi al di là del punto cui egli nelle tre Critiche è giunto con l’uso del predicato di noumeno. Perché nessuno mi convince che quel trascendentale non sia qualcosa di noumenico. Che se poi si vorrà osservare che il fare del trascendentale un noumenico comporta l’erigerlo a manifestazione di un noumeno sicché fra il trascendentale e il noumeno verrebbe ad esser pensato un rapporto di causa ad effetto che sarebbe l’applicazione di una categoria a un non fenomenico, dirò che è da guardarsi bene se entro il rapporto di causa in genere non sia dato dover fare una distinzione tra il rapporto causale fenomenico, inteso come rapporto di successione necessaria nel tempo o come rapporto di identità funzionale quantitativa, e il rapporto causale razionale che è rapporto di principio a conseguenza in cui il principio e la conseguenza non si distinguono né essenzialmente né matematicamente. In fondo il passaggio dalla conoscenza fenomenica alla conoscenza metafisica operato da Schopenauer, in nome del quale questi ritiene di avere il diritto di sostituire a un’impressione o rappresentazione muscolare la nozione del principio, è fondata su una siffatta distinzione.
La dimostrazione della validità gnoseologica del giudizio universale e necessario presenta, per ciò che riguarda la sua finalità che è di provare la presenza nel reale di rapporti equivalenti alle relazioni di predicazione del giudizio universale e necessario, una seconda aporia. Esaminiamo la nozione di unità trascendentale: essa coincide con una soggettività generica intesa come attività volta ad unificare in generale un molteplice onde renderlo oggetto di conoscenza; essa esplica le sue funzioni pel tramite di unificazioni particolari determinate con le quali si pone nel rapporto di fine a mezzi e di principio a conseguenze. La sua ragion d’essere gnoseologica è quella di un principio, se si vuole trascendentale, e la sua realtà di ente logico e gnoseologico è quella che le proviene dalla sua natura di ragione logica non necessariamente distinta. Ma se la soggettività, come unità trascendentale, è il principio delle unificazioni particolari, nessun’altra unificazione dovrebbe darsi in noi all’infuori dei vari tipi di predicazione che danno luogo ai vari tipi di giudizio. Ora, neppure Kant può affermare ciò: si danno altre unità di unificazione e in particolare quella del soggetto pensante e del mondo. La presenza di queste è spiegata mediante il ricorso ad un limite che la «ragione» pone onde fissare saldamente ad un principio assoluto certi processi polisillogistici che in altro modo sarebbero destinati ad un processo regressivo di convalidazione condotto all’infinito. Ora, più volte si è osservato che nella teoria gnoseologica kantiana non c’è posto per il sillogismo, perché di esso non si dà una necessità e neppure una ragion sufficiente. Ogni giudizio che sia universale e necessario è sufficiente a se stesso, sia per l’apriorità del suo principio trascendentale e della funzione trascendentale ad esso inerente sia per la corrispondenza con un rapporto reale il cui principio e la cui natura s’identificano col principio e con la funzione immanenti nella predicazione. In un’interpretazione trascendentale di tipo kantiano il sillogismo viene accolto perché la sua pensabilità è imposta dall’uso innegabile che ne fa il pensiero, ma non viene giustificato da una finalità e funzione proprie; il sillogismo non può essere uno strumento di normatività, nel senso che il suo intervento non può essere utilizzato allo scopo di trasformare un giudizio universale e necessario in quell’applicazione di una regola in cui consisterebbe il rapporto tra la premessa maggiore e la conclusione; infatti ciò si darebbe se fosse lecito trasferire una universalità e necessità dalla premessa maggiore alla conclusione senza l’intervento di nessuna categoria; ma a parte il fatto che tale trasferimento può aversi in due casi – o nel caso in cui le tre proposizioni del sillogismo siano state tutte dotate di una propria universalità e necessità e il pensiero si sia limitato a porle in un semplice rapporto di dipendenza, è il caso di Newton con la sua deduzione matematica delle leggi di Kepler dalla legge di gravitazione, o nel caso in cui solo la premessa maggiore e la minore si diano con la propria universalità e necessità e la conclusione attinga universalità e necessità dalla sua necessaria inferenza dalle altre due -, resta pur sempre da spiegare in nome di quale fattore trascendentale il pensiero abbia proceduto ad unificare i tre fattori distinti. Non ci si deve infatti chiedere che cosa apporti nell’economia della conoscenza la presenza del sillogismo e non si deve spiegare il sillogismo mediante i suoi effetti, perché con ciò si deroga dalla regola di fissare i diritti dell’ente gnoseologico, in questo caso di dimostrare l’universalità e necessità del sillogismo. Ora, tralasciando il sillogismo disgiuntivo, il sillogismo categorico e l’ipotetico sono anch’essi creature di una rappresentazione sintetica funzionale, la categoria di sostanza intervenendo nel primo, la categoria di causalità nel secondo: e l’intervento delle categorie non è limitato alla semplice sussunzione di un concetto e alla conseguente predicazione necessaria e universale di un altro, ma si estende anche alla sussunzione progressiva di due concetti l’uno nell’altro e alla conseguente predicazione di due altri concetti: il fatto cioè che, predicando P di M ed M di S si dia la predicazione di P di S, o non ha alcuna ragione, ma allora non si potrebbe parlare di una validità dei suoi effetti, o ritrova la propria ragione nell’intervento della funzione trascendentale. Ma qui sorge la prima difficoltà: una rappresentazione sintetica trascendentale o funzionale agisce solo attraverso alla determinazione che essa tollera da parte di un concetto e alla denotazione cui essa dà luogo, così determinata, nei confronti di un altro concetto: alla categoria, quindi, o deve venire attribuita una funzione più estesa, quella di tollerare determinazioni sempre più delimitate - nel senso che essa deve accogliere una determinazione già determinata da altra determinazione, la quale sia o abbia licenza di essere determinata da altra ancora e così via -, e quella quindi di denotare sempre più particolareggiatamente la comprensione del soggetto logico, oppure deve venir negata questa funzione: nel secondo caso il sillogismo cessa di avere una qualunque portata e i suoi effetti si riducono a un nulla; nel primo caso la categoria si arricchisce di una capacità di unificazione ben più profonda ed estesa. Kant nulla ci dice al riguardo, limitandosi ad inferire dalla presenza di un sillogismo la necessità di una catena indefinita di prosillogismi e ad asserire che i rapporti che si instaurano fra i tre giudizi del sillogismo, essendo relazioni o di inerenza o di causalità o di determinazione reciproca, ossia identificandosi con gli identici rapporti che si danno nei tre giudizi della classe della relazione, comportano l’intervento delle rispettive categorie; ma questo intervento, per le ragioni di cui sopra, si spiega solo mediante un ampliamento della funzione categoriale; negando questo si viene in fondo a negare un intervento della categoria stessa, e se si nega l’intervento di quest’ ultima il sillogismo cade in quanto si sottrae alla suprema ragione trascendentale. D’altra parte, se si ammette una catena indefinita di prosillogismi si ammette insieme che la premessa maggiore non goda di per sé di universalità e necessità, e quindi si toglie universalità e necessità a quella sua applicazione normativa che è la conclusione. Di qui due sole possibilità: o il sillogismo cade per un motivo o per un altro sotto l’azione di una rappresentazione sintetica funzionale – di qui derivano l’arricchimento sempre più vasto della comprensione del concetto-soggetto della prima conclusione, e insieme la ragion d’essere di una gerarchia per sovraordinazione di concetti, gerarchia cui la rappresentazione sintetica funzionale ha dato universalità e necessità -, oppure il sillogismo si sottrae decisamente all’azione di qualunque rappresentazione sintetica funzionale, e allora la catena degli episillogismi deriva la propria ragione dalla necessità di determinare, secondo universalità e necessità, la prima conclusione mediante la determinazione, secondo universalità e necessità della prima premessa maggiore, necessità che impone un processo indefinito da prosillogismo ad episillogismo – di qui deriva ancora un arricchimento sempre più ampio della connotazione del primo concetto-soggetto della prima premessa maggiore e una gerarchia per sovraordinazione di concetti, connotazione e gerarchia che difettano di universalità e necessità in quanto in una catena di episillogismi, in una gnoseologia in chiave trascendentale, non potrà mai darsi un termine ultimo di per sé universale e necessario; prima di proseguire il discorso cui il dilemma ha dato origine ritengo di dover elencare una serie di difficoltà che si danno nel concetto kantiano di sillogismo anche dopo che la questione ha ricevuto da me semplificazione: a) in primo luogo, se il sillogismo, ad esempio il sillogismo categorico, riceve la sua ragione dall’azione della categoria di sostanza, non si vede perché questa categoria che è capace d generare universalità e necessità nel giudizio intellettuale non dia luogo a una genesi di identici caratteri nella premessa maggiore del sillogismo, si dirà che la categoria quando opera sui concetti dà luogo a universalità e necessità in quanto contemporaneamente ordina le sensazioni sussumibili sotto i concetti, mentre ciò non fa quando opera su giudizi per ordinarli, e quindi gerarchizzare in sovraordinazione i loro concetti, nel sillogismo; ma così non si fa che rendere ancor più grave la difficoltà perché a una stessa categoria con immutata natura di rappresentazione sintetica funzionale si attribuiscono due attitudini contraddittorie, ad operare sul piano della sensazione quando elabora i concetti in giudizi e a non operare sul piano della sensazione quando elabora i concetti, attraverso il sillogismo, in gerarchie; e questo è in fondo quel che afferma Kant quando dichiara che la «ragione» non detta legge all’esperienza; ma allora la nostra categoria di sostanza intervenendo nel sillogismo cessa di essere il trascendentale che si dava nell’intelletto; ad ogni modo resta sempre la difficoltà di un giudizio, la premessa maggiore, il quale dovrebbe ricevere universalità e necessarietà della [dalla] categoria mentre invece le va a ricercare in un prosillogismo di cui si pone come conclusione; b) in secondo luogo, se è vero che uno degli effetti dell’intervento del sillogismo è quello di dar luogo a una gerarchia per sovraordinazione di concetti, non par chiaro perché mai la catena dei polisillogismi debba essere indefinita e infinita; da Aristotele in poi, e in fondo già lo aveva affermato anche Platone, si sa che non esiste catena gerarchica di concetti che risalga in generalità all’infinito; per quanto io abbia cercato di rendermi conto di ciò che vuole intendere Kant quando afferma che, dato un sillogismo, questo è sempre l’applicazione di una regola - qui l’applicazione ha come effetto la conclusione, e la regola coincide con la premessa maggiore – la quale è consentita dalla garanzia che un episillogismo dà della regola, e per quanto mi sia sforzato di tradurre in esempi quanto egli afferma in astratto, sempre mi son trovato di fronte a una serie di concetti che per garantirsi l’un l’altro dovevano porsi in un reciproco rapporto di sovraordinazione e subordinazione – il che mi risultava confermato dalla funzione attribuita da Kant alla «ragione» -; ma appunto per questo, se la catena dei concetti sovraordinati non può mai procedere all’infinito, neppure il polisillogismo non avrà termine; c) in terzo luogo, se accettiamo che il sillogismo si dia per intervento di una categoria, dovremo pure accettare che l’ordinamento dei concetti che la categoria crea tramite il sillogismo non si arresti al piano, diciamo così intellettuale – in cui «ragione» e «intelletto» si identificano -, ma si estenda anche all’esperienza, altrimenti la nostra categoria tornerebbe ad essere una funzione che agisce intermittentemente; allora anche nell’esperienza dovrebbe darsi l’ordinamento dei concetti, quale viene attuato dalla «ragione»; allora anche nella esperienza si dovrebbe dare un processo all’infinito, di natura ben diversa da quella che caratterizza tutti i processi fenomenici; che se poi si accetta che una concatenazione di concetti sovraordinati-subordinati non possa procedere all’infinito ma debba arrestarsi a un ultimo concetto generalissimo il quale non sarà un assolutamente condizionato, anche nell’esperienza si dovrà verificare una processione di realtà fenomeniche sovraordinate-subordinate le quali pongon capo a una realtà ultimissima che non sarà incondizionata. Tralasciando queste aporie che rodono le basi stesse della «ragione» e tolgono a questa e alla metafisica quel carattere di isolamento dalla conoscenza e dall’esperienza che era intenzione di Kant riservare loro, e ritornando al dilemma il cui svolgimento avevo abbandonato, si dovrà riconoscere che entrambi i suoi corni non ricevono ragioni dalla dottrina kantiana: non può darsi la prima possibilità perché la rappresentazione sintetica trascendentale dovrebbe, ad un certo momento, accogliere sotto la sua azione concetti non empirici e quindi estendere la sua funzione a una realtà che non sia il molteplice dell’esperienza, il che gli è negato dal suo principio che è l’appercezione originaria; non può darsi la seconda possibilità perché o si fa del sillogismo e di tutti i suoi effetti – trasformazione di un giudizio in regola, gerarchizzazione dei concetti, formulazione delle idee -, una realtà gnoseologica, e allora non si sottopone al principio trascendentale di tutta la conoscenza e quindi alle varie rappresentazioni sintetiche e funzionali – ma questo è già stato dimostrato impossibile, e tale a me pare nonostante l’affermazione contraria di Kant -, o si fa del sillogismo e dei suoi effetti una zona extraterritoriale nell’ambito della soggettività, e allora o si spiega questa zona in nome di una soggettività individuale personale molteplice – il che non può farsi in quanto, a parte l’impossibilità della soggettività individuale, da questa non potrebbe promanare nulla di necessario e di universale -, o la si spiega in nome della soggettività trascendentale la quale si dimostra impari a questa nuova funzione, oppure non la si spiega affatto, con la conseguenza di lasciare un vacuo nella dottrina della logica e della conoscenza, vacuo che nulla può colmare. In breve, la definizione che Kant ha dato della categoria o va ampliata o si rivela insufficiente; il principio dell’appercezione originaria o viene adattato alle ulteriori funzioni che la categoria deve assolvere, oppure se ne deve dichiarare l’insufficienza; il sillogismo o deve venir sottoposto a una nuova nozione della rappresentazione sintetica funzionale o deve venir privato di valore di conoscenza - con la conseguenza che i suoi effetti, tutti i suoi effetti, devono essere valutati un nulla, il che se è facile accettare per ciò che riguarda le idee, diventa impossibile per ciò che riguarda l’ordinamento dei concetti. Si dà quindi in Kant uno squilibrio tra la funzione trascendentale prima, le funzioni trascendentali seconde, la funzione logica del sillogismo: le funzioni trascendentali seconde sono state connotate in vista della loro utilizzazione nei confronti del giudizio, ignorando del tutto il sillogismo; la funzione trascendentale prima è stata pensata in vista della totale unità del soggetto conoscente e quindi in vista anche del sillogismo, ma è stata definita solo per ciò che riguarda le funzioni trascendentali seconde e i giudizi. Nessuna quindi delle ragioni della universalità e necessità del conoscere si rivelerà adeguata alla sua conoscenza.
Di qui scaturiscono altre due aporie. Il sillogismo è un’unificazione e come tale è presente nel pensiero; e allora una delle due: o l’unificazione sillogistica è presente nel pensiero e deriva una sua validità gnoseologica dal rapporto per cui, sotto una qualsiasi forma, entra in relazione con la ragione prima di ogni unificazione in generale, oppure l’unificazione sillogistica è presente nel pensiero, ma senza alcuna validità gnoseologica; ma non può essere che il sillogismo ponga a suo principio l’appercezione originaria in quanto dovremmo ritrovare nell’esperienza tutte le unificazioni del sillogismo, compresa la suprema, quella delle idee; d’altra parte, se il sillogismo non accetta il principio della suprema ragione trascendentale, nell’esperienza non dovrebbero ritrovarsi quei rapporti di sovraordinazione di reali che si traducono nelle relazioni imposte ai concetti dal sillogismo, mentre invece tali sovraordinazioni si danno; non solo, ma il pensiero dovrebbe trattare il sillogismo alla stregua del giudizio empirico, dovrebbe cioè accettarlo come un non universale e un non necessario, il che il pensiero sembra non fare non solo perché utilizza continuamente il sillogismo, non solo perché si vale del sillogismo come controprova della validità dei suoi giudizi, inferendo la validità delle premessa maggiore della sua necessaria relazione di generale con il particolare di una conclusione già di per sé accertata o trasferendo l’universalità e necessità della premessa maggiore alla sua necessaria conclusione, ma anche perché usa quei concetti-limite che la «ragione» ha formulato a chiusura di processi interminabili, come se fossero dotati della stessa oggettività di cui godono tutti gli altri. D’altra parte, c’è da chiedersi se questi concetti-limite o idee siano proprio un effetto necessario della presenza del sillogismo nel pensiero o non siano piuttosto l’effetto di una categoria che con la sua funzione pone da un lato il sillogismo, dall’altro l’idea. Stando a Kant, in una catena polisillogistica di sillogismi categorici, sarebbe la necessità di ritrovare un soggetto logico incondizionato, cioè un soggetto logico che possa essere solo soggetto e mai predicato, che indurrebbe la «ragione» a compiere il salto dall’empirico al metempirico, formulando la nozione di soggetto ontologico o anima la cui assolutezza e incondizionatezza privano il concetto corrispondente della necessità di assumere le funzioni di condizionato o di predicato; e la necessità di ritrovare un siffatto concetto logico incondizionato deriverebbe dal bisogno insito nel sillogismo di fondare la propria validità su un processo finito e determinato di prosillogismi, il primo dei quali con la propria assolutezza, e quindi universalità e necessità, garantirebbe il carattere di universalità e necessità a tutti gli episillogismi a lui subordinati. È già stato dimostrato: a) che tale necessità introduce un concetto di universalità e necessità che è distinto, se non contraddittorio e contrario, da quello che trae principio dal trascendentale, b) che l’introduzione di un concetto siffatto non ha alcuna ragion d’essere nell’economia della dottrina gnoseologica kantiana, c) che proprio per l’assenza di una tale ragione il soggetto conoscente dovrebbe assumere nei confronti del sillogismo, e quindi del polisillogismo, lo stesso atteggiamento che assume nei confronti del giudizio empirico, emanando sui primi la stessa sentenza di condanna e di invalidità gnoseologica che ha pronunciato sul secondo; perciò, la necessità che Kant ha dichiarato immanente nei polisillogismi categorici non può essere accolta e non può essere ritenuta il principio del concetto di anima; si potrà appellarsi ad altri fattori trascendentali e fare di questi dei principi della nozione di anima, se si vuole conservare fede alla dottrina kantiana; si dovrà ricercare altrove la genesi del concetto, senza per questo essere costretti a fare dell’anima un concetto universale necessario gnoseologicamente valido, se per motivi logici si rifiuta valore alle interpretazioni di Kant; analogo ragionamento può essere fatto rispetto alle nozioni di mondo e di Dio: anche in un’interpretazione kantiana, la necessità, implicita nei polisillogismi rispettivamente ipotetici e disgiuntivi, non può sussistere, e quindi non può costituire principio di tali nozioni.
D’altra parte si è già detto che non è accettabile quella situazione del polisillogismo – che sarebbe destinato a un processo regressivo di condizionato in condizione, che è a sua volta un condizionato – per ovviare alla quale la «ragione» dà luogo all'«idea»
Dico che a queste tre sfere tutto il conoscere, in un’interpretazione trascendentale in chiave kantiana, si riduce sia perché la distinzione tra un intuire e un pensare è una distinzione analitica e logica – una distinzione che si rivela valida nel campo della logica come sistemazione dei concetti elementari o fattori primi del conoscere, ma non può dichiararsi essenziale nel campo del conoscere in quanto soltanto certi presupposti, che cioè non si dia pensiero senza intuizione e non si dia intuizione senza sensazione, possono garantire la conformità della sistemazione logica alla struttura gnoseologica – sia perché la distinzione suddetta che sembra contravvenire alla nostra ha una portata e un significato genetici e interpretativi del dato gnoseologico, ma non riguarda affatto la classificazione a cui necessariamente dobbiamo arrivare quando consideriamo come si è venuta a sistemare la sfera della conoscenza dopo l’indagine che su di essa è stata svolta. Infatti è vero che nessuna conoscenza si dà senza la sensazione, ma è anche vero che nessuna sensazione si dà senza che sia stata strutturata in un rapporto; quindi conoscere significa rapportare, ma rapportare non già intuizioni, perché questo è avere esperienza e se vogliam dire che l’esperienza è conoscenza, allora non è più possibile distinguere un reale da un conosciuto, bensì concetti – io ho conoscenza non già quando vedo questo colore rosso in un certo rapporto spazio-temporale con questo colore verde, perché quella visione in una dottrina che abbia condotto alle estreme conseguenze l’empirismo deve essere dichiarata l’unica realtà e oggettività che sia data, anche se è modificazione di un soggetto conoscente ed è pervasa da relazioni instaurate dal soggetto conoscente stesso, e questo con tanto maggior ragione quanto più in un sistema trascendentale la realtà è stata ricondotta all’edificazione di un mondo ad opera di un soggetto assoluto che si modifica, non si sa perché, in un certo modo suo di cui non s può dire il perché -; inoltre è vero che di quei rapporti che sono tra i concetti alcuni hanno un valore certamente non scientifico o non oggettivo, ma è pur vero che tali rapporti sussistono come attesta non solo l’indagine che possiamo svolgere nell’esperienza, ma anche il fatto che è a noi lecito dubitare dell’universalità e necessità di un certo rapporto, sia perché possediamo nozione di altri rapporti privi di universalità e necessità nella cui classe nulla ci vieta di catalogare quei giudizi la cui universalità e necessità non è garantita da nulla, sia perché i rapporti che noi interponiamo fra concetti riguardano necessariamente quel reale dell’esperienza in cui nulla di universale e necessario è dato; infine, una volta accettata come valida la dimostrazione della validità gnoseologica dei giudizi universale e necessari, che ottengono così diritto di cittadinanza nella sfera del conoscere, permane sempre nella sua ineliminabile utilizzazione il sillogismo; infatti anche se il giudizio universale e necessario con la sua ragione trascendentale estromette dai diritti di validità scientifica il sillogismo, non per questo il sillogismo scompare dagli enti gnoseologici: non è certo la validità del giudizio universale e necessario che comporta l’inesistenza del sillogismo come ente del conoscere e neppure il fatto che la riduzione della scienza al giudizio universale e necessario, come a suo elemento, non rende più giustificabile l’utilizzazione del sillogismo, può togliere al sillogismo la sua costante permanenza nella sfera del conoscere; questa infatti gli è garantita dalla natura fondamentale del conoscere: se la conoscenza, in una concezione empiristica, non può essere che rapportazione di concetti, cioè in generale giudizio, sia questo giudizio oggettivo o soggettivo – sia particolare e contingente o sia universale e necessario -, il giudizio non potrà non applicarsi alla realtà, cioè all’esperienza; ma perché questo riferimento si dia è necessario che la esperienza venga scomposta in due suoi fattori entrambi sussumibili sotto i concetti che son predicati l’uno dell’altro nel giudizio, e che la necessaria sussunzione dell’uno di essi sotto il concetto-soggetto del giudizio comporti sia la necessaria sussunzione dell’altro sotto il concetto-predicato del giudizio sia il necessario rapporto dei due nell’esperienza – un giudizio percettivo infatti non è mai costituito da sensazioni ma sempre da concetti. Ciò può apparire contrario a quanto asserisce Kant; Kant infatti come esempi di giudizi percettivi, adduce una serie di giudizi, alcuni dei quali sono evidentemente costituiti da concetti – lo zucchero è dolce; l’assenzio è amaro; quando il sole colpisce il sasso, questo riscalda – altri invece sembrano costituiti da sensazioni – la stanza è calda = questa somma di sensazioni che si danno secondo questo particolare rapporto spazio-temporale e che il mio pensiero per la presenza in essa di alcune note essenziali ha sussunto sotto il concetto di stanza, si pone, relativamente a me, in rapporto con la sensazione che pure si dà secondo un particolare rapporto spazio-temporale e che per la presenza in essa di alcune note essenziali sussumo sotto il concetto di caldo - ; ma anche per la serie di giudizi equivalenti a quest’ultimo vale il principio che vale per gli altri, di essere costituiti da concetti; infatti, non solo le sensazioni vengono comunicate mediante rappresentazioni concettuali che ricevono la nota intuitiva, e quindi la perfetta corrispondenza con la sensazione, dall’aggiunta di una nota spazio-temporale, ma il reciproco riferimento avviene in virtù di un giudizio disgiuntivo di natura puramente concettuale che implicitamente si pone come condizione della predicazione relativa e sensoriale «la stanza è calda», in quanto manifesta una delle possibili relazioni che possono darsi tra tutti i possibili predicati e il concetto-soggetto di stanza – se dico che la stanza è calda, chi non è con me avverte benissimo che il giudizio che ho dato non è universale e necessario in sé e non è stato da me espresso con la consapevolezza di una sua universalità e necessità, ma nello stesso tempo mi riconosce un certo diritto logico ad enunciare la predicazione, diritto che m’avrebbe negato se avessi detto che la stanza è liquida: il riconoscimento di una logicità alla predicazione è prova che la predicazione dipende da una implicita proposizione disgiuntiva il cui soggetto logico è il concetto di stanza e tra i cui predicati disgiunti si dà il caldo, ma non il liquido -; a giusta ragione quindi possiamo dire che anche i giudizi percettivi sono immediatamente o mediatamente predicazione tra concetti; ora il fatto che un giudizio percettivo sia una predicazione di un concetto a un altro comporta che nel conoscere si dia sempre il sillogismo: solo infatti assumendo il giudizio percettivo come premessa maggiore e riconducendo i fatti di esperienza ai concetti del giudizio, come dei sussunti sotto di essi, è possibile il trasferimento del rapporto dalla predicazione all’esperienza. Ora, fra le tre sfere di conoscenza non si dà alcun rapporto in quanto il sillogismo non è che una manifestazione necessaria della forma logica del conoscere e tra i giudizi percettivi e i giudizi universali e necessari sussiste eterogeneità assoluta.
a) È lecito affermare che è sempre possibile un rapporto tra i componenti di una classe e la classe, nel senso che i componenti di una classe presentano in sé quelle note che sono state assunte a rappresentative della classe perché si ritrovano identiche in una molteplicità di dati; è lecito ancora affermare che in virtù di tale rapporto è possibile passare dalla nozione di una classe determinata alla nozione di un componente della classe in quanto tale passaggio non è che una identificazione che il pensiero opera tra un ente semplice, costituito dalla nozione sintetica delle note, e un ente complesso, costituito dalla determinazione che una o più note compiono sulla nozione sintetica, fondandosi sul principio di identità e di non contraddizione; ora, si dà nel pensiero una legge formale immanente, che potremmo chiamare legge della predicazione tra la classe e un membro della classe, legge per la quale è norma che, data una classe, è necessario predicare del membro la nozione della sua classe; questa legge interviene sia dovunque si diano classi sia dovunque la nozione di classe sia tale da potersi costituire membro di una nuova classe; nel primo caso la legge renderà necessaria una sola predicazione perché imporrà l’identificazione parziale della nozione della classe con la nozione della classe-membro sia l’identificazione parziale della nozione della classe-membro con la nozione del membro dato [ “sia l’identificazione parziale della nozione della classe-membro con la nozione del membro dato” questo passo ci sembra un refuso da togliere]; nel secondo caso la legge renderà necessaria una duplice predicazione, perché imporrà sia l’identificazione parziale della nozione di classe con la nozione della classe-membro, sia l’identificazione parziale della nozione della classe-membro con la nozione del membro; dalla duplice predicazione scaturirà necessariamente la terza predicazione costituita dall’identificazione parziale della nozione della classe con la nozione del membro; il sillogismo quindi è una forma necessaria del pensare che s’inserisce necessariamente nel conoscere, ma nulla ha che fare col conoscere, in quanto nulla ha che fare col contenuto del conoscere; la necessità della sua inserzione dipende dal fatto che non si dà conoscenza che non sia rapportazione di concetti. Ora, una rapportazione di concetti si fonda necessariamente sulla presenza nel nostro pensiero di almeno due classi, quella di cui il soggetto logico del giudizio costituisce la nozione della classe e di cui non si citano i membri, e insieme la nozione di un membro di un’altra classe, quella di cui il predicato del giudizio costituisce la nozione della classe e di cui viene indicato un sol membro, il soggetto-logico; pertanto non può darsi giudizio senza che si dia il sillogismo, sia il giudizio particolare e contingente o universale e necessario; ma il darsi del sillogismo non è che una conseguenza necessaria del darsi del giudizio ed è una conseguenza che non è implicita nel giudizio, bensì nella forma generale del pensare che rende lecito il giudizio; in altre parole, non è la realtà che consente il sillogismo e quindi non è la conoscenza intuitiva che la costituisce – empiristicamente parlando – che si dà come il principio primo del sillogismo, bensì è il modo secondo cui noi conosciamo questa realtà che costituisce il fondamento del sillogismo; quando stabiliamo un rapporto inerente immediatamente al reale intuito, noi diamo ancora luogo a un giudizio: la relazione che immediatamente stabiliamo tra il calore del ferro rovente e il dolore delle dita bruciate e per la quale allontaniamo subito le dita dal ferro, non è ancora un giudizio e non è ancora conoscenza; ma la relazione che mediatamente stabiliamo tra il concetto del calore di un ferro rovente e il concetto del dolore delle dita bruciate, è un giudizio, particolare e contingente o universale e necessario. Tale giudizio, in virtù del quale non solo ritrarremo sempre le dita doloranti da un ferro ma ci guarderemo bene dall’avvicinargliele, è fondato sulla facoltà di costruire classi, nel nostro caso due classi in cui si sistemano rispettivamente dei concetti e dei dati intuitivi; ma tale facoltà comporta lo scatto della legge della predicazione tra la classe e un membro della classe e il conseguente necessario intervento del sillogismo, la cui genesi quindi è insita nel pensiero e nell’elaborazione cui il pensiero sottopone il reale intuito. Il sillogismo quindi è una forma del pensare, il quale a sua volta è una forma di quel conoscere che si manifesta col giudizio. Di conseguenza il sillogismo è condizionato dal giudizio, ma il conoscere non è condizionato dal sillogismo; un sillogismo quindi compare dovunque si dia pensiero, cioè dovunque si dia giudizio; e perciò il sillogismo non dipende dal darsi di questo o di quel tipo, di questa o di quella essenza di giudizio: un qualsiasi giudizio, universale o categorico o assertorio, di qualsiasi natura, percettivo o d’esperienza, pone il sillogismo: possiamo quindi considerare il sillogismo come la forma necessaria del pensare, necessaria non già nel senso che sia la condizione necessaria e sufficiente del pensare, ossia del conoscere per giudizio, ma nel senso che è la forma che necessariamente assume una qualsiasi conoscenza che si dia per giudizio. Non si dà giudizio senza sillogismo, ossia il pensiero non si dà in atto senza che si determini in un giudizio e non si determina in giudizio senza che contemporaneamente, implicitamente o esplicitamente, si strutturi in sillogismo; quindi il pensiero non è giudizio, ma è sillogismo; conoscere significa classificare in almeno due classi e la classificazione di due classi comporta l’intervento del sillogismo; quindi il sillogismo è il modo del conoscere, o, se si vuole, la manifestazione del conoscere in generale. Dovremo, di conseguenza, assumere il sillogismo come il modo di conoscere del soggetto conoscente, senza con questo dichiarare il sillogismo l’unica forma «valida» del conoscere del soggetto dando cioè all’affermazione che il sillogismo dev’essere assunto come il modo del conoscere del soggetto conoscente una funzione descrittiva, non un valore gnoseologico, ed escludendo quindi che il conoscere sia sapere per deduzione – quando pronuncio il giudizio che il calore del ferro rovente provoca il dolore delle dita bruciate, e quando dichiaro che la enunciazione comporta l’immediato strutturarsi di un sillogismo, non intendo affatto che la problematica universalità e necessità del giudizio sia stata inferita da una conoscenza o giudizio più esteso dalla cui universalità e necessità ho inferito l’universalità e necessità del giudizio espresso, bensì intendo dire che la problematica universalità e necessità del mio giudizio nulla vieta possa essere garantita dall’inferenza dall’universalità e necessità di un giudizio più generale, e che la sua presenza nel mio pensiero comporta che qualunque intuizione che sia fatta membro della classe di cui il soggetto logico mi fornisce la nozione, riceve come predicato il predicato del giudizio, il che ha luogo sia quando dico che questo calore di questo ferro rovente che ora tocco provoca dolore alle dita, sia quando dico che qualunque intuizione di qualunque calore di qualunque ferro rovente toccato provoca dolore alle dita che lo toccano; il che si dà quando pronuncio o un giudizio percettivo del tipo «questo caffè è amaro», che è conclusione di un sillogismo disgiuntivo, o un giudizio percettivo del tipo «il caffè è amaro» che è la premessa maggiore di un sillogismo categorico, o un giudizio percettivo del tipo «quando il sole tocca la pietra, la pietra si scalda», che è premessa maggiore o conclusione di un sillogismo ipotetico.
b) Un giudizio percettivo ricava la sua ragione d’essere di giudizio in generale dalla forma tipica del conoscere, ma la sua ragion d’essere di giudizio particolare e contingente non la ritrova in nulla: la potrebbe ritrovare soltanto se fosse data la realtà di una molteplicità di soggetti conoscenti di cui ciascuno fosse individuale e personale; ma tale molteplicità scompare e si riduce a puro fenomeno quando ammettiamo l’immanenza in ciascuno di un apriori che è trascendentale. In un sistema kantiano una predicazione che sia particolare e contingente non è giustificata da nulla, e, a ragion di logica, non dovrebbe neppure sussistere, perché potrebbe darsi solo o alla condizione che il trascendentale fosse soggetto ad errore – ma il trascendentale, data la sua natura puramente apriori e funzionale, crea dei rapporti apriori che come tali sono veri in quanto universali e necessari e in quanto elaboranti contemporaneamente il molteplice del reale intuito -, oppure alla condizione che il trascendentale fosse in un soggetto conoscente, ma sotto forma di partecipazione -, in questo caso, esso dovrebbe giustapporsi come funzione gnoseologica creativa o a funzioni gnoseologiche altrettanto creative, ma non investenti l’elaborazione del reale sensibile, o ad attitudini gnoseologiche ricettive dei rapporti elaborati dal trascendentale e insieme tali da introdurre una deformazione o alterazione negli stessi rapporti. Ma se è assente una ragion d’essere del giudizio particolare e contingente – parliamo d’assenza di una ragione d’essere del giudizio particolare e contingente e non di assenza del giudizio particolare e contingente, perché questo non possiamo non riconoscerlo esistente in quanto dobbiamo riconoscere la presenza nella nostra conoscenza di predicazioni siffatte -, resta pur sempre la possibilità di descrivere il giudizio percettivo: questo inserisce un rapporto fra due concetti, al quale mancano l’universalità e la necessità in quanto il soggetto conoscente o non si preoccupa di ricercarle e di inserirle o assume se stesso a strumento della predicazione, negando contemporaneamente che il rapporto sia valido per altri soggetti. Il giudizio percettivo trova a suoi presupposti la possibilità di un rapporto in generale e la distinzione tra rapporti oggettivi e rapporti soggettivi. La distinzione tra rapporto oggettivo e rapporto soggettivo assume, a sua volta, il presupposto dell’esistenza di più soggetti conoscenti. Senza questi tre presupposti il pensiero che conosce non può predicare i concetti di particolare e di contingente ad un qualsiasi giudizio. Muovendo da questi tre presupposti, il pensiero conoscente predica, implicitamente o esplicitamente, i concetti di particolare e contingente ad un qualsiasi giudizio quando nella predicazione dei concetti che lo compongono ritrova un rapporto di identificazione che non possa non ritenere soggettivo, ossia relativo solo alla sua maniera di conoscere quale si dà nella situazione spazio-temporale in cui si trova al momento in cui conosce. A rigore, quindi, per un empirista, e Kant è un empirista, tutti i giudizi non dovrebbero essere né particolari e contingenti né universali e necessari. I fondamenti infatti di un empirismo sono l’esistenza di un soggetto conoscente in generale, l’attribuzione a questo soggetto di una capacità ricettiva consistente in una modificabilità che si traduce in sensazione, e di una capacità attiva consistente da un lato in un intervento introducente rapporti nelle sensazioni, dall’altro in un modo formale di classificare sensazioni e rapporti. Ora, l’esistenza di un soggetto in generale non comporta affatto l’esistenza di universalità e necessità di conoscenza, in quanto dovrebbe essere dimostrato che la capacità ricettiva e la capacità attiva permangono identiche nelle loro forme determinate; ma tale dimostrazione potrebbe farsi alla condizione che si potessero ritrovare sensazioni sempre uniformi e costanti, rapporti sempre uniformi e costanti e di conseguenza classificazioni e sillogismi sempre uniformi e costanti: sbaglia quindi Hume quando dichiara l’universalità e la necessità dell’identificazione causale come l’effetto di un modo psicologico del soggetto, l’abitudine – fatto soggettivo e non oggettivo - , e non tanto come vuole Kant perché l’abitudine richiede la ripetizione e quindi la presenza dell’universalità e necessità del rapporto già nella relazione causale che si sia data per prima, non già cioè perché l’abitudine non è meccanismo creatore di rapporti ma è una meccanicità che riceve dal di fuori e fissa il rapporto passivamente accolto, quanto perché nessun rapporto può essere immesso nella classe dei dati ricettivi ma solo nella classe degli apporti attivi del soggetto: e se nessun rapporto appartiene alla classe degli elementi passivamente accolti dal soggetto, solo la dimostrazione dell’uniformità e costanza del comportamento gnoseologico attivo del soggetto e delle forme attive in cui tale comportamento si manifesta potrebbe garantirci dell’universalità e necessità di un rapporto in genere e del rapporto causale in particolare. Ora, questa dimostrazione potrebbe darsi solo alla condizione che fosse nota l’essenza del soggetto gnoseologico in generale; ma per avere una tale nozione il soggetto dovrebbe prendere contatto con se stesso, attraverso una modificazione di se stesso che fosse insieme e rappresentazione – ossia non semplice senso della propria generica e indeterminata identità – e rappresentazione non intuita attraverso la ricettività, che fornisce sempre dati particolari e contingenti, il che non è pensabile; oppure potrebbe darsi alla condizione che di un qualsiasi rapporto, e quindi di una qualsiasi classificazione, potesse dimostrarsi l’immutabilità, l’uniformità e la costanza; ma tale condizione mai si verifica per nessun rapporto, in quanto solo di tutti i rapporti di una stessa classe che si sian dati nel passato si possono attestare tali predicati, ma non di tutti i rapporti della stessa classe che si daranno nel futuro. Ora, se la dimostrazione non può essere data né a priori né a posteriori e se non potendosi muovere per il ragionamento da nessun dato si deve solo argomentare dalle capacità ricettive e attive del soggetto, quali si manifestano nei fatti particolari, la necessaria aposteriorità dei principi dell’argomentazione trascina dietro quel che si è detto sopra circa i rapporti particolari, che cioè la loro soggettività, ossia natura attiva, è dimostrata, ma non è dimostrabile una loro universalità e necessità, e se queste non sono dimostrate, il rapporto non può essere assunto né come particolare e contingente né come universale e necessario: ma se il rapporto non può essere assunto né come particolare contingente né come universale e necessario, ne viene che anche il giudizio non sarà né particolare e contingente né universale e necessario. A giusta ragione quindi Kant dichiara che la presenza in noi dell’abitudine non può essere affatto addotta come ragion sufficiente di un giudizio affermato universale e necessario, ma erra quando muove dalla necessità e universalità della causa per sottrarla all’abitudine, perché la causa è un rapporto e del rapporto in sé non si può predicare né la particolarità-contingenza né l’universalità-necessità: si può parlare solo di giudizio che al soggetto è dato riscontrare universale e necessario per l’esperienza che finora ha avuto, e di giudizi che il soggetto pone come particolari e contingenti. Il giudizio percettivo quindi è un giudizio che il soggetto ritiene relativo a se stesso.
c) Il giudizio universale e necessario o giudizio di esperienza, ammessa come vera la teoria kantiana, è un giudizio che va debitore della sua universalità e necessità all’immanenza nel soggetto logico di una nota concettuale dotata di universalità e necessità che nel soggetto logico è inserita dal soggetto gnoseologico accompagnata dalla determinazione del predicato; il concetto immanente è apriori, non inferito dall’esperienza e quindi non sono inferite dall’esperienza né la determinazione del concetto puro da parte del predicato né la conseguente necessaria identificazione parziale del predicato col soggetto. L’universalità e necessità del giudizio d’esperienza non dipende, dunque, né dall’esperienza né dal soggetto individuale empirico, si verifica, certo, nella coscienza del soggetto individuale e trova corrispondenza – di qui la sua validità gnoseologica – nell’esperienza quale si dà alla conoscenza di tutti i soggetti individuali; ma è di natura assolutamente diversa dal giudizio percettivo, il quale riceve esistenza dal soggetto conoscente e trova corrispondenza nell’esperienza quale si dà alla sola conoscenza del soggetto individuale.
Si dichiarerà che il circolo vizioso è puramente apparente, in quanto Kant muove da un giudizio universale e necessario presente nel pensiero onde argomentarne la validità gnoseologica; ma è appunto questa dimostrazione che ci manifesta in tutta la sua concretezza il circolo vizioso: infatti un giudizio cui nell’esperienza non corrisponda alcun rapporto, può essere anche universale e necessario, nel senso che può essere tale che un pensiero non lo possa formulare in modo diverso in diversi momenti, ma non sarà mai proposizione di scienza fino a che non sarà dimostrato che il suo rapporto di predicazione è perfettamente simmetrico a un oggettivo rapporto di esperienza, e poiché l’esperienza siffatti rapporti non li offre mai di per sé, potrà anche ammettersi una predicazione universale e necessaria, ma questo non sarà né conoscenza né scienza. È appunto l’intento di dimostrare l’oggettività del giudizio universale e necessario che muove Kant alla deduzione trascendentale che lo porterà all’unità trascendentale del soggetto; ma tale deduzione vien fatta assumendo un giudizio che sia non solo universale e necessario, ma che sia anche conoscenza e scienza, in quanto il giudizio che è principio della deduzione trascendentale è un giudizio in cui vengono rapportati concetti empirici e che quindi viene assunto non solo come universale e necessario, ma anche come oggettivo. Infatti, è vero che la deduzione trascendentale vuol costringere il giudizio universale e necessario a rivelarci la fondatezza del suo preteso diritto di essere una conoscenza valida per un’esperienza che non ne offre l’oggetto, ma è altrettanto vero che, se non si fosse già considerata implicita nella rappresentazione sintetica funzionale seconda quella capacità di agire sui dati sensoriali, sarebbe stato lecito soltanto dedurre dall’unificazione dei concetti operata dalla rappresentazione seconda un’unità dei conosciuti, operata dalla rappresentazione sintetica prima, non già una funzione di questa rappresentazione sintetica prima esplicantesi nel campo del pensato e nel campo dell’intuito – se la deduzione trascendentale investe il giudizio «se il sole batte sulla pietra, la pietra si scalda», e dalla sua natura di unificazione universale e necessaria risale a un’unità funzionale generica che si esplica attraverso la categoria di causalità, l’unità funzionale generica potrà essere argomento dell’universalità e necessità del giudizio, ma non del suo valore di conoscenza, se non alla condizione di attribuire a tale unità un’estensione che investa anche la ricettività; ma tale estensione può essere fatta alla sola condizione che già alla categoria sia stata fatta tale estensione; infatti se per dimostrare che l’unità trascendentale fonda l’unificazione trascendentale e le garantisce una portata gnoseologico-scientifica, si dichiara che l’unità trascendentale è la funzione che impone a qualunque molteplice di strutturarsi in unità per essere conosciuto, e se si fonda la presunzione del giudizio d’esperienza a porsi universale necessario e oggettivo sulla necessità che un qualunque conoscere si organizzi in unità e che questa unità si realizzi sia nel campo del pensare che nel campo dell’esperienza, pel tramite però di quella categoria che fondava il giudizio, già al principio del ragionamento doveva essere attribuita alla categoria analoga funzione; altrimenti, se in origine la categoria fosse stata concepita incapace di agire anche sul sensoriale, il fatto che l’unità del soggetto trascendentale si esplichi pel tramite obbligato della categoria, poteva dimostrare la necessità e l’universalità del giudizio, ma non la sua oggettività. Ma si dirà che, essendo unica l’autocoscienza che accompagna come rappresentazione sia l’intuizione che il pensato, unica dovrà essere la funzione dell’autocoscienza trascendentale e che, se questa funzione si manifesta secondo i modi della categoria nel pensato, dovrà manifestarsi secondo identici modi nell’intuito. La obiezione non regge, perché la funzione dell’autocoscienza trascendentale assume i suoi aspetti di universalità e necessità solo nei riguardi del pensato, qualora la si affermi esplicantesi attraverso la categoria e non si voglia riconoscere, fin dal principio, anche alla categoria un’attività sull’intuizione e si voglia, invece, dedurre tale attività dalle proprietà dell’unità trascendentale; la funzione dell’autocoscienza trascendentale, dedotta dalla categoria così concepita, potrà sempre imporre la sua condizione di unità anche nell’esperienza senza che necessariamente introduca l’universalità e necessità anche nei rapporti di cui l’esperienza si riveste onde divenire un conoscibile; in definitiva l’esigenza della funzione trascendentale prima è l’unità, non già l’universalità e necessità, e qualunque rapporto particolare e contingente la soddisfa; che se poi si scopre che in qualche parte del conoscere il rapporto assume anche aspetto di necessario e universale, allora si potrà attribuire alla funzione trascendentale prima anche la caratteristica dell’universalità e necessità, ma soltanto per quella parte del conoscere. Muovere dalla categoria, negandole un intervento nell’esperienza o dubitando di esso per attenderne dimostrazione, significa giungere a un’unità trascendentale che, agendo attraverso la categoria, introduce universalità e necessità là dove la categoria interviene, senza per questo rifiutare alla stessa unità trascendentale la capacità di intervenire anche nell’esperienza mediante un intervento però che nulla ci garantisce abbia altrettanta universalità e necessità, a meno che non si affermi che anch’esso si esplica attraverso la categoria. Affermare però questo significa fare della categoria in sé una funzione attiva anche nei confronti dell’esperienza, che è appunto quello che Kant fa. Quando dunque Kant muove dall’unificazione delle categorie per risalire all’unità trascendentale e per discendere di qui ad un’unificazione che si dia identica nel pensato e nell’intuito, assume la categoria da un lato come un’entità che esplica la sua funzione sia nel pensato che nell’intuito, dall’altro come un’entità che esplica la sua funzione solo nel pensato e che attende dimostrazione della funzione nel campo dell’intuito, ed è naturale allora che cada in un circolo vizioso, in quanto dalla duplice funzione della categoria argomenta la duplice funzione dell’io trascendentale e dalla duplice funzione dell’io trascendentale argomenta la duplice funzione della categoria.
Anche per Hume ogni conoscenza si riconduce a un rapporto tra pensati, rapporto che deve dimostrarsi congruente col rapporto sussistente tra gli oggetti reali, che per lui empirista sono i dati dell’esperienza; quando il rapporto è congruente la conoscenza è scienza. Ma appunto per questa necessaria congruenza tra rapporti predicativi e rapporti oggettivi il concetto di scienza acquista per Hume un significato molto diverso dal tradizionale; non è più cioè nozione di una conoscenza universale e necessaria che dev’essere oggettiva, ma è nozione di una conoscenza oggettiva di cui si tratta di dimostrare l’universalità e necessità; la matematica dunque dev’essere certo accolta come ordine di conoscenze universali e necessarie in quanto nulla più [può] togliere evidenza e certezza ai suoi giudizi, ma si tratta di vedere se essa si possa considerare scienza, ossia conoscenza congruente con l’oggetto; ora nessuno dei suoi oggetti si dà nella realtà con la stessa perfezione con cui vengono pensati nell’idea corrispondente e nessuno dei suoi fondamentale rapporti, riconducibili agli unici due dell’uguaglianza e della disuguaglianza, è tale da essere ritrovato, con l’eguale certezza e chiarezza che si danno nel giudizio, nell’esperienza in quanto mancano adeguati strumenti e metodi di controllo; la matematica allora si pone come un ordine di conoscenze metempirico, privo di rapporti con l’esperienza; quanto alla sorgente dell’universalità e necessità dei giudizi matematici il dissidio fra quelli degli interpreti che la ritrovano nel fatto che per Hume il rapporto predicativo matematico è un rapporto analitico in cui il predicato è ricavato dal soggetto – per questo quindi in virtù della permutazione dei generi sarà sempre possibile ritrovare nel primo predicato eretto a soggetto una nuova nota da potersi riferire come predicato al primo soggetto, donde la facoltà della dimostrazione -, e quelli degli interpreti che la identificano con la particolare attitudine che il soggetto conoscente possiede di rappresentarsi intuitivamente enti geometrico-aritmetici la cui perfezione e la cui struttura non si verificano nella rappresentazione intuitivo-empirica, può essere benissimo sanato identificando l’idea matematica con la pallida percezione della rappresentazione intuitiva matematica; questa, in quanto costruzione fittizia e arbitraria, può essere conservata sempre aderente alla natura dell’idea corrispondente, donde la possibilità di costruire giudizi matematici universali e necessari, o relazioni di idee la cui analiticità non sarebbe altro che la possibilità di ritrovare sempre nella fittizia rappresentazione gli stessi rapporti che si danno nell’idea e nella predicazione, frutto dell’analisi dell’idea – la facoltà cioè che possiedo di rappresentarmi finzionalmente triangoli sempre perfetti e quindi sempre attuanti i rapporti essenziali tra le note dell’idea corrispondente che mi provengono sì dall’esperienza, ma che una volta introdotte nell’idea vi permangono come componenti immutabili, atte ad essere estratte per analisi ed essere predicate con universalità e necessità, senza più bisogno di un controllo sull’esperienza; mentre invece l’esperienza reale mi fornisce triangoli che non adeguano mai con assoluta conformità la connotazione dell’idea di triangolo e pei quali quindi non si verificheranno mai con costanza ed uniformità quei rapporti che invece sono stati introdotti nell’idea come componenti essenziali, cioè universali e necessarie; la nota dell’eguaglianza tra la somma dei triangoli e i 180º che ormai l’idea di triangolo possiede come essenziale, tale perciò da poter essere estratta e predicata ogni volta che se ne presenti l’occasione, sarà costantemente e uniformemente presente in qualsivoglia dei triangoli che possiamo costruire nell’immaginazione fittizia, non sarà mai presente nell’esperienza e non si potrà mai essere certi che sia presente nei triangoli oggettivi empirici -. Per Hume quindi la matematica gode del privilegio di una sua esperienza «personale» - l’intuizione del matematico, si potrebbe dire – che non coincide con l’esperienza oggettiva: tale esperienza garantisce l’eterna validità dei giudizi matematici, ma fa di questi delle conoscenze le cui relazioni difettano di congruenza con le relazioni fra gli oggetti; è quindi una conoscenza universale e necessaria, ma non una scienza, se per scienza s’intende una conoscenza oggettiva. Con ciò Hume ha accettato quei caratteri di universalità e di necessità che non si sentiva in grado di rifiutare alla matematica, ma ha confinato le conoscenze matematiche in un limbo, inutile e inutilizzabile, pari a quello della metafisica, limbo nel quale esse vivono di una vita propria, priva di qualunque adesione all’esperienza e ad altre forme di conoscenza. Le altre forme di conoscenza infatti hanno tutte il carattere di oggettività, in quanto i rapporti tra quelle idee che esse introducono nei loro giudizi, riproducono relazioni sussistenti tra gli oggetti empirici; se per scienza quindi s’intende una conoscenza che mantenga adesione all’esperienza, tutte le conoscenze della natura sono scienze; ma poiché i rapporti predicativi sussistenti nei giudizi fisici si rivestono di un abito di necessità e di universalità che essi non mutuano dalla analisi del concetto del soggetto, in quanto detti rapporti sono sempre aposteriori e danno vita sempre e soltanto a una predicazione, per dirla con Kant, sintetica, bensì da fattori psicologici ossia costituzionali della natura del soggetto e capaci di intervenire attivamente sulle idee, ma non sulle sensazioni, la loro oggettività è puramente limitata al passato recente o lontano e garantita solo dal passato, ma non ha alcun valore per il futuro. Vengono quindi in fondo anch’essi a offendere la legge dell’oggettività in quanto grazie alla carica di universalità e necessità di cui si riempiono pretendono di valere per tutta l’esperienza presente passata e futura; anche essi quindi finiscono per ridursi a giudizi analitici al pari di quelli della matematica; ma mentre i giudizi matematici conservano costantemente e uniformemente l’apoditticità in quanto la loro analiticità è garantita dall’immutabile congruenza fra oggetto empirico fittizio e idea, i giudizi fisici vanno spogli di qualunque apoditticità in quanto l’oggetto empirico reale non si presenta mai congruente con l’idea, e quindi il rapporto fra predicato e soggetto ha un’universalità che è valida per il passato e per il futuro e ha un’oggettività che è pure valida per il passato, ma non per il futuro, dovendo per questo ricondursi al controllo dell’esperienza. Le conoscenze fisiche pertanto conservano il carattere di scienza o conoscenza oggettiva fino a che si modellano sul dato di fatto attuale o passato, perdono i caratteri di scienza o conoscenza oggettiva non appena pretendono di erigersi all’universalità e necessità. Si deve quindi concludere: a) che non può darsi conoscenza che sia scienza se per scienza s’intende una conoscenza universale necessaria oggettiva, in quanto nessuna conoscenza umana riveste tale carattere; b) che può darsi solo una conoscenza universale e necessaria, quella delle matematiche alle quali soltanto è garantita la facoltà di trasformare il giudizio da sintetico in analitico ossia di arricchire ciascuna loro idea di note che siano sempre essenziali e quindi predicabili apoditticamente dell’idea da esse connotata; c) che può darsi una conoscenza oggettiva, quella della natura, alla sola condizione che i suoi giudizi permangano sintetici, vale a dire che la loro idea non venga connotata dai predicati forniti dai rapporti oggettivi come se fossero note essenziali, perché ogni volta che una conoscenza fisica riveste di universalità e necessità i suoi giudizi rendendoli analitici e connotando l’idea con predicati empirici quasi fossero note essenziali, decade dal livello di conoscenza oggettiva; d) che si danno di conseguenza due forme di conoscenza, una matematica, universale e necessaria, la quale è assolutamente disgiunta ed eterogenea dalle conoscenze fisiche e dell’esperienza reale, l’altra fisica, che può essere oggettiva, ma allora non è universale e necessaria, e può diventare universale e necessaria alla condizione di rinunciare all’oggettività; e) che nessun apporto può arrecare il principio dell’universalità e necessità della matematica alla universalità e necessità delle scienze fisiche, in quanto se è vero che il principio di queste è essenzialmente psicologico al pari dell’altro, i due principi però si riconducono a due diverse attitudini o facoltà originarie della coscienza, l’una atta a fornire all’idea un oggetto sempre adeguato e l’altra atta a fornire all’idea una tonalità particolare che la rende essenziale in certe note: l’una, con ciò, la matematica, è tale da godere del diritto di muoversi con tutta tranquillità secondo le leggi logiche del pensiero puro senza tema di perdere contatto con un’esperienza che è la sua, l’altra invece, la fisica, può muoversi secondo le leggi logiche alla condizione però di non garantirsi affatto di una costante adesione all’esperienza oggettiva; la matematica vive sotto il segno del principio di contraddizione, la fisica potrebbe vivere sotto il segno dello stesso principio se si adattasse a distaccarsi dall’oggettività dell’esperienza, ma poiché essa è costretta ad associare all’universalità e necessità dei suoi giudizi anche l’oggettività, il principio di contraddizione non è valido per essa. Per questo, una volta enunciata un’affermazione matematica, questa non tollera il contraddittorio, sia per l’adesione all’esperienza particolare sia per la dimostrazione, mentre invece l’enunciazione di un giudizio fisico tollera benissimo il contraddittorio in quanto urta sì contro l’universalità e necessità del giudizio, ma non contro la sua oggettività la quale è fissata dall’esperienza e non è vincolata al fattore psicologico che determina le altre due note del giudizio fisico. In fondo, il mondo della conoscenza humiano si quadritomizza in quattro sfere: la prima è costituita dal denominatore comune stabilito dalle leggi del pensiero logico che sono quel che sono e che in definitiva non fanno che ricalcare l’esperienza, concepita come intuizione, per la quale un oggetto è ciò che si dà intuitivamente e non può essere altro da come si dà; la seconda è la conoscenza empirica costituita da predicazioni di idee che ricalcano le relazioni oggettive, ma particolari e contingenti, dell’esperienza; la terza è la conoscenza matematica costituita da predicazioni universali e necessarie, ma non oggettive; la quarta è la conoscenza fisica costituita da predicazioni universali e necessarie e limitatamente oggettive. Se scienza è la congruenza delle relazioni fra le idee con le relazioni fra gli oggetti, solo la conoscenza empirica è scienza, ma privata delle note di universalità e necessità che di solito consideriamo essenziali nella connotazione della nozione di scienza; se scienza è una conoscenza universale necessaria oggettiva, nessuna delle quattro conoscenze è scienza e quindi non si dà una conoscenza che sia valida per tutte le coscienze in qualunque relazione spazio-temporale si trovino, e che non possa essere altro da quello che è; neppure si dà una conoscenza che sia previsione e apodissi. L’unica vera conoscenza è l’adesione all’esperienza, con tutti i caratteri di intrinseca mutevolezza che questa presenta, e di particolarità e contingenza che dalla mutevolezza derivano.
Anche Kant si sente in obbligo di accogliere la matematica nella sua veste di somma di conoscenze universali e necessarie, e attribuisce ai giudizi della matematica quel carattere di predicazioni apodittiche che nessun altro giudizio espresso sul reale fenomenico riveste. Muove allora da una distinzione di due campi del conoscere: nell’un campo le conoscenze sono di certezza eterna, nell’altro l’eterna certezza delle conoscenze in sé si rivela problematica e dev’essere dimostrata. La distinzione non viene però da lui limitata alla semplice natura dei rispettivi giudizi, ma viene estesa anche all’oggetto di cui i giudizi sono il ripensamento e la riflessione. La matematica ha come punto di applicazione l’oggetto nei suoi rapporti spazio-temporali, la fisica ha come punto di applicazione l’oggetto in altri rapporti che non sono quelli spazio-temporali. Consideriamo ora come Kant si comporta nei confronti della matematica. Anzitutto egli non pone neppure in forse l’universalità e la necessità dei giudizi matematici. È vero che la parte dei Prolegomeni dedicata alla matematica ha come titolo, che è poi una tesi da dimostrare, «Come è possibile la matematica pura»; è vero che l’Estetica Trascendentale della Ragion Pura non è che una dimostrazione dell’apriorità dei giudizi sintetici matematici, dimostrazione fondata sulla trascendentalità dello spazio e del tempo, ma è altrettanto vero che egli assume sin dall’origine la matematica come un complesso di nozioni universali e necessarie, di certezza apodittica, costituenti un corpo di dottrine già armonizzato, di mirabile estensione, e destinato a meravigliosi futuri sviluppi; ed è altrettanto vero che egli, sin dal principio, attribuisce alla matematica quel che non potrà attribuire alla fisica, vale a dire un totale distacco dall’esperienza e dai fondamenti sensibili di questa e, perciò, una struttura totalmente apriori. Le due note della scienza della matematica pura, l’apoditticità e l’apriorità, sono per lui dati di fatto che non debbono essere dimostrati nella loro realtà che è certa e offerta, ma abbisognano di ritrovare la loro ragione, una ragione che si dovrà ricercare certo nel soggetto una volta che si sia stabilito che l’oggetto empirico non offre alla matematica alcun fondamento. Muove in tal modo da una posizione che ricorda molto da vicino quella di Hume. Come per Hume le relazioni fra gli oggetti non erano il termine congruente con i rapporti tra i concetti della matematica, così per Kant le predicazioni dei giudizi matematici non sono affatto aposteriori e, sebbene sintetiche, non ritrovano il loro principio in relazioni corrispondenti poste tra oggetti intuiti. Ma a differenza di Hume egli non distingue due sfere di esperienze, una fittizia e privilegiata in cui il soggetto conoscente può costruire a sua volontà immagini perfette che ricalcano integralmente le note essenziali del concetto corrispondente, e l’altra reale e oggettiva in cui non è mai dato ritrovare un’immagine che riproduca in sé la connotazione essenziale del corrispondente concetto. Inoltre Hume riconduce tutti i rapporti matematici a due soli, quelli dell’eguale e del diseguale – in tal modo viene ad aderire al metodo dimostrativo delle matematiche che è in fondo un metodo di sostituzione in cui l’eguaglianza diventa sinonimo di sostituibilità e la sostituibilità sinonimo di reciprocità di concetti, con conseguente predicazione ad un concetto di tutti i predicati predicabili al concetto sostituito, e la disuguaglianza diventa sinonimo di insostituibilità e l’insostituibilità sinonimo di negazione di reciprocità di concetti -; Kant invece rifiuta al giudizio matematico la natura privilegiata di fondarsi su due sole connotazioni essenziali della predicazione cui il giudizio si riduce e lascia alla predicazione del giudizio matematico la nota comune a tutte le predicazioni, quella cioè dell’identità che fa del predicato un identico del soggetto logico. Con queste due correzioni, introdotte nella posizione di partenza del ragionamento humiano, Kant viene a disporre di una nuova base di lancio che offre molti vantaggi allo scopo cui tende il suo discorso, che è quello di dimostrare che il soggetto conoscente possiede in sé particolari facoltà con le quali è capace di costruire un giudizio matematico che sia universale necessario oggettivo. Il fatto che non si diano due esperienze, ma una sola, accompagnato dall’affermazione che la conoscenza matematica non si rifà assolutamente alla unica esperienza data, comporta due conseguenze: a) in primo luogo, in generale non può esser data una conoscenza che ritrovi la propria oggettività fuori dall’esperienza, e non può darsi una conoscenza universale e necessaria che non sia oggettiva, cosicché si dovrà accogliere il nuovo concetto di scienza come conoscenza che sia oggettiva e universale e necessaria; b) in secondo luogo, se la matematica è una conoscenza universale e necessaria dovrà essere pure oggettiva, in quanto i rapporti su cui essa si fonda dovranno ripresentarsi inalterati anche nell’esperienza, quantunque non si possa di qui arguire che siano questi rapporti a dar vita alle relazioni matematiche mentali, perché in tal caso la matematica perderebbe i suoi caratteri di universalità e di necessità che invece le spettano per ipotesi. Il fatto poi che il giudizio matematico sia al pari degli altri un giudizio in cui la predicazione è sinonimo di identificazione, comporta ancora due conseguenze: a) in primo luogo, tale identificazione non può essere considerata frutto di una semplice analisi perché in questo caso non solo la matematica sarebbe una scienza data una volta per sempre e non sarebbe suscettibile di alcun sviluppo ma non si spiegherebbe come mai la semplice considerazione di un concetto – quello, ad esempio, di angolo alla base di un triangolo – sia capace di farci ritrovare in esso una nota che sussiste solo alla condizione che si faccia appello ad un concetto diverso; ora, questo può farsi solo quando si sia osservato che lo stesso concetto è dotato di nuove note che gli derivano non già dalla sua connotazione primitiva bensì da un’altra connotazione di cui si riveste quando venga diversamente determinato – l’angolo alla base di un triangolo è insieme angolo alterno interno quando la sua natura di angolo perde la sua determinazione originaria, per acquistare l’altra di angolo situato entro lo spazio formato da due parallele e avente per lati una delle parallele e la trasversale alle due parallele; e poiché la nuova determinazione dà luogo ad un nuovo concetto, la nota che vi si ritrova, quella dell’uguaglianza con l’altro alterno interno, non può affermarsi affatto che sia stata ritrovata per analisi nel primo concetto; ciò che può averci fatto ritrovare la nuova nota non può essere che il nuovo concetto e il nuovo concetto è sorto solo dopo una certa esperienza; dunque senza questa esperienza mai avremmo potuto formulare il giudizio-matematico -; da ciò consegue che il giudizio matematico è sintetico; b) in secondo luogo, se il giudizio matematico fonda la propria predicazione sulla identità del concetto-predicato e del concetto-soggetto, non vengono più analizzati i concetti di uguaglianza e disuguaglianza che sarebbero le note della predicazione matematica, bensì si analizza in generale la natura del concetto matematico per vedere quale sia la nota essenziale che la caratterizza; una volta identificata tale nota, si dovrà allora concludere che l’identità tra i due concetti del giudizio matematico, identità che consente l’identificazione – e con l’identificazione la predicazione e con la predicazione il giudizio - , dev’essere ricercata entro quella nota essenziale che è la caratteristica del concetto matematico in genere. Così Kant ha fissato il suo cammino: da un lato, l’universalità e necessità del giudizio matematico non possono discostarsi dall’oggettività, e quindi i rapporti di identità che si ritrovano nel giudizio dovranno presentarsi entro l’esperienza - col che si pone il problema di giustificare la presenza in ciò che di sua natura dovrebbe essere particolare e contingente di qualcosa che invece si pone come universale e necessario - ; dall’altro, l’identità che fonda il giudizio matematico, se in generale deve considerarsi un’identificazione al pari di tutte le altre su cui si fondano tutti i giudizi, in particolare deve ritrovare la propria ragione non già in questa o in quell’uguaglianza che essendo, come già ha dimostrato Hume, uguaglianza non già di due concetti bensì di due enti empirici, non potrebbe mai essere ritrovata in quanto nessun mezzo è dato al pensiero per stabilire quando due enti empirici siano uguali, ma in una natura generale dell’ente matematico. Questa natura dovrà allora trovarsi, perché solo essa potrà fornire quei tipi molteplici di uguaglianza su cui si fonderà l’identificazione – e quindi la predicazione – dei molteplici giudizi matematici; tale natura, d’altra parte, è quella che consente il rapporto d’identificazione del giudizio; quindi non potrà ritenersi caratteristica del concetto, in quanto concetto empirico, ossia in quanto concetto corrispondente a un certo oggetto materiale – allora si verrebbe ad affermare in questo modo una derivazione del rapporto di predicazione dalla esperienza e, con ciò, a negare l’universalità e necessità del giudizio, ammesse come dati di fatto -; dovrà invece ritenersi caratteristica del concetto in quanto pensato, dovrà cioè essere concepita come qualcosa che appartiene al concetto, senz’essere derivato dall’esperienza, e quindi come qualcosa di nuovo apportato dal soggetto conoscente. Ora le nozioni matematiche non presentano tutte la stessa natura generale. La nozione di un ente geometrico qualsiasi è sempre caratterizzata da un certo rapporto spaziale che viene ad inserirsi entro un certo numero di enti empirici o empiricamente rappresentabili; l’universalità e necessità della nozione di un ente geometrico è fornita dalla costanza ed uniformità del rapporto spaziale e dalla riduzione degli enti empirici o empiricamente rappresentabili rapportati a un certo numero di enti empirici convenzionali che vengono assunti a rappresentanti di tutti i possibili enti che possono darsi con identico rapporto nell’esperienza e dei quali viene assolutamente ignorata la nota quantitativa; cosicché i possibili enti empirici che sono sussumibili sotto la nozione matematica potranno differenziarsi tra loro sia per la quantità che per la qualità dei dati empirici che li compongono, ma perché la sussunzione sia lecita, essi dovranno stare tra loro in quell’uniforme e costante rapporto spaziale che si dà come nota nel concetto: in nome di questa corrispondenza è possibile quel riferimento del concetto geometrico in genere a un ente empirico che Hume negava; infatti è vero, sia pure ammesso questo, che nessun ente empirico realizza in sé quella perfezione che è caratteristica della correlativa nozione geometrica in quanto questa è costituita da rapporti spaziali inseriti tra enti come il punto che è privo di dimensioni, la linea che ne ha una sola, il piano che ne ha due, una porzione di spazio che ne ha tre, enti quindi che nell’esperienza non si danno mai; tuttavia, in primo luogo si dà il fatto che gli enti empirici reali sono sempre riducibili alla natura convenzionalmente imposta agli enti empirici considerati dalla geometria – nella divisione, ad esempio, di una pianura in appezzamenti di varia forma geometrica, la realtà non mi offre una superficie a due dimensioni ma una parte di spazio a tre dimensioni, e precisamente una porzione di sfera, tuttavia mi è sempre consentito equiparare la base della mia parte di sfera a una superficie, data la perfetta equivalenza che posso stabilire fra il limite pianura-aria, limite che ha due sole dimensioni, e la parte della porzione di sfera che è a contatto con l’aria; lo stesso ragionamento può essere fatto per la linea, e anche per il punto, il quale può considerarsi il limite di quattro angoli diedri adiacenti - ; in secondo luogo, si dà il fatto che, se anche gli enti empirici non offrono mai nella sua totale perfezione l’immagine di una figura qual è concepita nella corrispondente nozione geometrica, tale perfezione può essere sempre raggiunta con quel processo di indefinita suddivisibilità cui il reale fenomenico si assoggetta – nessuna pianura terrestre può offrire l’immagine perfetta di una figura piana regolare, ma tuttavia può sempre venir suddivisa in un numero infinitamente grande di parti ciascuna delle quali può essere concepita come figura piana regolare, il che appunto è consentito da quel possesso della sola dimensione della lunghezza di cui una linea è dotata e per il quale una qualunque linea geometrica può suddividere un piano senza incidere sulla dimensione della larghezza -; in terzo luogo, si dà il fatto che l’infinita suddivisibilità degli enti empirici viene accolta dalla geometria, in nome appunto della convenzionalità degli enti empirici che essa ha inserito nei suoi concetti – l’infinita suddivisibilità non viene per nulla lesa dal fatto che nessun ente empirico si dà che sia infinitamente divisibile, in quanto ogni ente empirico reale o viene concepito come assolutamente privo di dimensioni e allora viene a coincidere col punto geometrico e con ciò si porta al di fuori sia della percepibilità sia della divisibilità e si sottrae alla presa della nozione dell’infinita suddivisibilità, oppure viene concepito come dotato di dimensioni, sia pure una soltanto, ma allora non coincide più col punto e viene considerato come un percepibile e insieme come soggetto a un processo di suddivisione infinita -; infine si dà il fatto che l’assenza di un oggettivo mezzo di confronto e di misura non offende affatto la geometria alla quale non interessa l’oggettività dell’unità di misura, bensì l’uniformità e costanza di tale unità e la possibilità di sostituire all’impossibile sovrapposizione, la facoltà di ricondurre i due termini confrontati all’unità di misura, che può essere infinitamente mutevole, ma deve rimanere uniforme e costante rispetto all’atto della misura dei confrontati. Tutti questi fatti comportano una riducibilità del reale fenomenico al reale puro della geometria e quindi l’applicazione del concetto geometrico all’ente empirico reale, alla condizione però che il reale fenomenico ridotto alle esigenze che la geometria gli impone mantenga inalterati i rapporti spaziali che ineriscono come nota essenziale al concetto; inoltre in nome della stessa corrispondenza è possibile il passaggio dal concetto al giudizio, la cui predicazione sia un’identificazione universale e necessaria; infatti, se una nozione geometrica è costituita da due note essenziali, in primo luogo da un certo numero di enti empirici convenzionalizzati, in secondo luogo da un rapporto spaziale in genere, sarà sempre possibile il passaggio da un concetto geometrico ad un altro concetto geometrico nel quale il rapporto spaziale essenziale viene concepito come immutato, ma in una situazione nuova creata dall’intervento di nuovi enti empirici convenzionalizzati determinanti, con i nuovi rapporti spaziali in essi intrinseci, il primitivo rapporto spaziale – senz’accogliere l’esempio che Kant adduce nei Prolegomeni circa la retta, esempio che è inficiato di errore, possiamo sempre servirci di altri esempi geometrici, onde cercare di capire che cosa intendesse dire veramente Kant; dato il triangolo ABC di base AB si dà il concetto di angolo in ^B, che sarà il concetto di angolo alla base di un triangolo; ma dato lo stesso triangolo ABC di base AB e col vertice C giacente sulla retta d parallela ad AB si dà pure il concetto di angolo in ^B alterno interno dell’angolo adiacente all’angolo in ^C e giacente sullo stesso semipiano, formato dal lato BC, in cui si trova l’angolo ^B; considerando i rapporti spaziali essenziali che connotano ^B come angolo alla base di un triangolo e come angolo alterno interno, vediamo che essi presentano l’identità determinata dal fatto che i lati dell’angolo in ^B sono rimasti immutati nella loro posizione reciproca; ciò che nei due concetti è mutato è costituito dai differenti rapporti spaziali cui l’identico rapporto spaziale è ricondotto, differenti rapporti spaziali che per il primo concetto sono costituiti dal fatto che l’angolo viene ad essere posto in necessaria relazione con gli altri due angoli della stessa parte di spazio cui appartiene, per il secondo concetto sono costituiti dal fatto che l’angolo entra in necessaria relazione con un altro angolo; l’identità però del rapporto spaziale essenziale, cioè la natura dell’angolo in ^B, non è mutata -. Tutto ciò rende lecito il sostituire l’un concetto all’altro e insieme rende lecito il dar luogo ad un giudizio la cui predicazione è un’identificazione, ossia l’espressione dell’identità dei due concetti; tale giudizio dovrà essere necessariamente sintetico, in quanto solo l’esperienza può fornire quella diversità di determinazioni spaziali con cui una particolare determinazione spaziale può entrare in rapporto. D’altra parte, la nozione di un ente aritmetico in generale non presenta affatto la stessa connotazione di un ente geometrico; anche nella nozione aritmetica in generale abbiamo degli enti empirici convenzionali, costituiti dalle unità, le quali possono essere costituite da una qualunque entità che però nell’atto di essere assunta nel concetto aritmetico sottostà alle condizioni di spogliarsi di ogni differenziazione qualitativa e di ogni suddivisibilità; dobbiamo quindi trattare gli enti empirici che il concetto aritmetico assume fra le proprie note come enti convenzionali; infatti nessun ente empirico reale si dà che sia totalmente omogeneo ad un altro e nessun ente empirico reale si dà come assolutamente indivisibile. Ma quantunque tali enti siano convenzionali sono tuttavia tali da poter consentire agli enti empirici di ridursi ad essi, sia perché ogni ente empirico è senz’altro almeno un reale, e sotto il punto di vista della realtà, cioè dell’ottemperanza al principio di contraddizione per cui l’ente empirico è quello che è e non può essere altro da quello che è nel momento in cui si dà, tutti gli enti empirici sono degli omogenei, sia perché ogni ente empirico può essere sempre assunto come un indiviso che è sì soggetto di suddivisione, ma che non è suddiviso finché non patisce o nell’immaginazione o nella realtà la suddivisione stessa. Nel concetto aritmetico però non si danno solo enti empirici convenzionalizzati, si dà anche un rapporto temporale tra gli enti; la presenza di tale rapporto fa degli enti un’unità e quindi una nozione. Non voglio qui addentrarmi nella natura di questo rapporto; c’è nella determinazione di questo rapporto un’aporia, che per ora non sono riuscito a superare, ed è che per definire il rapporto e differenziarlo dagli altri è necessaria la nozione di numero in generale, e quindi poiché tutte le nozioni aritmetiche si riconducono alla nozione di numero in generale, la definizione di rapporto temporale comporta la nozione aritmetica in genere; la quale non può sussistere senza la nozione di rapporto cronologico in genere; un’analoga aporia s’incontra del resto nella definizione di rapporto spaziale, il quale non è che una situazione in cui almeno due enti empirici vengono a trovarsi tra loro relativamente però ad altre relazioni spaziali o possibili o reali, le quali non sono che nozioni geometriche, cosicché per definire il rapporto spaziale in genere occorre una nozione geometrica in genere la quale a sua volta non può essere definita senza la nozione di rapporto spaziale. Accettato ad ogni modo il possesso della nozione di rapporto temporale come vincolo che connette l’uno all’altro gli enti empirici nell’unità di un concetto aritmetico, poiché uno stesso rapporto è sempre riscontrabile nella realtà empirica, si darà sempre la possibilità di una corrispondenza tra un ente empirico e un particolare concetto aritmetico; la stessa corrispondenza garantirà la possibilità di un giudizio aritmetico; infatti la nota essenziale di una nozione aritmetica si ritrova in una nozione aritmetica diversa – e la diversità nel caso della nozione aritmetica non è data, come nel caso della nozione geometrica, da una differente determinazione del rapporto spaziale essenziale, ma dalla diversità in cui i singoli enti empirici vengono posti in relazione cronologica fra loro; sarà allora sempre consentito dichiarare il secondo concetto identico al primo e procedere a una sostituzione dell’uno con l’altro, a un reciproco rapporto di identificazione che è insieme affermazione di identità e predicazione l’uno dell’altro, cioè giudizio – quando enuncio «7 + 5 = 12», io prendo due differenti concetti aritmetici, l’uno costituito da due successioni cronologiche distinte ma affermate tali da potersi considerare come una sola, l’altro costituito da una sola -; ma perché la identificazione avvenga non è mai sufficiente un solo concetto, perché in nessun concetto aritmetico si ritroverà mai come nota essenziale quel particolare tipo di rapporto cronologico che si ritrova identico – ma diverso nella situazione cronologica in cui gli enti empirici vengono a situarsi reciprocamente – in un diverso concetto aritmetico; soltanto l’intuizione diretta dei due distinti rapporti cronologici ci rende avvertiti della loro identità: per questo il giudizio aritmetico è sempre sintetico.
Si potrà, d’altro canto, obiettare che il mondo dell’esperienza, quale io l’ho tracciato, non è quello a cui Kant veramente si rifà, mondo fatto di complessi stabili di sensazioni in mutua relazione causale, bensì quello della semplice intuizione: io muoverei la mia critica a Kant partendo dall’esperienza come intuizione, ma non dalla esperienza come natura. Ora, si deve anzitutto notare che, anche ammessa l’obiezione come vera, una differenza tra l’oggetto delle matematiche come rapporto spazio-temporale e l’oggetto della fisica come rapporto causale, continua a sussistere entro lo stesso campo dell’intuizione in quanto il rapporto matematico empirico inferisce la propria necessità dalla costanza e uniformità mentre per il rapporto fisico empirico si dà proprio il caso contrario che sia la costanza ed uniformità ad essere mutuata dalla necessità; sia dato nel campo dell’intuizione un angolo alla base di un triangolo; quando diciamo che esso è necessariamente anche alterno interno, non intendiamo altro che rimane costantemente e uniformemente possibile che la parallela alla base tracciata per il vertice dia luogo a due coppie di alterni interni uguali, all’una della quale appartiene il nostro angolo; con tutto ciò però il nostro angolo alla base non è alterno interno finché non sussistono gli oggettivi rapporti che lo rendono tale; è dunque costante ed uniforme il rapporto di uguaglianza dei due angoli alterni interni e di tale costanza e uniformità si arricchiscono tutti gli angoli che si mettono in quella situazione; ma la necessità che un angolo sia alterno interno di un altro e quindi uguale ad un altro può venire soltanto dalla costanza e uniformità del rapporto; nessun angolo è in se stesso alterno interno e nello stesso tempo tutti gli angoli lo sono degli altri angoli uguali; l’uniformità e la costanza del rapporto genera la necessità del rapporto stesso, in quanto ne determina la possibilità; in altre parole dal momento che un determinato rapporto matematico che si dia entro certi enti permane in sé sempre costantemente e uniformemente uguale, tale rapporto può sempre essere e quindi non può non essere, essendo tutti i rapporti dati assieme allo spazio e al tempo. Ma una necessaria successione può darsi anche nel campo della semplice intuizione. Ora, l’obiezione che mi si potrebbe muovere va indirizzata piuttosto a Kant che a me; infatti, se veramente l’esperienza, tale quale l’intende Kant, fosse l’esperienza della natura, allora le categorie dovrebbero operare nello stesso modo come operano lo spazio e il tempo, vale a dire limitandosi a porsi come schemi fissi di un’intuizione la quale si presentasse come moltitudine di sensazioni già sistemate in una certa simultaneità e in una certa successione, e quindi a intervenire come semplice sigillo di universalità e necessità nei membri del giudizio; ma la categoria non solo non opera sulle sensazioni dell’intuizione se non attraverso la mediazione degli schemi trascendentali, ma anche agisce direttamente sul giudizio arricchendone il concetto del soggetto di note che non vengono affatto desunte dall’esperienza; l’esperienza quindi al cospetto della quale Kant pone il giudizio fisico è l’esperienza dell’intuizione, e quindi abbiamo tutto il diritto di affermare che nell’esperienza si danno i rapporti matematici, ma non i rapporti fisici.