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CAPITOLO QUARTO Il circolo vizioso fondamentale | «» |
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Il circolo vizioso fondamentale
Le varie aporie discusse sopra incidono su aspetti della dottrina kantiana e vengono a porsi come altrettante domande che non ricevono risposta. Ma se esse si danno come motivi differenti di insoddisfazione, come lacune che non trovano possibilità di riempimento – in quanto spesso mostrano il loro volto di coartazioni imposte alla realtà dei fatti per piegarla alle necessità dialettiche del sistema -, sarebbe forse il caso di ricercare se nella struttura stessa del sistema non sia presente una qualche aporia fondamentale dalla quale tutte le altre più o meno direttamente dipendono.
Il metodo per possibilità o metodo problematico è uno strumento particolare di cui è dotato il pensiero. La logica non ne ha tenuto un gran conto, in quanto da un lato esso non ha vita indipendente e autonoma nella nostra discorsività interiore, ma sempre si connette come il condizionato alla condizione al controllo dell’esperienza e, non appena abbia ricevuto attraverso il controllo la sua conferma, tosto si trasforma e assume la veste di un comune processo induttivo-deduttivo, dall’altro, mentre in apparenza coincide con un’unica catena discorsiva che è un polisillogismo ipotetico, di fatto consta di due serie di giudizi sovraordinati e concatenati, l’una delle quali non ha alcuna validità gnoseologica essendo un tutto il cui principio problematico scarica la problematicità sui subordinati, e l’altra mutuerebbe dal proprio valore logico una portata gnoseologica ed ontologica se non fosse, proprio sul piano gnoseologico, condizionata dalla prima: insufficienza, complessità, usufrutto di strutture proprie di differenti processi logici hanno fatto del metodo problematico un trascurato dalla scienza. Nella sua forma più tipica e più sfruttata il metodo problematico si dà come metodo di creazione di ipotesi che attendono di diventare leggi e di trovare enunciazione in un giudizio o in un sillogismo o in un polisillogismo ipotetici apodittici. Considerato in sé e per sé, è uno strumento autonomo la cui esistenza è circoscritta rigidamente dalle leggi logiche come da altrettanti confini, e con ciò si pone esclusivamente nella sfera del pensato. Qui, dove i concetti hanno vita solo alla condizione di non offendere nessuna delle quattro leggi del pensiero, è lecito sempre introdurre un concetto problematico ossia affetto dalla nota della possibilità ogni volta che non si diano ragioni o per accoglierlo sotto la forma della realtà o per respingerlo in quanto affetto di irrealtà. Un qualunque dato dell’esperienza può trasferirsi nella sfera concettuale sotto l’abito di concetto problematico, purché siano ignote le ragioni del suo dover essere o del suo non poter essere, perché un qualunque dato di esperienza o passato o presente o futuro di cui si ignorino le ragioni, indipendentemente - 188 -dal tempo in cui si è verificato, quando manchino ragioni cui riferirlo, non può cadere sotto il principio di ragione e, di conseguenza, evita anche la giurisdizione del principio di contraddizione: se a un dato atteso e quindi futuro è consentito di entrare a far parte del discorso mentale alla sola condizione di assumere la nota della possibilità nel caso che di esso siano ignorate le ragioni, la stessa liceità è concessa ai dati che si sono verificati o si verificano in una situazione in cui le loro ragioni restino celate. Ma poiché nulla nel pensiero vive costantemente sottratto a una delle leggi e poiché è necessità per il pensiero sottoporre tutti i suoi concetti al principio di contraddizione, dei concetti problematici – che a questo sfuggono in quanto per essi non vien soddisfatto il principio di ragione – tosto si cercherà la ragione necessaria e sufficiente: nel caso del dato di esperienza la ragione dovrà essere ricercata in un altro dato di esperienza o in un dato che sia tale per un’esperienza che, quantunque pensata con modalità diverse da quelle dell’intuizione sensoriale finora avuta dal conoscente, venga però concepita lecita ed attuabile in generale. Note e caratteri verranno richiesti come segni peculiari per questo nuovo dato che si pone come ragione del primo, e la scuola del tempo da cui il pensiero è stato educato si è incaricata di stabilirgli e di fornirgli, con la migliore approssimazione, tali segni. Il pensamento della ragione del concetto problematico ha consentito a questo di divenire concetto apodittico e quindi dotato di completa cittadinanza logica, ma non ha tolto al concetto assunto come ragione il carattere della problematicità, non già per ciò che riguarda la sua funzione di condizione del concetto da cui si son prese le mosse, ma per ciò che riguarda la sua stessa realtà e quindi la sua apoditticità: nel caso in cui il concetto assunto a ragione sia il correlato sul piano del pensiero di un dato di esperienza, sarà sempre e immediatamente lecito il controllo, che verrà esercitato secondo modi e procedimenti che la pratica ha insegnato e da cui si ricaverà se il nesso di condizione - condizionato – creato dal pensiero e finora rimasto anch’esso sul terreno della problematicità – debba venir accettato come concetto reale soggetto ai criteri del principio di contraddizione o debba venir estromesso come concetto irreale offensivo di tali criteri. Dunque l’affiancamento a un concetto problematico del concetto che gli è ragione non sottrae totalmente il pensiero alla problematicità: il concetto A da cui si è partiti come da problematico è ora un logicamente reale in forza del concetto B che si è posto a sua ragione; ma questo nulla ha smarrito della sua problematicità esistenziale, la quale, com’è logico, dovrà trasferirsi al concetto A condizionato che, sottratto per un istante alla sua problematicità, torna a ricadervi per la sua contingenza essenziale. Di qui la necessità di far ricorso di nuovo al procedimento per possibilità nei riguardi del concetto B, la cui problematicità si trasferirà a un concetto C, destinato anch’esso a scaricare la sua problematicità su un concetto D, secondo un processo che non potrà andare all’infinito, ma che dovrà arrestarsi a quel concetto N la cui corrispondenza alla realtà dell’esperienza e quindi la cui realtà gnoseologica ed ontologica siano garantite dall’irrealtà di qualunque contraddittorio al correlativo dato di esperienza ed al concetto: il ritrovare a condizione suprema di tutti i problematici condizionati un concetto le cui note descrivano una situazione che si offre in qualunque esperienza in generale e la cui negazione comporterebbe perciò la negazione - 189 -dell’esperienza e quindi la contraddizione, segna il termine del processo problematico. Al controllo di ogni tappa del processo problematico corrisponde una trasposizione dei concetti dal piano logico della possibilità al piano logico del pensato e la sostituzione, al rapporto di ragione tra concetto-condizione e concetto-condizionale pensato come possibile, di un giudizio ipotetico, di un sillogismo ipotetico, di un polisillogismo ipotetico indefinito, di un polisillogismo ipotetico definito, a seconda che l’operazione della ricerca di una ragione si arresti alla prima tappa o alle tappe intermedie o all’ultima tappa del procedimento problematico. È naturale che il definitivo trasferimento del discorso dal piano logico del problematico al piano logico dell’apodittico non abbia in sé nulla di necessario, in quanto sottostà all’esperienza o al tipo di esperienza che si è assunta come lecita e quindi alla forma di controllo che è stata assunta dal pensiero come l’unica valida: per il teologo un procedimento problematico riceverà il visto per la traduzione in giudizio o sillogismo o polisillogismo ipotetici apodittici dai testi sacri; per l’aristotelico dalla pregiudiziale definizione di ciò che di essenziale e di ciò che di accidentale si dà nell’esperienza sensoriale; per il naturalista dall’esperienza sensoriale pura e semplice. Prima quindi di accogliere, come valore indiscusso, il procedimento per possibilità, è necessario accettare la definizione di esperienza e di controllo che è fornita da colui che del procedimento fa uso.
Già si è detto del metodo adottato da Kant e della sua indiscutibile identità con un procedimento problematico. Ma qualcosa si può pure aggiungere. Fra tutti i concetti che ci è lecito assumere come problematici stanno, è vero, quelli dei dati di esperienza presenti o passati di cui non sia nota la ragione; ma si pongono pure, e con maggior forza, quelli che non solo mancano di ragione ma che anche sono futuri o che si dichiarano futuri. Ora, tra questi dati futuri la mia mente distingue nettamente quelli che non sono altro che ripetizioni di dati già verificatisi e datisi o nel presente o nel passato, e quelli che mai si sono dati: se per comodità chiamiamo questi ultimi i futuri possibili, la mia mente può fare una netta distinzione fra i concetti problematici che sono tali per l’esistenza e per la necessità dell’esistenza – nel loro numero può entrare un qualunque concetto che io riesca a formare con la composizione di qualsivogliano note che non presentino contraddizione reciproca, nel senso più limitato del termine, che cioè non siano l’una la negazione assoluta dell’altra: ad esempio, il centauro e l’Atlantide – e i concetti problematici che sono tali limitatamente alla necessità dell’esistenza; per questi ultimi, i concetti problematici di diritto o logici possibili, un procedimento problematico - 190 -avrà il compito di stabilire la necessità come substrato e quindi ragion d’essere della realtà; per gli altri, i futuri possibili, un procedimento problematico avrà il compito molto più arduo di stabilire una necessità che si dia non solo come ragion d’essere della realtà ma come testimonianza e garanzia di un darsi della realtà; ad un aristotelico dell’XI secolo il dato di traslazione di un corpo di natura terrestre dalla Terra alla Luna era un impossibile e il suo concetto un coacervo di contraddizioni ossia un impensabile; per Keplero lo stesso dato era un possibile futuro e quindi un dato il cui correlativo concetto si poneva come un pensabile problematico che attendeva apoditticità dal pensamento della sua ragione e validità gnoseologica ed ontologica dall’esistenza della sua ragione: la scoperta problematica della ragione avrebbe reso il concetto un logicamente reale, l’attuazione della ragione, ossia la sua inserzione nell’esperienza, avrebbe dato necessità e attraverso la necessità, realtà al dato correlativo. Per ciò che riguarda Kant si tratta quindi di stabilire due punti iniziali, anzitutto qual è il tipo di esperienza che egli assume come lecito per il pensiero e per il controllo che il pensiero deve fare nei confronti dei suoi pensati; in secondo luogo in quale categoria di concetti problematici deve farsi rientrare il giudizio universale e necessario della scienza.
Per rispondere al secondo quesito, si può dire con tranquilla certezza che il giudizio universale e necessario viene da lui pensato sotto i modi del concetto problematico in genere, in quanto la sua indagine è rivolta a cercarne le ragioni e quindi la necessità come substrato della realtà. Egli deve partire dal giudizio universale e necessario come da un possibile la cui pensabilità è sottratta alla giurisdizione del principio di contraddizione; ma per ciò che riguarda la natura di questo possibile – se cioè per lui si abbia che fare con un dato immediato alla cui deficienza di ragioni necessarie e sufficienti si debba ovviare con un’indagine destinata a ritrovarle ossia con un logico possibile, oppure si abbia che fare con un futuro possibile, cioè con un concetto nato dalla sintesi di note non contraddittorie, di cui si tratta di ritrovare una qualunque necessità che ne garantisca la realtà -, la questione è molto più complessa. Da alcuni passi – in particolare da quelli in cui si dichiara che la scienza in generale e in particolare la matematica non necessitano di una indagine filosofica che dia loro garanzia e diritto di esistenza in quanto scienze perché in certo senso vivono di vita autosufficiente – sembrerebbe consentito arguire che il giudizio universale e necessario è un dato realmente esistente, cui corrisponde un concetto che si pone come problematico solo perché il dato va privo delle sue ragioni, risulterebbe quindi che il giudizio universale e necessario è accolto come un logico possibile; ma dall’intera struttura del problema che egli si è posto e dalle soluzioni che al problema ha dato, si deve inferire l’affermazione contraria e contraddittoria che il suo problematico è trattato alla stregua di un futuro possibile. Anzitutto il fatto, che è insieme risposta al primo dei quesiti che si sono posti sopra, che l’esperienza lecita alla coscienza è quella sensoriale – donde segue che l’unico controllo - 191 -per un qualsiasi procedimento problematico è quello che operiamo mediante o una particolare sistemazione di sensazioni che si ponga come riproduttiva del concetto-ragione per vedere se ne scaturisca la sensazione o il complesso di sensazioni riproduttivi del concetto condizionato che in tal modo si sposta dallo stato di problematicità non più e non soltanto in virtù della portata ontologica – stabilisce come condizione ineluttabile che l’esperienza sia la prima madre del conoscere e l’unica pietra di paragone per quella validità gnoseologica ed ontologica dei pensati la quale ne fa dei logicamente reali, e che dal suo seno non possa uscire una creatura universale e necessaria quale sarebbe il giudizio di una qualsiasi scienza; in secondo luogo, i tre problemi che egli si pone, se siano possibili una matematica una conoscenza della natura una metafisica come scienze – ossia il problema generico della possibilità della scienza nella cui enunciazione il termine di possibilità acquista un significato non logico ma pragmatico in quanto si dà come sinonimo di liceità, vale a dire di diritto all’utilizzazione dei suoi concetti in particolare e in generale al possesso della connotazione che le è assicurata dalla sua definizione – recano implicita l’elevazione del dubbio nei confronti dell’esistenza o realtà in sé del giudizio universale e necessario come dato, e quindi l’impotenza in cui la mente si trova a stabilire se il giudizio universale e necessario sia o non sia dato di esperienza reale; con la conseguenza che alla mente non è lecito assumere il giudizio universale e necessario come dato di esperienza dotato di realtà ossia come ente che il conoscente coglie come suo per l’atto di un’interiore intuizione, e quindi sussumibile sotto un concetto che sia reale per ciò che riguarda l’esistenza dell’ente attraverso di esso pensato, problematico per ciò che riguarda la necessità dello stesso ente. Si deve riconoscere, in seguito a ciò, che il giudizio universale e necessario non può essere trattato da Kant che come un possibile futuro, anche se non sono possedute ragioni sufficienti per concepirlo tale: le condizioni infatti per le quali l’intelletto può accogliere un futuro possibile sono che l’intelletto pensi un ente come non contraddittorio nella sua connotazione oltre che come possibile sia nell’esistenza del reale da esso rappresentato sia nell’esistenza delle ragioni oggettive che pongono necessariamente questo reale rappresentato, e che esso intelletto ritrovi entro di sé a lato delle ragioni dell’ignoranza dell’esistenza sia del reale rappresentato che delle sue ragioni oggettive, le ragioni che hanno posto in esso intelletto come necessario il pensamento di quel concetto che non pare frutto delle consuete vie gnoseologiche attraverso le quali insorgono i concetti; ora, queste condizioni non sembra che si siano realizzate nei confronti del concetto di giudizio universale e necessario, attorno al quale sono insorti il turbine del dubbio e la conseguente indagine sugli strumenti gnoseologici in genere del pensiero proprio in seguito alla rivelazione di un’intrinseca contraddizione traente seco l’impossibilità del concetto e delle sue ragioni logiche e l’irrealtà - 192 -dell’ente rappresentato e delle sue ragioni ontologiche; cosa questa la quale tuttavia non toglie che, una volta che si siano riassunti il concetto di giudizio universale e necessario assieme ad alcuni dei principi che hanno condotto a denunciare la sua contraddittorietà, l’impossibilità a classificarlo nei concetti logicamente reali come quello il cui ente si dà di fatto in nome di una pretesa a un diritto dell’esistenza che nessuna esperienza pare verificare, obblighi a classificarlo tra i concetti problematici nell’esistenza e del reale rappresentato e delle sue ragioni e quindi a farne il concetto di un futuro possibile. In quanto possibile futuro verrà pensato in un concetto la cui problematicità investe l’esistenza e la necessità dell’esistenza del reale rappresentato e che corrisponde a un reale la cui esistenza attende dalla sua necessità la ragione e la garanzia di essere: di fronte a un possibile futuro, infatti, il pensiero ha la facoltà di attendere la traduzione del concetto da problematico a logicamente reale dall’esperienza o intuizione del reale di cui il possibile futuro è concetto problematico, ogni volta che questo sia rappresentazione di un reale al cui atto nulla impedisce che venga intuito; mentre invece ha la facoltà di attendere tale traduzione dalla nozione di un’apoditticità del reale rappresentato la quale sia effetto della realtà del rapporto tra le ragioni in quanto pensate e il concetto e del darsi di queste ragioni nella realtà intuita, ogni volta che il reale rappresentato sia pensato tale da non offrirsi, al suo atto, all’intuizione; e questo è il caso del concetto di giudizio universale e necessario il quale, rappresentando un dato che è accolto nell’esperienza con gli attributi che di esso si pensano nel concetto senza tuttavia che si abbia il diritto di farlo e perciò non avendo certo il diritto di attendersi la traduzione da problematico a logicamente reale pel semplice atto del suo reale, dovrà ricavare la sua realtà logica dall’apoditticità e realtà delle ragioni del suo reale. La prima conseguenza di rilievo che dalla definizione del concetto di giudizio universale e necessario scaturisce – di concetto cioè di dato futuro possibile – è che non potrò mai attendermi dall’esperienza diretta né la garanzia dell’esistenza del reale da esso rappresentato né la liceità di una sperimentazione che, ponendo le ragioni necessarie dell’esistenza del reale, ponga insieme la sua esistenza.
Definito così nei suoi termini, il problema appare insolubile: in questa condizione di conoscenza da un lato il possibile attende realtà dall’esperienza e dalle ragioni che si danno nell’esperienza, dall’altro l’esperienza non potrà mai dotare di realtà quel possibile che è il giudizio universale e necessario: infatti, se sul piano logico la realtà s’identifica con l’ossequio all’imperativo del principio di contraddizione, sul piano dell’esperienza la realtà s’identifica col darsi per intuizione; un concetto quindi sarà pensabile e insieme rappresentativo dell’esperienza alla condizione che non sia contraddittorio e sia conoscenza intellettuale di un ente che sia stato o sia o sia per essere intuito; e allora delle due l’una: o il giudizio universale e necessario non è mai stato intuito – può sembrare contraddittorio che io parli di intuizione di un ente di - 193 -pensiero com’è il giudizio universale e necessario, ma la liceità che è data al pensiero di parlare di sé e dei suoi contenuti e delle sue leggi è identica alla liceità che è data al pensiero di giudicare i suoi concetti e i suoi contenuti e le sue leggi congruenti coi dati di esperienza ossia simbolici di questi dati: entrambe le liceità si fondano sull’intuizione, e la liceità che viene al pensiero di discorrere di se stesso e fondata sull’intuizione che il pensiero ha di sé, intuizione che, per usare i termini di Kant, entra nel novero delle intuizioni interiori; in questo caso si tratta di stabilire la possibilità di un’esperienza futura attraverso la determinazione di un certo numero di dati di esperienza attuali che pongono necessariamente l’esistenza di quello che finora era un semplice dato possibile futuro –; oppure il giudizio universale e necessario è stato intuito, e allora si tratta solo di ritrovare le ragioni della sua esistenza nell’esperienza. Il primo corno non è accettabile anzitutto perché da secoli esistono scienze le quali si valgono di giudizi che ritengono universali e necessari e che quindi intuiscono o pretendono di intuire come tali; poi perché la determinazione delle ragioni necessarie a strutturare l’esperienza secondo una forma di intuito che sia giudizio universale e necessario, si identifica con la presa di contatto immediata con dati la cui intuizione nell’esperienza deve ritenersi cronologicamente simultanea e coincidente con l’intuizione del dato determinato, in quanto le ragioni, da qualunque punto di vista si consideri la totalità delle cose o come scissa in un naturale distinto da un trascendente o come organizzata da un principio che immane e coincide col naturale, sono pur sempre ragioni non necessariamente distinte da ciò che esse elaborano e, con ciò, in questo immanenti. Ma neppure il secondo corno appare accettabile, in primo luogo perché nessuna scienza può presentare, di per sé e con argomenti tratti dal suo solo seno, un giudizio universale e necessario come dato, poi perché l’esperienza stessa è costruita in modo da non poter offrire come dato un giudizio universale e necessario – e per giudizio universale e necessario s’intende non solo un rapporto uniforme e costante tra due concetti, ma anche un rapporto che riproduca una relazione identica sussistente fuori del pensiero, fra gli enti empirici sussunti sotto i concetti.
Il problema non solo non offre soluzione, ma addirittura non è neppure impostabile perché i suoi termini si escludono a vicenda, a meno che non si accetti una terza interpretazione del giudizio universale e necessario come dato di esperienza, vale a dire a meno che non si riconosca come appartenente ai dati dell’esperienza quel dato che è il giudizio in generale e non si dichiari che nell’esperienza non già è assente il giudizio in genere, bensì il giudizio che sia universale e necessario. Il problema allora potrà assumere una nuova forma attraverso il reciproco riferimento di nuovi elementi: a) l’intuizione in generale non offre un giudizio che sia universale e necessario; b) vi sono coscienze – ossia intendimenti – le quali pretendono di assumere un giudizio con i caratteri dell’universalità e della necessità, c) non ci si ostini ad appellarsi - 194 -all’intuizione per stabilire la validità della pretesa, in quanto l’intuizione – per la deficienza denunciata in a) – nulla può decidere in merito; d) si assuma il giudizio universale e necessario come concetto problematico e lo si sottoponga al procedimento per possibilità, lasciando ai risultati di questo di decidere della pretesa. La postazione del problema assume quindi il concetto di giudizio universale e necessario come un tipo di concetto di possibile futuro, vale a dire come una speciale determinazione del concetto di possibile futuro in genere: infatti non ne fa il correlativo intellettuale di un intuibile che è assente dall’esperienza e che si darà nell’esperienza col darsi delle cause, ma neppure ne fa il correlativo intellettuale di un intuito che è presente nell’esperienza e del quale si tratta di ricercare la necessità; lo assume come correlativo di un dato dell’esperienza che è intuito come indeterminato e di cui si tratta di stabilire le determinazioni attraverso l’intuizione nell’esperienza delle ragioni che lo determinano in questo piuttosto che in quel modo. A guardar bene in fondo, la nuova formulazione del problema ha certezza di soluzione alla sola condizione che l’esperienza sia in grado di verificare in sé ossia offrire come degli intuiti quei dati che si pongono come ragioni necessarie e necessitanti delle determinazioni che sul piano concettuale si sono poste come problematiche; in altre parole, problematico non è il concetto di giudizio in quanto però universale e necessario, e problematiche di conseguenza sono le note, che son poi dei concetti, dell’universalità e necessità del giudizio; sono questi ultimi concetti che nell’esperienza non si danno - è appunto questo il motivo per cui si affronta il processo per possibilità – e si tratta di ricercarne nell’intelletto e di intuirne nell’esperienza le ragioni; ma se l’esperienza fosse in grado di offrire all’intuizione siffatte ragioni, l’esperienza già ci avrebbe fornito le determinazioni dell’universalità e necessità come dati intuiti; il che non fa. Quindi il problema anche nella sua nuova formulazione resta insolubile, e si può accettare che già all’origine il problema è insolubile e che qualunque tentativo che voglia giungere a una sua soluzione è destinato a cadere in errori logici. Tuttavia è necessario seguire i passi compiuti nel discorso, al fine di identificare l’errore che, come si vedrà, è caratterizzato dall’alternativa di coincidere o con un circolo vizioso – nel caso che si vogliano mantenere inalterati i concetti di esperienza e di controllo attraverso l’intuizione nell’esperienza assunti all’origine del ragionamento - o con un sofisma di surrezione – nel caso che si voglia fondare il tutto su una particolare interpretazione dei concetti di esperienza e di controllo attraverso l’intuizione cui si ricorre a un certo punto del ragionamento, interpretazione che è una connotazione di tali concetti diversa da quella assunta all’apertura del discorso.
Per le norme che un procedimento per possibilità impone al discorso, il concetto problematico di giudizio universale e necessario entra sotto la giurisdizione del principio di contraddizione non appena il pensiero sia in grado di addurre un concetto che è suo principio e ragione - 195 -della sua necessità. I concetti di trascendentale in genere e di categoria in particolare, una volta introdotti, stabiliscono tra sé e il concetto di giudizio universale e necessario un rapporto di principio a conseguenza che fa del secondo un ente apodittico e perciò logicamente reale: appena si è asserita propria del pensiero in genere la funzione di rapportare secondo modi determinati – ossia l’attitudine ad inserire tra due concetti una relazione che a due atti discreti del pensiero pensante due nozioni distinte sostituisce un atto unico per cui i due distinti vengono pensati in un’unità di struttura, determinata dal differente ruolo che l’un concetto esplica nei confronti dell’altro -, si deve concludere l’esistenza nel pensiero di un’unità siffatta quando si diano le condizioni che sono appunto i due atti con cui si pensano i due concetti distinti; e poiché l’unità è un giudizio cui l’universalità e la necessità della funzione sintetica dona gli attributi dell’universale e del necessario, dalla funzione si conclude al giudizio universale e necessario. Ma la funzione resta pur sempre un problematico, cioè un concetto pensato come possibile, a meno che non intervenga una sua verificazione sul piano intuitivo o non si proceda a condurla a sua volta sotto la giurisdizione del principio di contraddizione mediante la sua necessitazione ad opera di un concetto che si ponga a sua ragione. Il concetto di soggetto conoscente attivo in generale entra col concetto di trascendentale in un rapporto di principio a conseguenza e quindi gli dà la necessità che si richiede perché venga trasferito dalla sfera logica del problematico alla sfera logica dell’apodittico: un soggetto conoscente che è attivo – in quanto non si lascia determinare se non entro i limiti della materia della rappresentazione, e si sottrae alla determinazione imponendo alla materia quel carattere di unità senza cui la materia non può essere pensata e che in sé la materia non possiede – è concepito capace di porre un sigillo generico di unità; ma viene contemporaneamente concepito come la funzione prima cui debbono essere ricondotti i trascendentali, quali funzioni seconde, dal momento che tali funzioni sono delle relazionalità ossia delle unità determinate che soddisfano all’esigenza generale di unità che un siffatto soggetto attivo pone per conoscere, essendo così null’altro che le determinazioni di quel generico che è l’unità trascendentale generica del soggetto conoscente. Il concetto fondamentale di unità che rispetto alla funzionalità generica del soggetto è univoco, diviene equivoco se ricondotto alla funzionalità determinata delle categorie; ma il contrasto tra l’univocità dell’uno e l’equivocità dell’altro cade quando il secondo si pone come moltitudine determinatrice dell’unicità del primo. La conseguenza prima che si ricava è che mentre una funzione trascendentale speciale assunta in sé è l’esplicazione di un’attività senza il riferimento ad alcun ente attivo che ne sia il supporto, la stessa funzione riferita al soggetto trascendentale è l’esplicazione dell’attività di tale soggetto e trova in esso il suo fondamento e il suo principio; la conseguenza seconda è che un soggetto attivo, una volta che si diano certi modi determinabili e determinati di attività, non - 196 -può agire se non attraverso questi e quindi non può non porli in essere e in funzione; diviene il loro principio necessario e quindi ne fa dei reali logici. Ma il soggetto attivo non per questo ha acquistato quel diritto ad essere pensato in sé e per sé come concetto non contraddittorio che gli potrebbe provenire o da una verificazione dell’intuizione o da un ulteriore principio che ne consacri la necessità; ora, i presupposti da cui si è partiti nell’atto di dare inizio al procedimento problematico sono tali da rendere inutilizzabile il secondo strumento del ricorso a un terzo principio sovraordinato e quindi da fissare un limite invalicabile al procedimento stesso: ci si è mossi dall’affermazione che gli elementi – cioè i concetti primi da cui il pensiero quando interpreta qualsiasi oggetto assunto ad indagine, compreso se stesso, deve muovere onde ricondurre ogni altro concetto ad essi, la cui connotazione è fonte di universale intelligibilità e al di là dei quali non si può procedere con l’analisi – sono la disposizione generica di un ente autoconsapevole a lasciarsi modificare - l’atto della disposizione è rappresentazione di molteplici sensoriali particolari e contingenti – e la funzione generica dello stesso ente a sistemare le modificazioni secondo rapporti - l’atto della funzione è rappresentazione di unità sensoriali che trovano corrispondenza in unità di pensiero o classificazioni, senza però che sia lecito dalla funzione in generale argomentare degli attributi specifici di universalità e necessità da contrapporre alle proprietà della disposizione in atto, giacché di tale unità si può dire solo che è unificazione in generale in quanto si oppone ad una molteplicità, ma non si può dire che sia una unità costante e uniforme -. Ora, dalle due attitudini non è lecito argomentare se non la realtà assoluta di un soggetto conoscente, e la realtà, relativa allo stesso soggetto, di molteplicità sensoriali intuite in unità e pensate in unità ossia conosciute in sintesi immediate e in sintesi mediate che sono sintesi delle sintesi immediate; oltre a questo null’altro è dato concludere. Qualunque altro concetto che volesse aggiungersi ai quattro – di realtà soggettiva assoluta, di realtà rappresentative relative, di intuizione, di pensiero – sarebbe arbitrario; non già perché il pensiero non abbia la facoltà di porselo – una qualche facoltà bisognerà pure attribuirgliela, di darsi i concetti di enti reali di Dio, libertà, mondo esterno, ecc. -, ma perché non ha il diritto di usarli come logici apodittici dotati di validità gnoseologica, ossia di rappresentazioni concettuali che siano simmetriche di realtà assolute o relative. Ora, se quattro solo sono i concetti che il pensiero ha diritto di usare come valori gnoseologici assoluti e se tutt’e quattro sono già stati sfruttati nel procedimento problematico, qualunque altro concetto si facesse intervenire trasformerebbe il procedimento in un giuoco di parole. Dunque, oltre i limiti del concetto di soggetto conoscente, attivo ed assoluto, il pensiero non può risalire; in questo concetto ha trovato una soglia ultima che fa del procedimento problematico un tutto compiuto. I tre momenti quindi del procedimento per possibilità – il soggetto conoscente come ente attivo in generale, i trascendentali come - 197 -uniche manifestazioni di tale attività, i giudizi universali e necessari come prodotti delle funzioni – costituiscono i livelli del processo che attraverso il passaggio da condizione a condizionato fanno di ogni condizionato un necessario e di conseguenza un reale logico. Poiché tutte le condizioni sono dei problematici che attendono la necessità e poiché tutte le condizioni ricevono la necessità da una condizione che è il loro principio ad eccezione della prima, cioè del soggetto conoscente in quanto ente attivo di unificazione in generale, l’intero procedimento ha visto le sue tappe trasformarsi via via, la prima da puro giudizio problematico in giudizio ipotetico che sottrae al ruolo di problematico il proprio concetto-predicato, ma vede il proprio concetto-soggetto farsi concetto-predicato di un nuovo giudizio ipotetico e in questo accogliere necessariamente nelle nuove funzioni la problematicità del concetto-soggetto - «il giudizio universale e necessario può essere» → «se il trascendentale è, il giudizio universale e necessario è», ma «se il giudizio universale e necessario può essere, il trascendentale può essere» e quindi «il trascendentale può essere» - , la seconda da giudizio ipotetico a sillogismo ipotetico che sottrae alla problematicità tutt’e tre i concetti che lo costituiscono, ma vede la problematicità trasfondersi, in un nuovo sillogismo ipotetico, dal concetto-soggetto al concetto-predicato coincide col concetto-soggetto del primo sillogismo ipotetico - «se il trascendentale è il giudizio universale e necessario è, se il soggetto trascendentale è il trascendentale è, se il soggetto trascendentale è il giudizio universale e necessario è» → «se il trascendentale può essere il soggetto trascendentale può essere, se il giudizio universale e necessario può essere il trascendentale può essere, se il giudizio universale e necessario può essere il soggetto trascendentale può essere» e quindi «il soggetto trascendentale può essere» -; donde viene che l’attributo di problematicità trasferito alla ragione-principio si ripercuote sugli ipotetici che costituiscono lo strumento di trasferimento dei problematici agli apodittici, con la conseguenza di una vanificazione o se si vuole relativizzazione dei risultati del procedimento – nella prima fase la conclusione ultima dell’intero discorso «il trascendentale può essere» comporta che «se il trascendentale può essere, il giudizio universale e necessario può essere»; nella seconda fase la conclusione ultima dell’intero discorso che «il soggetto trascendentale può essere» comporta che «se il soggetto trascendentale può essere, il trascendentale può essere» e con ciò che «se il trascendentale può essere il giudizio universale e necessario può essere, se il soggetto trascendentale può essere il trascendentale può essere, se il soggetto trascendentale può essere il giudizio universale e necessario può essere» - Si può dunque concludere che il procedimento problematico ha dato cittadinanza logica temporaneamente ad alcuni suoi concetti, ma non a tutti. Il concetto fondamentale attorno a cui l’intera argomentazione ruota è destinato a rimanere un problematico, a meno che cioè non venga verificato in quella sfera di realtà da cui - 198 -il pensiero ricava i propri reali; questa sfera di realtà sarà quella determinata dai quattro concetti elementari, del soggetto conoscente come assoluto, delle sue due attitudini, dei molteplici unificati e relativi al soggetto intuente e pensante; in altre parole sarà la realtà dell’esperienza. Ora c’è da chiedersi: ha veramente Kant proceduto alla verificazione? e, provato che vi abbia proceduto, la sua verificazione è andata esente da errori? E la stessa verificazione era `possibile, dati i presupposti da cui era partito?
La verificazione cui ha proceduto Kant si articola apparentemente in due momenti, ma in realtà si riduce nel suo valore essenziale soltanto al secondo. Il primo momento riguarda le condizioni di esistenza del giudizio universale e necessario in quanto puro dato di pensiero: si accetta come dato di fatto l’esistenza di giudizi universali e necessari propri della matematica e della fisica, e si stabilisce che tale esistenza non può darsi che rispettivamente alla condizione che spazio e tempo costituiscano intuizioni o rappresentazioni indeterminate a priori in cui la coscienza elabora spontaneamente – ma sempre sotto l’imperio dei rapporti spazio-temporali che non possono essere altri da quelli che sono – le rappresentazioni intuitive a priori delle figure geometriche e delle successioni aritmetiche, e alla condizione che il soggetto del giudizio venga sussunto sotto un concetto generico puro, secondo però la determinazione particolare del predicato dato, sì che ne risulti la necessità e quindi l’universalità dell’identificazione per atto di consapevolezza dei dati dell’analisi e della predicazione per atto di strutturazione logica data alla consapevolezza. Il secondo momento riguarda le condizioni di validità del giudizio universale e necessario, in quanto dato sintetico di pensiero che dovrebbe trovare oggettiva corrispondenza in un dato sintetico di esperienza: la deduzione trascendentale, con cui appunto coincide questo momento, è per dir così sdoppiata in due fasi, l’una particolare in cui si opera solo nei confronti dello spazio e del tempo per dimostrare che l’unità del molteplice dei loro rapporti è necessariamente inserita nel molteplice delle sensazioni disarticolate, l’altra generale in cui, mentre si costruisce un ragionamento valido in modo specifico per la categoria, si estendono le sue conclusioni anche allo spazio e al tempo: è il ragionamento che fa perno sull’appercezione originaria. A ben guardare, però, i due momenti si riducono alla unicità del secondo, non perché questo sia fondamentale, investendo il diritto proclamato dal giudizio universale e necessario a porsi come rappresentazione oggettiva, piuttosto perché la deduzione trascendentale delle categorie dimostra il diritto che abbiamo ad intuire un’esperienza fatta di oggetti ossia di unitá di molteplici sensoriali le quali sono in funzione della unità di concetti, e di conseguenza include in sé la deduzione trascendentale del tempo e dello spazio in quanto tempo e spazio sono condizioni del darsi dell’unità del molteplice sensoriale nell’oggetto e insieme del darsi della molteplicità degli oggetti, e la dimostrazione della necessità di un ente è insieme dimostrazione della necessità di tutte le condizioni che si sovraordinano - 199 -necessariamente al darsi dell’ente. E`vero che se il soggetto conoscente ordina secondo i modi dello spazio e del tempo le sensazioni intuite, in quanto sensazioni, non potrà non ordinare secondo gli stessi modi qualunque altra nozione immediata, e quindi anche le sensazioni immaginarie o pure su cui si costruiscono la matematica e i suoi giudizi universali e necessari, ma è parimenti vero che se il soggetto conoscente unisce qualsiasi molteplice si dia a lui da conoscersi in quanto molteplice - e ciò fa mediante sia le forme dell’intuizione che i concetti puri dell’intelletto – sia il molteplice quale si dà nell’intuizione pura dell’immaginazione che il molteplice quale si dà per le classificazioni concettuali empiriche e per le loro rapportazioni, sia il molteplice che si pone nella sensorialità grezza che il molteplice che si dà nella sensorialità elaborata non possono sottrarsi alle rispettive attività ordinatrici ed unificatrici. Ad ogni modo anche nel caso che la mia interpretazione forzi il pensiero kantiano e che i due momenti debbano tenersi rigidamente separati è lecito non accogliere senza beneficio d’inventario la verificazione. Se si vuole che i due momenti restino nettamente distinti, si deve osservare che la dimostrazione delle condizioni necessarie per cui si dà un giudizio universale e necessario nelle matematiche e nelle scienze naturali muove dal presupposto che un giudizio universale e necessario si dia, il che è appunto quanto si deve dimostrare; del pari il secondo momento accetta come dimostrato non solo che si dia il giudizio universale e necessario, ma anche che tale giudizio si dia per le condizioni che diremo trascendentali, stabilendo così che non resterebbe altro da dimostrare se non l’oggettività di tale giudizio; ma per argomentare questo ci si vale, come di fatto già scontato, della strutturazione che nella coscienza in atto di conoscenza assume l’operazione che chiamiamo giudizio universale e necessario; il che è appunto quanto non è stato dimostrato e quanto attende ancora dimostrazione; in altri termini, la deduzione trascendentale delle categorie opera una scissione tra intelletto ed esperienza o natura, e dall’esistenza di certi meccanismi intellettuali pei quali un concetto apriori, afferrato un concetto empirico e fattosene un determinante, sussume un secondo concetto empirico, lo denota ed entra assieme al suo determinante nella sua connotazione, argomenta l’esistenza di un giudizio sintetico apriori, per passare poi a dimostrare che il medesimo concetto puro, non può non operare, mutatis mutandis, anche sul molteplice intuito strutturandolo in rapporti simmetrici e paralleli al rapporto di predicazione immanente nel giudizio; dunque la deduzione trascendentale sarebbe la dimostrazione dell’aspetto insoluto che unico si darebbe nel campo delle scienze fisiche, ossia la realtà entro l’esperienza del rapporto pensato dall’intelletto col giudizio universale e necessario, essendo lasciata all’Analitica Trascendentale la mansione non di risolvere il problema del giudizio universale e necessario ma di descrivere la macchina che lo produce; ma la dimostrazione della realtà empirica del rapporto di predicazione parte dal presupposto della realtà intellettuale del giudizio universale e necessario e dei meccanismi che - 200 -lo elaborano e questa realtà è quanto appunto deve essere anzitutto dimostrato. Se invece si vuole interpretare la verificazione kantiana riducendone le due tappe all’unica fase della deduzione trascendentale delle categorie, essa è tutta fondata sull’esistenza del giudizio universale e necessario come di fatto reale sul piano logico, ossia di un fatto che dovrebbe essere dato di intuizione per un intelletto che rifletta su se stesso, dovendo un siffatto intelletto avere nozione immediata e dei suoi giudizi che godono degli attributi dell’universalità e della necessità e dei meccanismi che in esso elaborano siffatti giudizi anche nel caso che questi meccanismi siano inconsci perché conscio dovrebbe essere il loro effetto, ossia la connotazione del concetto-soggetto del giudizio ad opera di una nota che non appartiene al resto delle note empiriche che lo costituiscono – e a questo proposito è bene fare un’osservazione una volta per sempre: è vero che dato un giudizio universale e necessario in esso compaiono due aspetti essenziali, il rapporto di predicazione e la connotazione del concetto-soggetto secondo una nota che consente il rapporto, ed è vero che Kant fa del secondo aspetto la ragione del primo, ma è pur vero che questo rapporto di principio a conseguenza non è affatto certo che stia nella forma che gli ha dato Kant, essere cioè la connotazione la ragione della predicazione, in quanto può pensarsi anche l’inverso del rapporto, che sia la predicazione a provocare la connotazione e che la connotazione non sia che un effetto di risonanza del rapporto di predicazione -; ma l’esistenza del giudizio universale e necessario è appunto ciò che deve sgorgare da tutta l’argomentazione stessa. In entrambi i casi, quindi, ci troviamo di fronte a una petizione di principio.
Ora, io mi son chiesto perché una mente così genialmente analitica quale quella di Kant sia incorsa in errore, e in un errore così palese. E come risposta non ho ottenuto se non che la petizione di principio era il minor male di fronte al dilemma di incappare o in un circolo vizioso o in un sofisma di surrezione, condizioni entrambe cui non ci si può sottrarre quando dalla soluzione del problema dell’esistenza di un giudizio universale e necessario – data in chiave di procedimento problematico e in ambiente rigorosamente empirista – si voglia trascorrere alla sua verificazione. Per la situazione gnoseologica in cui l’empirismo ci ha posti, dobbiamo accettare soltanto delle sensazioni, delle organizzazioni di sensazioni che nulla hanno di essenziale e quindi di sostanziale, delle predicazioni di rappresentazioni o giudizi che nulla hanno di universale e di necessario: tutto questo chiamiamo esperienza. Per la situazione in cui il procedimento problematico ci ha posti, dobbiamo accettare il giudizio universale e necessario come un necessario determinato tale dal trascendentale, il quale, a sua volta, è un necessario determinato tale dalla trascendentalità del soggetto conoscente, che è un problematico. Ora, i tre elementi concettuali, giudizio universale e necessario entità funzionale sintetica determinata trascendentalità generica del soggetto conoscente, essendo in rapporto di conseguenza a principio, - 201 -ci è lecito considerarli o concetti immanenti o concetti distinti, ossia condizionati da ragioni non necessariamente o necessariamente distinte dalla loro conseguenza. Volendo appellarci a Kant per decidere della loro immanenza o della loro distinzione, troveremmo argomenti validi sia per l’una che per l’altra interpretazione. Il fatto che ogni trascendentale è un apriori logico, il fatto che ogni conoscenza è sintesi, il fatto che il trascendentale di per sé non è definibile se non attraverso determinazioni fenomeniche, il fatto che il trascendentale pensato in sé è un concetto vuoto che si riempie solo attraverso le determinazioni che ci vengono offerte dalla sintesi dell’intuizione o del pensiero, costringono ad affermare che nella serie di concetti cui il procedimento problematico dà vita principio e conseguenza sono immanenti l’uno nell’altra: se un giudizio della matematica è il riconoscimento dell’identità delle note spazio-temporali che connotano l’ente-soggetto e l’ente-predicato, sia il soggetto che il predicato conglobano in sé l’universalità e la necessità del loro rapporto, le intuizioni trascendentali dello spazio e del tempo e il soggetto conoscente trascendentale che attraverso le intuizioni pure determina il generico della propria attività, con la conseguenza che il concetto della trascendentalità del soggetto conoscente è da pensarsi immanente nel concetto dei trascendentali spazio e tempo e questi devon esser pensati immanenti negli enti geometrico-aritmetici e quindi nei giudizi matematici; se un giudizio della fisica è il riconoscimento dell’inerenza del concetto-predicato al concetto-soggetto secondo un vincolo costituito dal binomio concetto-apriori/concetto-predicato, questo determinante e quello determinato, il quale binomio immane nel concetto-soggetto, l’intelletto deve riconoscere immanenti nel concetto-soggetto sia il concetto-predicato sia il concetto puro sia la trascendentalità generica di cui il concetto puro è determinazione, cosicché il concetto della trascendentalità generica immane come ragione non necessariamente distinta nella sua determinazione del trascendentale speciale e questo in ciò di cui è ragione, ossia in un certo concetto empirico e nel giudizio di cui il concetto empirico è soggetto. Di contro, il fatto che il soggetto conoscente in quanto trascendentale è da interpretarsi come un assoluto, il fatto che i differenti trascendentali offrono anche una possibilità di definizione e quindi di conoscenza indipendenti dalle sintesi fenomeniche che essi operano, il fatto che almeno un trascendentale, sia pur illusoriamente, possa venir eretto a concetto di oggetto, il fatto che alcuni trascendentali esercitano un’azione autonoma sulla coscienza ponendosi come principi soggettivi del suo necessario determinarsi in «ragione», e infine il fatto che le funzioni trascendentali dello spazio del tempo e delle categorie appartengano al soggetto puro come esplicazioni determinate della sua attività autonoma, sono ragioni sufficienti a concepire principi e conseguenze come concetti distinti. La doppia natura delle ragioni che per certi aspetti sono non necessariamente distinte e per certi altri sono necessariamente distinte, non è tuttavia di gran rilievo perché non è certo appellandoci all’una o all’altra - 202 -interpretazione che ci sarebbe consentito di evitare l’errore ineluttabile che sgorga dalla verificazione.
Si assumano i due concetti-principi come concetti immanenti nella loro conseguenza, ossia si concepiscano i tre concetti che entrano nel procedimento come rappresentativi di tre reali che sono intuibili nella esperienza – si tenga presente che ogni altra verificazione di un concetto in una realtà di cui il concetto sia rappresentazione è illecita – e che nell’esperienza si pongono come un unico dato sintetico il quale si presenta come il fatto di cui i due rappresentati dai concetti-principi sono cause immanenti; in altre parole, si dichiarino i tre concetti semplice risultato di un’analisi che sarebbe lecito condurre su quel dato reale nell’intuizione che è il giudizio universale e necessario, giudizio che accanto ai diversi contenuti tratti immediatamente o mediatamente dal fenomenico intuito affiancherebbe come sua causa la presenza di questo o di quel trascendentale, il quale, a sua volta, accanto al modo particolare dell’unificazione, allineerebbe come sua causa l’attività unitaria del soggetto conoscente: giudizio, dunque, che si offrirebbe come un reale composto da quei tre suoi elementi che sarebbero le note empiriche costitutive dei concetti, la nota dei trascendentali speciali, la nota della trascendentalità generica. Ora, poiché nell’esperienza interna non si offre un giudizio universale e necessario e non si può offrire, per verificare il procedimento problematico – la verifica del procedimento è l’unico modo con cui è lecito dimostrare l’esistenza di tale giudizio - dobbiamo muovere dal giudizio universale e necessario come da dato esistente nell’esperienza per risalire all’esistenza delle sue cause immanenti e contemporaneamente partire dall’esistenza delle cause immanenti per argomentare l’esistenza del giudizio universale e necessario. A parte il fatto che nessuna delle due esistenze è data nell’empiria, né quella del giudizio universale e necessario né quella delle sue cause immanenti – infatti il rapporto d’immanenza comporta che se è dato il reale debba essere dato l’essenziale e viceversa, e che all’assenza del primo si dia la simultanea assenza del secondo e viceversa -, non è lecito, date la conoscenza di un ente qualsivoglia e la conoscenza delle cause immanenti che lo determinano come esistente, trattare dell’esistenza dell’uno senza al tempo stesso porre l’esistenza delle altre. In conclusione, il procedimento problematico intorno al concetto di giudizio universale e necessario, riduce, nel caso che le ragioni sovraordinate vengan pensate come non necessariamente distinte, la sua portata dimostrativa a questo che il giudizio universale e necessario dev’essere un esistente empirico – e quindi un reale logico – perché nel pensiero esiste sotto forma di pensato non contraddittorio ed esistendo fa esistere nella stessa forma le sue ragioni-cause, e insieme perché le sue ragioni-cause nel pensiero esistono sotto forma di pensati non contraddittori ed esistendo fanno esistere il giudizio universale e necessario nella stessa forma.
Si assumano invece i tre concetti distinti, vale a dire si concepiscano - 203 -come rappresentazioni di tre entità di esperienza che nell’esperienza si danno distinte; i tre concetti verranno con ciò dichiarati rappresentazioni che è concesso di ottenere mediante un’intuizione che ci ponga in contatto immediato con la struttura del nostro pensiero e ci offra la conoscenza di tre entità intuite in distinzione, il giudizio universale e necessario che trova al di fuori di sé come sua causa efficiente questo o quel trascendentale determinato, i vari trascendentali speciali i quali a loro volta hanno fuori di sé le stesse funzioni di causa efficiente quell’attività generica che è il soggetto conoscente, e infine il soggetto conoscente nella sua generica trascendentalità. La verificazione soggiace alle stesse condizioni: non essendo noi in grado di cogliere nell’esperienza interna un giudizio universale e necessario come dato reale, non ci resta che muovere dall’esistenza di un giudizio universale e necessario per risalire da questa alla necessaria esistenza di quelle che si son date come sue uniche possibili cause; e insieme partire dall’esistenza di queste per discendere all’esistenza di quel loro effetto necessario che è il giudizio dotato di universalità e necessità. La conclusione in questo caso non differisce dalla precedente: il giudizio universale e necessario è un esistente empirico e quindi un reale logico, perché nel pensiero esiste sotto forma di pensato non contraddittorio ed esistendo fa esistere le sue ragioni-cause sotto la stessa forma, e nello stesso tempo perché le ragioni-cause del giudizio universale e necessario hanno esistenza nel pensiero sotto forma di pensati non contraddittori ed esistendo danno esistenza al giudizio universale e necessario sotto la stessa forma. Non è possibile sottrarsi al circolo vizioso se non ricorrendo a una petizione di principio, che in fondo non è se non l’accettazione di un solo membro del circolo vizioso. Alla base del circolo vizioso, come errore ineluttabile, sta la legge abbastanza semplice che da un inesistente intuibile – e un problematico è sempre un esistente intuibile – non è lecito risalire a sue cause che siano del pari degli inesistenti intuibili, ossia dei problematici e viceversa; tranne che non si limiti il valore della trasposizione al solo intelletto che l’effettua e non si pretenda in alcun modo e sotto nessuna forma che il discorso si rifletta in una strutturazione identica entro la realtà di cui gli elaborati dell’intelletto di solito sono assunti come corrispondenti; il procedimento problematico che s’appelli a degli inesistenti intuibili può risultare strumento logico valido alla condizione che a uno almeno dei concetti che utilizza – sia esso conseguenza o principio – corrisponda un esistente intuito. E questa non è la condizione che si è data Kant, il quale non ha consentito a se stesso di accogliere il giudizio universale e necessario come un esistente intuito e si è preclusa la strada di intuire nel soggetto altro che dei fenomeni e, di conseguenza, di non intuirvi mai degli assoluti quali sono i trascendentali sotto qualunque modo vengano concepitixxvi.
L’ultima questione che mi resta da affrontare è proprio quel concetto di possibilità di cui tanto Kant fa uso e del quale mi sono servito - 204 -come fondamento di tutto il mio discorso. È palese che Kant usa il concetto di possibile con una connotazione molto diversa dalla mia; e quindi io sarei caduto nell’errore di muovere dalla parola possibile per riempirla del mio significato e per metterla con le note che io le ho predicato in tutte le frasi in cui Kant l’ha usata, facendo così dire a Kant cose ben lontane dalle sue intenzioni. È da dirsi anzitutto che il concetto di possibilità è equivoco, o almeno ambiguo, e che alla sua equivocità o ambiguità, diciamo così naturali, sono da aggiungere i molteplici significati e di conseguenza i molteplici usi che di essa si sono avuti nel corso dei millenni. Non è lecito, a mio vedere, accettare il possibile come un univocoxxvii.
Due connotazioni della possibilità furono presenti al pensiero di Kant il quale di entrambe fece uso nel suo discorso. Si tratta ora di stabilire quale accezione abbia rivestito il termine possibile assunto come predicato del giudizio: «è possibile una scienza in generale?». Ora, io voglio accettare che Kant, quando ricorre al concetto di possibile o di possibilità per farli attributi di un qualunque elemento della sfera della conoscenza, concetto giudizio scienza, o addirittura della stessa sfera del reale, esperienza rapporti oggetti, rifiuti il significato di problematico per accettare solo quello di congruente con le condizioni trascendentali dell’esperienza; voglio ancora accettare, in particolare, che la predicazione di possibilità nel quesito: «è possibile una conoscenza che sia scienza?» e la stessa predicazione nell’affermazione: «è possibile una conoscenza come scienza» siano equipollenti ed univoche; voglio infine accettare che il nuovo significato del concetto – determinazione particolare della connotazione generica di liceità e sinonimia col concetto di ente avente il diritto ad essere pensato e quindi pensato di fatto e di diritto – non celi in sé quell’ambiguità, che trascinerebbe dietro un sofisma per ambiguità. Tuttavia, anche nella particolare accezione l’introduzione del concetto di possibile non solo non libera il discorso da una grave aporia, ma reca anche implicita la connotazione di problematico. Se l’attribuzione di possibilità alle scienze particolari, che si trasferisce alla scienza in generale e da questa al giudizio universale e necessario, è accettata in quanto equivalente alla proprietà della congruenza con le condizioni formali dell’esperienza e con il diritto dei connotati ad esser pensati – ossia con la convalida delle pretese di far parte del pensiero logico avanzate dal giudizio universale e necessario, dalla scienza e dal corteo di attributi da cui la scienza esige di essere accompagnata quando leva le sue pretese, universalità e necessità, estensione del sapere, rappresentazione di un’universalità e necessità presenti nel reale che essa vuol riprodurre in schemi intelligibili -, l’affermazione, cui si pone capo si sottopone a una serie di condizioni e reca in sé implicito un buon numero di presupposti e di sottintesi. In primo luogo, dev’essere accettato che le condizioni formali dell’esperienza siano non un pensato o un possibile come pensato ossia un godimento del diritto di esser pensato – altrimenti il - 205 -processo proseguirebbe all’infinito e non offrirebbe alcun utile -, ma una realtà, o meglio una verità; dunque, saranno accettati come verità la trascendentalità del soggetto puro, la trascendentalità delle rappresentazioni funzionali sintetiche seconde e il loro presente ed attuale agire sui dati sensoriali onde farne un’esperienza; con la conseguenza che tutti i ragionamenti che hanno condotto come a loro conclusione alla verità di tutte queste nozioni, sono stati condotti con la più scrupolosa delle coerenze logiche e muovendo da premesse od elementi reali per giungere a conoscenze altrettanto reali. In secondo luogo, deve essere riconosciuto come verità questo che in noi si dà un giudizio - semplifico il discorso, sostituendo alla scienza l’elemento suo più semplice senza il quale scienza non si dà e che è lecito quindi assumere come segno di quel corpo completo e sistematico di giudizi che chiamiamo scienza -, e questo che tale giudizio si pone universale necessario apriori ed estensivo del sapere. In terzo luogo, si deve riscontrare che il giudizio è apriori perché mai si sarebbe dato sul piano dell’esperienza ossia con il semplice riferimento o presa di contatto diretta col reale empirico; perché in esso la predicazione o rapporto di identità tra il concetto-soggetto e il concetto-predicato è una relazione che – in quell’atto particolare e soggettivo che è il giudizio – si pone e non può non porsi, si pone in un modo e non può non porsi nel modo in cui si pone, e che quindi ponendosi si dà uguale per tutti i pensieri empirici che l’accolgono. In quarto luogo, si deve verificare che l’universalità e necessità del giudizio siano dovute non già al fatto che le singole coscienze conoscenti hanno ritrovato il rapporto nell’esperienza e quindi si sono limitate a trasportare ciò che di universale e necessario ritrovavano nell’esperienza entro il loro intendimento – sostituendo al particolare fenomenico il generale astratto grazie all’immanenza entro il particolare dell’intelligibile universale -, ma al fatto che quel dato particolare che è il concetto-soggetto, entrando entro la sfera logica assieme ad un certo modo di relazione cronologica con quell’altro particolare che è il concetto-predicato, è stato immediatamente sussunto sotto un concetto identico per tutte le coscienze, tale da non poter essere altro da quel che è, vuoto di qualunque determinazione che non sia quella di uno schema di rapporto dotato dei caratteri della costanza e dell’uniformità – riducendosi la sussunzione a una denotazione dello schema da parte del concetto-predicato e a una denotazione del concetto-soggetto da parte dello schema già denotato dal concetto-predicato -. In quinto luogo, deve venir verificato che tutto questo lavorio intellettuale che si è esercitato su qualcosa di rappresentativo e di dato, i concetti empirici, ha portato a un aumento del sapere, perché al posto di quella semplice relazione cronologica, priva dei caratteri dell’universalità e necessità, tra il concetto-soggetto e il concetto-predicato, in seguito all’elaborazione intellettuale, è subentrato un concetto nuovo, il concetto-soggetto del giudizio scientifico, il quale a lato delle note già possedute e con le quali è divenuto oggetto - 206 -di conoscenza allinea la nuova nota di una certa natura – quella di fondamento autonomo e autosussistente, ossia di sostanza – o di una certa attitudine presente nella sua natura – quella di porsi come antecedente necessario di un determinato ente -: l’arricchimento diventa il fondamento della predicazione del giudizio universale e necessario perché, se questa è enunciazione di un’identità ossia identificazione, tutti riconosceranno e nessuno non potrà non riconoscere identico ciò che è di per sé identico – ad esempio, «l’uomo è mortale» = «è vero che l’uomo, che è sostanza universalmente e necessariamente dotata dell’attributo di mortalità è sempre e dovunque e non può non essere mortale» -. Infine, deve venir verificato che la sussunzione logica non è qualcosa di capriccioso e di arbitrario, ma non è se non il correlato simmetrico di un lavorio – analogo nella forma, diverso nei modi – che la coscienza è venuta contemporaneamente compiendo su dati sensoriali destinati a diventare un certo oggetto in cui son presenti, per natura ossia per nessuna ragione che debba andarsi a ricercare al di fuori di esso, le caratteristiche di mantenere in un certo costante rapporto un certo numero di sensazioni, di attuare in sé in momenti determinati modificazioni di sensazioni che o non si rifrangono fuori dell’oggetto stesso o vanno ad interessare altri oggetti entro i quali si danno modificazioni sensoriali in costante e uniforme concomitanza con le prime. Solo quando siano riscontrati e verificati i sei punti, il giudizio universale e necessario si porrà come possibile, ossia come un pensabile o ente logico che ha tutti i diritti di essere pensato come dato di pensiero – da tutto questo consegue a) che la possibilità del giudizio universale e necessario equivale a un giudizio ipotetico, nel cui soggetto si stabilisce l’identità del concetto-soggetto con se stesso, e l’identificazione che è posizione di un concetto è accettazione, per vere, di tutte le note che connotano il concetto-soggetto, e nel cui predicato si predica del concetto-soggetto il concetto di possibile («se il giudizio universale e necessario è giudizio universale e necessario, il giudizio universale è un possibile» = «se il giudizio universale e necessario è, il giudizio universale e necessario è un possibile»); b) che l’accettazione nel pensiero del giudizio universale e necessario nelle vesti di ente logico equivale all’accettare da parte del pensiero non la semplice esistenza di un giudizio universale e necessario, ma le sue funzioni, attitudini, intelligibilità e pretese, - fra cui fondamentale è quella di essere fondamento e generatore di scienza.
Per il momento tralascio lo strano procedimento kantiano che fa tutt’uno sia dell’enunciazione e dimostrazione delle condizioni del giudizio universale e necessario sia della loro verifica, e mi limito semplicemente ad osservare che, dato il giudizio «la scintilla della candela è causa della deflagrazione della miscela di benzina» - giudizio che è universale in quanto nel soggetto si adunano tutti i dati empirici sussumibili sotto il suo concetto, affermativo in quanto enuncia col predicato un modo che si dichiara inerire al soggetto e connotarlo, categorico sia perché il soggetto «scintilla» è da me pensato come sostanza - 207 -sia perché solo in apparenza, e per una specie di atteggiamento convenzionale assunto dal pensiero per prudenza e per disimpegno da prese di posizione di natura metafisica, si è adottato di ridurre a un rapporto più o meno cronologico quella causalità che continua ad essere vissuta dal pensiero come un attributo essenziale, ipotetico in quanto è la traduzione di un rapporto di condizionatezza in termini di relazione sostanza-inerenza, apodittico in quanto la predicazione assertoriale reca implicita la nota della necessità – sfido chiunque dimostrare a se stesso e ad altri a) che il concetto di causa, che l’intelletto possiede come punto di riferimento se non altro per la classificazione del giudizio, non è stato ottenuto per analisi del giudizio dato e da tutti gli altri giudizi ipotetici che la sua mente fino ad ora ha pensato; e che quindi tale concetto è un apriori; b) che il concetto di scintilla, prima di intervenire con le funzioni di concetto-soggetto nel giudizio ipotetico, non era connotato dalla nota di causa nei confronti della deflagrazione, ma tale nota ha ricevuto solo dopo che si è presentato unito in una successione temporale con la deflagrazione e dopo che alla successione temporale si è aggiunta la denotazione apriori – sarà infatti consentito dimostrare che nessuna scintilla elettrica avrebbe manifestato una nota di causalità nei confronti della deflagrazione se prima non si fosse rivelata con quella nota nell’esperienza, ma che oltre all’esperienza si sia dato un intervento determinatore del pensiero, questo non può essere né intuito né argomentato in nessun modo; c) che il giudizio pensato dall’intelletto, cioè l’identificazione che rende equivalenti il concetto di scintilla e il concetto di causa limitatamente però al concetto di deflagrazione, cessa di essere un apodittico quando si esclude l’intervento del trascendentale o categoria –sarà dato dimostrare che il giudizio non è apodittico e che la sua apoditticità è posta solo come postulato, ma non sarà però consentito inferirne l’apoditticità da qualcosa di cui il pensiero consapevole non ha coscienza, e precisamente dal proprio intervento nella elaborazione del concetto di scintilla perché, se non altro, di ciò che non ci è dato consapevolmente non ci è lecito fare un concetto atto ad intervenire in un discorso a meno che non si faccia appello a una qualche ragione eterogenea dalla conoscenza, quale, ad es., una rivelazione; d) che quell’esperienza che da sola offre soltanto la successione cronologica scintilla-deflagrazione o meglio la costante connessione tra il fenomeno scintilla e il fenomeno deflagrazione – perché il concetto di causa interpretato come successione cronologica rischia di tradurre nel piano del temporale quello che è solo un dato di pensiero, ossia di ricondurre al tempo come successione ciò che si dà nei concetti come connessione necessaria – e che quindi da sola non offre la necessità della connessione, viene, nel momento stesso che la si pensa, elaborata in modo che il giudizio ipotetico ne diviene specchio fedele, e di conseguenza si struttura in modo da accettare sì l’universalità e la necessità, ma da non rivelarle – infatti la situazione in cui l’ipotesi kantiana, nel senso geometrico del termine, ha posto l’esperienza è che questa - 208 -non fornisce l’universale e il necessario e che da essa mai e poi mai si può risalire al piano dell’intelligibilità e della scienza attraverso un trasferimento mediato che offra tutte le garanzie di nulla falsare durante l’opera di traduzione del sentito in concepito e dei rapporti sentiti in rapporti predicati, cosicché come poi si riesca a dimostrare che la stessa esperienza è invece pervasa di universalità e necessità, non riesco non dico a farmene convinto, ma a capirlo, per la contraddizione che non lo consente. Se le quattro dimostrazioni – da cui si deve concludere a una congruenza del pensato con le condizioni per cui il pensiero accetta il pensato come un logico reale in tutta la sua connotazione di ente di pensiero non solo non affetto da contraddizione ma anche dotato di validità gnoseologica – non possono essere offerte, neppure la conclusione verrà data; di conseguenza la predicazione del possibile resta qualcosa di molto arbitrario perché impossibile. D’altra parte, il ragionamento può essere capovolto, e invece di essere svolto sulla impossibilità di dimostrare la congruenza di un pensato con le condizioni del pensiero può essere applicato alle condizioni stesse del pensiero, in quanto condizioni trascendentali.
Le condizioni per cui un pensato universale e necessario è un pensabile universale e necessario – vale a dire per cui un pensato che si ponga universale e necessario ha tutti i diritti di essere giudicato ed accettato tale dal pensiero – consistono nella trascendentalità e quindi nella pura funzionalità di un soggetto che, assoluto nella sua funzione, è fenomenico e relativo in tutte le altre sue manifestazioni compresa, s’intende, anche l’autocoscienza che è un intuito, nella trascendentalità e funzionalità delle forme, nell’elaborazione da parte delle forme del pensato e del sentito. Ora, tali condizioni sono dei dati che o si intuiscono o si argomentano: dal momento che non si intuiscono – perché nessuno assisterà mai, mediante il contatto di sé con se stesso, allo spettacolo di questo profondo e continuo lavorio che il soggetto viene continuamente svolgendo dentro di sé -, non resta altra strada che argomentarli. Ma un’argomentazione deve partire da un dato noto e posseduto come reale: ora, i dati che potrebbero, nella fattispecie, porsi come fondamenti od origini sono: il soggetto conoscente; una certa situazione empirica in cui dovrebbe mostrarsi la traccia evidente dell’intervento del soggetto conoscente; un certo giudizio che, esso pure, dovrebbe manifestare l’orma dell’intervento del trascendentale. Il soggetto conoscente è un fenomeno cioè una modificazione – non chiediamoci di quale modificato – elaborato in un certo modo e non è assoluto se non sotto il punto di vista della sua trascendentalità: se muovo dalla fenomenicità del soggetto conoscente non ho il diritto di argomentarne alcunché di assoluto, se muovo dall’assolutezza del soggetto conoscente incappo in un circolo vizioso. La situazione empirica deve essere assunta come tale che manifesti e non manifesti in sé la presenza di alcun universale e necessario, perché debbo rimanere dentro i limiti di ciò che è stato imposto dall’ipotesi che l’empirico non è sorgente - 209 -se non di un nuovo che è particolare e contingente e insieme manifesta in sé il segno dell’intelligibilità: un’ipotesi differente getta il nostro giudizio universale e necessario nelle secche di Hume, cioè ne fa un universale un necessario un estensivo del sapere, che è però tale solo per il soggetto conoscente e non per l’oggetto conosciuto e che quindi vale per me che conosco e non per l’esperienza, con la conseguenza che il giudizio smarrisce quell’effetto tanto prezioso della sua universalità e necessità che è la concessione della prevedibilità; dunque, la situazione empirica è un concetto contraddittorio per sua essenza, o meglio per necessità di costruzione, e chi voglia argomentare da essa necessariamente dà luogo a una serie di antinomie – si vuol sostenere che nelle mie affermazioni c’è qualcosa di arbitrario, di soggettivo e d’incompreso; si vuole obiettarmi che non ho capito niente di Kant e che mi giro e rigiro per adattare Kant a un sistema che non è il kantiano, bensì la mia falsa e fallace ed errata interpretazione di Kant, perché l’esperienza che io assumo non è un complesso di sensazioni amorfo disorganico caotico, bensì un ordine di oggetti e di relazioni tra oggetti che è nato solo perché il soggetto è intervenuto in quel caos per farne un cosmo; mi è lecito rispondere che l’assunzione di una esperienza «pura», in un senso mio e non kantiano, come agglomerato o miscuglio di sensazioni, a fondamento dell’esperienza «possibile» nel senso kantiano e non mio, non è mia, ma di Kant, anzi è il presupposto che sostiene l’argomentazione di Kant; e mi è lecito pure rispondere che il problema di origine del kantismo non si è posto perché Kant si sia messo dinanzi una pittura dei nostri giorni chiamandola esperienza – come vorrei io che fosse -, bensì è nato proprio dal fatto che l’esperienza, quella «possibile» di oggetti e di rapporti tra oggetti, è proprio quell’esperienza che non alimenta in seno nessun intelligibile, o almeno nessuno degli intelligibili di una scienza naturale che non si identifichi con la matematica; quindi l’esperienza, come concetto contraddittorio, è appunto l’esperienza «possibile» - Non resta allora altro che partire dal giudizio. Ma per questo bastano poche parole. Un giudizio universale e necessario che sia anche sintetico – ossia che non dico provenga dall’esperienza, ma pretenda di valere per l’esperienza, rifiutando contemporaneamente di essere la conclusione di un sillogismo e polisillogismo che muovano da una idea innata -, fra tutte le sue note racchiude pure quella capacità di offrire previsione, cioè di rispecchiare una situazione dell’esperienza; ma un tale giudizio è valido solo per un’esperienza che racchiuda intelligibili e non per un’esperienza che di per sé non si ponga come racchiudente intelligibilità; dunque, sarà la conclusione di un’argomentazione che muove dall’esperienza come cosmo intelligibile. Dinanzi ad esso o a fianco di esso avrà però tutti i diritti di porsi un giudizio perfettamente uguale, uguale nel concetto-soggetto, uguale nel concetto-predicato, uguale nel rapporto di predicazione, uguale nella sua relazione con la esperienza, uguale dunque in tutto fuor che nella tonalità gnoseologica - 210 -del rapporto di predicazione, perché alle note di universalità e necessità che sono il tono gnoseologico del rapporto di predicazione del primo giudizio si sostituiscono quelle di particolarità e contingenza che sono il tono del secondo; e poiché quest’ultimo giudizio è stato argomentato dallo stesso concetto di esperienza da cui è stato argomentato il primo, concetto d’esperienza di cui s’è tenuta presente la nota di assenza di intelligibilità, il concetto di giudizio particolare e contingente si pone di contro al concetto di giudizio universale e necessario come un equipollente, ma contraddittorio – è l’effetto della contraddittorietà del concetto di esperienza che non poteva non dar luogo a un’antinomia. E allora si pone l’interrogativo da quale dei due concetti io debbo argomentare le condizioni del pensare, dal momento che entrambi i concetti godono degli stessi diritti; non si può rispondere che da nessuno dei due. A meno che, quindi, non si voglia argomentare la trascendentalità dell’esperienza e del conoscere da essa stessa, non si dà, oltre al soggetto alla situazione empirica al giudizio che traduce intellettualmente la situazione empirica, altro dato originario: di conseguenza, la condizione trascendentale dell’esperienza e della conoscenza non è dimostrabile. Kant invero non ha seguito questo processo che è l’unico logicamente valido – infatti quando si ricerca la congruenza tra un dato e una condizione, è necessario che al pensiero si diano come dei dimostrati tanto il dato che la condizione e che quindi si proceda alla verifica della congruenza -, vale a dire non ha accettato come dei presupposti le condizioni per commisurare su di esse il dato, non ha argomentato le condizioni per poi procedere alla commisurazione. Il suo discorso ha tentato un unico processo che abbracciasse e l’uno e l’altro dei momenti. La prima conseguenza immediata è dunque che – sia pure accettando il suo possibile come un pensabile, cioè come un armonico, in virtù del principio di contraddizione, con le condizioni che si pongono in definitiva come ragioni sufficienti del pensamento in generale – il confronto non è, o per questo o per quel motivo, un fattibile, o meglio non è un fattibile secondo i passaggi logici che ci sono imposti in operazioni di tal genere: per questo, per ora non è ancora lecita una risposta al quesito se sia possibile una scienza. Ma si può vedere se per caso la risposta non scaturisca da quel metodo «combinato» che Kant ha fatto suo.
L’argomentazione kantiana che ci è offerta dai Prolegomeni, segue press’a poco le seguenti tappe: a) porre un giudizio; b) accettare che il giudizio abbia i caratteri della scienza; c) dimostrare che tali caratteri sono dovuti a una serie di condizioni che pongono se stesse come condizioni della possibilità di un pensato in generale che sia scienza e insieme la possibilità di un pensato che è scienza: ne risulterebbe quindi la dimostrazione del darsi delle condizioni e insieme del condizionato che sarebbe un possibile per il pensiero. Ma questo, che è il tentativo di giungere a una sintesi del discorso che dalla convenienza di un condizionato a condizioni date argomenta il condizionato - 211 -come lecito, e del discorso che tende a dimostrare la reale esistenza logica – e quindi gnoseologica ed ontologica – delle condizioni cui ricondurre i condizionati che possano darsi, non è altro che un semplice procedimento per possibilità o problematico, il quale da un ente accolto come un problematicamente possibile sale alle condizioni che sono ragioni del problematico e il cui darsi trasforma il problematico in un necessario, e quindi in un reale. È naturale che il processo non possa darsi senza una ricerca del verificarsi nel problematico delle condizioni che lo determinano, giacché le condizioni sono ragioni omogenee immanenti, distinte dal determinato per un’opera di semplice astrazione: procedimento, dunque, ineccepibile, se non presentasse tutte le manchevolezze di un procedimento problematico ipotetico, se cioè non fosse costretto a passare in modo incessante dalla realtà del problematico, che da problematico si fa reale, alla realtà delle sue ragioni, e dalla realtà di queste alla necessità di quello. Il principio di contraddizione, in sé, non è mai offeso, perché è conforme a tutte le leggi del pensiero che, pensato un possibile nel senso di escluso dalla giurisdizione del principio di contraddizione, si formulino ipoteticamente delle sue condizioni e si controlli poi se il problematico le rifletta e rispetti in se stesso; ma il rispetto al principio di contraddizione, che è semplice ossequio alla norma di rapportare una conseguenza al principio a condizione che la conseguenza sia determinata dal principio, non ha certo valore né gnoseologico – nulla ci fa conoscere che si verifichi fuori dal pensiero, in quell’unica sfera che, almeno, è lecito supporre indipendente dal pensiero, l’esperienza -, né tanto meno ontologico – altrimenti si ricadrebbe nelle aporie di un razionalismo gnoseologico -. Il discorso che Kant ci ha presentato, ha la stessa portata di una geometria non-euclidea e ne ha insieme i limiti: in un regno di totale problematicità, si muove da un possibile-problematico di natura generalissima; e da questo si scende via via alle condizioni immediate e mediate, controllando continuamente col Geiger del principio di contraddizione che ogni livello di condizionato sia in ottemperanza col sovraordinato livello condizionante; ma perché, costruito l’intero sistema dalla condizione generalissima al condizionato più particolare che sia dato, fosse consentito passare impunemente dall’edifico logico ai simmetrici gnoseologici ed ontologici, sarebbe necessario che almeno uno dei termini non avesse una portata e una validità esclusivamente logiche; allora, al possibile come problematico sarebbe lecito sostituire il possibile come pensabile, nel senso di atto a rappresentare una situazione di fatto – infatti in Kant il pensabile, che è un congruente con le condizioni trascendentali del conoscere, è insieme un congruente con le condizioni trascendentali dell’essere, e perciò un pensabile come capace di rappresentarsi dell’essere -. Ora, nonostante la loro più militarmente disciplinata ossequienza ai passaggi logici, le geometrie non –euclidee non sono ancora riuscite ad imporre né ai loro cultori né agli scolari delle nostre scuole primarie - 212 -le loro strane regole per trovare l’area di un triangolo, che sono dei possibili per i cultori dei nuovi postulati date le condizioni in cui han posto il loro pensiero, ma non certo per noi, dato lo stato delle condizioni in cui continuiamo a intuire e a pensare l’esperienza, stato che, almeno sulla superficie della terra, continua ad essere quella dello spazio euclideo con le sue tre dimensioni. Allo stesso modo Kant non riuscirà certo a far passare per enti pensabili – con tutto quel che d’implicito egli immette nel concetto di pensabile – né il giudizio universale e necessario e quindi la scienza né la sua condizione immediata né la condizione della sua condizione, che restano dei possibili, cioè degli enti che hanno il diritto di essere pensati come enti che non esistono e che al tempo stesso esistono. Concludendo, si vuole che il concetto di possibile, attribuito a giudizio, a giudizio universale e necessario, a scienza, ad esperienza, ecc. non abbia nel pensiero kantiano le stesse note con cui io connoto il concetto di possibile di un procedimento problematico: accetto, perché è molto verisimile che tale fosse il genuino intendimento di Kant; ma riconosco che la nuova accezione non dà nessun frutto alla soluzione del problema e non annulla il reale intervento di un procedimento problematico nel discorso kantiano. Il frutto che dà è il profondo senso di stupore e di ammirazione che proviamo dinanzi a questo monumento di pensiero, che richiama il senso di meraviglia che ci prende dinanzi ai teoremi di un Lobacevskij; ma come a fianco di un Kant si pone un Platone, così a fianco di un Lobacevskij si pone un Gauss: tutt’e quattro ci espongono delle possibilità del pensiero, o meglio dei risultati inattesi che possono scaturire dai procedimenti da millenni già utilizzati dal pensiero; tutt’e quattro danno al pensiero una nuova immagine di se stesso, ma non già di sé in quanto conoscente, ma di sé in quanto creante. D’altro canto, tra i due matematici e i due filosofi corre una differenza: i primi hanno contrapposto una delle infinite geometrie pensabili all’euclidea; ma nello stesso momento in cui facevano ciò, riservavano a se stessi il destino di rimanere nel campo della possibilità come sottrazione dell’intero loro sistema al principio di contraddizione e, più o meno e di buon grado, lasciavano ad Euclide il privilegio di servire fedelmente attuandolo e non sottraendoglisi il principio di contraddizione non solo con ogni sua singola proposizione, ma con la totale piramide lungo il cui snodarsi di proposizioni scivola pacifico il pensiero fino a toccare la sabbia soffice e calda, reale e palpabile, costituita da quel giudizio non più problematico, ma assertorio che, dalla voce di un sacro sacerdote alla voce di un altro sacerdote, attraverso i millenni era giunto sino all’orecchio di Talete e di Platone: «gli dei, grandi signori dell’universo, hanno dato agli uomini tre numeri, il tre il quattro il cinque; sia migliaia d’anni fa sia oggi sia allo svanire dei secoli se l’uomo applicherà ogni numero a una corda e collegherà per gli estremi le tre corde, sempre e ineluttabilmente l’angolo che guarderà la corda più lunga sarà uguale all’angolo che un palo, piantato nel deserto, forma con la distesa - 213 -della sabbia quando a mezzo del cammin del sole getta l’ombra più breve». I secondi si sono presentati l’uno all’altro, Kant a Platone e Platone a Kant, i loro sistemi, consci che nessun’altra soluzione avrebbe potuto darsi che non fosse variazione o ritocco o mutazione di componenti, che non tocca la struttura del tutto, del problema di cui il sistema voleva essere una soluzione; poiché dinanzi ad essi non si ergeva nessun altro sistema che conducesse a un dato dotato di quelle caratteristiche di realtà inspiegabile e divina, hanno ritenuto che tutto il loro sistema – il quale con la sua coerenza, da lene pendio, riceveva il nihil obstat del principio di contraddizione – logico gnoseologico ontologico non fosse un complesso problematico, ma un reale logico gnoseologico ontologico, e ciò facevano perché non potevano convincere se stessi che quella scienza, quel giudizio universale e necessario che assumevano come oggetto dubbio, non fossero di dubbio se non per una cecità del pensiero; e così dal regno del puramente pensabile trascorrevano al pensato legittimo, che è pur sempre un pensabile: unico lieve trattener di fiato, che in Euclide e in Lobacevskij per opposti e diversi motivi mai sentiremo, di Platone quando, morendo con Socrate e in Socrate, leva il mesto sospiro che un’ultima possibilità (= liceità) sia ancora data, che tutto l’organamento del processo di principio in conseguenza sia una pura possibilità (=problematicità), un essere che è non essere, pur rimanendo essere; di Kant, quando di mezzo alle rovine di tanti edifici costruiti nei millenni dall’uomo, i frantumi del cosmo, le evanescenze dell’anima che si dissolvono, il nulla di Dio con vicino i cenci del drappo che gli dava corpo, fa udire la parola pacatamente disperata che frantumi, evanescenze e nulla bisogna pure ricomporli con qualsiasi altro mezzo.
Per nulla, dunque, il fatto che «possibile» abbia in Kant una connotazione diversa, lede il dato reale che il procedimento di Kant fu un procedimento problematico, il quale continua a giacere nel suo circolo vizioso. Un’ultima via a una conoscenza di giudizi assolutamente apodittici è data, che nel momento della verifica intervenga un’esperienza diversa da quella fenomenica, un’intuizione che non sia quella per lo spazio e per il tempo. Ma allora a un errore se ne sostituisce un altro: accettiamo come dati di fatto che con l’esperienza fenomenica ossia con l’intuizione interna non sia dato cogliere un giudizio come universale e necessario; che dal giudizio universale e necessario, assunto a soggetto di un giudizio problematico, il pensiero risalga, con la coerenza del principio di contraddizione, di condizione in condizione alla condizione suprema, da cui in virtù del principio di contraddizione si ridiscende di grado in grado, ritrovando in ogni piano subordinato una necessità «logica» che prima non c’era, e facendo quindi del giudizio avente a soggetto il concetto di giudizio universale e necessario un apodittico, ma tale solo per il pensiero. Ammettiamo, ora, che sia vero che l’esperienza per intuizione temporale non ci dà la realtà esistenziale, ossia fenomenica del giudizio universale e necessario, e che sia insieme altrettanto vero che della condizione somma, dell’appercezione - 214 -originaria trascendentale, si dia un’esperienza per altra intuizione che ce ne garantisca la realtà esistenziale, non più fenomenica. È naturale che il processo deduttivo sfoci alla realtà dell’apoditticità del giudizio che ha a soggetto il concetto di giudizio universale e necessario, e quindi all’apoditticità nell’esistente e non nel pensato del rappresentato da quest’ultimo concetto. Il procedimento problematico ha dato esito positivo e ha inciso nel pensato, come rappresentazione di un reale indipendente dall’intelletto, ma la positività dell’esito è frutto dell’ambiguità di cui si è rivestita la parola esperienza. Ammettiamo invece che muovendo dal giudizio universale e necessario come da un dato di cui la possibilità (= pensabilità) è dubbia si salga a un principio supremo il cui concetto è un possibile, nel senso che nella sua connotazione essenziale non è un contraddittorio, e quindi in sé è un pensabile; e ammettiamo che dalla pensabilità di questo si arguisca necessariamente la pensabilità del giudizio universale e necessario, traendo come conseguenza che questo giudizio è un concetto possibile e, come tale, reale e capace di porsi a fondamento di una scienza dotata di tutti i crismi di legittimità; ma allora abbiamo giocato su quel concetto di possibilità, valendoci della duplice connotazione che l’affetta quando è predicato di un dato di pensiero; fino a un momento del discorso il nostro possibile è stato un pensabile in quanto non contraddittorio; da quel momento in poi il possibile è diventato nelle nostre mani un pensabile che quando si darà come pensato avrà i diritti di essere un pensato e di ricevere tutte le predicazioni che si danno di un pensato, compresa quella, di portata gnoseologica, di darsi come rappresentazione per il pensiero di qualcosa che è anche se il pensiero non lo pensa, cioè di una realtà le cui note non sono quelle che il pensiero consapevole le può imporre quando lo pensa. Ma allora siamo incappati in un sofisma di surrezione.
Son così giunto all’ultima delle mie conclusioni: il discorso dimostrativo di Kant è un’applicazione del procedimento problematico, che, in quanto muove da un dato che è solo un possibile e giunge a dei principi che sono del pari puramente possibili e rimangono in sé tali, è un procedimento problematico ipotetico; il procedimento problematico deve ricevere una verifica che ne trasporti il processo per congruenza dalla sfera del pensato come logico alla sfera del pensato come rappresentativo; ma nessun modo è dato per compiere tale verifica; quindi l’applicazione del metodo è destinata a rimanere una semplice costruzione ipotetico-deduttiva, la cui genesi è però di natura ipotetico-analitica; che se si vuol privarla di tale carattere – in quanto esso non dà il risultato richiesto ossia la dimostrazione della realtà gnoseologica di quel giudizio universale e necessario accettato come concetto problematico – si dà luogo a un circolo vizioso, evitato solo con il ricorso o a una petizione di principio o a un sofisma di ambiguità, il sophisma figurae dictionis di Kant o a un sofisma di surrezione. Questo errore ineluttabile di tutta l’argomentazione spiega quel senso di insoddisfazione che ho - 215 -sempre provato dinnanzi ad essa e che ha preso consistenza, a un certo momento della riflessione, mediante la scoperta di una strana situazione presente nel corpo costituito dall’argomentazione. Il nostro pensiero, qualunque cosa s’intenda con questo termine e di qualunque natura esso sia, presenta necessariamente almeno tre caratteri ineliminabili in un’interpretazione kantiana: a) è un modificabile in cui si danno modificazioni che sono rappresentazioni immediatamente presenti o rappresentazioni originate o direttamente o indirettamente dalle prime – nel momento in cui vedo rosso, sono rosso; se chiudo gli occhi, immagino il rosso come rappresentazione della prima rappresentazione non più data nel presente; se inserisco il rosso nella classe dei colori, penso il rosso come concetto che è ancora rappresentazione della prima rappresentazione -; b) è un conoscente, in quanto con le rappresentazioni delle rappresentazioni dà luogo a una seconda serie di rappresentazioni, eterogenee di natura dalle prime perché non essendo più immediatamente presenti sono sottratte a un’immodificabile situazione temporale - se immagino il rosso, sono ancora modificato secondo il rosso, ma indipendentemente da una determinazione particolare di natura cronologica, giacché il rosso lo posso immaginare in una qualsiasi situazione futura; se concepisco il rosso, la sottrazione alla determinazione cronologica è ancor più marcata in quanto il rosso come concetto, pur dandosi nella successione cronologica di tutti i miei stati, è pensato come libero da qualsiasi nota temporale -; c) è un attivo, in quanto elabora, secondo certi rapporti, certi dati. È certo che almeno alcuni dei dati di conoscenza, ossia delle modificazioni del pensiero in quanto ente conoscente, sono tratte direttamente dall’esperienza – se immagino rosso, conosco un ente che non solo riproduce il rosso intuito, ma anche si dà come effetto di cui l’intuizione del rosso è, dal punto di vista del rosso in quanto rosso e non del rosso in quanto immaginato, causa -; per tali dati dovremo quindi dire che la conoscenza si dà solo dopo l’esperienza. È certo, ancora, che il pensiero elabora attivamente almeno una sfera del modificato, l’esperienza, e che il frutto dell’elaborazione è l’introduzione in esso di relazioni costanti e uniformi, immutate e immodificabili, relazioni che un tempo erano chiamate gli intelligibili, ossia dati che divenuti oggetti di conoscenza assumono i toni dell’universalità e della necessità, che, in quanto tali, possono esser pensati mediante un’unica rappresentazione che li fa conoscere tutti a tutti i pensieri in modo permanentemente identico, e che, appunto per questo, si distinguono da quelle rappresentazioni di rappresentazioni, le immaginazioni, che non sono mai pensabili in un’unica rappresentazione che sia comunicabile ad altri pensieri – le immaginazioni venivano poste sul piano del conoscere come correlati di enti omogenei che, dandosi sul piano dell’esistenza non di pensiero ossia dell’esperienza in modo da trovare come canali di accesso al pensiero i sensi, si chiamavano sensibili. Ora, nel pensiero si dà questa strana situazione: alcune modificazioni di conoscenza, quelle empiriche, sono ricevute direttamente dall’esperienza, mentre altre, - 216 -quelle intelligibili, il pensiero le costruisce per conto suo entro il suo ambito, utilizzando gli stessi strumenti di cui si valse per ordinare l’esperienza, nello stesso modo e con gli stessi criteri di applicazione seguiti nell’ordinamento dell’esperienza; di conseguenza, i conosciuti intelligibili sono elaborazioni dirette del pensiero, senza per questo cessare di essere rappresentazioni di rappresentazioni, perché costruiti nello stesso modo con cui le rappresentazioni, che essi rappresentano, sono state costruite o vengono contemporaneamente costruite. C’è quindi un dualismo, che è parallelismo di pretto stampo spinoziano: un pensiero, che è un’incognita, è passivo per ciò che riceve, ma è attivo per i modi con cui ordina; la passività si verifica in una sua diciamo così zona quando si modifica – non si sa perché - secondo le sensazioni; si verifica in un’altra quando in questa insorgono modificazioni in seguito all’influsso delle sensazioni che sono insorte nella prima; l’attività si dà nella prima zona quando dispone le sensazioni secondo un certo ordine, si dà nell’altra quando dispone le modificazioni provocate dalle sensazioni nello stesso ordine che si dà nella prima. L’unica profonda differenza da Spinoza – o, se si vuole, anche da Leibniz – è che il parallelismo non è assolutamente simmetrico: mentre nella prima zona le modificazioni vengono per dir così dall’ignoto, nella seconda zona le modificazioni vengono dalla prima. È, almeno per me, incomprensibile, fino a che ci si trattiene nell’ambito del kantismo, perché mai la seconda zona sia caratterizzata da passività per ciò che riguarda la modificazione, e sia invece caratterizzata da un’inutile e superflua attività per ciò che riguarda l’elaborazione attiva, la quale per conto suo non produce nulla di nuovo e non fa altro che ripetere quel che è già stato fatto nella prima. L’incomprensibilità è venuta meno quando ho confrontato Kant con Leibniz e Spinoza: per questi si danno due mondi – anche per Spinoza, i cui due attributi sono due esistenti per altro i quali sono omogenei quando li si pensi dal punto di vista della loro essenza sostanziale e sono invece assolutamente eterogenei quanto si resti alla superficie del loro modo di esistere -; essendo i due mondi discreti l’uno dall’altro, bisogna pure che il secondo provveda da solo a costruirsi in generale e in particolare a costruirsi in congruenza con i propri modi di esistere e insieme in conformità con le strutture e i modi del primo; e poiché la sua non è una semplice costruzione libera a volontà, ma è una costruzione che deve riprodurre le forme del mondo parallelo, mentre costruisce si attiene scrupolosamente alla falsariga dell’altro, si giustifichi poi la conformità di costruzione o attraverso un’attività di cernita che separa ciò che nel primo modo si dà come sorgente di confusione da ciò che nello stesso si dà con la luce della chiarezza per conservare questo e scartare quello oppure col ricorso ad una contemporaneità di attuazione di una sola sostanza; e se ancora scendiamo nel loro intimo, ritroviamo l’antichissima inintelligibilità di come qualcosa - che per farsi conoscere al pensiero deve scorrere lungo i canali dei nervi sensoriali – riesca a trasmettere al pensiero quel che di se stesso non ha il diritto né l’attitudine a colare - 217 -lungo quei canali: la vera impossibilità per cui un sensibile non può dar luogo a un intelligibile non sta tanto nel fatto che l’intelligibile è uno mentre i sensibili sono dei più, o nel fatto che l’intelligibile è uguale per tutti i pensieri e per tutti i momenti di tutti i pensieri mentre i sensibili sono diversi da pensiero a pensiero e da momento a momento in uno stesso pensiero; ci sarebbe un lungo discorso da fare su questa differenza che, una volta introdotta, si è tramandata nelle scuole e nelle menti come una realtà assoluta; qui basti dire che c’è stato chi, come Abelardo e Ockam, ha negato i caratteri dell’intelligibile pur continuando a far della logica – e non ad usare le leggi del pensiero - e quindi a servirsi degli intelligibili. Ora, Kant assume lo stesso parallelismo senza però rendersi conto che tale parallelismo può sussistere solo in chi ammetta due reali in sé, non in lui che ne ammette uno solo: per Leibniz affermare che l’intelligibile non viene dal sensibile significa in realtà affermare che si dà un mondo dell’esistere che è discreto dal mondo del conoscere, è affermare che nel mondo del conoscere si dà una conoscenza confusa del primo, dalla quale, com’è logico, non può certo venire una conoscenza chiara perché la confusione non è dovuta a miopia del conoscente ma all’essenza stessa della sensibilità, cosicché a nulla servirà indagare meglio sul sensibile per diradarne la nebulosità. Per Spìnoza può dirsi qualcosa di analogo. Ma non certo per Kant, per il quale si dà un solo mondo, il soggetto conoscente – non faccio più discussioni su che cosa sia questo soggetto conoscente, nel quale si danno delle modificazioni riproducibili di diritto e riprodotte di fatto -: ora, le modificazioni sensoriali non sono né riproduzioni di un altro mondo – che non c’è o non si ha il diritto di dire che c’è - né quindi delle riproduzioni sfocate di questo mondo, ma sono quel che sono, ossia dei segni sulla tavoletta lisciata del pensiero che nessuno e nulla traccia; le riproduzioni delle modificazioni sono anch’esse quel che sono, cioè delle fotografie che saranno se si vuole confuse, ma che, se si dan confuse, è sempre possibile correggere o rifare; la riproduzione avviene senza bisogno di far intervenire organi di senso, perché questi sono a loro volta delle modificazioni che si inseriscono, ad esempio, fra questa modificazione che è il giallo del pennino con cui sto scrivendo e la modificazione elettro-magnetica di una cellula del mio cervello, ma che non si inseriscono certo tra il giallo e la riproduzione del giallo; la difficoltà quindi del passaggio da sensazione come esistente a sensazione come conosciuta vien meno; ma vien pure meno la difficoltà del passaggio delle sensazioni come contenenti un certo intelligibile che esse non rivelano – ossia come dei particolari e contingenti in cui si cela un universale e necessario – alle riproduzioni come esprimenti quel certo intelligibile: infatti per Kant l’intelligibile non è un sottofondo essenziale ma è un semplice rapporto, il quale può benissimo trasferirsi dall’esperienza alla rappresentazione, non solo perché il trasferimento non necessita in generale di organi sensoriali ma anche perché il rapporto ce l’ha messo quell’unico mondo in cui si sono - 218 -verificate le modificazioni sensoriali. Quindi, il parallelismo in Kant non ha ragion d’essere. Però c’è. È allora doveroso andare alla ricerca delle ragioni che l’han posto. Kant in realtà ha assunto sì il problema dell’esistenza di un giudizio universale e necessario, ma non l’ha indagato muovendo da posizione zero; non ha adottato un criterio diciamo così cartesiano. Fin dall’inizio, ha fatto sue le posizioni del mondo a lui contemporaneo: quella empiristica che voleva tutta la conoscenza derivata dall’esperienza e riduceva l’esperienza a modificazione del soggetto ossia a sensazioni, quella razionalistica che voleva il mondo della conoscenza scientifica inderivabile – per i motivi di cui sopra – dal mondo della conoscenza sensoriale. Ho detto che ha fatto sue le posizioni; avrei fatto meglio a dire che ha fatto sue alcune conseguenze del principio dell’uno e dell’altro indirizzo; col che resta certo che il kantismo non è una sintesi di due dottrine contrarie e contraddittorie – sarebbe un assurdo -, ma è l’argomentazione da certe premesse, in cui hanno confluito alcune note inferite dalla impostazione empiristica e altre note inferite da quella razionalistica. Se tutto deriva dalla sensazione, si ha come conseguenza fondamentale che nulla di conosciuto si dia prima della sensazione; e questo è logico, altrimenti la vita si ridurrebbe o a un lungo esame di ammissione a un mondo di gioia – il che è congruente con premesse di fede – o a un lungo rimuginare su certi enti posseduti fin dalla nascita, rimuginare il cui frutto non si capisce quale possa essere dal momento che vien meno anche quello di valerci dei suoi risultati per utilizzarli in un mondo, quello esterno al pensiero od eterogeneo da esso, con cui i contatti sono tutti fittizi o traditori – il fatto che non si diano idee innate è certo all’origine logica dell’empirismo, ma non è di certo argomento tanto sicuro da convalidare tutto l’empirismo, perché, almeno fino a che non potremo ricorrere a particolari mezzi di conoscenza delle modificazioni cerebellari, nulla potremo dire della psiche di un neonato, se non valendoci di certe manifestazioni intermedie il cui valore oggettivo è totalmente problematico-. Se invece tutto è conosciuto indipendentemente dalle sensazioni – che ci sono non si sa perché -, si ha che, se si potesse avere il caso che non si dessero – invariate restando le nostre condizioni di vita – la loro assenza non ci priverebbe affatto di un conoscere; la conoscenza nostra, quale si dà senza le sensazioni, deve aver certi caratteri : dev’essere apriori - infatti o è ricevuta o non è ricevuta; c’è ma non è ricevuta; perciò dev’esserci senz’essere ricevuta; dunque dev’essere connaturale a noi come le mani che ci sono senza che nessuno ce le abbia trasmesse e donate -; deve essere innata e quindi coessenziale alla natura dell’uomo; deve essere identica per tutti gli uomini, in quanto coessenziale alla natura umana, a meno che non si voglia ammettere l’intervento di una divinità capricciosa, il cui ingresso è vietato da quel principio di contraddizione, che un razionalismo non può non accettare, pena l’estinzione; dev’essere sviluppabile perché è evidente che non tutto sappiamo fin dalla nascita; dev’essere sviluppabile con strumenti posseduti dalla natura stessa dell’uomo - 219 -e non sopraggiunti dalle sensazioni perché queste fanno mondo a sé; in quanto sviluppabile e insieme data fin dalla nascita, dev’essere il risultato di un’analisi di qualcosa che la contiene tutta e quindi dev’essere il risultato di un procedimento assolutamente identico a quello della matematica, sintetico-deduttivo; ma se innati sono gli enti primi e naturale è lo strumento di analisi matematica e di deduzione, i risultati del conoscere ossia il conoscere tradotto in linguaggio cronologico saranno identici per tutti i pensieri in tutti i momenti della vita del pensiero. Se ora si confronta questo conoscere con quello sensibile e se si nota come il primo sia universale e necessario e il secondo particolare e contingente – perché risultato confuso di un’ignota volontà di riproduzione del reale - si dovrà attribuire la qualità di essere una rappresentazione o conoscenza del reale soltanto alla conoscenza universale e necessaria che è apriori, giacché conoscere significa riprodurre il reale. Sommiamo le due conclusioni: abbiamo non il pensiero kantiano come sintesi di empirismo e di razionalismo, ma la premessa kantiana che è solo la sintesi delle due conclusioni: il conoscere è riproduzione del reale; un conoscere che sia riproduzione del reale dev’essere universale e necessario; un conoscere che sia riproduzione del reale deve sorgere per continua riproduzione del reale che si dà solo con l’esperienza; ma l’esperienza è una riproduzione confusa del reale e come tale particolare e contingente; dunque, il conoscere dev’essere riproduzione universale e necessaria che si dia per esperienza, e insieme indipendentemente dalla esperienza. Capiamo così, alla sua genesi, che se la scienza è conoscenza universale e necessaria ed estensiva del sapere, la scienza dev’essere conoscenza per giudizi sintetici a priori. Tutto il lungo discorso della Dissertazione, dei Prolegomeni, della Ragion Pura è il tentativo di dimostrare reale, con il metodo della problematicità, quel problematico che è un giudizio universale e necessario che non possa darsi senza l’esperienza. Ritengo che il circolo vizioso fondamentale, insito nell’applicazione kantiana del procedimento problematico, abbia alle sue sorgenti una certa interpretazione del sensoriale che è tipica sia degli empiristi che dei razionalisti: la sensorialità è sempre una conoscenza confusa, obnubilata, perché è sempre o la visione di un miope per un razionalista, o per un empirista la modificazione di un modificato il cui stato non è mai uguale allo stato di un altro modificato, che patisca la stessa modificazione in identiche o differenti situazioni di tempo e di spazio. È naturale che, connotata così la sensorialità, un razionalista sdoppi la conoscenza, e un empirista neghi la conoscenza universale e necessaria; ma è anche naturale che ad un Kant – il quale, per salvaguardare la istanza empiristica che sotto il sole si dà tutto di nuovo, fa della sensazione la sorgente del conoscere, e per salvaguardare l’istanza razionalistica che ciò che si dà sotto il sole debba essere costante e uniforme per un pensiero in generale e quindi mai possa essere un nuovo, fa del conoscere un conoscere scientifico -, la sensazione non possa rimanere tale, ma debba trasformarsi in esperienza per intervento del soggetto, - 220 -ma ciò che non è più naturale è lo sdoppiamento del conoscere in due conoscenze, sdoppiamento che è frutto sia dell’ambiguità della parola esperienza – che suona particolare e contingente e insieme fonte della conoscenza scientifica -, sia della situazione tipica della conoscenza umana che per prendere contatto con un mondo non di sogno deve accettare sensazioni – cioè divenire e molteplicità – e per interpretare le sensazioni deve unificare e immobilizzare. Soltanto il fatto che Kant non affrontò il problema se non attraverso le lenti dell’empirismo e del razionalismo spiega l’ambiguità e la conseguente dualità della conoscenza; dualità superflua, perché la sua esperienza è del tutto identica a quel mondo di Galilei matematicizzato da Dio, che il pensiero può accostare con tutta certezza di riproduzione, perché il fattore del mondo ha contemporaneamente matematicizzato il pensiero. La soluzione kantiana del problema dell’universale e necessario del giudizio delle matematiche e delle scienze che ricalcano la matematica è in fondo una semplificazione del galileismo, in quanto al Dio trascendente si sostituisce un elaboratore immanente che, fabbricando, potrà sempre conoscere il fabbricato. In fondo, anche l’aristotelismo non era che una semplificazione del platonismo.
È mio parere che il lavoro che ho condotto fin qui non sia infondato e sia una fedele interpretazione di ciò che nel sottofondo del pensiero di Kant si è venuto svolgendo. È possibile che qualcuno mi chieda – dico possibile perché in questo momento che scrivo non so se avrò lettori -; la tua fatica a che cosa è servita se non a distruggere Kant? Beh, qualche conclusione è implicita in tutto il mio discorso: un’interpretazione empiristica dell’universo non rende lecita l’attribuzione di esistenza a un giudizio universale e necessario; chi, muovendo da un’interpretazione empiristica, vuole affrontare il problema se si dia un giudizio universale e necessario ha come unico mezzo il ricorso al metodo problematico, ricorso che però dà inesorabilmente luogo a un circolo vizioso; il problema dell’esistenza di un giudizio universale e necessario non è risolvibile per dimostrazione, se non mediante ricorso alla metafisica; se non ci si vuole appellare alla metafisica, l’intera esistenza umana, in tutte dico tutte le sue manifestazioni – dai primordi degli alberi e delle caverne a una cabina pressurizzata di un missile -, può servire di argomento all’esistenza del giudizio universale e necessario; l’esistenza del giudizio universale e necessario è argomento dell’insussistenza fondamentale dei presupposti empiristici; la dimostrazione kantiana, per il circolo vizioso che la devitalizza, non è accettabile ed è vana; vani sono quindi tutti i sistemi e pensieri e teorie che ad essa si son rifatti per argomentarne l’attività gnoseologica prima, l’attività metafisica poi dell’uomo come principio o come sede privilegiata del principio allo stato puro; d’altra parte le metafisiche per soggettività assoluta immanente, ossia i cosiddetti idealismi assoluti, son sempre esistiti, anche prima di Kant.
Mi si può obiettare che l’accusa da me mossa di petizione di principio è infondata perché almeno per un tipo di giudizio, il giudizio causale, è lecito parlare del giudizio universale e necessario come di un intuito. Al che si può aggiungere che, se il concetto di causa è un ente logico la cui esistenza è garantita dall’intuizione di un giudizio ipotetico universale e necessario, anche il giudizio categorico dovrà avere diritto di esistenza, perché al concetto di causa si connette come dato che lo condiziona il concetto di sostanza, il quale dal punto di vista logico dovrà fruire di pari realtà; di conseguenza tutti i tipi di giudizio avranno una reale esistenza nel pensiero e si offriranno all’intuizione interiore come dati di esperienza, in quanto ogni tipo di giudizio usufruisce necessariamente e in modo esplicito o implicito dello schema del giudizio categorico o dello schema del giudizio ipotetico. Sarebbe pure lecito muovere l’obiezione di falsità all’accusa di petizione di principio grazie a un’altra considerazione: se la metafisica costituisce un problema sia sul piano del diritto che su quello del fatto, non altrettanto può dirsi della matematica e della fisica; le quali sul terreno pragmatico del fatto non richiedono per nulla una dimostrazione del loro diritto ad essere come scienze, e per le quali la dottrina del trascendentale è tutt’al più un ulteriore argomento che viene ad aggiungersi a quelli dell’evidenza e della verificazione sperimentale cui l’una e l’altra scienza rispettivamente s’appellano per procurarsi una garanzia che non s’affidi a fattori estranei al loro stesso territorio; quindi il giudizio matematico e il giudizio fisico se già hanno ritrovato per conto loro uno strumento di ratificazione che fornisce loro il diritto di entrare a far parte del corpo della scienza, si pongono sia come reali sia come necessari, e la loro deduzione trascendentale servirà unicamente a garantire di una loro necessità generale, non della necessità peculiare che già posseggono.
La prima obiezione è quella più grave e come tale dev’essere affrontata per prima. Quando Hume ha voluto ricondurre il rapporto di causa al fatto psicologico dell’associazione fondata sull’abitudine, ha inteso dire solo: a) che fra gli enti sensoriali si danno sì delle successioni, ma queste non sono altro che successioni, ossia determinazioni temporali degli enti, grazie alle quali ogni ente non si limita ad essere quello che è, un certo colore o suono o sapore, ma s’accompagna anche a una certa sfumatura cronologica, che noi diciamo del prima e del poi, la quale, al pari della natura meramente sensoriale dell’ente, non ha in sé nessun carattere di necessità; b) che quando in tali successioni noi ritroviamo la liceità di proiettarle anche nel futuro, servendocene come mezzi di previsione –nel senso che assumiamo l’antecedente come fattore sufficiente a garantire con la propria esistenza quella del susseguente -, arbitrariamente aggiungiamo alle due note cronologiche un carattere di necessità che esse di diritto non posseggono, e ciò facciamo misconoscendo che tale carattere non ha una portata logica, bensì semplicemente psicologica, ossia che tale carattere non è un dato sottoposto al principio di contraddizione e quindi non è un ente per il quale si danno ragioni che non gli consentono di essere in altro modo, ma è soltanto il frutto di un apporto soggettivo sotto forma di sigillo arbitrario, che s’aggiunge a ciò per il cui essere si danno soltanto ragioni sufficienti valide a riconoscerne la ripetizione nel passato, non a postularne quella ripetizione in ogni tempo che è unità e unicità garantita da ragioni e quindi dal principio di contraddizione e che è concetto. Ora, ha ragione Kant quando dice che un tale ragionamento che vorrebbe smantellare il sofisma di surrezione sotto cui una qualsiasi determinazione del rapporto causale si celerebbe, è a sua volta infondato, è a sua volta un sofisma di surrezione in quanto opera proprio la sostituzione inversa: infatti il sigillo arbitrario dell’abitudine non può provenire se non dalla ripetizione stessa e quindi non è di per sé in grado di aggiungere necessità se non là dove la necessità si dà di per sé , o meglio la necessità della successione non può essere offerta dall’abitudine e confusa coll’abitudine: l’abitudine riuscirebbe ad offrire una successione automatica e come tale esterna alla sfera della coscienza; sarebbe capace di offrire un’aspettativa priva di qualsiasi colorito o movenza intellettuale; non sarebbe mai in grado di procurarci l’attesa del necessario, un fatto cioè consapevole intellettuale argomentabile. Il rapporto causale non può essere figlio dell’abitudine, perché l’abitudine automaticizza la ripetizione e quindi varrebbe soltanto a spiegare la meccanicità inconsapevole dell’attesa per necessità, non la necessità dell’attesa. Il rapporto causale, in quanto necessario, è un dato che ha in sé sia la nota cronologica sia il carattere di necessità della nota; tutt’al più mutua all’associazione un aspetto di meccanicismo. Ma Kant ci dice pure che il rapporto causale non può essere ricondotto a un dato sensibile puro e semplice, sia perché un dato sensoriale siffatto non lo abbiamo mai intuito, essendo la successione necessaria un certo modo di rapporto fra due sentiti e mai un terzo sentito, sia perché se per caso si desse un sentito di tal fatta, allora esso dovrebbe entrare in un certo rapporto cogli altri due che dovrebbero essere da lui affettati, rapporto per il quale si porrebbe la stessa problematica che si pone per il rapporto causale e la cui presenza comporterebbe l’intuizione di una catena indefinita di dati sensibili. Quest’osservazione aggiunta alla dimostrazione dell’erroneità del ragionamento di Hume deve dar luogo a una serie di considerazioni che dobbiamo fare e che creano una certa atmosfera attorno al rapporto di causa in generale e al giudizio ipotetico che ne è l’espressione concreta. Un rapporto causale in genere ossia il concetto di causa, sul piano di una logica che rifiuti un’interpretazione trascendentale, è una semplice astrazione o rappresentazione generica che ci permette di pensare con un unico atto una moltitudine di rappresentazioni mediante il carattere fondamentale per cui esse son quel che sono; queste rappresentazioni che debbono esser date al pensiero prima dell’astratto generico sono i differenti giudizi ipotetici che stabiliscono il condizionamento di un’esistenza da parte di un’altra esistenza; i vari giudizi ipotetici sono dei necessari, ma insieme sono a loro volta delle generalizzazioni ossia delle astrazioni mediante le quali un unico atto di pensiero consente di pensare una molteplicità di rappresentazioni mediante il carattere fondamentale che le fa essere quel che sono; queste rappresentazioni che in quanto fonti di una generalizzazione debbono essere date al pensiero prima dell’astrazione generalizzatrice, sono i rapporti di successione intercorrenti fra dati dei sensi: una concezione del fatto cognitivo in genere la quale abbia rifiutato la deduzione intellettuale e non sia ancora giunta all’interpretazione trascendentale del conoscere, non può che descrivere in questo modo il processo per cui dal molteplice in successione si giunge al concetto di causa. Ora, che i dati sensoriali si trovino in una certa successione, che cioè ciascuno ci appaia come ci appare e insieme ci appaia con una certa nota che ha valore solo relativamente alla nota omogenea che accompagna un altro dato sensoriale, è indubitabile, nel senso che tutto ciò è un dato immediato dell’intuizione; ma che la relazione reciproca delle due note sia un fatto di necessità, sia cioè intuito come qualcosa di necessario, questo non ci viene affatto fornito dall’intuizione. Di conseguenza il nostro giudizio ipotetico non rispecchia affatto nelle sue generalità un dato dell’intuizione: fra intuizione e giudizio e quindi fra intuizione e concetto s’apre una soluzione che il pensiero con l’unica arma dell’induzione non può eliminare. Una volta definita l’esperienza in termini di empirismo, l’esperienza diventa una somma che è lecito anche non necessariamente dichiararla complesso di particolari e contingenti – nel senso che solo l’introduzione dei concetti di coscienza individuale e di modificazione individuale di coscienza individuale, la riduce a complesso di particolarità e di contingenze – ma che tuttavia non può non essere definita come successione cronologica di complessi di rappresentazioni date in simultaneità con un atto unico; in tale successione non necessariamente tutto muta nei complessi antecedente e successivo; qualcosa permane, qualcosa muta; e grazie a questo squilibrio del permanere e del mutare ci è lecito ricondurre il fatto della successione che è un generale a ciò che muta in una situazione che permane. Se la simultaneità e la successione sono i caratteri che insieme alla sensorialità o individualità della rappresentazione determinano l’esperienza, la dottrina trascendentale ha buon giuoco nell’affermare che spazio e tempo sono ordinamenti del soggetto in cui i dati sensoriali debbono disporsi per poter essere intuiti. Ma l’impresa diverrà oltremodo difficile quando si tratterrà di affermare la trascendenza della causa in particolare, delle categorie in generale, perché se da un lato non sarà consentito di farne a meno, dall’altro si tratterrà di introdurre qualcosa che nell’intuizione non è necessariamente presente. Il rapporto causale in generale infatti – e quindi le singole determinazioni causali che sono altrettanti giudizi ipotetici e altrettanti vincoli causali di dati empirici – implica una successione che sia ripetuta e necessariamente ripetuta; ora, l’intuizione mi offre la successione, la ripetizione della successione, ma non la necessità della ripetizione; il concetto causale dunque e tutte le rappresentazioni che ne dipendono, in quanto sono successioni determinate da una ripetizione che è determinata a sua volta dalla necessità, non sono l’esatta rappresentazione di una rappresentazione; lo diverranno soltanto alla condizione che il concetto di causa non sia un astratto aposteriori bensì un attivo apriori il quale determina insieme giudizio ed intuizione e fa del primo l’esatta rappresentazione di quella rappresentazione che è la seconda. Ciò che ha reso necessaria l’operazione nuova, che è deduzione trascendentale, è appunto il fatto che tra giudizio ed intuizione non intercorre quel rapporto che è di rappresentazione di rappresentazione a rappresentazione; ma questo rapporto è imprescindibilmente richiesto onde il giudizio possa essere accolto non solo come fatto di scienza, ma anche come fatto logico in generale: infatti, dato un giudizio ipotetico in generale, perché ci sia consentito giudicarlo strumento di scienza, è necessario che ci sia lecito usarlo come tale, ossia che ci sia lecito adottarlo a mezzo di previsione; al che non riusciamo se anzitutto non lo assumiamo come dato di conoscenza reale, ossia come rappresentazione che di pieno diritto si pone come indice di quell’intera serie di rappresentazioni per i cui modi di futura realizzazione ricorriamo al giudizio ipotetico stesso; ma perché ciò si dia s’impone che la rappresentazione e la rappresentazione della rappresentazione siano reciproche e siano sostituibili a volontà l’una con l’altra; tra la rappresentazione e la rappresentazione della rappresentazione si deve, di conseguenza, dare quella liceità di sussunzione sotto il concetto di successione necessariamente ripetuta, che di fatto non si dà; dobbiamo quindi inferire che il giudizio ipotetico dato non è fatto di scienza; ma se non è fatto di scienza, non è neppure tale da essere fatto logico in generale. Un pensato è in generale un logico quando è suddito fedele del principio di contraddizione, quando cioè per esso si danno ragioni sufficienti per le quali esso è quello che è e non può essere altro da quello che è: ora, un giudizio ipotetico in generale è definito come espressione di una successione che è insieme ripetizione necessaria, e al tempo stesso come rappresentazione di una rappresentazione; poiché la rappresentazione di cui il giudizio dovrebbe essere rappresentazione è una successione con ripetizione priva di necessità, il nostro giudizio ipotetico perde una delle sue note essenziali, la seconda di quelle esposte; e allora delle due l’una: o per conservare il carattere di rappresentazione determinata in modo particolare di una rappresentazione, rinuncia al suo carattere di rappresentazione di una rappresentazione e con ciò rinuncia alla sua natura di dato gnoseologico in genere, oppure per conservare quest’ultima che coincide col carattere di rappresentazione di una rappresentazione, rinuncia alla determinazione della necessità e decade dalla sua funzione di giudizio ipotetico. Sia nell’uno che nell’altro caso il giudizio ipotetico scende dal suo trono: nell’un caso infatti diventa un dato valido esclusivamente per il soggetto che lo formula, dato quindi di natura non scientifica, la qual natura richiede l’oggettività,
e di natura non gnoseologica, la qual natura richiede la funzione di conoscenza che è propria del rango rivestito dal dato – nella fattispecie, il giudizio, in quanto rappresentazione di una rappresentazione, rinuncia alla sua funzione di esprimere l’essenza di quel rappresentato di cui invece vorrebbe essere esclusiva enunciazione -: ridotto a un soggettivo, attenderà una dimostrazione della sua soggettività che non sarà certo quella di Hume, la quale vorrebbe mantenere nell’argomentazione una correlazione fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto onde togliere alla natura del soggettivo la nota dell’arbitrarietà consapevole, e che per far ciò s’appella al fattore soggettivo dell’abitudine che rimanda per la sua applicazione alla presenza della necessità nell’oggetto; si dovrà quindi trovare una qualsivoglia altra sorgente, la quale però dovrà essere sempre e soltanto soggettiva. Nell’altro caso, poi, il giudizio ipotetico acquista il carattere dell’oggettività, ma perde quello della necessità e quindi rinuncia al suo rango di giudizio universale e necessario. In entrambi i casi un giudizio ipotetico, come giudizio universale e necessario, non si dà come dato immediato di intuizione interiore: alla coscienza è lecito affermare di possedere un giudizio che enuncia un rapporto causale che è universale e necessario, alla condizione però che si renda ben conto che tale giudizio non riflette quel reale, che dovrebbe essere conosciuto attraverso il giudizio ipotetico stesso; alla coscienza è pure lecito affermare di possedere un giudizio che rifletta le reali condizioni in cui la realtà le si prospetta sotto il punto di vista cronologico, un giudizio cioè con cui può ricondurre a un solo atto la moltitudine dei successivi che nell’intuizione le si danno, alla condizione però che al giudizio essa affidi il compito limitato di farle conoscere quella nota a cui una molteplicità di successivi vengono da lei ricondotti per essere conosciuti in unico atto, nota che è una certa successione costante, ma non necessaria. La coscienza quindi intuisce in sé, come dato logico fruente di reale vita logica, un giudizio in cui si enuncia la ripetizione o costanza di una certa successione di molteplici sensoriali, i quali si danno identici nella natura e identici nel rapporto cronologico: tale giudizio stabilisce che ad A costantemente subentra B; non è in grado però di stabilire che ad A necessariamente succeda B, che la costanza sia un semplice modo di apparire della necessità: questo solo un presupposto razionalistico sarebbe in grado di offrirlo, mai un presupposto empiristico, che è quello di Kant: Allora il nostro giudizio ipotetico, con il suo connesso concetto di causa, verrà ancora pensato dalla coscienza, ma solo come un problematico o possibile, come un ente per il quale non si danno ragioni per cui debba essere, che quindi può o non può essere: infatti date le premesse, un giudizio ipotetico non è un impossibile, in quanto non contiene nessuna contraddizione – non c’è nulla di contraddittorio nell’affermare che la costanza di una successione è manifestazione di una sua necessità -; e neppure è un reale: ora, mi è sempre lecito pensare un ente che non è né reale né impossibile, purché lo pensi come possibile. Il che è quanto avevo affermato ed è ciò da cui ero partito. A Kant è consentito muovere dal concetto di causa e dal giudizio ipotetico, non però come da reali, ma come da problematici.
La dimostrazione dell’infondatezza dell’obiezione fondamentale trae seco analoga dimostrazione nei confronti dell’obiezione che vorrebbe salvaguardare la realtà del giudizio universale e necessario attraverso la realtà oggettiva e pragmatica e l’autosufficienza della matematica e della fisica: il fatto che non sia lecito attribuire al concetto di giudizio universale e necessario la nota di reale logico, in quanto, una volta ridotto alla sua natura di problematico il concetto di giudizio ipotetico, tutte le altre classi di giudizi, il categorico l’affermativo il disgiuntivo ecc., si riducono a dei pensati problematici, estende la problematicità, propria dei giudizi universali e necessari in generale, alle scienze che sono corpi sistematici di giudizi universali e necessari. L’argomentazione generica diviene speciale e determinata quando si passi a considerare le ragioni in nome delle quali ogni scienza si pone come reale, ossia come effettuale conoscenza universale e necessaria di certi oggetti reali. La matematica, secondo Kant, è in grado di affermarsi scienza mediante l’intervento dell’evidenza: ogni suo giudizio fruirebbe di un’universalità e necessità, sia pure indimostrate nella loro realtà logica, ma pur sempre tali per il carattere di evidenza che gli inerisce. Che cosa debba intendersi con questo termine di evidenza non è molto chiaro. Se è l’evidenza cartesiana, ossia la forza intrinseca con cui il rapporto di predicazione impone al soggetto la propria validità e verità, tale forza intrinseca di per sé non è sufficiente a garantire dell’universalità e necessità, per i due motivi: a) essa dovrebbe provare una congruenza tra il rapporto di predicazione e il rapporto sussistente tra gli enti intuiti sussunti sotto i concetti rapportati, congruenza che l’evidenza da sola non argomenta – che «il lato di un quadrato A di superficie doppia del quadrato dato B è uguale alla diagonale di B», sia un giudizio evidente, cioè tale da imporre le proprie universalità e necessità e quindi la propria verità al soggetto senza ricorso né alla esperienza né alla dimostrazione, come vorrebbe il Platone del Menone, può anche accettarsi; ma non vedo come tale evidenza sia in grado di provare la congruenza dell’identificazione stabilita dal giudizio con lo stesso rapporto di identità che dovrebbe darsi per tutti i lati e tutte le diagonali di tutti i quadrati presenti passati e futuri che la coscienza intuisce o ha intuito o intuirà nell’esperienza -; b) essa dovrebbe darsi al soggetto come isolato fattore di conoscenza che, scisso dall’esperienza e non connesso ad alcun’altra conoscenza di pensiero, è tale da ricercarsi e rinascere di nuovo, ogni volta che si presenti al pensiero la situazione che ha indotto il pensiero a formulare il giudizio come soluzione della situazione; del che la coscienza, non potendo argomentare in generale l’evidenza, non avrebbe alcun motivo per affermare lecita l’aspettativa - se il giudizio che il lato di un quadrato A di superficie doppia del quadrato B è uguale alla diagonale di B, deve la sua verità, e quindi la sua universalità e necessità, alla semplice evidenza, o il giudizio s’ancora alla memoria e diviene una semplice regola pratica, ammessa, s’intende, quella congruenza fra pensiero ed esperienza che, come già s’è visto, l’evidenza di per sé non offre, oppure nel caso che venga smarrito l’aggancio alla memoria, dovrebbe ripresentarsi alla coscienza, che in altra situazione si ponga analoga domanda, con analoga evidenza; il che l’evidenza di per sé non è in grado affatto di attestare; i sacerdoti egiziani che si trasmettevano come dati sacri il tre il quattro il cinque di un privilegiato triangolo si fondavano esclusivamente sulla memoria e sulla tradizione storica, interrotte le quali la coscienza umana avrebbe perduta la nozione e quindi lo strumento per costruire l’angolo retto; se il giudizio «un triangolo con lati di lunghezza tre quattro cinque ha l’angolo sotteso al lato cinque sempre retto» deve la sua verità non all’induzione empirica ma all’evidenza sic et simpliciter, il giudizio «una coscienza posta di fronte all’interrogativo di darsi uno strumento perennemente valido a costruire l’angolo retto, sarà sempre in grado di trovarlo in virtù dell’evidenza del giudizio che l’angolo retto inserisce necessariamente al triangolo coi lati di lunghezza tre quattro cinque» fa intervenire nella conoscenza come deus ex machina questa specie di illuminazione dell’evidenza, ma non l’argomenta affatto; d’altro canto, tornando al giudizio sul rapporto che lega il lato di un quadrato alla sua diagonale, esso è tale da potersi porre come conoscenza-principio di una catena di conoscenze che ritrarranno validità, e quindi universalità e necessità, dalla nozione da cui discendono, il che l’evidenza non è in grado di provare, appunto perché non le è consentito di mostrare quell’originaria congruenza che attesterebbe delle successive congruenze cui le conoscenze inferite dovrebbero dar luogo: l’evidenza, se non è in grado di dimostrare la congruenza tra il giudizio «il lato di un quadrato A di superficie doppia del quadrato B è uguale alla diagonale di B» e gli indefiniti rapporti che si ritrovano tra i lati e le diagonali di tutti i quadrati intuiti in ogni tempo, a minor ragione sarà in grado di argomentare una congruenza dell’esperienza con i giudizi «il quadrato A della diagonale del quadrato B è di superficie doppia del quadrato B», «un quadrato A che abbia il suo lato diverso dalla diagonale del quadrato B non è di superficie doppia del quadrato B», «data l’area del quadrato A è data pure l’area di un quadrato B che sia la sua metà, ecc. ecc. » -.
Che per l’evidenza di cui parla Kant a proposito delle nozioni matematiche, si debba intendere la necessità che scaturisce dal ragionamento deduttivo ossia la forza intima che un giudizio acquista per il semplice fatto di darsi come conclusione di un sillogismo o di un polisillogismo e in virtù della quale il giudizio s’impone per vero e quindi per universale e necessario alla coscienza, questo né Platone né Kant, né un razionalista né un empirista accetteranno mai come definizione dell’evidenza: non Platone per il quale il procedimento deduttivo e il sillogismo non hanno altra funzione che di ordinare la conoscenza in un rapporto sistematico, non Kant per il quale il procedimento sillogistico sarebbe valido se potesse porre capo a giudizi che di per sé non fossero sintetici, non un razionalista che argomenta la necessità della conclusione non dal puro processo deduttivo ma dall’esattezza del processo e dalla necessità dell’idea che si pone come soggetto della premessa maggiore più generale e che di per sé è necessaria, non un empirista per il quale il procedimento per sillogismi non è che un mirabile edificio che copre un circolo vizioso.
Resta che l’evidenza, se non è qualcosa che ha valore di per sé e se non è il risultato di una deduzione, sia una conoscenza aposteriori, ossia un contatto o intuitivo o discorsivo con l’esperienza. Ora, i presupposti kantiani, nel momento stesso che elidono la liceità di identificare l’evidenza con la necessità della conclusione, elidono pure la liceità di identificare l’evidenza con la conoscenza mutuata dall’esperienza. L’affermazione quindi di Kant dell’autonomia della matematica è gratuita, perché tale autonomia è fondata su una ragione che, nelle interpretazioni originarie da cui tutta l’indagine sua prende le mosse, ha valore nullo; di qui la conseguente affermazione che la deduzione trascendentale della matematica ha valore filosofico o teoretico ma non pragmatico, è infondata. Alle origini del discorso la matematica è un complesso di giudizi, la cui universalità e necessità non si possono appellare all’evidenza, che non si possono appellare a una universalità e necessità generiche di un giudizio in genere, e che, per tutto ciò, è problematico. Quanto alla fisica, il discorso sarà ancora più facile. La fisica non ha bisogno di un aiuto dall’esterno, almeno sul piano pratico ed oggettivo, grazie alla verifica che l’esperienza fa delle sue proposizioni e delle sue connessioni. Ora, a parte il fatto che la fisica stessa riconosce a tale verifica un valore molto limitato perché un numero sia pur grande quanto si voglia di controlli di una legge non escluderà mai il verificarsi di un fenomeno nuovo che non sia lecito sussumere sotto la legge e di conseguenza non costituirà mai una salvaguardia sufficiente dalla necessità di sostituire alla legge una modificazione valida per tutti i fenomeni precedenti e in più per il nuovo fenomeno, resta pur sempre il fatto che la verificazione stessa, oltre ai suoi limiti di fatto, non offre alcuna garanzia di diritto, se non alla condizione di muovere dal presupposto che o entro l’esperienza si dia un’intelligibilità che la fisica è in grado di enucleare per induzione, o l’intelletto sia, grazie a un qualsiasi suo potere, capace di dar luogo ad enunciati intelligibili che siano il perfetto parallelo di strutture intelligibili presenti nell’esperienza: nell’uno e nell’altro caso sono sempre un’universalità e una necessità immanenti nell’esperienza che garantiscono la validità di un giudizio universale e necessario della fisica pel tramite della verifica e del controllo. Ora, nel momento stesso in cui il pensiero, distraendosi dalla mera riflessione sull’esperienza in vista di una scienza dell’esperienza come natura, dichiara quest’esperienza tale da non offrire di per sé l’intelligibile, la fisica cessa di fruire di autonomia perché il pensiero che erige la scienza della natura è lo stesso pensiero che ne elide i postulati: a un filosofo che neghi l’intelligibilità della esperienza o ne dubiti e quindi ne cerchi un argomento, non sarà più lecito operare distinzioni tra sé come pensante in generale e la fisica come pensato in generale; a lui non resterà che dichiarare che l’autosufficienza è una pura pretesa priva di alcun fondamento, che la fisica avrà tutti diritti di procedere per la sua strada all’infuori di uno solo, il diritto di ritenere che la strada lungo cui procede non sia una strada di sogni e che i giudizi di cui essa fa uso siano universali e necessari se non per postulato o per pretesa o per illusione. Lo stesso filosofo potrà arrogarsi il diritto di pretendere che la fisica cessi di proclamare la propria autonomia e la propria validità entro i propri confini, a scanso di dover riconoscere che tra filosofia e fisica ci sia la strana contraddizione che l’una ha tutti i motivi per negare una realtà al giudizio universale e necessario e l’altra ha tutte le ragioni per affermare la concreta realtà dello stesso giudizio. Il fatto che la fisica sia autosufficiente entro il proprio territorio in virtù del controllo offerto dall’esperienza non può suonare che in due modi: o tale controllo è reale – il che in fondo neppure la limitazione dell’induzione potrebbe infirmare, perché l’induzione limitata sarebbe sempre dato ricondurla a una deficienza del soggetto e non già dell’esperienza -, e allora il filosofo deve partire da questa realtà, cioè deve accettare un’universalità e una necessità immanenti nell’esperienza e quindi muovere da un’esperienza che non si riduce alla particolarità e alla contingenza, con la conseguenza che il dato di fatto che egli deve ridurre ai suoi elementi non consente di essere analizzato in semplici sensazioni; oppure il controllo è affermato illusorio in quanto l’esperienza nei suoi elementi è molteplicità disorganica di dati sensoriali, e allora il filosofo non deve neppur tener conto delle pretese della fisica e dei suoi appelli al controllo, ma deve considerare l’uno e le altre delle vane illusioni che non sono degne di entrare nei suoi calcoli e su cui anzi sarebbe il caso di aprire gli occhi allo scienziato.
Poiché Kant muove da una definizione dell’esperienza essenzialmente empiristica, il fatto che la fisica riceva dalla filosofia un ulteriore sostegno non richiesto non può non essere per lui privo di qualunque significato e portata e insufficiente ad esimerlo dall’assumere i giudizi della fisica come puri possibili per ciò che riguarda la loro universalità e necessità.
Oltre alle due che ho tentato di oppugnare nella nota precedente, una terza e forse ultima obiezione potrebbe essermi opposta, che io mi son lasciato trarre in inganno dai termini di possibile e di possibilità di cui tante volte fa uso Kant, termini che non avrebbero affatto quel significato rispettivamente di problematico e di problematicità su cui io ho fondato tutto il mio discorso: quando parla di una possibilità o della matematica o della fisica o della metafisica, quando si riferisce alla scienza come a un possibile, Kant non intenderebbe affatto dire che la matematica la fisica la metafisica la scienza in generale e i loro giudizi sono degli enti che si sottraggono alla giurisdizione del principio di contraddizione come quelli di cui è lecito predicare contemporaneamente l’essere e il non essere senza che siano dati il mezzo o la ragione per operare una scelta definitiva. Prima di esaminare l’obiezione per accettarla o confutarla, intendo soffermarmi sulla nozione di possibile.
Chi ha voluto ricondurre a univocità il concetto – mi riferisco alla «critique» dell’articolo «Possible» del Vocabulaire del Lalande - lo ha fatto accettando come unico e fondamentale uno dei vari concetti che in realtà l’unica parola esprime e dichiarando quest’unico concetto implicito negli altri sotto cui si celerebbe: la possibilità sarebbe da identificarsi con l’attitudine che enti di pensiero od enti d’azione presentano ad essere accettati dal soggetto pensante ed agente, in quanto nulla si dà che ne neghi la pensabilità o la fattibilità; la possibilità quindi sarebbe una sorta di norma che guida il nostro pensiero e la nostra azione. Poiché è capacità del pensiero di procedere immediatamente a generalizzazioni incontrollate che debbono venir successivamente sottoposte a verificazione con conseguente selezione delle incongruenti col reale e quindi impossibili, e delle congruenti e quindi possibili, e poiché la stessa conoscenza sensoriale è tale da imporsi con immediata evidenza, sì che necessita poi un controllo per vedere quali delle sensazioni siano concrete e quali illusorie – ad esempio, il bastone che immerso nell’acqua pare mutar di forma -, la possibilità, condizionata e preceduta dall’impossibilità, si identificherebbe col diritto che abbiamo di pensare certi concetti o di compiere certe azioni, diritto che non può darsi senza previo controllo. Ora, per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a ritrovare siffatto concetto nella possibilità che compare nelle tre locuzioni, o a ritrovarcelo come fondamentale: a) possibilità di pioggia di qui a due ore – ritrovo qui lecita la duplice interpretazione che nulla impedisce che di qui a due ore io veda piovere ed uscendo apra l’ombrello, e di conseguenza nulla impedisce che io pensi sia la conoscenza attuale sia l’attuale previsione della pioggia, e che, in questo preciso momento in cui penso la possibilità futura della pioggia, non posseggo ragioni sufficienti per stabilire se fra due ore pioverà o non pioverà, e quindi le due proposizioni «tra due ore pioverà» «tra due ore non pioverà» sono entrambe vere, nel senso che le posso pensare entrambe e contemporaneamente -; b) possibilità del centauro – ritrovo qui lecito che la mia immaginazione si rappresenti quest’oggetto e il mio pensiero se ne formi il concetto, e insieme che al mio pensiero non sia dato definire tale concetto esclusivamente dal punto di vista di un mio uso nell’esperienza di tale cavalcatura e di un mio uso del concetto in un’argomentazione che riguardi l’esperienza -; c) possibilità di una sospensione prossima del lavoro che sto facendo – ritrovo qui la liceità di appoggiare di qui a poco la penna sul tavolo e di alzarmi a far due passi perché nulla me lo impedisce, e insieme l’impossibilità attuale di decidere quale delle due proposizioni «fra poco sospenderò» «fra poco non sospenderò» sia vera -. Una siffatta univocità anzitutto confonde l’assenza di impedimenti all’azione con l’assenza di impedimenti al pensare; in secondo luogo, non tien presente che a lato di una liceità di pensiero generico sussistono una liceità di pensiero condizionata dal fine cui il pensiero è rivolto, e una liceità di pensiero indeterminato e contraddittorio. Il voler ricondurre ad unità la molteplicità eterogenea dei significati che il pensiero attribuisce al concetto di possibile nel suo uso attraverso la messa in rilievo della sua portata pragmatica ed utilitaristica, comporta da un lato il posporre le condizioni logiche cui il concetto corrisponde alle conseguenze che sul piano dell’agire ne derivano, dall’altro il trasporre il concetto da un piano cognitivo-descrittivo a un piano normativo. A parte il fatto che la posposizione del logico al pragmatico ha valore «storico» nel senso che investe la questione della nascita del concetto entro il pensiero, ma non riguarda la sua struttura logica che è quel che interessa, e ancora a parte il fatto che è attraente spiegare le strutture logiche con la loro origine utilitaristico-pragmatica, ma non sempre è convincente, resta pur sempre che, anche concessa la preposizione logica della condizione pragmatica al suo principio logico, avremmo il diritto di assumere come segno dell’univocità del possibile la sua portata normativo-pragmatica, se veramente questo significato s’accompagnasse a tutte le predicazioni del possibile, sia pure solo come conseguenza: e questo non è, perché il possibile come «ce qui satisfait aux conditions générales de l’expérience» (loc. cit.) e il possibile come «ce qui n’est en contradiction avec aucun fait ou aucune loi empiriquement étalis» (loc. cit.) e infine il possibile come «ce qui est plus ou moins probable» (loc. cit.) mi pare che abbiano il diritto di associare alla connotazione loro meramente logica una connotazione pragmatico-utilitaristica e non mi pare che debbano necessariamente abbinare nel loro uno ed unico enunciato entrambi i valori. Il tentativo di ricondurre ad univocità la nozione di possibile in forza di un suo immanente potere normativo confonde la conseguenza col principio: infatti se è vero che qualunque delle connotazioni che ha il diritto di assorbire assuma il possibile, da essa consegue sempre che l’ente dichiarato possibile divenga un utilizzabile sul piano pragmatico o naturale o morale o logico, è pure vero che la conseguenza non è fatto necessario e ineliminabile, dandosi casi in cui il pensiero non la deduce affatto: l’inferenza del pragmatico dal logico è un possibile e non un necessario e neppure un reale. D’altro canto, anche ammessa la genesi puramente pragmatico-utilitaristica del concetto, tale genesi s’accompagna a una certa struttura logica di ciò che è predicato possibile, e in un’indagine sulla connotazione del possibile è questa struttura che interessa e non il modo originario e le ragioni prime pei quali il pensiero ne ha assunta la consapevolezza e iniziato lo sfruttamento.
L’altro tentativo, che è stato fatto, di ricondurre a univocità il concetto di possibile è quello che prese corpo nell’intervento del Lachelier alla stesura dell’articolo nel vocabolario succitato: il Lachelier identifica possibile e non-contraddittorietà con le condizioni del reale dell’esperienza, confondendo la possibilità di un dinosauro in generale, la possibilità di un fulmine in generale, la possibilità dell’insolubilità di un problema, la possibilità di un terremoto di qui a quattro ore: l’affermazione che è possibile solo ciò che non contraddice alle condizioni reali dell’esperienza è valida per i primi due esempi dati, non certo per l’ultimo per il quale, nel caso che entro le prossime cinque ore non si verifichi, non dovevano darsi condizioni «fisicamente» possibili, e neppure per il terzo per il quale le condizioni d’esperienza consistono nella somma di nozioni che sono possedute dall’umanità tra le quali non compaiono quelle capaci di offrirci la soluzione del problema quantunque non sia lecito considerare la cognizione delle condizioni totale ed esaustiva di tutte le condizioni future. Infine, non può considerarsi determinante per una riduzione del possibile ad univoco la sua esclusione dal dato oggettivo ossia o dall’in sé o dall’esperienza, in nome di un determinismo universale, in quanto anche il confinare il concetto di possibile nella sfera del soggetto e delle sue condizioni di conoscenza non sottrae la possibilità all’equivocità.
Per ciò che riguarda i tentativi di enumerazione dei concetti che trovano come unico segno il termine di possibilità, mi limito alle classificazioni del Lalande, nel suo Vocabulaire, e del Mathieu, nell’Enciclopedia filosofica comparsa di recente. Il Lalande distingue una serie «oggettiva» di possibili e una serie «soggettiva» di possibili: la serie oggettiva sarebbe quella dei possibili che sono universali e necessari in quanto possibili, nel senso che ogni mente che pensa ciò che essi predicano non lo può pensare se non come possibile; la serie soggettiva corrisponderebbe a quei possibili i quali affettano di sé ciò che essi predicano solo in uno o in alcune coscienze; per il Lalande quindi sussisterebbero dei possibili come pensati affetti dalla possibilità in sé, e dei possibili affetti dalla possibilità solo relativamente ad alcune coscienze; in generale sarebbero dei possibili oggettivi tutti i pensati che soddisfano «aux conditions générales imposées à un ordre de réalité ou de normalité donnée», ossia il pensato non contraddittorio –possibile assoluto o logico -, il pensato congruente con le condizioni generali dell’esperienza o coi fatti e le leggi empiriche - possibile fisico -, il fenomeno fisico probabile che tenda ad adeguare la propria probabilità alla probabilità teorica matematica – possibile probabile -, l’ente non contrario a norma morale o a legge psicologica e sociologica – possibile morale; in generale sarebbero dei possibili soggettivi i pensati di cui è lecito il contraddittorio – pensati che si danno o in riferimento al passato o al futuro oppure in relazione a una modalità acronica – e i pensati che godono di un basso livello di credibilità; è da aggiungersi che entrambe le serie, a quanto pare, dovrebbero rientrare nella possibilità secondo il significato che questa assume nel giudizio problematico. Questa classificazione è tutt’altro che soddisfacente perché: a) in primo luogo, il possibile oggettivo non rientra nella categoria della modalità se non previa sua inserzione in un giudizio problematico – il concetto di dinosauro è un possibile oggettivo come quello che soddisfa le condizioni dell’ordine biologico, ma diventa un appartenente alla classe dei giudizi problematici, solo alla condizione di entrare in un giudizio problematico, come ad esempio «nelle foreste vergini il dinosauro può essere incontrato», nel qual caso la sua possibilità da oggettiva trapassa a soggettiva o piuttosto la sua possibilità oggettiva diventa una conseguenza della sua possibilità soggettiva -; b) in secondo luogo, ogni pensato è in sé un non contraddittorio, anche se entra in contraddizione con le condizioni e le leggi in cui il reale in sé e l’esperienza sono conosciuti – ad esempio, il dogma della duplice natura di Cristo ha trovato la sua soluzione proprio nella condizione in cui tutti i pensati si trovano di poter essere pensati come dei non contraddittori assoluti, anche se in sé sono dei contraddittori relativi; la mia mente concepisce pensabile in sé un essere che muoia e non muoia, che soffra e non soffra, che conosca e non conosca, e lo pensa nell’atto in cui lo afferma; ma tale essere diventa impossibile quando invece di limitarmi a fare di Cristo il soggetto di giudizi, faccio di Cristo il concetto di un essere vissuto nell’esperienza: mi sarà sempre lecito dire che sotto la flagellazione Cristo pativa e non pativa; non potrò mai in alcun modo immaginarmi come Cristo, nel mondo, toccato dal flagello, poteva sentir dolore e insieme non sentirlo; in fin dei conti la grecità ha cantato della sirena, di un essere donna e pesce, di un essere quindi che, quand’anche ci riportiamo al livello delle cognizioni scientifiche del tempo, doveva essere pensato atto a generare figli capaci di provvedere da soli al proprio sostentamento e contemporaneamente bisognosi dell’alimento materno -; c) in terzo luogo, si introduce nella classe dei possibili oggettivi il casuale, l’assolutamente casuale, mediante un ragionamento surrettizio, che cioè la casualità divenga a un certo momento, per la legge dei grandi numeri, una possibilità valevole per tutti; ma questa possibilità valevole per tutti non ha nulla che fare con la possibilità né del concetto di dinosauro – possibile assoluto – né del concetto di giudizio matematico e del concetto fulmine scaricantesi su una punta metallica – possibile fisico -, i quali sono dei pensati che trovano riscontro in reali oggetti di conoscenza che sono degli assolutamente determinati; bensì essa è un concetto possibile che riproduce un reale possibile in quanto indeterminato, non un reale determinato; d) infine, il secondo dei due possibili soggettivi – quello cui corrisponde il termine possibile nella locuzione «X è possibilissimo, ma poco probabile»in cui X è un fenomeno qualsivoglia – dev’essere ricondotto al primo dei possibili soggettivi, come quello che non è se non concetto-soggetto di un giudizio problematico, che solo in relazione con la giustapposizione alla credibilità sembra ricevere una determinazione nuova e tale da costringerci a farne un’ulteriore specie. Per tutti questi motivi non ritengo di dover accettare la classificazione del Lalande.
Il Mathieu, attraverso un complesso armeggiare di concetti, distingue due classi di possibilità: una possibilità logica e una possibilità reale: la possibilità logica sarebbe assenza di contraddizione, ossia fedele osservanza prestata da un pensato al principio di contraddizione, o di non-contraddizione com’egli lo chiama; in quanto tale, la possibilità logica presenta i seguenti caratteri: a) non può mai essere, al pari dell’impossibilità che è il suo contrario contraddittorio, assoluta; infatti, stabilito che non può darsi nessuna logica che non faccia capo implicitamente o esplicitamente al principio di contraddizione, essa si darebbe solo se si desse un condizionamento del possibile, in quanto possibile, esclusivamente da parte del principio di contraddizione; ma poiché un possibile si dà quando si dia una sua congruenza con certi dati assunti come principi – congruenza che è il segno della non contraddittorietà del possibile, e quindi dell’osservanza leale di questo al principio di contraddizione -, ogni possibile è sempre un relativo; in altre parole, se io ho possibilità logica quando ho scrupolosa ottemperanza di un pensato al principio di contraddizione, quest’ottemperanza può aversi o solo in relazione al principio o in relazione a qualche altro pensato, nel qual caso il principio di contraddizione interviene a determinare e rendere immutabile la congruenza tra il pensato e il suo principio; l’osservazione è giusta, ma scontata, in quanto caratterizza non solo la funzione del principio di contraddizione e quindi la natura del possibile, ma le funzioni di tutti i principi e di tutte le leggi logiche le quali di per sé non sono che determinazioni immutabili di rapporti tra pensati e non riescono mai a porsi contemporaneamente come determinazione dei rapporti tra i pensati e come pensati stessi entranti nel rapporto; la possibilità e l’impossibilità assolute sono delle verità formali, enti vuoti e ciechi che divengono ripieni di veggente conoscenza a patto di riempirsi di verità materiale; un testo di logica ce ne rende avvertiti; b) si distingue quindi sempre dalla possibilità assoluta come il tutto si distingue dalla parte, in quanto se la si definisce come il non contraddittorio di certi principi, sarà assoluta nel caso che a principio venga assunto il principio di contraddizione, relativa nel caso che a principio venga assunto un pensato particolare e insieme il principio di contraddizione come legge suprema, criterio del rapporto tra il principio e il possibile come conseguenza dal principio; questa distinzione, una volta stabilite la vacuità ed inutilità del concetto di possibile assoluto, non solo non rivela la sua utilità, ma il pensiero non ha il diritto di accettarla e pensarla perché un possibile assoluto non si dà, a meno che non se ne faccia un flatus vocis, una parola: neppure una tautologia è un possibile assoluto – se assumo il concetto di uomo-dio, non mi pare affermazione vera quella del Mathieu che il contraddittorio dell’identità assoluta del concetto con se stesso è un impossibile assoluto, perché, a parte che, anche se si ammette che è un impossibile assoluto, è pur sempre un impossibile assoluto inutile in quanto sia la tautologia che il suo contraddittorio, assunti come degli assoluti, sono dei vacui, se ammetto che il contraddittorio del giudizio «l’uomo-dio è uomo-dio» è un impossibile assoluto, debbo ammettere che sia tale anche la tautologia; ora, una tautologia è tale alla condizione che l’identificazione del concetto con se stesso si dia dopo che s’è dato il concetto; ma il concetto può darsi o per deduzione o per induzione o per intuizione o per illuminazione o per fede o per una qualsivoglia altra immaginabile sorgente di conoscenza, e questa è sempre il principio del pensato, il quale sarà concepito come possibile rispetto a questo principio; solo quando s’è data la congruenza del pensato col suo principio, si darà la tautologia la quale non sarà mai totalmente priva di significato in quanto indicherà se non altro l’esistenza del pensato in quanto congruente con un suo principio; di conseguenza, anche la tautologia sarà congruenza con un principio, altro dal principio di contraddizione e quindi un possibile relativo; anche il contraddittorio della tautologia sarà un relativo, un impossibile relativo, non assoluto come vuole il Mathieu, bensì costante, nel senso che è destinato a permanere per tutta la durata dei principi del pensato e quindi per tutta la durata del pensato; solo al venir meno o dei principi o della congruenza del pensato coi principi, verrà meno il pensato, quindi la tautologia, quindi il contraddittorio della tautologia; il Mathieu non s’accorge che, distinguendo la possibilità logica dalla possibilità assoluta e facendo di questa un caso o un modo o una specie di quella, cade nella contraddizione di accettare come possibile quel possibile assoluto che è impossibile. Sarà dunque opportuno correggere nella sua struttura la classificazione del Mathieu, identificando la possibilità logica con la possibilità relativa, in quanto l’accordo col principio di contraddizione è sempre accordo, in virtù o in forza del principio di contraddizione , con qualcosa che è altro e dal pensato e dal principio di contraddizione; e questo è valido non solo per un pensiero dotato di contenuto, ma anche per una semplice parola che lo emetta priva di alcun significato: se dico abracadabra e affermo che questo abracadabra è un conosciuto zero, mi sarà lecito affermare che abracadabra è abracadabra e che abracadabra non è non-abracadabra solo alla condizione che non mi rifaccia al semplice principio di contraddizione, bensì alla parola–zero, in quanto parola-zero, che come parola-zero o si pone principio di se stessa e deve restare in armonia con se stessa in virtù del principio di contraddizione o riceve a principio quel qualsivoglia impulso interiore che me l’ha fatta dire e con tale impulso deve rimanere in congruente connessione in forza del principio di contraddizione; resta quindi acquisito che il possibile logico è sempre e solo un possibile relativo, perché un possibile assoluto non si dà -; c) solo per questa inesistenza della possibilità assoluta si dà il terzo carattere della possibilità logica, ossia che la possibilità logica affetta qualunque pensato che abbia un contenuto, non tuttavia per le ragioni che il Mathieu adduce; egli, escludendo in generale l’impossibilità assoluta, dopo averla ammessa, e limitando l’impossibilità assoluta solo al caso della contraddittorietà della tautologia - il che non contraddirebbe all’esclusione in genere di qualsiasi impossibilità assoluta, perché la tautologia e il suo contraddittorio non significano nulla; sarebbe il caso allora che ci venisse spiegato se un giudizio affermativo tautologico e il suo contraddittorio sono dei pensati e insieme dei non-pensati -, afferma che ogni pensato è tale se ha un contenuto e che se ha un contenuto lo ha per congruenza con un certo principio , e deduce che la liceità di muovere da qualsiasi principio consente di pensare un qualunque pensato; un qualunque pensato è quindi un possibile logico; le ragioni, a mio vedere, sono altre, e non sono che quelle implicate nella logica stessa: la logica, se la concepiamo come complesso di rapporti uniformemente ripetentesi, in sé non ha alcuna ragione di introdurre un fattore materiale in questo piuttosto che in quel rapporto; la logica, quindi, da sola, resta un ordigno meccanico vuoto che non può neppure muovere i suoi meccanismi; ma quando abbia a disposizione qualche materiale da elaborare, lo può elaborare in qualsiasi rapporto, purché vengano rispettate le leggi che cominciano a scattare non appena si è stabilito il primo rapporto; ma per stabilire questo primo rapporto la logica non ritrova in sé alcun principio all’infuori dei propri; vale a dire, dati due pensati ossia il numero necessario e sufficiente per un processo logico, e ammesso che i due pensati siano due pensati zero, ad es. A e B (A= zero, B = zero), la logica non ritrova in sé nessun principio che stabilisca se sia lecito pensare A mediante B o B mediante A oppure se non sia lecito pensare né A né B in funzione l’uno dell’altro; e allora può cercare arbitrariamente un principio che determina il primo rapporto, e quindi la prima applicazione del principio di contraddizione, e conseguentemente il primo pensato da cui potranno essere inferiti tutti gli altri –assunto a principio che tutto ciò che è A ha come suo fattore componente B, ne viene che A è B, che alcuni A sono B, che A non è non-B, che alcuni B sono A, ecc. ecc. -; donde la legge che, sul piano logico puro qualunque principio è valido come principio; e quindi qualunque pensato può essere possibile relativo, e quindi possibile logico; la qual legge solo in apparenza è quella del Mathieu, perché si arricchisce di alcune componenti, e precisamente che ogni pensato è pensato in funzione di un principio e quindi non si tratta di rifarsi alla liceità di adottare un principio qualsiasi, ma alla necessità di adottarne uno, il quale sarà un principio qualsiasi solo se i pensati saranno pensati-zero, erigendosi in ogni altro caso a principi del pensato almeno o il pensiero stesso con le sue leggi o una qualsivoglia nota tra quelle che connotano il pensato; ma un pensato-zero non esiste in quanto dato X come pensato o X è un pensato e allora avrà un contenuto, sia pure contraddittorio a piacere (vedi la sirena) e quindi illusorio, o X non ha un contenuto e allora non esiste o non esiste più, cessando di essere pensato nel caso che all’originario suo pensamento si contrapponga la dimostrazione della sua contraddittorietà o della sua erroneità; e se non esistono pensati-zero, la legge allora suona: un ente qualsivoglia è sempre atto a divenir pensato come possibile relativo o possibile logico in quanto al pensiero, per le norme che lo regolano, è sempre dato trovare una ragione di un qualsivoglia ente che divenga pensato, ragione che però non è mai un principio a piacere, ma è un principio che il pensiero trova già formulato o in sé o nel pensato stesso.
I lunghi discorsi del Mathieu e mio possono ridursi a pochissime parole, note dall’origine del pensiero: il possibile logico è sempre un possibile relativo, e poiché la logica non offre principi materiali ma solo principi formali, l’assunzione di un qualunque materiale a principio rende qualsivoglia materiale un possibile logico; il possibile logico non è determinazione che di una possibilità di pensiero generica, e quindi non è sufficiente né a se stesso né al pensiero; la possibilità logica rimanda alla possibilità reale. Il Mathieu non mi offre una definizione della sua possibilità reale; mi pare tuttavia che, da quanto egli dice, la sua possibilità reale sia lecito concepirla come una congruenza non contraddittoria con un principio materiale che si ponga tale di per sé, e che il pensiero non possa non accogliere come principio. Si dirà che il Mathieu la offre, questa definizione, quando dice che la possibilità logica presuppone una possibilità reale, perché per stabilire la contraddittorietà o non contraddittorietà di un pensato occorre un principio, il quale non può essere quello di contraddizione che funziona solo dato un principio diverso; ma qui ci dà la definizione di possibilità relativa, non di possibilità reale; è necessario determinare il concetto di principio o di condizione, distinguendoli secondo la formalità o la materialità; chiarito, secondo quanto sono riuscito a capire, il concetto di possibilità reale, questa si articola in una possibilità reale coincidente con la concezione deterministica dell’esperienza, in una possibilità reale incidente con una concezione contingentistica della realtà in sé, in una possibilità reale coincidente con l’assunzione arbitraria di postulati, in una possibilità reale coincidente con una concezione trascendentale della conoscenza. Se si assume a principio il concetto di universo deterministico, se ne inferisce la necessità di conoscere la serie completa delle condizioni onde sia consentito un pensato come possibile; questo sarà un possibile logico quando il suo porsi nel pensiero risulta congruente con i rapporti universali e necessari in cui la sua classe si pone con le classi sotto cui si sussumono i pensati con cui il possibile logico è posto in rapporto; il possibile logico s’identifica allora col dato di fatto, mentre la possibilità del giudizio problematico diventa sinonimo di non contraddittorietà del pensato con quelle condizioni che sono rappresentazioni delle determinazioni a cui è universalmente e necessariamente legato. Se si assume a principio il concetto di un universo contingente, si daranno dei possibili logici che saranno reali in quanto inferiti con assoluta osservanza dalla indefinita capacità del concetto contingente e assoluto posto a principio di una catena di pensati, che saranno tutti logici in quanto ossequienti al principio di contraddizione e tutti reali in quanto dedotti da un principio reale, anche se la loro realtà di pensiero non necessariamente corrisponde a una realtà in sé in quanto il principio reale contingente, di cui il concetto contingente è rappresentazione , è indeterminato nella libera realizzazione delle sue indeterminate attitudini. Se si assume a principio la posizione di postulati che non essendo determinata da alcuna necessità presente al pensiero è arbitraria, avremo delle catene di possibili logici che sono tutti dei possibili reali e che possono sussistere l’uno a lato dell’altro, anche se contraddittori, purché non facciano parte di uno stesso processo deduttivo – le proposizioni «la somma degli angoli di un triangolo è 180º» «la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180º» «la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180º» sono ognuna e un possibile logico, in quanto dedotta da un certo postulato in ossequio al principio di contraddizione, e un possibile reale, in quanto congruente con un principio che è un postulato particolare; e possono coesistere nonostante la loro reciproca contraddittorietà, in quanto coesistono i tre differenti postulati-principi e quindi le tre differenti catene di possibili logici che ne scaturiscono, catene alla prima delle quali appartiene la prima proposizione, alla seconda la seconda, alla terza la terza -. Se si assume a principio il concetto di una struttura trascendentale del conoscere, se ne deduce una certa forma la quale è immanente al pensiero e all’esperienza; questa forma diviene il principio a cui qualunque pensato dev’essere ricondotto onde manifesti la sua congruenza con essa in ossequio al principio di contraddizione e quindi si ponga come un possibile logico e reale insieme. La classificazione del Mathieu non può essere accettata per vari motivi: anzitutto non è un’indagine condotta sul concetto di possibilità in generale bensì una classificazione parziale di teorie della conoscenza, classificazione che oscilla dalla logica alla gnoseologia e all’identità logica –gnoseologia, senza trovar punto stabile né nell’una né nell’altra; in secondo luogo, essa riconosce due contenuti al concetto di possibilità, fra i quali viene assunto come «il più vasto e fondamentale» il contenuto di «pensabilità» o «concepibilità» come quello a cui tutti gli altri dovrebbero ricondursi, compreso quindi l’altro della possibilità caratterizzante il giudizio problematico, la quale vuol essere ricondotta a modo della prima – se la possibilità in genere è la pensabilità, la possibilità del giudizio problematico è la pensabilità del non impossibile - ; ora, la pensabilità non è già il complesso fondamentale delle note del concetto di possibilità, bensì è una specie di uno dei concetti che si cela al di sotto dell’equivoco termine di possibilità, ed è congenere alla fattibilità alla deducibilità all’inducibilità ecc.; l’identificazione poi della problematicità, come possibilità del giudizio problematico, con la possibilità o pensabilità del non impossibile, è il frutto di una parziale definizione e quindi analisi del concetto di possibile in quanto problematico; in terzo luogo, alla classificazione sfugge un’ulteriore connotazione della possibilità, che non può non darsi una volta ammessa, almeno come dato di pensiero, la possibilità reale in quanto concetto di una struttura universale contingente, vale a dire la possibilità oggettiva che viene ad affiancarsi alla possibilità come pensabilità.
Per ciò che riguarda il concetto di possibile nell’interpretazione dei vari pensatori, dirò che per quelli che ho esaminato – e sono pochi, perché non pretendo affatto di fare una storia completa delle indagini del concetto di possibilità – mi pare lecito affermare che in essi il concetto di possibile è sempre indagato da un punto di vista in cui o non si dà distinzione tra l’esistente in sé, in quanto atto ad una conoscenza o presente o passata o futura o destinata a non mai verificarsi, e lo stesso esistente tradotto in termini di pensiero e di conoscenza, oppure l’interpretazione del concetto di possibile, assunto come ente della sfera gnoseologica, si dà in funzione della dottrina che di tale sfera è o pretende di essere riproduzione. Dalle varie interpretazioni cercherò di enucleare il significato che il pensatore assumeva come connotante il concetto di possibile.
Diodoro Crono, con il suo κυριεύων λόγος, ha subito le più diverse interpretazioni; chi ne ha fatto una delle tante inferenze dall’immutabile essere parmenideo; chi ci ha visto la logica conseguenza di un universale determinismo per il quale ogni presente è la conseguenza di un indefinito processo di determinazioni causali antecedenti, e in forza di queste il presente non può non darsi che come si dà; chi lo ha accusato di petizione di principio in quanto, se l’argomento conduce ad affermare un determinismo universale, la conseguenza è assunta come presupposto dell’argomentazione; chi ne ha fatto un paralogismo in quanto sarebbe un sillogismo il quale usa come medio il concetto di necessità nel duplice significato di determinato per costante e uniforme successione di un effetto a una causa, e di immodificabile in quanto già fatto; chi lo ha interpretato come un argomento contro la contrapposizione aristotelica di un potenziale a un reale; resta, al di sotto di tutte le interpretazioni, la connotazione sotto la quale Diodoro assume il termine di possibile come di ciò che gode della facoltà di essere e insieme di non essere al tempo stesso, facoltà che attenderebbe la sua determinazione da qualche fattore il quale a sua volta dovrebbe essere tale da essere e insieme non essere, onde da esso inferire una determinazione della facoltà che ne lasciasse intatta la natura; ma poiché tale processo a ritroso conduce solo a un essere, dalle determinazioni di questo non può che scaturire una e una sola determinazione che annulla la facoltà: quasi involontariamente ho interpretato a modo mio l’argomento senza però che ne scaturisca per esso una accusa di petizione di principio, perché l’argomento non è diretto a dimostrare la necessità ma a inferire dalla necessità l’assenza del suo contrario, la contingenza.
Per il concetto aristotelico di possibilità mi riferisco in modo particolare ai passi 1019 a 15-1020 a 5 e 1045 b 28-1048 b 35: la possibilità è, per Aristotele, un’entità che sussiste nell’esistente, sia questo oggetto di conoscenza o non sia, entità che non è sostanza, ma inerisce alla sostanza - «si dice possibilità il principio di traslazione o di mutazione che è in altro in quanto altro» e che quindi è principio perché «è da altro in quanto altro» -; tale entità si pone in rapporto ai movimenti, nel senso più ampio del termine, che riguardano esclusivamente la sostanza e che Aristotele chiama il patire, o ai mutamenti che, muovendo dalla sostanza, interessano la sostanza stessa e sostanze altre da essa, e che Aristotele chiama il condurre a termine o agire; la stessa entità si pone anche in rapporto a tutti quei movimenti che nella sostanza non si danno; possibilità quindi è l’entità che si dà quando nella sostanza si dà il patire, quando nella sostanza si dà l’agire, quando nella sostanza non si dà né l’uno né l’altro. Il fatto poi che impossibilità sia l’assenza di una possibilità, assenza che è innaturale nei confronti della naturale essenza di una sostanza che una tale possibilità dovrebbe possedere o per natura o per fase del divenire - «impossibilità poi è privazione di possibilità e per dir così detrazione del principio che così s’è chiamato, privazione che si dà o in assoluto o relativamente, e cioè o in rapporto alla possibilità il cui possesso è dato ad uno dalla sua natura o in rapporto alla possibilità il cui possesso è dato ad uno in un certo tempo; l’impossibilità alla generazione non la predichiamo allo stesso modo di un fanciullo, di un uomo, di un eunuco» -, comporta che il patire e l’agire, e il non-patire e il non-agire riguardino la natura della sostanza cui la possibilità inerisce. L’introduzione del concetto di impossibilità comporta il suo approfondimento per analisi: c’è un’impossibilità che è concetto contrapposto al concetto di possibilità in quanto entità inerente alla sostanza, e c’è un’impossibilità che è il modo del concetto di ciò che è contraddittorio del vero; se l’impossibilità quindi è un ambiguo, anche la possibilità sarà un ambiguo: possibilità sarà il concetto di un’entità inerente alla sostanza e insieme il modo del concetto di ciò il cui contraddittorio non è necessariamente falso. Si deve quindi operare una netta distinzione entro il concetto di possibilità: l’entità inerente alla sostanza è un principio che è nella sostanza in quanto altro o che è altro da ciò che essa ora è, pur sussistendo in essa, principio di mutamento ossia tale da provocare movimenti nella sostanza cui inerisce; tale principio consiste in una «conformazione» - uso questo termine per non ricorrere a quelli di attitudine, capacità, grado, ecc., i quali hanno implicito il concetto di possibilità – che si dà presente in una sostanza senza che alla sua presenza corrisponda nulla di esistente all’infuori dei fattori che compongono la conformazione stessa, e che, quando si pongano esistenti certe condizioni, fa sì che la sostanza patisca o non patisca, agisca o non agisca in certi modi, ossia che nella sostanza si dia o non si dia l’esistenza di questa modificazione ricevuta dall’esterno e non di quella l’esistenza di questa modificazione provocata nell’esterno e non di quella. La potenza è un ente esistente nella sostanza per il quale a un certo modo presente di esistere dovrà susseguire, o non dovrà susseguire un certo modo di esistenza della sostanza. Aristotele quindi ha distinto almeno tre contenuti nel concetto di possibilità: a) la possibilità è il concetto di un reale che si dà come principio di un altro reale che ne è conseguenza, essendo il reale-principio la condizione naturale di conformazione della sostanza, essendo il reale-conseguenza l’estrinsecazione esistenziale della condizione – l’estrinsecazione esistenziale della condizione è un modo di esistere che anzitutto differisce dal modo secondo cui precedentemente la sostanza esisteva, che in secondo luogo è ad esso cronologicamente successivo, che in terzo luogo per essere pensato ossia per essere accolto di diritto come concetto logicamente reale deve trovare la propria ragione nell’esistenza della conformazione entro la sostanza -; b) la possibilità è il concetto che determina due concetti che siano contraddittori senza che per questo l’uno di essi debba essere necessariamente concepito come falso; c) la possibilità è l’ente che è il rappresentato del primo concetto di possibilità. Ci aspetteremmo una quarta accezione della possibilità, e precisamente quella della possibilità in quanto ente corrispondente al secondo contenuto della possibilità; ma questa quarta accezione, nella concezione aristotelica, viene a identificarsi con la terza o meglio con la condizione in cui la sostanza viene a trovarsi nella sua esistenza presente rispetto a quel modo di esistere per cui possiede solo la conformazione. È questo l’unico senso che riesco a trovare per dare consistenza alla critica che Aristotele muove ai Megarici (1046 b 29 -1047 b 2): soltanto se si concepisce la possibilità nell’esistente che non è pensato, sotto il duplice aspetto di conformazione di una sostanza cui sussegue nel tempo un certo modo di esistere nella sostanza stessa o in altra sostanza, e di modo presente di esistere di una sostanza dotata di una certa conformazione, modo che consente alla sostanza di essere il suo futuro modo di esistere e insieme di non esserlo, la critica che Aristotele muove alla definizione megarica della possibilità, che è in fondo una negazione della possibilità come conformazione realmente presente in un ente, acquista un significato. Infatti Aristotele dice: i Megarici identificano la possibilità con l’esistenza quale si dà nel presente e negano una possibilità che non si identifichi con una situazione esistenziale presente - «vi sono alcuni i quali affermano, come fanno i Megarici, che solo quando un ente si dà in atto si dà un potere, mentre quando un ente non si dà in atto non si dà un potere; così ad esempio, non si dà possibilità rispetto all’edificare in chi non edifica , bensì in chi edifica mentre edifica» -; di qui, una serie di assurdità. Se l’essere presente è l’unica possibilità che si dia all’essere in generale - «è evidente che non vi sarà un architetto se non quando c’è uno che edifichi, perché, per ciò che riguarda l’essere nei confronti di un architetto, l’essere, dal punto di vista della possibilità, è il costruire…» -, dovrà darsi il caso che l’essere in generale venga in possesso ex nihilo delle conformazioni necessarie e sufficienti ad essere in un certo modo quand’è in questo modo e poi tali conformazioni lasci svanire da sé nel nulla quando cessa di essere in quel modo, per riacquistarle ancora ex nihilo ritornando ad essere nello stesso modo - «poiché è impossibile avere arti, quale quella dell’architetto, senza averle apprese una qualche volta e averle fatte proprie ed è impossibile non averle senza essersene una qualche altra volta spogliati o per oblio o per una qualche affezione o per puro trascorrere di tempo, non certo però per il corrompersi della casa stessa la quale in sé fruisce di essere immutevole e continua, l’artefice, che sospenda la propria attività, non avrà più l’arte, mentre ne rientrerà in possesso, quando riprenderà la sua attività; ma in che modo ne sarà entrato in possesso?» - . D’altra parte, anche gli enti inanimati quali il freddo il caldo il dolce e in generale i sensibili, esisteranno solo nel presente, nell’atto cioè in cui sono sentiti, e quindi potranno spiegarsi solo come modificazioni della coscienza ossia come enti soggettivi; ma neppure di una sensorialità si potrà parlare tranne che quando si sente e si dà nel presente una sensazione, cosicché parecchie volte al giorno non avremo una certa sensorialità, e precisamente quella sensorialità a cui non corrisponde una sensazione e tutte le volte che ad essa non corrisponde una sensazione. Inoltre, se s’identifica l’impossibilità con l’assenza di possibilità, si negano la generazione e il movimento, perché, tolta la possibilità e identificata la possibilità con la realtà presente, una modificazione di questa realtà o è un presente – il che è assurdo perché modificazione significa futuro differente dal presente ossia esistente futuro che non è esistente presente – oppure è un essere che non è ma sarà, vale a dire è un essere che è perché è essere, e che non è perché sarà, vale a dire è un possibile; ma il possibile s’identifica solo con l’essere ed esclude da sé il non essere, quindi un possibile che è essere è impossibile e indiveniente -« E ancora, se si assume come impossibile ciò che è spoglio di possibilità, sarà impossibile che ciò che non è stato sia stato; e allora chi dirà che l’impossibile o è stato o è o sarà, dirà il falso, perché l’impossibile significa appunto non essere; e quindi tutti questi ragionamenti necessariamente elidono movimento e generazione» -.
Bastano queste tre inferenze per illuminare l’interpretazione aristotelica del pensiero megarico e insieme il concetto aristotelico della possibilità. Identificare la possibilità con una esistenza totalmente data, comporta: a) che una facoltà attiva – l’edificare – o passiva - la sensorialità – sia tale da essere e non essere a seconda del modo d’essere presente di chi la esplica; b) che il modo d’essere sensoriale non inerisca nell’oggetto sentito ma solo nel soggetto senziente; c) che nel reale non si dia divenire. Le tre conseguenze vengono inferite dal principio secondo alcune premesse che dovevano essere comuni sia ad Aristotele che alla corrente megarica in generale, e cioè che la possibilità debba essere concepita come la nota caratteristica di un ente che è e non è al tempo stesso, e che una tale nota non debba andar ricercata in un ente che è nel presente il cui essere elide qualunque suo non essere, ma sia da ricercarsi nel passato dell’ente – nell’esistente, assunto indipendentemente dal fatto che sia o meno dato alla coscienza conoscente, solo il passato è tale da essere e non essere in un certo modo -; ora, i Megarici, considerando il passato, lo definiscono necessariamente come ciò che è stato, e che nel passato quindi si è dato come essere; anche il passato è tale che è solo essere; quindi una possibilità come essere e non essere insieme non si dà, donde deriva che nel mondo non si dà né contingenza né divenire e che il mondo è un essere dalle caratteristiche parmenidee; se si vuol salvare il mondo del reale divenire, è necessario ricercare nel passato dell’esistente una condizione che consenta di predicargli l’essere e il non essere in un certo modo, rispetto al modo che dell’esistente è dato nel presente; tale condizione consisterà in una conformazione ( la δύναμις) che permette all’esistente di essere la conformazione necessaria e sufficiente ad assumere certi modi di esistere e insieme di non essere questi modi di esistere. In tale modo il concetto di possibilità nell’esistere si sdoppiava in conformazione e in simultaneità dell’essere e del non essere. Entrambe le posizioni partono da un determinismo razionalistico e concettuale, per il quale l’essenza è ciò che è e non è ciò che non è ; ma i Megarici ne inferivano l’assenza necessaria di una simultaneità dell’essere e del non essere, mentre Aristotele determinava l’essenza con la nota del contraddittorio, grazie a un arricchimento del concetto di essenza, o meglio grazie alla sostituzione al concetto di essenza del concetto di sostanza in quanto sintesi di esistenza, come conformazione verso una certa linea di sviluppo predeterminato, e insieme di essenza, come determinazione assoluta della linea di sviluppo. Ma i Megarici avrebbero avuto buon giuoco ad obiettare ad Aristotele che il duplice fattore di possibilità cui Aristotele riconduceva il reale, a parte il fatto che veniva a sdoppiare il reale stesso in un elemento che fosse solo essenza e in elemento che fosse insieme essenza e conformabilità all’essenza, nascondeva un sofisma sotto il concetto della possibilità come coesistenza dell’essere e del non essere: infatti l’essere e il non essere coesistono nella sostanza come essere e simultanea conformazione che è in sé solo essere; la possibilità aristotelica della sostanza, come simultaneità dell’essere e non essere, non è simultaneità di due contraddittori in quanto contrari, ma di due contraddittori in quanto distinti. Tuttavia, tralasciando questo che è un problema che riguarda l’aristotelismo, resta acquisito il quadruplice uso che Aristotele fece del termine possibilità e la quadruplice connotazione che diede al concetto; il quale in tal modo veniva a situarsi nel conosciuto, come oggetto a sé stante, e nel conoscente.
Per il concetto di possibile in Spinoza, mi valgo di tre passi: a) nella prop. XXXIII della prima parte dell’Ethica dalla necessaria unicità della natura divina e dalla necessaria derivazione secondo processi rigorosamente determinati di tutte le cose da Dio, s’inferisce che l’esistente è prodotto da Dio in un modo che non è mai altro da quello con cui è prodotto e secondo un ordine che non è mai altro da quello secondo cui è prodotto. Il teorema dà, come conoscenze concomitanti, le determinazioni dei concetti d necessario, di impossibile e di contingente (schol. I): la nota della necessità inerisce a un esistente o in ragione della sua essenza o in ragione della sua causa; il fatto che una cosa esista secondo le determinazioni che le ineriscono in virtù della sua essenza o secondo le determinazioni che provengono dalla sua causa efficiente costituisce la connotazione della necessità e insieme dell’impossibilità, perché una cosa è necessaria quando esiste nel modo che la sua essenza o la sua causa determinano, impossibile quando i modi della sua esistenza dovrebbero essere tali da implicare una contraddittorietà nella sua essenza o dovrebbero sussistere senza che la causa efficiente fosse tale da determinarli così come esistono; la contingenza è una nota dell’esistente che si dà solo grazie alla nostra ignoranza: il contingente è un esistente di cui sfugge o l’essenza o la catena anteriore delle cause efficienti, l’ignoranza dell’essenza ci costringe a pensare dell’esistente un concetto che sarà l’universale e il necessario non già dell’essenza, ma di ciò che nell’esistente cogliamo universale e necessario, di un’essenza quindi che coinciderà con l’esistente e non ci rivelerà né una presenza né un’assenza di contraddittorietà – un uomo che sia pensato mammifero invertebrato, e di cui si ignori l’essenza, sarà conosciuto come mammifero invertebrato e la sua essenza sarà identificata coi suoi modi di esistere che sono quelli di un mammifero invertebrato; solo la conoscenza dell’essenza di uomo consentirebbe di affermare contraddittorie le due note, e quindi impossibile la sua esistenza -; l’ignoranza della precessione causale ci impedisce di conoscere qualcosa di necessario nell’esistente, qualcosa cioè per cui l’esistente si dia necessariamente anche se la sua essenza non coinvolge contraddizione. Questa prima definizione di contingenza nasce dall’erezione a legge universale del principio di contraddizione: in un tale cosmo l’esistente è perché o ha una certa essenza o causa interiore, o ha una certa causa efficiente o causalità esteriore; reale è sempre identico a causato e insieme a necessario, ossia a dover essere quel che si è; ma il concetto di necessità si allarga; pur identificando l’essere col dover essere, sarebbe sempre lecito supporre l’esistenza di esistenti in cui il dover essere si desse non uno ma molteplice, - nel senso che potrebbero esistere un uomo la cui essenza fosse quella di un mammifero invertebrato e che quindi dovrebbe esistere secondo i modi del mammifero e dell’invertebrato, e insieme un uomo la cui essenza fosse quella di mammifero e di vertebrato e che quindi dovrebbe esistere secondo i modi del mammifero e del vertebrato -; ma tale esistenza dovrebbe darsi o per una molteplice catena di cause contraddittorie – che dovrebbe scaturire dall’unica natura, consentita come causa efficiente, di Dio -, o per una molteplicità di determinazioni contraddittorie di una stessa essenza – che ancora dovrebbero provenire dall’unica natura, concepita come intelletto pensante, di Dio; ma il fatto dell’unicità della natura divina, interpretato come necessità per la natura divina di non accogliere il contraddittorio, comporta l’unicità del dover essere e dell’esistere e quindi la non contraddittorietà di entrambi; la mancanza di ragioni per testimoniare della non contraddittorietà di un esistente è ragione necessaria e sufficiente della contingenza, e la contingenza quindi s’identifica con l’illiceità di commisurare un esistente al principio di contraddizione. b) Questa definizione del «fenomeno» della contingenza si riporta a un brano dei Cogitata metaphysica (I, 3, § 8) – che è quello dei miei tre passi che prendo per secondo -, in cui la contingenza s’affianca alla possibilità. Qui la differenza tra contingenza e possibilità è ridotta a una pura differenza verbale: la possibilità infatti non è se non un caso particolare della contingenza, qual è stata definita nello scolio sopra esaminato, e la contingenza, in quanto distinta dalla possibilità, non è che l’altro caso particolare, che lo scolio della prop. XXXIII della parte I dell’Ethica ha considerato come ragione della contingenza in generale: quando l’ignoranza riguarda l’essenza, avremo una contingenza; quando l’ignoranza riguarda la necessaria determinazione da una causa efficiente avremo la possibilità. c) Il terzo passo di Spinoza chiarisce la distinzione: le definizioni III e IV premesse alla parte IV dell’Ethica definiscono come contingenti gli esistenti individuali la cui essenza non manifesta ragioni necessarie e sufficienti a porne o ad escluderne necessariamente l’esistenza; definiscono invece come possibili gli esistenti individuali le cui cause non si manifestano tali che ad esse conseguano sempre e necessariamente tali esistenti come loro effetti. La distinzione non è artificiale, ma investe la bipartizione del reale in funzione del parallelismo metafisico degli attributi: nell’esistente in quanto esteso si deve distinguere un’essenza da una causa efficiente e le due si devono considerare come due fattori eterogenei dell’universale unicità dell’esistente per determinismo – per essenza sono e debbo essere uomo; per causa efficiente, se son toccato da un ferro rovente, la mia carne è bruciata e dev’essere bruciata -; sul piano dell’esistente esteso il rapporto determinante-determinato o rapporto di universale necessità, che ha a suo principio il principio di contraddizione, si polarizza in una situazione di identità in cui il determinante si identifica col determinato – è il rapporto che intercorre fra l’esistente e la sua essenza – e in una situazione di distinzione in cui il determinante è altro dal determinato – è il rapporto che intercorre fra l’esistente e la sua causa efficiente -; ma nell’esistente in quanto pensiero non si possono distinguere dal punto di vista del rapporto col loro condizionato, il concetto dell’essenza dal concetto della causa efficiente; i due concetti si unificano entrambi nell’unico concetto di principio di cui un concetto dato è conseguenza – sono uomo, cioè mi penso come uomo, in quanto mi penso conseguenza ossia specie dell’unico principio-genere dell’umanità; la mia carne è bruciata, ossia penso la mia carne come determinata dalla nota del bruciato, in quanto la penso come una conseguenza, ossia una specie, dell’unico principio-genere del ferro rovente -; sul piano del pensiero tanto la causa efficiente che l’essenza sono pensate in un unico e solo rapporto con la conseguenza, rapporto che è di distinzione e di necessario e univoco processo di pensiero dall’uno all’altro – dal concetto di Socrate non mi è lecito che risalire al principio di uomo, dal concetto di bruciatura non mi è lecito che risalire al principio di ferro rovente - ; si deve quindi concludere che la parola contingenza racchiude in sé una duplice connotazione sul piano dell’esistente esteso, che è quella di cui si tratta nello scolio della prima parte, duplice connotazione cui corrisponde un’unica connotazione nel pensiero, precisamente quella cui si dà il nome di possibilità.
Si tratta ora di stabilire che cosa veramente intenda Spinoza per questa possibilità: non è certo la possibilità dei Megarici della simultanea coesistenza dell’essere e del non essere; e neppure la possibilità aristotelica ossia la conformazione di una sostanza cui sussegue uno e un solo modo di esistere della sostanza stessa; la possibilità di Spinoza non è la prima perché è conoscenza di un essere che esclude da sé il non essere – se dichiaro possibile il pensato di cui ignoro l’essenza, il possibile è un pensato che è e che mi appare tale da non presentare in sé una contraddizione e quindi impossibilità di non essere e quindi non essere; se dichiaro possibile il pensato di cui ignoro la causa efficiente, il possibile è un pensato che è e che mi appare tale da non essere condizionato da nulla e quindi tale da essere in altro modo, ossia da non essere, solo in rapporto al suo passato, non al suo presente -; la possibilità di Spinoza non è quella aristotelica perché esclude da sé qualunque determinazione, compresa quella di una conformazione necessitante e insita nella natura totale dell’esistente. La possibilità di Spinoza è quindi una terza connotazione da aggiungersi alle altre due, la quale deriva tutto il suo contenuto non già da un’indagine di natura puramente logica sulla struttura del pensiero ma da un’interpretazione metafisica del reale: nel pensiero un concetto si pone come conclusione di un processo da conclusione a principio di cui il concetto ultimo si pone come assolutamente necessario, tale cioè da essere e da non poter non essere, da essere in un modo e da non poter non essere in un [altro] modo – in un universo newtoniano un fenomeno celeste si dà come concetto-conclusione che trova il suo principio in una legge di Keplero, la quale a sua volta si pone come concetto-conclusione che trova il suo principio nella legge di gravitazione universale, la quale è e non può non essere, è quello che è e non può essere altro da quello che è; in un universo geometrico un qualsiasi concetto di rapporto spaziale è la conclusione finale da cui un processo a ritroso conduce ai postulati ultimi che si sono assunti come tali da essere e da non poter non essere, da essere quel che sono e da non poter essere altro da quel che sono -; ma si danno anche concetti i quali si pongono come conclusioni finali inferite da concetti-principi ultimi i quali sono dei pensati cui non inerisce necessità che venga o dalla loro essenza o da altri concetti che necessariamente li determinino – il concetto che mi formo in questo momento del moto della mia mano che scrive è la conclusione ultima di un processo a ritroso che mi è dato compiere, in virtù del quale giungo al concetto-principio della mia volontà che si è data in modo da porsi come causa del movimento, ossia in modo che dal suo concetto scaturisca il concetto del moto, ma che insieme si è data tale da essere pensata o assente, nel qual caso si aveva la sospensione di ogni mia azione e pensiero, o esistente in modo diverso, nel qual caso avrei avuto un diverso movimento della mano; il concetto di volontà quindi si pone come il concetto di un esistente la cui essenza è connotata dal porsi in funzione di una entità che le è di fondamento, il mio essere di uomo, dalla facoltà di intervenire o meno nella determinazione dei miei atti o di intervenirvi in un modo qualsivoglia: tale essenza quindi non racchiude nulla di contraddittorio e quindi di per sé non offende all’universale legge di contraddizione e, non offendendo tale principio, non contravviene all’unica condizione dell’esistere; l’essenza della volontà quindi è un pensato cui è lecito l’esistere; ma nell’essenza in sé non si dà nessuna ragione per cui essa debba porsi così come si pone, in quanto è pensabile col sussidio di un altro concetto e quindi non è sostanza; d’altra parte, non si dà nessun altro concetto che si ponga come principio del concetto di volontà, in quanto il concetto di uomo determina il concetto di volontà come funzione in generale, non come funzione definibile secondo il concetto della sua essenza; infine non può darsi nessun concetto che le sia principio, perché se un tale concetto si desse, la volontà, in quanto determinata da un altro concetto, o dovrebbe mutuare da questo le sue caratteristiche di indeterminabilità, trasferendo ad esso tutta la problematica, o dovrebbe ricevere da questo caratteristiche di determinatezza; il concetto di volontà, quindi, è concetto che non è necessario né per la sua essenza né per una causa altra dalla sua essenza-. Questi concetti, principi-ultimi, sono dei possibili, in quanto il pensiero non possiede né un concetto della loro essenza né un concetto di altro dalla loro essenza che li renda necessari e che ne assicuri l’impossibilità. Per Spinoza quindi la possibilità è la nota del concetto per il quale non si dà causa necessitante. A questa terza connotazione del concetto di possibilità Spinoza è giunto non già da un’indagine del pensiero bensì da una certa concezione del reale esistente in sé: in un universo che è processo necessario di un ente in sé necessario tutto deve darsi necessariamente; poiché in quest’universo invece si dà una sfera, quella del pensiero, in cui non tutti i concetti sono dei necessari, chiameremo possibili i concetti che si sottraggono alle condizioni della necessità senza offendere le condizioni dell’esistenza: un possibile allora sarà un non contraddittorio assolutamente incondizionato; un non contraddittorio cioè che non è un possibile assoluto nel senso che si limita a non offendere il principio di contraddizione, ma un non contraddittorio che non trova, né nell’essenza che lo determina né in altro concetto che non sia né esso stesso né la sua essenza, ragioni necessarie ad esistere. A tale possibile nelle sfere della realtà, che sono altre dal pensiero, dovrebbe corrispondere un’entità che presenti gli stessi caratteri di non contraddittorietà e di incondizionatezza assolute, entità che le altre sfere non comprenderanno mai, data la causalità assoluta che vi domina. Non è il caso di rilevare la contraddizione che l’introduzione del concetto di possibile comporta con quest’ultimo presupposto di interpretazione dell’universo; quel che interessa è qui di rilevare che un siffatto concetto di possibilità non viene ritrovato nel pensiero; questo infatti registra delle connessioni di concetti che sono l’uno nei confronti dell’altro principio e conseguenza, senza che per questo l’uno debba porsi come determinazione assoluta dell’altro – il processo a ritroso dal movimento della mano alla volontà all’uomo al mondo non necessariamente è un processo da effetto a causa in quanto non tutti i rapporti sussistenti tra un condizionato e una condizione sono necessariamente tali -. Al pensiero è dato distinguere tra principio-conseguenza in quanto determinazione-determinato, e principio-conseguenza in quanto condizione di esistenza ed esistente; in virtù di un processo che sia passaggio da condizione di esistenza ad esistente, un pensato può entrare nel pensiero come membro della serie; in una concezione contingentistica alla Boutroux dall’ordine logico passo al matematico al fisico al chimico al biologico allo psicologico come per una catena di anelli che sono l’uno condizione dell’esistere dell’altro, non già condizione di un esistere necessariamente determinato in un certo modo; il pensiero spontaneo ritiene la volontà umana causa incausata delle azioni dell’uomo, senza per questo fare della volontà un apolide ex lege, ma solo coordinandolo sul piano dell’esistenza con l’esistenza dell’uomo che la porta come facoltà; ammettiamo pure che questa sia un’illusione del pensiero, ciò non toglie che il pensiero illudendosi così, si valga di una catena siffatta. Non necessariamente quindi il pensiero riconduce i suoi processi a serie di anelli che sono dei determinanti-determinati. Solo in un secondo momento, quando il pensiero ricerca le connessioni sul piano del reale concepito come un non pensabile, riconduce le connessioni a vincoli causali, cui debbono corrispondere nel pensiero rapporti concettuali di determinazione; quando tutti i rapporti fra tutti i suoi concetti vengono interpretati come modi del vincolo della determinazione-causalità, solo allora il pensiero, trovandosi di fronte a un rapporto che a tale vincolo non è riconducibile, lo dichiara, in fondo, pura apparenza; e quindi lo spezza, isolando la condizione dell’esistenza dal condizionato nella esistenza, erigendo quest’ultimo ad ente contingente - come quello che non è primo assoluto e che quindi non pone di per sé la propria esistenza – o ad ente possibile - come quello che pur non essendo impossibile non è neppure concepibile come reale. L’appello a una struttura del reale comporta l’erezione a possibilità di certi concetti, e quindi l’introduzione di una possibilità che non è né la megarica né l’aristotelica. La possibilità spinoziana al pari della megarica non esiste, se non per illusione o cecità o deficienza del pensiero; quantunque né Spinoza né Diodoro siano in grado di accordare l’esistenza del loro possibile nel pensiero con l’impossibilità del possibile nel reale di cui il pensiero è costituente ineliminabile, Diodoro nega un valore al possibile perché dichiara contraddittoria la simultaneità di un essere e di un non essere con il semplice essere del reale, Spinoza nega validità a un possibile che sia un essere non determinato né da sé né da altri, in un universo in cui tutto è determinazione.
Anche la definizione che Leibniz ci dà del possibile sorge da un’estensione al pensiero di una particolare concezione dell’universo; ma la definizione leibniziana del possibile avrà il destino di perpetuarsi e di giungere sino a noi; quanto di tomistico e di scolastico essa contenga non ho approfondito abbastanza; essa tuttavia reca implicita una distinzione tra l’esistere e l’essere, intendendo per il primo ciò che non solo non contiene del contraddittorio ma si pone anche come indipendente da qualsiasi condizione che non si ritrovi in esso – l’uomo come esistente è un ente in cui non si dà contraddizione e insieme che ha in sé, nel presente, tutte le condizioni necessarie per esistere cosicché, se anche nel presente, in un presente istantaneo, supponessimo estinti tutti gli enti dell’universo, esso uomo conserverebbe, sia pure per una frazione infinitesima, l’esistenza -, per il secondo invece ciò che non solo non contiene contraddittori ma è assolutamente dipendente per la sua esistenza attuale da qualcosa che non s’identifica con esso. Ora, l’unico essere che si dia tale è il pensato, che per esistere dev’essere pensato da un pensiero; un pensato come essenza è sempre un semplice essere; tale essere, in quanto non implica contraddizione, è un possibile (§224 della Teodicea), ma un possibile che è tale solo nei confronti dell’esistente. La possibilità di Leibniz è quindi una quarta accezione del possibile: è l’esistenza di un non contraddittorio che è in atto un assolutamente condizionato; in quanto assolutamente condizionato non sussisterà di per sé, pur realizzando in sé tutte le condizioni necessarie e sufficienti all’esistenza tranne una, quella della causalità all’esistenza, intesa come attuale esistenza incondizionata. Il possibile quindi è quel non contraddittorio che non esiste in quanto non esistono le cause che lo fanno essere: possibili quindi sono tutti i pensieri di mente in quanto pensieri, tutti i futuri contingenti in quanto causabili da una causa attuale sia pure contingente, tutti i futuri necessari in quanto causandi da una causa attuale necessaria. La possibilità di Leibniz è la possibilità dell’esistere, ossia l’esistere in atto per altro e non l’esistere in atto di per sé; non è né la simultaneità dell’essere e non essere né la strutturazione in vista di un certo modo di esistere né la caratteristica del non contraddittorio assolutamente indeterminato. Anche una tale definizione non scaturisce da una pura indagine del pensiero come pensiero: in questo non si danno mai degli esistenti, ossia dei concetti, che non esistano in atto per sé, altrimenti non si darebbe la facoltà della permutazione dei generi: solo in un’interpretazione che faccia della realtà in sé, ossia della realtà pensabile ma non necessariamente pensata, un quadro infinitamente meno esteso della realtà per il pensiero, ossia della realtà necessariamente pensata, si darà uno squilibrio quantitativo fra reale in sé e reale per il pensiero e la necessità quindi di giustificare lo squilibrio come dovuto all’esistenza di enti pei quali è mancata la ragione di trapassare dall’un piano all’altro e di permanere indefinitamente nel piano della seconda realtà. Ma, a ben guardare, la possibilità leibniziana, così interpretata, si riconduce alla simultaneità dell’essere e del non essere di Diodoro: un possibile, ossia un pensato, è qualcosa che è esistente in una zona dell’universo e che insieme non è esistente in un’altra; è un ente che sfugge al principio di contraddizione ponendosi soggetto di un giudizio problematico, «il pensato può essere», giudizio equivalente all’altro «i due giudizi, il pensato è esistente, e il pensato non è esistente, sono entrambi veri».
Oltre non voglio risalire nell’esame delle dottrine che si sono servite del concetto di possibilità, perché mi porterei al di là di Kant. La storia del pensiero ha quindi aggiunto quattro ulteriori concetti da indicarsi col termine di possibilità; sicché il nostro concetto, tenendo conto sia delle classificazioni dei dizionari filosofici che delle definizioni scaturite da un sistema, diventano le seguenti: a) possibilità logica come non contraddittorietà; b) possibilità fisica come congruenza con la normatività della esperienza; c) possibilità morale come congruenza con la normatività etica; d) possibilità come liceità di due contraddittori che si diano simultanei; e) possibilità come credibilità di minimo livello; f) possibilità logica come accordo con un principio in virtù del principio di contraddizione; g) possibilità reale come accordo, in virtù del principio di contraddizione, con un principio materiale assunto come vero in sé; h) possibilità problematica come simultaneità dell’essere e del non essere; i) possibilità come conformazione attitudinale; l) possibilità come esistenza attuale di un non contraddittorio assolutamente incondizionato; m) possibilità come esistenza attuale di un non contraddittorio assolutamente condizionato. Eliminate le definizioni a), f), g) in quanto ciò che definiscono è una determinazione della possibilità in generale, ossia la pensabilità, eliminate la b), la c), la d) e la e) perché casi particolari della prima, eliminate la i) la l) e la m) in quanto definizioni della possibilità ontologica e non logica, l’unica definizione che abbia tentato di cogliere la reale natura della possibilità quale si dà nel pensiero resta quella di Diodoro. Ci si deve quindi rifare al pensiero stesso per tentare di cogliere il significato di possibilità: ciò facendo ci si chiude nella sfera del pensiero come unico dato di realtà che si assume reale e non ci si preoccupa quindi dei valori che la possibilità può assumere fuori del pensiero. Se alla realtà che non identifichiamo col pensiero diamo il nome di essere nel senso più generico – o perché la riteniamo esistente in quanto conosciuta senza che la conoscenza ne condizioni necessariamente l’esistenza, o perché la riteniamo esistente in quanto conosciuta secondo un rapporto in cui la conoscenza condiziona l’esistenza ma si distingue da questa, perché questa è costituita di reali, le sensazioni, che sono dei conosciuti che si distinguono dagli altri per alcune note, l’immodificabilità ad opera del soggetto senziente l’involontarietà la passività la conoscibilità non condizionata dall’esistenza di una coscienza individuale, che ne fanno dei «dati pensati» e non dei «pensati sic et simpliciter» -, la scienza che l’essere indaga chiameremo ontologia con un significato molto più ampio di quanto il termine non abbia di solito; se alla realtà che identifichiamo col pensiero diamo il nome di ragione nel senso più ampio che il termine riveste, quello di coscienza – sia perché la sua esistenza è puramente e necessariamente conoscenza sia perché la concepiamo tale da dipendere per la sua struttura ed elaborazione dall’attività del pensiero consapevole di sé -, la scienza che indagherà questa realtà la chiameremo logica. Poiché la possibilità su cui si indaga è assunta come ente del pensiero e non come ente dell’essere, la ricerca riguarda la possibilità logica, intesa come fatto che si dà nel pensato in generale, ed esclude la possibilità ontologica. Per tentare di cogliere il contenuto di questo pensiero, ho passato in rassegna tutte le classi di giudizi in cui compare un segno della possibilità, ossia un qualsiasi elemento di linguaggio, o parola o componente di parola che racchiuda in sé il concetto di «potere» in generale. Tale elemento linguistico ho considerato secondo alcuni criteri di esclusione: a) ho rifiutato l’elemento quand’è soggetto del giudizio perché in tal caso l’elemento è assunto come un intelligibile di cui è già data intellezione o si presume sia data; b) ho rifiutato l’elemento quando è assunto come sinonimo o sostituto di un ente ontologico, come contingenza eventualità capacità probabilità, nel senso matematico del termine, e altri simili. Salvo errori od omissioni di classificazione, il concetto di possibilità è predicato di sei differenti soggetti: a) di un qualsiasi pensato indipendentemente dalla funzione che esso esplica nel pensiero, come quando dico «Achille è un possibile» «un centauro è un possibile» «un automobile è un possibile»; b) di un qualsiasi pensato che abbia funzioni di concetto generico, con particolare riguardo a questa sua funzione, come quando dico: «il pianeta è un possibile» «il dinosauro è un possibile»; c) di un qualsiasi pensato con qualunque funzione, quando tale pensato è concepito come ente attivo, come quando dico: «l’alunno può entrare» «il vento può sradicare» «un mammifero può allattare»; d) di un qualsiasi pensato con qualunque funzione, quando tale pensato è concepito come ente passivo, come quando dico «un carnivoro può essere mangiato» «questa tovaglia è lavabile»; e) di un qualsiasi pensato con qualunque funzione, quando tale pensato è concepito come ente o attivo o passivo in cui il particolare modo dell’attività o passività è conosciuto come dato, come quando dico: «il conosciuto è conoscibile» «io che mangio posso mangiare» «il pensato è un pensabile»; f) di un qualsiasi pensato con le funzioni generiche di concetto se la predicazione è riferita al presente e non è riferibile al passato o al futuro, con le funzioni particolari di pensato di un individuale se la predicazione è riferibile a qualsiasi tempo, con considerazioni limitate solo alla sua natura o al suo modo di essere, come quando dico: «l’uomo può essere di questa razza» «io potrò mangiare» «Socrate può essere diventato ricco».
Considerando i giudizi del primo tipo, ho notato che è loro dato di essere solo giudizi categorici nei quali si esprime la natura, comune a tutti gli enti di pensiero, di essere dotati in ugual misura della capacità di rappresentare l’essere e di essere tutti privi in sé di ragioni sufficienti a porsi come rappresentativi di un essere che si dia indipendentemente da loro; il giudizio categorico, in cui si dia una possibilità del primo tipo, ha come predicato il concetto di esistente in quanto ente non condizionato dalla conoscenza o non identificabile col conosciuto, e come rapporto di predicazione la simultaneità dell’affermazione e della negazione dell’identità soggetto-predicato; al pensiero che pensa possibili i suoi pensati indipendentemente dalla funzione che essi esplicano nella sua sfera, di ogni pensato è dato affermare che è esistente e contemporaneamente è dato negare che è esistente, ed è lecito accogliere per ogni pensato i due giudizi che sono equivalenti «il pensato è esistente» «il pensato non è esistente». La duplicità della predicazione nel pensiero nasce non spontaneamente ma in forza della commisurazione del pensato a due criteri di giudizio, da un lato la commisurazione al principio di contraddizione per cui un qualsiasi pensato in sé e per sé è sempre un non contraddittorio – il concetto di un Essere che sia onnipresente, e che quindi sia qui e insieme sia là senza aver abbandonato il qui, non è in sé contraddittorio -, dall’altro la commisurazione alle condizioni per cui al pensato viene attribuita anche la funzione di essere rappresentativo di un essere reale – un effetto che sia causa della sua causa è in sé un non contraddittorio in quanto pensato; in quanto rappresentativo di un essere reale, in quanto cioè sottoposto alle condizioni dell’esistenza non logica, è un non esistente -; se qualcuno vorrà, al fine di rilevare l’impossibilità per un concetto qualsivoglia ad essere accolto come non contraddittorio, mettere innanzi l’impossibilità per un concetto che sia contesto di note contraddittorie, quale il concetto di sirena che è pensamento di un oviparo-viviparo omotermo-eterotermo mono-bitremo ecc., rispondo che se tale impossibilità si desse nessun concetto o contraddittorio o falso o erroneo potrebbe mai diventare soggetto di un qualsiasi giudizio, col che si toglierebbe al pensiero la facoltà di svuotarsi dagli errori, e di conseguenza ogni concetto, contraddittori compresi, ha il diritto di esser pensato alla condizione di essere astratto da qualunque relazione coi fattori che determinano la liceità di un pensamento non contraddittorio. Ogni qualvolta per un qualsiasi motivo non commisuriamo il pensato al secondo criterio, ogni pensato assume i caratteri del possibile; le operazioni logiche che compiamo per dar luogo a tale giudizio sono quindi due, confronto del pensato col principio di contraddizione relativamente solo alle condizioni per cui un pensato può essere pensato, ossia in quanto presente alla coscienza, elisione di qualunque sussunzione del pensato sotto altre condizioni che non siano quelle del pensare in generale – grazie a questo strumento entrano nel mio pensiero anche i concetti che contengono contraddittorietà rispetto ad altre condizioni che non siano quelle del puro e semplice pensare; ogni «miracolo» è pensato in virtù di questa funzione del pensiero; ogni errore inconsapevole vive grazie a questa generica capacità del pensiero -.
Il tipo di possibilità espresso dalla seconda classe di giudizi non è una variazione del precedente, come potrebbe apparire: un giudizio come « il mammuth è un possibile» si dà grazie al ricorso a un triplice ordine di criteri per la formulazione di un giudizio; ci si vale sia della commisurazione del concetto al principio di contraddizione in quanto il concetto rispetta le condizioni generali del pensare ossia la consapevolezza, sia della commisurazione al principio di contraddizione del concetto come concetto in quanto il concetto per avere natura di concetto non deve contenere note contraddittorie - il concetto di «mammuth», in quanto si dà con consapevolezza, rispetta la condizione generale per cui un concetto può essere pensato; in quanto le note della sua comprensione non sono l’una la negazione di un’altra, rispetta la condizione generale per cui un concetto è pensato come concetto e di conseguenza come atto ad entrare in un qualsiasi sistema di concezioni. Non si dà la terza commisurazione, ossia il confronto con le condizioni generali dell’essere; sicché non è consentito affermare se al concetto corrisponda o no un essere reale in sé, e questo non darsi è il frutto non di un’assenza ma di un inizio dell’attività di pensiero che resta indefinita o se si vuole interrotta perché l’assenza della commisurazione non è assunta a priori dal pensiero come per il precedente tipo, bensì imposta al pensiero in quanto non si verificano le condizioni per cui al concetto è dato attribuire il carattere di rappresentazione di un essere attuale; il nostro giudizio quindi è un giudizio categorico che è conclusione di un sillogismo disgiuntivo: un concetto è un pensato di cui si dà la congruenza con le condizioni dell’essere, nel qual caso è un pensato che è esistente, oppure è un pensato di cui non si dà la congruenza con le condizioni dell’essere perché le condizioni del suo essere non si danno in generale in forza della loro contraddittorietà con le condizioni dell’essere in generale, e in questo caso è un pensato che non è esistente, oppure è un pensato che non ha la congruenza con le condizioni dell’essere perché queste non sono date in atto o non si sa se sian date, nel qual caso è un pensato che è esistente e non esistente; questo concetto non è né un pensato di cui si dà la congruenza con le condizioni di esistenza né un pensato di cui è impossibile la congruenza con le condizioni dell’essere; ergo, è un possibile ossia un pensato di cui non si dà la congruenza con le condizioni in atto di esistenza.
La terza classe di giudizi, in cui interviene il concetto di possibilità, sorge nel pensiero come effetto di una serie di operazioni mentali: la congruenza in generale e in particolare del pensato col principio di contraddizione, la considerazione di una nota particolare del concetto in quanto ente che agisce in un certo modo ossia che trae da se stesso la modificazione, la valutazione delle condizioni verificandosi le quali la modificazione interviene a determinare il concetto o non interviene a determinare il concetto, infine la commisurazione, operata in virtù del principio di contraddizione, tra la modificazione e le condizioni, e la conseguente conclusione che la modificazione è congruente con le condizioni e incongruente con le condizioni; un tale giudizio è quindi categorico in quanto stabilisce un rapporto di inerenza, non è assertorio né apodittico in quanto non descrive e non definisce, è problematico in quanto determina la non contraddittorietà dell’accidente con la sostanza e insieme la simultaneità in cui si danno l’affermazione e la negazione del rapporto di identificazione fra accidente e sostanza, non già nei confronti del rapporto in sé, ma del rapporto come esistenziale. In altre parole, a lato della commisurazione del predicato con le condizioni che determinano la sua inerenza o non inerenza al soggetto, si dà la commisurazione dell’inerenza con l’esistenza reale. Quattro sono quindi gl’interventi che il pensiero compie su un concetto per poterlo rendere soggetto di un giudizio problematico di questa classe: a) confronto generico col principio di contraddizione per cui si conosce che il pensato è un pensato, b) confronto particolare con le condizioni di concepibilità di un concetto, confronto che viene operato in virtù del principio di contraddizione e per cui si stabilisce che il concetto rispetta la condizione della concepibilità ossia non è in sé contraddittorio, c) confronto particolare tra una nota, che è un modo di attività e che si dichiara inerente al concetto come oggetto, con le condizioni che consentono alla nota in sé di essere inerente al soggetto, d) confronto particolare fra la nota, concepita come inerente al concetto, e l’esistenza in sé del concetto. Il risultato è un giudizio che per ciò che riguarda l’esistenza è problematico, per ciò che riguarda l’inerenza è assertorio - «un mammifero può allattare» = [«il mammifero, di fatto, allatta e non allatta», «il mammifero, di diritto, allatta»].
La quarta classe è un modo della terza; verifica in sé tutte le condizioni della terza; se ne distingue solo in quanto la nota, concepita come modificazione inerente al soggetto, è pensata come necessariamente dovuta all’intervento di un’azione dall’esterno.
La quinta classe ricalca tutti i modi della terza e della quarta; ma se ne distingue radicalmente in quanto fa della congruenza la nota inerente al soggetto e delle condizioni che consentono l’inerenza, non il risultato di un’indagine logica, ma la conclusione di un modo del conoscere. L’inerenza di una nota a un soggetto è data solo quando fra la nota e il soggetto non c’è contraddizione, quando cioè fra la natura del soggetto e la natura della nota c’è una congruenza che è data o dalla natura in sé del soggetto – l’uomo è un mammifero – o dalle condizioni in cui il soggetto è pensato – l’uomo che supera della testa i circostanti è più alto di essi -; la congruenza viene offerta o dall’intuizione della realtà o dalla analisi del concetto o dal confronto del concetto dato con altri; quando la nota è offerta dalla realtà intuita, qualunque analisi che il pensiero compia sul concetto o qualunque confronto che il pensiero compia fra il concetto dato e gli altri sono per dir così già dati ante factum; ora, sia la nota una modificazione attiva e passiva; sia il confronto una ricerca di congruenza tra le condizioni della modificazione e la modificazione stessa; debba tale confronto valere di per sé senza alcuna pretesa di essere valido per la realtà; è naturale che l’intuizione della inerenza o non inerenza della modificazione all’esistente garantisce della congruenza o incongruenza della modificazione con le sue condizioni, che siano note o debbano essere ricercate perché ignote. I giudizi problematici di questa classe, quindi, sono l’effetto di un sillogismo ipotetico: se si dà un esistente, c’è congruenza o incongruenza in generale; la presenza o assenza del concetto-soggetto di una nota che sia modificazione, è data come un esistente assieme al rappresentato dal concetto-soggetto; quindi, la presenza o assenza di una nota che sia modificazione è una congruenza o incongruenza.
La sesta classe dei giudizi in cui interviene il concetto di possibilità è il frutto di una duplice situazione in cui il pensiero viene a trovarsi. Anzitutto ha stabilito in virtù del principio di contraddizione una congruenza generale e particolare del concetto con le condizioni generali del concetto in quanto pensato e del concetto in quanto concetto; in secondo luogo ha stabilito un’inerenza senza che gli vengano offerte né le condizioni per stabilire la validità dell’inerenza né un’intuizione della realtà da cui argomentare la congruenza o incongruenza con le condizioni ignote; di qui, l’assoluta situazione di impredicabilità, cui si ovvia affermando e negando simultaneamente il rapporto di predicazione; il giudizio problematico si identifica allora con una coppia di giudizi, uno affermativo e l’altro negativo, assunti entrambi come veri.
Considerando le sei classi, ho trovato lecito ridurle a due generi che solo in apparenza sono riducibili a una sola grande categoria: se è vero che tutti i giudizi problematici debbono la loro origine all’intervento del principio di contraddizione, è altrettanto vero che l’azione del principio di contraddizione non si esplica sempre nello stesso modo; se il principio di contraddizione è sempre garanzia di un accordo tra due, o distinti o concepiti come distinti, la condizione per cui il principio di contraddizione si pone come criterio della pensabilità in generale è che si dia una dualità di enti, l’uno dei quali si pone come condizione e l’altro come condizionato; la soddisfazione del rapporto è congruenza, ossequio al principio e quindi pensabilità; l’insussistenza del rapporto è incongruenza, inapplicabilità del principio e quindi impossibilità. Dei due enti che si pongono nel rapporto di principio e di conclusione, l’uno è sempre un pensato, l’altro è la condizione per cui al pensato è lecito porsi come pensato; questa condizione può sussistere o nell’essenza concettuale del pensato o nell’esistenza intuita dell’essenza del pensato o in ragioni, non coincidenti coll’essenza concettuale, dalle quali promana necessariamente il pensato. L’assenza di tutte queste ragioni equivale ad assenza del pensato, a impossibilità del rapporto e quindi a impossibilità di affermare o negare il pensato stesso; data tale assenza, il principio di contraddizione non interviene e non decide della pensabilità o meno del pensato. Il pensato allora non ha diritto ad entrare nella sfera del pensato né è lecito servirsene per un qualsiasi uso, ossia per quel servizio che esso possa rendere in questo o quel processo discorsivo. All’impossibilità il pensiero ovvia accettando ugualmente il pensato nella propria sfera, ma sotto il segno di una sua sottrazione al principio di contraddizione, sottrazione che non è offesa che ne farebbe un assolutamente ed eternamente impensabile, ma è indifferenza alle condizioni fondamentali del pensare, la quale fa di lui un relativamente e temporaneamente pensabile; l’indifferenza si manifesta con la giustapposizione simultanea della predicazione negativa alla predicazione positiva, senza decisioni circa la verità o falsità dell’una e circa la scelta da operarsi. Questa situazione che riguardo alla prima classe si dà solo per il predicato dell’esistenza, riguardo all’ultima per qualsiasi predicato pensabile e predicabile, pone la predicazione in una situazione di perenne instabilità, da cui è dato o no uscire, ma perla quale è sempre dato introdurre il predicato come un pensabile attributo del soggetto. L’attribuzione, data la sua precarietà e data la necessità di un’ulteriore indagine che porti alla sua accettazione o al suo rigetto, è quindi oggetto di un costante interrogativo o problema: per questo, a tale possibilità è lecito dare l’attributo di problematicità. Quando invece vengano dati entrambi i termini del rapporto che deve commisurarsi al principio di contraddizione e venga stabilita la congruenza o incongruenza del condizionato alla condizione, il principio di contraddizione scatta e stabilisce la pensabilità o impensabilità del rapporto; si è data la commisurazione del pensato con le sue condizioni e quindi il consenso al principio di contraddizione di intervenire; grazie a ciò il rapporto di predicazione sarà affermativo o negativo. Ora, quando tale rapporto è enunciato valido per il pensiero ma non per l’essere, quando cioè il predicato viene affermato o negato del concetto-soggetto limitatamente alla sfera del pensiero senza che l’affermazione o la negazione debba coinvolgere la sfera dell’esistente conoscibile, allora la predicazione assume una particolare sfumatura: enuncia cioè la non contraddittorietà di un pensato che venga o non venga pensato nell’ambito del concetto-soggetto e di conseguenza la caratteristica del soggetto concepito come ente cui è lecito accettare come inerente il predicato; la limitazione della non contraddittorietà e della liceità al puro piano del pensato, implica che i due modi, della non contraddizione e del lecito, ricondotti alla sfera della esistenza conoscibile, smarriscano la loro realtà ed efficacia, e che di conseguenza il rapporto assuma le forme, sotto il semplice punto di vista dell’esistenzialità, della simultaneità dell’essere e del non essere, e quindi del possibile. A questo secondo genere di possibilità è lecito dare il nome di liceità. In apparenza, sia la problematicità che la liceità sono una sola e stessa cosa in quanto l’una non è che un modo o una specie dell’altra: infatti il dire che un giudizio problematico è quel giudizio di cui si ignorano le condizioni di esistenziale predicabilità perché tali ragioni non si posseggono né di diritto né di fatto, e il dire che un giudizio problematico è quel giudizio di cui si ignorano le condizioni di esistenziale predicabilità perché se ne ignorano le ragioni di fatto, non sono equivalenti.
Il giudizio «il mammifero può allattare», problematico di possibilità problematica, e il giudizio «il mammifero può allattare», problematico di possibilità lecita, non sono la stessa cosa; tant’è vero che al primo non posso sostituire un assertorio se non previa esperienza, mentre al secondo posso sostituire un assertorio senza bisogno di ricorrere all’esperienza, purché tolga al giudizio qualunque valore o portata esistenziale; nel primo infatti ignoro le condizioni della predicazione, sia quelle che mi sono offerte dall’esistente intuito sia quelle che mi sono offerte da eventuali altri concetti che si pongano come determinanti del concetto di mammifero e quindi come principi cui l’allattamento, nota inerente al mammifero, venga commisurato in virtù del principio di contraddizione, per stabilirne la loro congruenza o incongruenza reciproca; per il secondo invece non sono in possesso di un’intuizione dell’esistente conoscibile e quindi non sono in grado di affermare o negare un rapporto che si dia di fatto nell’esistenza come essere identico a quello della predicazione, ma sono in possesso del concetto di mammifero fra le cui note compare quella dell’allattamento e, insieme, quella di tutti i concetti, pressione atmosferica presenza di lattonzolo puerperio ecc., la cui concomitanza alla nota fa di questa un congruente col concetto della sostanza cui deve inerire; il mio giudizio quindi, se faccio astrazione dal suo valore di rappresentazione di una situazione che si dia nell’essere, è in realtà un assertorio; mentre il primo non sarà mai un assertorio e lo potrà divenire solo dopo la ricerca del rapporto nell’essere e nelle condizioni del pensiero. La forma problematica del giudizio di problematicità per liceità è valida relativamente alle mie esigenze che ogni giudizio sia una rappresentazione dell’essere e, sotto questo rispetto, è rapporto di essere e non essere, cui però si aggiunge la nota che non c’è alcuna ragione sufficiente ad impedirne l’esistenza nell’essere: tale forma e solo tale forma ha un contrario che è l’impossibilità. La forma problematica del giudizio di pura problematicità è valida assolutamente sotto qualunque punto di vista io consideri il giudizio.
La differenza balza anche ad una semplice indagine logica: col giudizio problematico di possibilità problematica il predicato, che è o un concetto – ad es. «l’uomo può essere immortale» - o è il concetto di esistenza – ad es. «il centauro è possibile» = «il centauro può essere» = «il centauro può essere esistente» -, è un ente che si sottrae alla giurisdizione del principio di contraddizione in quanto non sono pensate le condizioni, né interne né esterne al concetto cui inerisce, alle quali sia lecito commisurarlo; come tale, non può divenire soggetto di nessun altro giudizio se non alla condizione di essere trattato come un pensato in generale, ossia come un concetto privo di qualunque valore e di qualunque efficacia per le inferenze che se ne vogliono trarre – l’immortalità umana, inferita dal giudizio problematico dato come esempio, assunta come concetto-soggetto di un giudizio darà luogo a giudizi e a sillogismi il cui valore di conoscenza è zero; lo stesso si dice dell’esistenza del centauro -. Col giudizio problematico di possibilità lecita, il predicato si sottrae alla giurisdizione del principio di contraddizione solo per ciò che riguarda la sua esistenza nell’essere, ma per tutto il resto si pone sotto il rispetto del principio, in quanto sono date le condizioni interne ed esterne al concetto che è suo soggetto, sicché è lecito assumerlo come soggetto di un qualsiasi giudizio o processo discorsivo con la certezza che il ragionamento offrirà sempre conoscenza cui mancherà solo la garanzia dell’esistenza – quando affermo che «il dinosauro può fare uova» nulla mi impedirà di trattare delle uova di dinosauro e di svolgere indagini su di esse, indagini che avranno completa validità gnoseologica anche se i loro risultati, per essere considerati dei reali, dovranno essere ritrovati nell’essere -.
Ci troviamo, dopo tutto ciò, di fronte a un’ambiguità del concetto di possibilità: abbiamo una problematicità che è impensabilità di diritto, in quanto non sono date né le condizioni di essere né l’essere del pensato; abbiamo una liceità che è impensabilità di fatto, in quanto non è dato l’essere del pensato. La prima è, delle due forme, quella psicologicamente più povera, in quanto nessuna via apre al soggetto pensante preso nell’intera sua persona; ma è la più ricca sul piano logico perché fa da fondamento del metodo problematico, consente l’ipotesi, la teoria, l’uso di concetti non dati, ed è un momento dello stesso metodo sperimentale. La seconda invece sul piano logico è la più povera di risonanze e di strumentalità; ma si riempie di un numero molto grande di sfumature implicite, attraverso le quali il soggetto pensante riesce ad esprimere una vasta sfera della propria natura extralogica e si pone in grado d’interpretare il reale che lo circonda con categorie più ampie e numerose di quelle offerte dalla semplice intuizione: la liceità infatti apre la strada alla libertà, all’intenzione, all’interpretazione di un presente dato in funzione di un passato non dato, alla valutazione dei rapporti tra un dato e gli altri in chiave di assenza o di presenza di ostacoli e negazioni, all’uso dei concetti di forza e di energia, ecc.
Si tratta ora di vedere sotto quale delle due accezioni Kant abbia pensato il suo concetto di possibile. Kant stesso definisce o lascia intravedere una definizione del possibile in almeno tre brani: nella sezione IV del capitolo III della II ripartizione della Logica trascendentale, che per brevità indicherò con sez. IV; nel numero 4 della sezione III del capitolo II del libro II della I ripartizione della Logica trascendentale, che per brevità indicherò con num. 4; nella prima parte di «Der einzig mögliche Beweisgrund zu einer ecc. », che per brevità chiamerò part. I.
Il num.4 enuncia un concetto della possibilità che è liceità come congruenza, stabilita dal principio di contraddizione, tra una nozione pensata la quale viene assunta come condizionata, e il suo principio costituito dall’esistenza della totalità dell’esperienza. Attribuito al possibile il valore e la portata di un concetto puro intellettuale, identificato il possibile come uno dei concetti puri della modalità, stabilito che le relazioni predicative della modalità non sono note determinanti la connotazione di un concetto ed esprimenti uno dei particolari rapporti che l’attività intellettuale definisce quando riconduce il concetto alla condizione del conoscere per concetti, condizione che è conoscenza dell’empirico od uso empirico, la definizione, o chiarimento, del concetto di possibilità non solo ha un valore gnoseologico, ma anche metodologico, in quanto ci fa conoscere quali enti pensiamo con esso e limitatamente a quali enti l’uso del concetto di possibile è lecito. Possibile è tutto ciò che s’accorda con le condizioni formali dell’esperienza che si dia come intuizione o come intelligibilità; possibilità è accordo di un concetto con le condizioni formali d’una esperienza in generale. Si predica dunque il concetto di possibile sia di un concetto che offra i rapporti universali e necessari in cui le classi di sensazioni costantemente si pongono, e insieme le classi di sensazioni ordinate nel rapporto, cioè di un concetto empirico, sia di un concetto che faccia conoscere i puri rapporti universali e necessari in cui le classi di sensazioni costantemente si ordinano, cioè di un concetto puro apriori. Possibile è quindi il concetto di «uomo», in quanto ci dà una serie di classi di sensazioni ordinate in particolari rapporti, serie e rapporti che si ritrovano nell’esperienza; è possibile il concetto di «azione reciproca», in quanto l’esperienza offre la costante simultaneità di due modificazioni in due enti empirici distinti. Questa possibilità comporta un concetto pensato, un oggetto intuito nell’esperienza, un pensiero che li ponga in un rapporto in cui il primo si pone come condizionato o commisurato e il secondo come commisurante e condizionante, l’intervento del principio di ragione che attribuisce all’oggetto la funzione di ragion sufficiente nei confronti del concetto, l’intervento del principio di contraddizione che ritrova o non ritrova nel concetto condizioni e situazioni riproducenti quelle della sua ragione e che in seguito a ciò afferma o nega la congruenza del concetto con l’oggetto. In un’interpretazione siffatta il possibile racchiude implicitamente una particolare concezione del pensiero, come facoltà capace di rendere attuali in sé una serie indefinita di pensati, i quali tutti sono dei reali nell’ambito della facoltà perché nessuno ne offende il principio di contraddizione ponendosi come irreale in quanto pensato, o il principio di ragione ponendosi come impossibile; ma la dottrina kantiana non accetta il pensiero come una semplice realtà a sé stante, regolata dalle proprie norme, eretta a realtà totale o limitata a pura parzialità del reale; a lato del pensiero pone una realtà distinta, quella dell’esperienza che si differenzia per alcuni caratteri suoi e soprattutto per la funzione che viene ad esplicare nei confronti del pensiero: la realtà dell’esperienza condiziona il pensiero, non già perché ne determini i principi di funzionamento i quali al contrario muovono dal pensiero per calare nell’esperienza, ma perché ne stabilisce il contenuto; anche Kant allora accetta una differenza quantitativa tra un reale che è reale indipendentemente dall’essere «pensato» - è reale nell’esperienza che a una vibrazione di un diapason succeda necessariamente e uniformemente la vibrazione di un diapason, non è reale nell’esperienza che al suono della sirena di una fabbrica succeda necessariamente e uniformemente una certa azione degli operai, anche se l’azione s’è data finora in rapporto col suono – e un reale che è reale solo in quanto pensato – è reale nel pensiero che per il punto P passi più di una parallela alla retta r ed è quindi reale il giudizio o concetto che se ne inferisce che la somma degli angoli di un triangolo sia minore di 180º; per il pensiero è del pari reale che per il punto P passi una sola parallela alla retta r , ed è perciò reale il giudizio o concetto inferito che la somma degli angoli di un triangolo è uguale a 180ª -; anche per Kant l’estensione del pensato supera di gran lunga l’estensione del reale nell’esperienza; ma se al pensiero si assegna l’esclusiva funzione non già di pensare ma di pensare il reale dell’esperienza, questo si pone necessariamente a condizione dell’unica sfera di pensato che mi è lecito accettare quale reale; ogni pensato, allora, per essere dichiarato tale dovrà uniformarsi alla sua condizione, che è la sua ragione, ossia all’esperienza; ogni pensato che non realizzi in sé l’uniformità, non sarà un irreale in quanto ottempera al principio di contraddizione, ma un impossibile e come tale un impensabile; ogni pensato che realizzi in sé l’uniformità, sarà non un reale - perché come pensato è sempre congruente con il principio di contraddizione e quindi un pensato -, ma un possibile, ossia un ente di pensiero che non infrange nessuna delle condizioni per cui un pensato è pensato e che di conseguenza gode della liceità di entrare nella legittima sfera del pensiero. Sotto questo punto di vista, il possibile del num. 4 rientra nella quinta classe in cui ho ripartito i valori della possibilità in genere; e in nome suo è consentito affermare che «il pensato A, in quanto verifica come condizioni della propria realtà le condizioni della realtà dell’esperienza, è un pensato legittimo e quindi un pensabile, vale a dire un possibile per il pensiero». Volendo ancora approfondire il concetto di possibile sotto questo aspetto, si deve osservare che qui la possibilità coinvolge i concetti di legittimità o diritto legittimo – ogni ente in quanto ente riveste certe pretese che riguardano o il suo essere o i suoi principi o le sue conseguenze; l’entità «mangiare», come nota di un qualsiasi concetto, non è solo un concetto connotato secondo certe note, ma è pure la posizione di pretese quali quelle che debba darsi l’introduzione di qualcosa in qualcos’altro, che tale introduzione debba essere seguita da trasformazione del qualcosa in qualcosa d’altro, che il qualcosa debba essere eterogeneo almeno sotto certi punti di vista dal qualcosa d’altro, che alla introduzione non possano non conseguire modificazioni quantitative e qualitative del qualcosa d’altro, ecc. ; l’ente «mangiare» quindi non si pone solo come semplice introduzione, ma come somma di tutte queste pretese, la cui verifica soltanto garantirà di esse, della loro legittimità e della legittimità della predicazione; un pensato in quanto ente non si limita a lasciarsi connotare dalla presenza in atto nel pensiero, ma pretende di essere qualcosa che riproduce una realtà che non si identifica col pensiero, pretende cioè di essere un conosciuto; poiché non tutti i pensati trovano verifica delle loro pretese, l’affermare la possibilità di un pensato equivale ad affermare che il pensato è un conosciuto e che quindi è un pensabile, ossia un ente cui è lecito porsi come pensato, perché nulla osta a tale posizione -. Si deve anche osservare che qui la possibilità s’appella all’intervento di una condizione del possibile assunta come assoluta, e alla commisurazione del possibile con la condizione – condizione assoluta è l’esperienza e la sua formazione trascendentale, la commisurazione è costituita da tutti gli strumenti di controllo che il metodo sperimentale ha affinato, e in particolare dalla necessità che il dato di esperienza venga sussunto sotto il dato concettuale onde questo assuma valore di conosciuto -. Si deve poi osservare che qui la possibilità equivale ad assenza di qualsiasi ostacolo od impossibilità che insorga o nel possibile stesso o nella situazione in cui il possibile si dà – se un pensato è un possibile, ciò significa che nel pensato non si presenta nessuna nota che contraddica alla sua natura di conoscente, e che nei rapporti tra pensato ed esperienza non si deve verificare nessuna situazione di irrealtà o irrealizzabilità, quale ad esempio potrebbe essere l’assenza di universale e necessario nell’esperienza -. Si deve infine osservare che quella nota di possibilità che affetta il pensato racchiude ancora l’aspetto della simultaneità dell’essere e del non essere, che è sottrazione alla giurisdizione del principio di contraddizione, ma limitatamente al fatto che resta indifferente al pensiero giudicante che il pensiero abbia o no fatto uso ed uso totale e completo di ciò che è stato dichiarato possibile – se per la commisurazione del concetto di
«neurologia» alla sua condizione che è la struttura empirica del sistema nervoso il pensiero ha stabilito possibile il concetto come pensato della struttura, l’attribuzione della possibilità alla neurologia reca implicita l’indifferenza per il fatto che tutto ciò può porsi come soggetto di neurologia, ossia le determinazioni sistematiche della scienza, siano oppure no pensate in atto dal pensiero -.
La part. I, che è ancora molto lontana dalle pagine della Critica e in cui si tenta di dare una prova dell’esistenza di Dio, muove dalla definizione, o meglio dalla descrizione, di due concetti; descrizione di cui ci si varrà in seguito. Anzitutto ci vengono offerti alcuni caratteri della esistenza : a) se un predicato è un intelligibile, un predicato è insieme una determinazione del soggetto; poiché un concetto di oggetto, che assuma funzioni di soggetto in un giudizio, attende una determinazione nel predicato, e poiché un predicato che sia semplice posizione di esistenza in nulla determina il soggetto, l’esistenza non è determinazione di alcunché, ossia non aggiunge nessuna nuova nota alla connotazione dell’oggetto, sia questo, o non, pensato come esistente; l’esistenza allora si pone come un predicato di un oggetto non in quanto concetto in particolare, ma in quanto concetto in generale, perché stabilisce con il suo intervento sia una nuova classificazione dei concetti, dovuta al modo della loro origine, sia una distinzione, frutto della classificazione fra concetti che sono venuti dall’esperienza e concetti che non sono venuti dall’esperienza, sia l’appartenenza del concetto-soggetto a questa e non a quella delle due classi; in parole più semplici, l’esistenza è un modo di essere, una nota predicata dall’essere, che determina questo come essere nell’esperienza e per l’esperienza, di contro all’essere nel e per il pensiero – per questo, è inesatta la predicazione dell’esistere riferita a un concetto, come «l’esagono regolare esiste», mentre è esatta la predicazione di un concetto riferita ad un ente esistente, come «la celletta dell’ape è un esagono regolare»; tralascio le obiezioni che facilmente potrebbero sollevarsi -; b) la distinzione tra essere nel e per il pensiero ed essere nella e per l’esperienza, indagata nella sua natura, si rivela equivalente all’altra, essere in quanto relazione ed essere in sé; poiché un concetto è sempre pensato in relazione con un altro concetto, vale a dire poiché la condizione per cui un concetto possa essere pensato è quella di entrare nel rapporto di predicato a soggetto con un altro concetto, rapporto che sussiste per tutti i concetti all’infuori di quelli che son dati dall’esperienza, col che viene confermato quanto si osservava sopra in a), l’essere di concetto sarà sempre un essere relativo, un essere cioè che ha l’essere in grazia dell’essere posseduto da un altro concetto, il quale a sua volta fruirà di un essere analogo, e così via, l’essere di un esistente sarà un essere assoluto, cioè un essere che è tale di per sé; l’esistenza è la posizione assoluta di una cosa; per questo, l’esistenza non potrà mai porsi come predicato, ma solo come soggetto – il ragionamento condotto in chiave razionalistica è zoppicante; per brevità non mi soffermo su una considerazione evidente, cioè che se il pensiero usa sempre l’esistere come predicato, o questo è un suo errore oppure l’esistere in quanto predicato dovrà essere un concetto differente da quello di cui parla Kant -; c) l’esistenza è un modo di essere che si distingue da quell’altro modo di essere che è il pensiero; l’esistenza è un modo di essere assoluto, il pensiero è un modo di essere relativo. Successivamente si passa a trattare della possibilità: a) stabilita una distinzione tra un formale e un materiale dell’essere, distinzione che sorge dall’esame della situazione d’impossibilità in cui si danno dei pensati (il materiale) e un rapporto tra i pensati (il formale) l’inserzione del quale comporta che i due pensati, prima dotati di essere simultaneo, ora debbano venire, o l’uno o l’altro, privati dell’essere – ad es., triangolo quadrato -, la possibilità viene identificata con un formale ossia con un rapporto tra due pensati che, soddisfacendo alle esigenze del principio di contraddizione, lascia ai due pensati relazionati lo stesso essere di cui godevano anche da irrelati - possibilità di un triangolo connotato da un angolo retto, o possibilità logica -; b) se possibilità è, per ciò, accordo formale tra due pensati, non vi sarà pensato se non vi è esistenza; è dunque contraddittorio e quindi impossibile che si dia del possibile senza dell’esistente; ma il possibile si dà, quindi si dà l’esistente. Non mi pare opportuno proseguire nei particolari che sono tutte premesse per introdurre l’argomento dell’esistenza di Dio a contingentia mundi, perché la determinazione del concetto di possibilità, qual è pensato nella part. I, è già data: il possibile è equivalente di pensabile; la descrizione che qui si dà della possibilità è una specie cogenere della possibilità assunta in generale nel num. 4: abbiamo che fare con un modo della liceità; se infatti è vero che per la part. I il possibile è un rapporto di convenienza tra due pensati, ossia la condizione in cui due pensati si danno di continuare entrambi ad essere nel pensiero senza che l’uno elida l’altro anche dopo che si è stabilito un vincolo sintetico fra di essi, se cioè la possibilità si riduce alla pensabilità del vincolo tra A e B, è naturale che, instaurando il vincolo una sintesi tra A e B ed essendo tale sintesi una determinazione di A da parte di B o di B da parte di A, la possibilità si trasferisca dal rapporto alla sintesi e quindi dal rapporto al pensato in quanto sintetico, vale a dire in quanto nuovo concetto che si pone come un lecito per il pensiero, cioè come un pensato; il possibile del num. 4 è un lecito per le condizioni del conoscere in generale, il possibile della part. I è un lecito per le condizioni del pensare in generale; entrambi sono dei possibili, come congruenti in genere con una certa condizione in genere.
La sez. IV, per la verità, più che una definizione della possibilità è un uso di una certa connotazione della possibilità che solo in apparenza può essere ricondotta alle precedenti descrizioni, ma che in realtà si riempie di un certo contenuto che nelle precedenti determinazioni era soltanto implicito. Tutto il brano fa perno sulla famosa frase «cento talleri reali non ammontano a nulla di più di cento talleri possibili», frase che è il perno attorno a cui ruota l’argomentazione dell’impossibilità, e quindi dell’impensabilità (= inanità) di una prova ontologica dell’esistenza di Dio, frase in cui si dà l’opposizione tra reale e possibile equivalente alla distinzione fra esistente e possibile della part. I. Poiché che sia impossibile l’impensabilità della non esistenza di un essere assolutamente necessario – ossia la necessità del pensare esistente un essere assolutamente necessario -, si inferisce dalla contraddittorietà tra il concetto di essere assolutamente necessario e il concetto di non esistente – l’inferenza è lecita solo se soddisfa alle condizioni del principio di contraddizione che cioè sia dato il contenuto del concetto di essere assolutamente necessario -, e poiché la necessità dell’inerenza di un predicato, in questo caso l’esistenza, a un soggetto, in questo caso l’essere assolutamente necessario, è necessità che riguarda il pensiero, non già la realtà di cui il pensiero è immagine – tant’è vero che l’impossibilità dell’impensabilità della predicazione in un giudizio apodittico è reale se si toglie essere al predicato, non se si toglie essere al soggetto -, la necessità della predicazione di esistente riferita all’essere assolutamente necessario dimostra non l’esistenza dell’essere assolutamente necessario, ma la non contraddittorietà del giudizio; essa dimostrerebbe l’esistenza dell’essere assolutamente necessario solo nel caso che nascesse contraddizione non già dall’elisione del predicato, ma dall’elisione del soggetto; allora delle due l’una: a) o si afferma che si dà contraddizione se si elide il soggetto – ma allora si deve dimostrare che sarebbe contraddittorio non pensare il soggetto, cioè che il soggetto deve essere necessariamente pensato dal pensiero come concetto di un oggetto che il pensiero non può rifiutarsi di pensare; e la dimostrazione si regge solo se si commisura il giudizio «questo soggetto può non essere pensato» con le condizioni che stabiliscono in generale l’impensabilità di un concetto, condizioni che consistono nel fatto che al concetto non deve corrispondere mai un dato di esperienza; quando, ad esempio, entriamo in una caverna e d’improvviso ci troviamo dinanzi una scultura rappresentante un orso che datiamo con tutta certezza come appartenente alla età preistorica dell’uomo, noi pensiamo la caverna, il buio, il tremolar dei bagliori delle fiaccole sulle scabrosità della roccia, l’ombra dell’animale che si proietta sulla parete e l’animale stesso come riproduzione artificiale di un ente naturale; ma non pensiamo lo scopo della scultura se non mediante supposizioni che abbiamo piena consapevolezza esse pure opinioni pensabili e non pensabili, e quindi accettabili come soggetti di giudizio o rifiutabili come soggetti di giudizio a piacimento nostro, perché ad esse non corrisponderà mai più l’unico dato di esperienza che poteva darsi nell’esperienza ossia il pensiero e l’azione, connessa al pensiero, di quegli antichi nostri antenati -; b) oppure si inserisce nel soggetto la nota dell’esistenza, e quindi si dichiara impossibile l’elisione del soggetto come pensato, in quanto ogni esistente deve essere pensato. Poiché la prima dimostrazione non può essere fornita, provocando l’inserzione una petizione di principio, non si dà impossibile l’impensabilità della non esistenza di un essere assolutamente necessario; perciò la prova non è né un necessario né un possibile ma, come prova, un’impossibile. Tralasciando la successiva argomentazione circa l’analiticità o la sinteticità di un giudizio che abbia come predicato il concetto di esistente, conviene soffermarci sull’uso del concetto di possibile che nella dimostrazione è introdotto: possibile in quanto pensato viene distinto da reale in quanto intuito; poiché un pensato si dà quando si ottempera alla legge di contraddizione, possibile s’identifica ancora con pensabile; ma nella distinzione che è contrapposizione tra pensato e reale, il possibile acquista il significato di ciò che può essere nei confronti dell’intuizione, ossia di ciò che è e di ciò che non è rispetto a quell’unico modo di essere distinto dall’essere in quanto essere pensato, che è l’esperienza: possibile equivale ora a sperimentabile, ossia che è e non è oggetto di esperienza, ossia che è e non è esistente. Il valore problematico del possibile si pone come fondamento dell’argomentazione e può porsi perché già era implicito in quella distinzione tra esistente e possibile della part. I – il possibile è pensabile che si distingue dall’esistente in quanto l’esistente è un modo dell’essere che necessariamente assume le forme di quell’altro modo di essere che è il pensabile o pensato; questo invece è un modo d’essere del quale, assunto in sé, si emette il giudizio che assume e insieme non assume le forme del modo d’essere dell’esistente, che cioè può essere esistente -.
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