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II
IO E L’ALTRO
Anch’io sentivo in me qualche cosa, che non era del solito Marcello. Quel funerale fatto in casa mia, la mia stanza chiusa a chiave, quella buona gente, che per amor mio seguiva il feretro, tutto ciò mi faceva pensare, sto per dire, che le esequie fossero un pochino per me, molto più che in quel tragitto, attraverso la città fino al cimitero, io vestiva gli abiti del Lucini.
Il Manganelli e la signora Medaglia, usi a vedermi in un zimarrone tané, e sotto un cappello di feltro scolorito, restarono edificati, e me ne accorsi, quando passò loro dinnanzi un mantello alla brava, ripiegato sopra una spalla, col bavero di martora, e un cappelletto di panno verde a cono, con una piuma di fagiano nel cordone. Il Lucini vestiva artisticamente, da pari suo, mentre io, uscito allora di gabbia, quasi smarrito nel gran mare del mondo, col capo pieno di ferravecchi, m’era contentato per allora di abiti smessi dal babbo, sperando di poterne guadagnare dei nuovi.
La mia risoluzione di romperla colla vocazione e di chiudere le orecchie alla voce di Dio era spiaciuta ai miei di casa, gente di campagna, che, fattasi una certa fortuna, vedeva in me il decoro e l’avvenire della famiglia. Sicché tra me e i parenti durava un po’ di ruggine, superficiale fino che vi piace, ma che bastava per stuzzicare i miei puntigli e il desiderio di non costar nulla al babbo.
L’impiego era di là da venire, ma promesso e sicuro nell’ufficio del catasto; non si aspettava che la morte del capo ufficio (tutti dobbiamo morire), malato già da tre mesi d’un cancro allo stomaco, e dopo il primo segretario sarebbe montato al suo posto, e tutti gli altri, per un movimento d’orologio, un gradino più in su, finché l’ultima sedia restava calda calda per me. Intanto col tenere i registri d’un droghiere, mio compatriota venuto a Milano nel cinquantaquattro, uomo liberale, amico più del pepe che dei preti, m’ero ingegnato da me a pagarmi la pigione e il pranzo e perfino le lezioni di violino, che il Lucini, in via d’amicizia, mi dava due volte la settimana. La mamma, sempre mamma, di nascosto mandava qualche sommetta al droghiere, perché provvedesse alle mie necessità; il babbo, di nascosto anche lui, tratto tratto scriveva allo stesso signor Leonardo, perché, se io venissi in bisogno, non mi lasciasse morire, e siccome non conveniva che io mi accorgessi di queste elemosine pietose, non me ne accorsi; però seguitai a vivere per due mesi in [81] quel bugigattolo, ravvolto nel mio zimarrone tané, soffiandomi il naso in fazzoletti di cotone turchino, che per vecchia abitudine non rifiniva mai di piegare, finché ridotti alla forma d’un cetriolo, sparivano in un abisso delle falde. Il mio carattere era greve, un po’ per natura, un po’ per le raddrizzature patite; ingenuo e nello stesso tempo sospettoso della società, non più fondata, ahimè! sopra i principii inconcussi della religione e della verità.
M’incontrai nel Lucini alla trattoria, dove si desinava assieme. Si scambiaron quattro parole, seppi che era professore di violino, che suonava quell’inverno al teatro Carcano, che era forestiero (credo napoletano), gli prestai qualche servigio di poco valore per me, e prezioso per lui straniero e nuovo della città, gli parvi un buon diavolaccio e così si strinse un po’ d’amicizia. Visto che i soccorsi segreti non venivano meno, di punto in bianco mi saltò il gricciolo di studiare il violino, per rompere la monotonia di quei giorni di aspettazione.
Detto fatto, dopo un mese e mezzo aveva stordito persino il signor Placido, che vedendomi passare mi lanciava di là dei vetri un’occhiata che pareva dire: Friggerlo il maledetto!
Una sera, verso le dieci, sento bussare al mio uscio; accorro e vedo il Lucini pallido, esterrefatto, cogli abiti in strapazzo, il quale, premendosi le ossa del petto con ambe le mani, si avanzò come sfiaccolato, balbettò alcune parole di scusa, e andò a cadere sfinito sul mio letto.
Si può imaginare la mia sorpresa.
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