Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Due anime in un corpo

PARTE PRIMA

VIII UNA DONNA FRA LE CARTE

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VIII


UNA DONNA FRA LE CARTE

 

Oltre ad alcune memorie aveva trovato dieci o dodici lettere di Marina, scritte da Venezia, per le quali mi fu possibile, aiutandomi con la filosofia studiata in seminario, di radunare i frammenti di quella storia, che conoscevo soltanto a spizzico.

Giorgio Linucci, che per prudenza aveva finto a Milano il nome di Lucini, da Napoli era giunto a Venezia sul principio dell’estate, per prender parte a una rappresentazione straordinaria, durante la stagione dei bagni. Aveva tolta a pigione una camera in casa d’un vecchio solitario, il quale viveva, a quel che pare, di una scarsa pensione, che il marito di sua figlia gli pagava di volta in volta. Costui era un ricco banchiere o industriale, e non risulta troppo chiaro dalle lettere, ma è certo che per età e per indole non rispondeva né alla giovinezza, né alla bellezza, né all’educazione fina della fanciulla. Si parla infatti qua e e in modo assai confuso d’una gran colpa, commessa dal vecchio solitario, per la quale Marina scontava una pena inesorabile senza troppo maledire e senza rassegnazione.

Ella scrive in un punto d’una lettera:

 

«Appena mio padre mi confessò l’abisso in cui era caduto per la sua sregolatezza, io mi vidi perduta: si trattava non solo della sua vita, ma dell’onor mio e di quello di tutta la nostra famiglia. Un uomo solo, costui, poteva salvarlo tacendo e io lo pregai, come potete pensare, con tutto quel fervore, che si prega Dio nei momenti supremi. Ebbe pietà di me: gli parvi buona, gentile, forse bella. Disse che egli era disposto a tacere, a distruggere le prove della colpa, non solo, ma voleva farmi regina di quel suo palazzo, già abitato da una famiglia di dogi. Così divenni sua moglie».

 

Questo gran segreto raggirato, rasentato da molte parole si supponeva però noto abbastanza a chi legge e il Lucini poteva averlo udito da Marina. Era un delitto che ella, innocente, espiava? era un raggiro di cui il lugubre personaggio, che si rannicchia in un palazzo di dogi, raccoglieva il premio? Il campo delle supposizioni è tanto fertile che ogni erba vi mette radice, talché riunendo questi [106] antecedenti al modo della del povero Lucini, non oso dire così subito quel che ne pensassi.

Marina, visitando suo padre in quella povera casa, dove la grettezza di suo marito l’aveva ridotto, vi conobbe il Linucci, arrivato di fresco e che dopo due o tre giorni godeva già la simpatia del vecchio solitario. Nessuno più di lui conosceva l’arte di piacere alla prima e quando ripenso alla facilità colla quale anch’io, per natura difficile e sospettoso, fui preso alle sue maniere, non mi meraviglio che la donna cominciasse subito e per la prima a temerlo. Parlando col Lucini (seguito a chiamarlo così) ognuno s’accorgeva d’essere da meno, non per dottrina, ma per una certa sapienza e misura della vita, per una conoscenza speciale degli uomini e delle cose, ingentilita dall’arte, che anche i più dotti devono, se vogliono, impararla coi libri chiusi. Può darsi che le note del suo violino, giungendo dalla camera vicina, mentre la figliuola sedeva presso suo padre, scendessero, come per incanto, a carezzarle il cuore, che già da due anni lusingavasi d’essere morto.

 

«In casa di mio padre io potevo piangere senza che le mie lagrime fossero contate. Abbandonai tutte le amiche, perché non conveniva ch’io mi esponessi al pericolo d’invidiarle. Dicevano che delusa in una grande speranza, aveva accettata la prima occasione; altre si ricordavano non so quali inclinazioni ambiziose, non so quale mia tendenza al fasto e alla ricchezza fin dalla infanzia, e tutte mi giudicavano un po’ severamente. Poiché la vera cagione del mio sacrificio, che voi sapete, doveva restare nascosta per sempre, favorivo con gaia spensieratezza questi giudizi, che mi facevano torto».

 

Qui si comprende meglio il cuore del Lucini e lo scopo, cui era destinato quel poco della sua eredità.

 

«Voi siete buono, Giorgio, e volete venire in soccorso di mio padre con que’ risparmi, che bastano a stento per voi. Mi parlate di rendergli la sua indipendenza, perché dalla sua sorte dipende in gran parte la mia; ma l’abisso che intendete ricolmare non ha fondo. Una maggiore agiatezza gli sarebbe oggidì più funesta, perché, dopo tanti dolori, egli è divenuto intemperante nell’uso del denaro».

 

Verso la fine di novembre scriveva:

 

[107] «Volete ch’io vi narri come a un fratello quanto soffro giorno per giorno, perché dite che per guarire i propri dolori, bisogna parlarne. È vero, quando si discorre molto di sé, sembra che i nostri mali appartengano ad altri. Io non posso dir male di mio marito. È gentile, attento, ossequioso verso di me, e vuole ch’io sia padrona della sua volontà. Di nascosto mi sorveglia, ma vivo tanto sola che la sua sorveglianza è alla fine contemplazione di me. Mio marito ha momenti di estasi, nei quali gli sembro troppo austera ed avara. Ieri mi ha regalato un altro braccialetto d’oro, ed è peccato che sia simbolo di schiavitù, perché è di lavoro finissimo. Sebbene per vecchia abitudine egli fumi tabacco turco ed abbia lo studio tappezzato di pipe, innanzi a me è rispettoso fino allo scrupolo. Ama i costumi inglesi, e quel fazzoletto giallo che si cinge al collo, voi lo sapete, l’ha preso di . Mi chiede il permesso di starsene vestito da camera, in babbuccie, specialmente nei giorni piovosi. È innamorato di me e nel presente amore rinascono nel suo cuore i rimorsi, d’una vita sciupata in altri tempi e pensa riparare molte offese e molti debiti verso il prossimo. Se questo bene gli viene da me, perché non ne ringrazio Dio?

«Giorgio, lasciatemi sempre un angolo asciutto ove io possa ritirare i piedi, mentre la marea delle passioni, che voi chiamate azzurre, cresce e infuria intorno a me».

 

Quali fossero i veri rapporti fra Marina e il Lucini vediamolo dai seguenti periodi, dai quali ognuno, secondo la sua naturale inclinazione, potrà dedurre un giudizio, se pur è necessario che tutti gli atti umani siano giudicati. Per me è già troppa l’indiscrezione di mettere mano a queste carte.

 

«Egli non si è accorto di voi. Anche adesso rendo visita a mio padre due volte la settimana, e quando è malato, di più, Anzela, che ha della compassione, mi le vostre lettere, di nascosto anche di mio padre, che non saprebbe giudicare giustamente di noi. Le leggo segretamente e le rinchiudo nel vecchio scrigno massiccio presso la finestra,

«Il babbo non può rinunciare al rhum, sebbene io lo sgridi e lo derubi, ma egli cerca alla bottiglia un calore fatuo di vita, o una pietosa smemorataggine. Senza di lui che valore avrebbe il mio sacrificio? se domani, lui morto, io non rispettassi la legge?

«Ieri quel che voi chiamate il Sultano mi domandò qualche [108] notizia sul vostro conto; era una curiosità su ciò che avete pagato a mio padre per la pigione dei sei mesi passati. Mio marito è scrupoloso nei suoi conti e sta forse pensando di risparmiare qualche cosa sulla pensione. Ma il vostro nome in bocca del Sultano, aveva un suonofastidioso, che finsi raccomodare il fuoco sul camino, per nascondere un certo brivido.

 

«È vero. Ciascuno considera sé stesso più con gli occhi altrui che coi propri. Io vado chiedendo a me quel che direbbero gli altri, se fossero a parte di quel che sto scrivendo. Eppure il vostro amore, Giorgio, non offende. Dopo i vostri consigli e i vostri rimproveri io mi sento più generosa, o almeno non tanto superba. Non è vero che senza la vostra pietà io sarei più perversa? Non trovate anche voi nel fondo della ragione, laddove essa è più semplice e pura, una giustificazione per me? Non dico per voi, filosofo placido e chiaro, che contemplate la vita da lontano, ove gli uomini si vedono piccini. Ma io sento tutto ciò che voi vedete soltanto.

 

«Se il mio sacrificio restasse a mezzo, nessuno me ne sarebbe grato, n’è vero? Nulla sarebbe quel che ho sofferto fin qui. Pensate dunque all’avvenire e non fate progetti; quel che ho sofferto vale qualche cosa, e sento che voi non potreste pagarmi del tutto.

 

«Qui regna il giallo, ma il vostro azzurro ha delle brutte tempeste.

 

«Perchè mi avete chiamata odalisca? Ho pianto tutta una notte.

 

«Intendetela. È soltanto in virtù di questa vostra amorosa compassione ch’io potrò soffrire fino alla morte.

«Ho studiate le romanze che mi avete lasciate e vado ripetendole tutti i giorni, quando sono sola. Una specialmente, intitolata Il flutto, ha la virtù di farmi pensare per ore ed ore, come se quell’onda sonora venisse veramente da lontano. Perché non vi avete stampato il vostro nome? Perché siete modesto, fino ad essere nulla?

 

[109] «Egli ha fatte grosse perdite, non so in quale speculazione e pare che per riparare in parte questi danni voglia partire per Napoli. Io non mi spavento delle sue sfortune, perché sarei contenta che vendesse qualcuno de’ miei braccialetti. Mi sorprende ch’egli parta solo e che si mostri oltremodo preoccupato, come non fece mai per danni peggiori.

 

«Ha voluto fare una visita a mio padre, caso insolito. S’interessò d’ogni cosa e specialmente dello scrigno antico, che gli parve una cosa preziosa. Lo chiese a mio padre, che n’è il padrone. Ho paura di dovervi abbruciare, Giorgio.

 

«Ha dimenticato per fortuna anche lo scrigno, ma è risoluto di partire per dieci o dodici giorni. Che vuol dir ciò? Sono agitata e paurosa, senza capirne il perché. La fiducia che d’improvviso mi professa è umiliante, lo confesso, per una donna che non la merita. Dico troppo? Via, quand’è che riconosco il beneficio ricevuto? S’egli non vivesse di me, io sarei obbligata a benedire il suo nome.

 

«No. La vostra venuta è un pericolo e potrebbe essere un delitto.

 

«Anzela è malata da sei giorni e ha lasciato mio padre. Fermate per ora le vostre lettere alla posta, col solito indirizzo di Anzela. Egli è partito. Posso condurre più liberamente mio padre a palazzo e il poveruomo trova tutto bello, tutto fantastico; non vi può essere altra felicità per lui, oltre le cornici dorate di questi specchi; è il sogno e il peccato di sua vita. Per lui l’agiatezza fu sempre più cara della vita stessa, e ora che la fortuna l’ha castigato, si compiace di crearsi un mondo coi fumi dell’ebbrezza. I nostri pensieri non s’incontrano più, povero padre!».

 

Nell’ultima lettera che aveva la data di gennaio, Marina si lamentava che il Lucini fosse divenuto troppo pigro a scrivere e accennava a consigli dati poco prima nell’altra lettera, che forse era sparita col portafogli.

[110]

 

 

 


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