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I
Il cuore ha i suoi abissi come il ghiaccio, e chi li esplora è più temerario che forte. Devo narrare una storia di colore oscuro, attraversare una regione di tenebre, dove ciò che appare non è luce, ma pallore.
Il Sultano dopo una vita non vissuta, dopo aver tradito e abbandonato una donna e un bambino, senza rimorsi, aveva lasciato Napoli. Qualcuno lo incontrò al Cairo, ricchissimo: negoziava pel Viceré non in tabacco o in statue, ma in un altro genere più prezioso di consumazione. Due sentimenti gli erano rimasti, il gusto della bellezza e dell’oro: tutti gli altri erano stati sfrondati e potati, come fa l’ortolano che vuole pochi frutti grossi e meravigliosi. Conosco degli uomini che semplificano la loro vita a un gusto solo: alcuni sono ventre, altri scrigno, altri tutta lingua. Il nostro Sultano vedeva almeno con due occhi, uno azzurro e l’altro d’oro.
Tornò in Italia dopo dieci anni, ricchissimo, calvo, tondo, senza più un briciolo di cuore, e girandolando di città in città per [146] scappare di bocca allo sbadiglio venne finalmente a Venezia e vi si stabilì.
La sua conversazione era piacevole, specialmente se fatta a voce bassa in un angolo d’un caffè. Chi ha viaggiato ha questo vantaggio, che può dilatare la fantasia sopra lo spazio, invece di accartocciarla come una pillola in un vaso: perciò sebbene la voce del Sultano fosse rauca e come impastata all’ugola, il gesto corto e la parola comune, pure la nativa eloquenza e la buona fede degli ascoltatori lo rendevano il pernio del caffè, dove convenivano, come i raggi d’una ruota, negozianti, agenti di cambio, studenti al verde, gente zoppa negli affari, cantanti e fioraie.
Il Sultano aveva una parola per tutti, ma sempre nel proprio interesse. Fumava in una pipa di porcellana e i baffi di fumo, uscendo a globuli densi, davano l’imagine di pensieri convolti, che evaporassero da un cervello malsano. A volte sulla fronte grossa e nuda precipitava un vero nembo di rughe, come onde che si susseguono. Il labbro anch’esso cessava dal succiare la pipa, e la bocca grande, sgangherandosi un poco per la distrazione della mente, mostrava pochi denti gialli che nuotavano in un mare di saliva e di fumo. Visto sotto questo punto era brutto, ma a un tratto poteva darsi che egli rompesse in una risata grassa, per non so quale accidente, e allora le rughe scappavano, salendo la loro scala fin dietro la nuca, ove addensavasi un po’ di ciccia, gli venivano gli occhi del rospo, e l’ilarità saltellava visibilmente nel suo ventre.
In uno di questi istanti allegri, Marina passò sotto i portici del caffè, a braccio di suo padre; questi salutò il Sultano, che conosceva alquanto. Andarono oltre, ma li seguiva uno sguardo fra colonna e colonna; la testa del Sultano, colla pelle tesa e colle orecchie aperte pareva che s’ingrossasse.
Egli veniva dal Cairo e aveva vedute molte bellezze circasse e greche; di molte avrebbe potuto dare la misura in centimetri, ma nessuna gli era sembrata così bella, come la figliuola del ragioniere G. P. Fosse l’aria del suo paese, la buona compagnia, o la sicurezza della vita, gli parve che il cuore ritornasse a pulseggiare, e il sangue rifluisse in su e in giù con un movimento più rapido, e si guardò l’unghie, che avevano un riflesso d’aurora.
Il vecchio credette di amare quella fanciulla, e misurò l’amore immenso dall’immenso turbamento del suo corpo grosso: il vecchio Sultano era incapace di amore, spesso delirava. Marina era una fanciulla onesta. Ma il ragioniere da molti anni insanguinavasi la vita per comparire più che non fosse. Oriundo da una nobile e antica famiglia veneziana decaduta, avrebbe voluto volare con ali di stecco. Il Sultano sapeva leggere per lunga esperienza i geroglifici dei [147] caratteri umani e in quello sguardo, col quale seguì i due passeggeri, si sarebbe potuto scrivere, come nelle fascie dei quadri antichi: Io prenderò il pesce con un amo d’oro.
Trovò molte difficoltà, perché si accorse ben presto che Marina era al di sopra d’ogni seduzione; ma l’ostacolo affila il desiderio, e più sommergi il sughero nell’acqua e con più forza rimbalza. Chiedere apertamente la mano della fanciulla, sperando di abbagliarla coi diamanti del Viceré d’Egitto, non gli parve sicuro: e qualche parola fatta arrivare di qua e di là all’orecchio di Marina, aveva ridestata la sua più schietta festività, dico propriamente quella scherzosa allegria, che versa un secchio d’acqua sui carboni. Il Sultano invece sentì più che mai il bisogno di spuntarla; aveva sete e non gli importava bere aceto. Fra i suoi amici che venivano di passaggio a trovarlo v’era un tunisino, d’origine francese, uomo d’ogni mestiere, che parlava ogni lingua e ogni dialetto e che sapeva facilmente essere l’amico di tutti. Costui ebbe occasione di trovarsi col padre di Marina, vecchio fanciullo, a cui l’età aveva imbiancato il pelo, non disseccata l’immaginazione. A sessant’anni o quasi, G. P. sognava le reggie vedute da fanciullo al teatrino: sua figlia vestita di raso con una corona di brillanti era immobile fantasma, che sedeva con lui a tavola, e fermavasi la notte a’ piedi del suo letto.
Il tunisino narrò i casi autentici di molte bellezze fortunate: qualcuna (e l’aveva conosciuta a Parigi o a Vienna o in California), si era addormentata sulla paglia, e svegliandosi si era trovata in un letto di penne di struzzo. La moglie del segretario del primo ministro olandese portava i guanti per nascondere le rughe del suo mestiere: prima faceva la zoccolaia.
Il vecchio, udendo queste istorie, amava a poco a poco monsieur Talbot, e gli confidava i progetti, le speranze, le probabilità, che Talbot sapeva collocare secondo un mosaico già delineato. Quando fu sicuro delle disposizioni e della vanità senile di G. P., espose un progetto ardito. Egli aveva già in pronto molte centinaia di biglietti falsi, a cui non mancava che una firma: bisognava una mano sicura, valente, ignota. Era il fastidio di due giorni e un guadagno non limitato. Egli avrebbe saputo spenderli all’estero e sperperare tutte le traccie: in una notte G. P. poteva essere uomo ricco, dare una corona di diamanti a sua figlia, cercarle un principe russo, edificare una reggia. Aveva sessant’anni, e viveva ancora meschinamente: il panettiere minacciava tratto tratto di togliere il boccone a que’ due labbri di corallo, che con un bacio avrebbero comperato un trono. Il padre fu assorbito dalla tentazione e Marina poteva avere una dote di centomila lire in carta. Un giorno il Sultano presentavasi [148] alla porta di G. P. e ritiratosi con lui in uno studio segreto, gli disse: – Monsieur Talbot mi ha pagato un vecchio debito in biglietti da cinquecento lire: tre erano falsi, eccoli qui.
Il vecchio trasalì. In quel mentre Marina, vestita d’un abito bianco, entrava a portargli il caffè e fece all’illustre visitatore un sorriso abbastanza gentile. Erano tre persone convenute in un solo destino; stava per incominciare una vita a tre, numero fatale.
Il Sultano sorbillò quell’istante, come si succia la midolla saporita d’un osso, e quando espose i pericoli e le minaccie, vide la fronte del vecchio padre chinarsi e sparire sotto un ciuffo di capelli incanutiti. Ciascuno di questi tre viventi era necessario all’altro come i tre piedi d’uno sgabello, e il matrimonio sollecitato da Marina con una vivacità inattesa, la devozione onde fu accolta in un palazzo dogale, le gemme, il fasto, il chiasso delle feste per un poco incipriarono il sacrificio. Nel primo sbalordimento sorse in ciascuna di queste tre persone un’esistenza provvisoria, durante la quale il vecchio si illuse di non aver fatto il più gran male e Marina credette adagiarsi in una beata accidia e il Sultano sentì tornare quel senso caldo di vita, perduto a sedici anni.
Non era più capriccio in lui, ma quasi amore. Lo scheletro trovava la carne e nell’amore rinacquero i rimorsi d’una vita vagabonda e dei peccati sepolti. L’amore dà la gelosia come il buon vino l’aceto forte: il giorno che il nome di Linucci suonò disarmonico al suo orecchio, e che scoprì una segreta corrispondenza fra sua moglie e il giovane pallido, pensò se non era bene ucciderlo.
Il Sultano nell’ira e nell’odio non si scapigliava: l’offesa gli entrava tra pelle e pelle, gli scorreva nel sangue, lo avvelenava a poco a poco, finché anche la vista ottenebravasi, le cose si annerivano, e un acre sapore amareggiava il suo palato. Dentro a questo buio la pupilla bieca vedeva però quel che era a farsi e così decretò di uccidere il Linucci.
Aspettò ch’egli lasciasse Venezia, per allontanare l’orme del delitto, e seguito dal Marzani e da un altro farabutto, venne a Milano, fiutando la vittima. Questi tre uomini che portavano la morte avrebbero saputo dire che cosa ella sia?
Il Marzani, prima di lasciare la buona moglie, l’aveva picchiata sì forte, col pretesto di amarla troppo, che la mandò per quasi morta all’ospedale; ella morì di spavento e la terra coprì la sua ciarla.
Giunsero a Milano sul far della sera e il Sultano, che aveva chiaro il suo progetto in mente, segnò il colpevole ai bricconi, una notte che questi usciva dal teatro. Per una volta non se ne fece nulla, ma il giorno appresso, essendo riposo a teatro, i segugi seguirono la preda [149] e la strinsero in mezzo. Il Marzani prese una grossa somma e il treno per Genova, l’altro dileguò come una rana che salti nel fango.
Il Sultano restò solo col suo delitto sulla coscienza: non avrebbe mai creduto che pesasse tanto un uomo morto, e che fosse più irto di spigoli il non essere che l’essere. Per fortuna egli aveva avviato anche un po’ di bene, e cercò di nascondere la macchia di sangue con un ricamo d’oro.
Dissi che coll’amore erano tornati i rimorsi dei peccati sepolti. Infatti nella breve illusione d’una vita buona, domestica, il vecchio si accorse che in lui v’era anche il padre, e per ringraziare la fortuna, aveva pensato di cercare di suo figlio a Napoli. Non vi aveva lasciata una donna e un bambino? Scrisse a un amico perché se ne occupasse, ma la risposta tardò a tempo. In apparenza tranquillo, una sera il Sultano leggeva un ampio foglio francese nel gabinetto dell’Hôtel de la Ville. Gli erano vicini due inglesi, uno mezzo principe, una baronessa, e un cameriere che a volte prendeva i lineamenti del Linucci, anche lui giovane e scarno, con un bel bosco di capelli.
Fu una lettura difficile: la Camera francese era in disaccordo, ma non si grida tanto nell’assemblea di Versailles come nella coscienza d’un omicida. Egli fissava le parole, le quali prendevano il capriccio di ballare, di sgangherarsi, di allargarsi, di gonfiarsi fino alle proporzioni di mostri umani.
In quel mentre il cameriere gli portò una lettera sopra un bacile d’argento,
– Che devo farne? – domandò, vedendo sul bacile un fazzoletto macchiato di sangue, ma sorrise, ravvedendosi, e aprì quella lettera che portava molti sigilli di ceralacca.
Gliela mandava Marina, che l’aveva alla sua volta ricevuta da Napoli. Sentì allargarsi il cuore riconoscendo la firma dell’amico, e leggendo le prime parole: «Sei fortunato, tuo figlio vive». Nessuno saprebbe descrivere il gaudio che scintillò nell’anima tenebrosa del Sultano, il quale sentiva il bisogno di riempire una lacuna. Da ventiquattro ore – tante erano decorse dal colpo – gli sembrava che il mondo avesse perduto l’equilibrio e il sentimento di paternità si trasformava quasi in un desiderio di peso. Vive! chi ha creato un uomo – pensava – ha meno colpa se ne distrugge un altro, perché l’ordine non si turba.
Non gli dispiacque nemmeno che questa gioia gli venisse in certo qual modo da Marina; ma chi regge i fili dei nostri destini doveva sogghignare di lui dall’alto della sua specola.
[150] «Tuo figlio vive. Dopo una vita errabonda, condotto a Parigi da certi bricconi di qui, venne per fortuna a cadere nelle mani di un tal Linucci, maestro di musica, che lo fece studiare sotto il suo nome e a sue spese nel conservatorio di Napoli. Ora viaggia, e vive onestamente de’ suoi guadagni. Ma non saprei indicarti ove al presente egli si trovi».
Così la lettera.
Sotto il pavimento a mosaico di quella sala rullava qualche cosa che incuteva spavento: il Sultano guardò a destra e a sinistra e vide quattro faccie che gli ridevano scioccamente sul muso, e la vista gli faceva sangue.
«Non saprei indicarti ove al presente si trovi».
– Se fosse sotterra? – disse la coscienza.
Trasudava, ma sempre cogli occhi fissi a quella lettera: cercò una migliore soluzione sul giornale francese, ma il signor Gambetta non restava dal gridargli: Oui, oui, toi, toi, e lo indicava con un dito acuto e tagliente come un fioretto. Provò a muovere i piedi, ma nelle scarpe erano colate dieci libbre di piombo, che si congelava.
Il Sultano sapeva formarsi l’idea d’ogni più orribile delitto; ma smarriva i colori del suo delitto. Sarebbe stata una pena atroce, indegna dell’umanità, il costringerlo a darsi un nome in quel momento. Fra le parole del vocabolario – e intanto adocchiava un grosso vocabolario posto in uno stipo – in tutte le migliaia di parole di quei vocabolari stranieri (ve n’erano schierati parecchi) non una bastava per lui. Dio stesso non l’avrebbe chiamato: egli era un uomo senza nome.
Orrore! I pochi capelli del capo sentivano il raccapriccio dell’anima, e si agitavano come serpi assiderate che si svegliano: egli aveva forse ucciso suo figlio.
Restava un forse e vi si attaccò: poteva esservi uno scambio di nomi, e il parricida forse non era che un assassino. Vedete com’è larga la scala del bene e del male! Io non posso innanzi a quest’uomo far a meno di pensare ai rimorsi della monacella, quando si adira un poco col suo stornello. Vi penso e meraviglio come innanzi al sistema degli astri. Mi pare che il mio pensiero, poggiando a questi estremi e coprendo tutto lo spazio di sotto, acquisti la curva e l’immensità del cielo.
Il Sultano si aggrappò a quel forse e poté levarsi dalla poltrona. Si chiuse nella sua camera, quella particella dubitativa fu un palmo [151] di terra nell’oceano; egli vi si piantò con un piede. Senza velare palpebra stette immoto nella contemplazione di quel forse tutta la notte, sperando che il sole non spuntasse più sulla terra. È probabile, grazie a Dio! questa condizione della probabilità è il compenso della vita: un fatto certo è una durezza che ci arresta, il dubbio è il flutto che ci spinge innanzi. Molta gente vive rosicchiando un forse, molta gente muore per troppa certezza. Il punto d’interrogazione è la molla della vita: il punto fermo il chiodo.
Il giorno appresso il Sultano partiva per Napoli, non osando cominciare le sue ricerche da vicino, per non venire troppo presto al risultato. Lo scopo del suo viaggio era di scoprire se il vivo coincideva col morto. Trovò la Giuditta pescivendola, amica della donna tradita, e seppe che Linucci viveva, anzi le aveva scritto mandandole denari per una corona di fiori da mettere sopra la croce di sua madre. Egli abitava a Milano sotto il nome di Lucini, in una casa sul Corso, benissimo indicata nella lettera. Il Sultano non trasalì; l’irritazione dei nervi era caduta: era inzuppato e floscio. Tornò a Milano spinto da un barlume di volontà, ma pesante come una mole. Non era più speranza che lo tirasse, ma curiosità.
– Abitava qui Giorgio Lucini? –- domandò alla portinaia dalla casa sul Corso.
– Sissignore, è uscito un’ora fa, e non può tardare.
– Dico Giorgio Lucini – ripeté il Sultano, il quale non voleva che i morti tornassero.
– Appunto, il professore di violino...
– È uscito?
– Sì, conosco il suo cappelletto verde.
Anche il Sultano conosceva questo cappelletto e sorrise.
– E tornerà?
– Diavolo...
– Allora lo aspetto sulla scala.
Montò alcuni gradini tirandosi su con le braccia. Poteva essere vero che suo figlio vivesse? non gli aveva il Marzani rubato un portafoglio col ritratto di Marina? non aveva egli stesso, nascosto sotto una porta, udito i colpi maledetti? non aveva traveduto nell’ombra un corpo disteso ginocchioni a brancicare, a boccheggiare contro il muro? Come mai la portinaia l’aveva veduto sano e fresco uscire quella stessa mattina? Che Linucci avesse uno stomaco di bronzo? perché no? Dio è grande e misericordioso. Se egli poteva rivedere suo figlio, era uomo da rinunciare a Marina, da ritirarsi in una solitudine, da spendere tutto il suo denaro in opere buone. Se c’è [152] Dio – borbottò – avrà provveduto perché il mio delitto non sia possibile sulla terra.
Aspettò un’ora. Forse molta gente gli passò innanzi, ma egli non vide nessuno: non avrebbe sentito i carboni accesi sotto le piante, e tutta la vita radunavasi nel cranio: il resto non era che involucro. Finalmente un passo suona per la scala e il Sultano che vegliava sul pianerottolo in alto guarda giù e vede... potenza divina! un mantello col bavero di pelo, e un cappelletto verde che monta, monta verso di lui.
Il sangue, che s’era raggrumato in alto, precipita caldo per tutte le vene, gli pare d’essere raggiante, sta per gettare un grido, per precipitarsi incontro. Corre innanzi all’uscio per tardare mezzo minuto ancora la estrema certezza: mancano tre gradini; egli canterella... svolta.
Non è lui! non è il suo volto pallido, non sono i suoi capelli abbondanti, non il suo sguardo. Ebbe paura di essere scoperto e richiamò sul volto la maschera del cinismo. Aveva già troppo sofferto per suo figlio e bisognava pensare al modo di salvare la pelle.
Udito da Marcello il racconto esatto della morte di Giorgio, gli lasciò una matassa aggrovigliata fra le mani e tornò rapidamente a Venezia per non perdere Marina. Bisognava fuggire senza por tempo in mezzo, e trascinarsela dietro. Finita la strage incominciava il bottino. Nessun uomo – se lo sentiva – era più abbietto di lui: forse era invecchiato di dieci anni, e fra le rughe e le allumacature delle pomate doveva scaturire un ceffo da gorilla: che importa! Marina era sua, e l’avrebbe seguito, perché colpevole più di suo padre.
Giunse a Venezia a mezzanotte in punto. Scese in una gondola tutto solo e disse al gondoliero di condurlo a casa: il nome del palazzo fece inchinare quel dabben uomo, che silenzioso, ritto in piedi sulla prora della gondola nera come una bara, entrò negli stretti canali, sepolti fra due muraglie di case, che si facevano sempre più vicine, più cupe, più fantastiche. Non splendevano stelle, né lumi alle finestre; il fiotto dell’acqua morta e livida schiamazzava contro la base delle muraglie screpolate, e spiravano buffi di tanfo e di nidore dai vicini nascondigli.
Approdò a una scalea: suonò un campanello e al servo che aprì un finestrino rispose: – Son io! – Quella voce nel mezzo della notte e in tanto deserto aveva un non so che di meraviglioso. Anche il Sultano in quel minuto d’aspettazione, girando lo sguardo intorno, provò come un sentimento di potenza, che gli veniva forse dai maligni spiriti.
– La signora... – disse al servo.
[153] – Dorme: non l’aspettava.
– Nel mio studio. – Il servo andò innanzi, salì tre o quattro scale, e alzò la portiera del ricchissimo gabinetto. Aspettava gli ordini, ma un gesto spiccio lo licenziò.
Egli attese che nella casa fosse tornato il silenzio e si mosse verso una poltrona. In faccia all’uscio per cui era entrato, si andava per un altro in un salottino, e di là nella camera nuziale. Il Sultano fissò gli occhi da quella parte.
Si avvicinò alla porta, la tentò, ma lo scricchiolìo che diede gli fece battere violentemente i polsi: pure aprì, e passò nel salottino buio e deserto. Ma le tenebre erano dense, e ricacciò la testa nel suo salotto per bevere la luce. La frangia della tenda gli rasentò l’orecchio ed egli vi portò le mani come si fa contro un ragno. Tornò di qua:, prese il lume e stette immobile, a guisa di sostegno, nel mezzo della stanza; si vide nello specchio e soffiò sulla candela. Credette di aver sulle spalle un teschio da morto.
La solitudine lo affogava: cercò, tastando, l’uscio del salottino, e poi quell’altro della camera da letto, con la pressa di chi è inseguito, e s’arrestò innanzi a un bagliore improvviso.
Marina vegliava al lume d’una grande lucerna a globo, e leggeva un po’ sollevata sul guanciale, con un braccio al di sopra della testa.
– Siete proprio voi? – disse la signora, che di solito sentiva l’avvicinarsi di suo marito come l’indiano la presenza del crotalo appiattato.
– Non ero aspettato? – Egli posò le mani sulla sponda del letto e vi si tenne.
– Di giorno in giorno, ma non a quest’ora.
– Marina!
L’occhio cristallino del Sultano si fissò. Stette alquanto con la bocca aperta a un mezzo sorriso, inteso a trovare le parole; ma i suoi pensieri erano come i tipi di una pagina stampata, buttati e scossi in un sacco. Marina, che nei momenti di maggior dispetto usava l’artificio di ridere, diede o meglio squillò in una risata schietta. Nella sua voce v’era proprio un filo d’argento. Abbandonò del tutto la testa sui guanciali e deposto il libro fece alla testa una cornice quasi tonda con le braccia. Il Sultano la vedeva in mezzo al bianco dei pizzi e dei lini e non poté trattenersi da dire a se stesso: È mia.
Questa parola lo pagava tutto. Che gli importava se il cuore della donna fosse ancora altrove, purché non cessasse di battere? Non era uomo troppo vigoroso, ma pigliava le cose a fascio, schiumava la vita. Marina pareva proprio immersa nella spuma, come la bella dea [154] del mare; che non vi si potesse affogare qualche rimorso?
– Cos’avete dunque? – ripeté Marina.
– V’è un gran pericolo per vostro padre – prese a dire il traditore – ed è necessario che domani mattina si parta da Venezia.
– Per mio padre? Spiegatevi.
– A Genova è stato arrestato monsieur Talbot.
– Sì, per nuove falsificazioni.
– Mio Dio!
– E l’autorità avrebbe la volontà di scendere più a fondo.
– Mio Dio! – ripeté la bella donna, mettendosi alquanto a sedere, retta da un gomito e con una mano intrecciata alcun poco nei capelli. Il Sultano vide disegnarsi sulla parete un’ombra colossale, che poteva essere un sogno di Michelangelo. La notizia data così nuda e cruda parve possibile, ed egli poteva fregarsi le mani dentro di sé.
– Mio padre per fortuna è qui: da due giorni si sente tanto indisposto che l’ho trattenuto in palazzo.
– Tanto meglio.
– Che possiamo fare per lui?
– Due cose: o farlo fuggire solo, e voi, imagino, non lo permetterete; o partire insieme.
– Certamente molto lontano e subito. Non bisogna aspettare il grosso della procella.
– Partire? forse per sempre...
Nel modo che Marina pronunciò queste parole il Sultano, avendo la chiave del segreto, capì ove ella mirasse. Era lasciar per sempre il Lucini, e sulle prime il buon marito ebbe un impeto di rabbia. Ma poi pensò meglio a questo Lucini, si ricordò chi fosse, dove fosse, e la voce lamentevole di Marina fu un picchio al cuore.
– Partire! mio Dio, com’è possibile? – e si coprì la faccia colle mani: poi, sentendo di non poter ricacciar le lagrime, scosse la testa come per rifiutarle e singhiozzando cadde col volto nascosto fra le coltri e le braccia.
Il rimorso diede ancora un rantolo nel cuore del Sultano: ogni singhiozzo, che usciva a intervalli, forte, straziante, gli ricordò i colpi assassini contati nell’ombra d’una viuzza storta. Anche il vecchio sentì montare come un’ondata amara; Marina aveva ben ragione di piangere: quanto amore, quanta maledizione in quelle lagrime. Fu preso da un capogiro: vide la stanza inginocchiarsi, e le pareti piegarsi a zeta. Il filo della prudenza che l’aveva tirato fin lì si ruppe e anch’egli cadde indegnamente ai piedi di quel letto esclamando:
[155] – Ah! io l’ho ucciso; salvami, Marina; nascondimi.
Marina alzò la testa e se lo vide d’accosto. Rifuggì inorridita.
– L’ho ucciso.
– Chi? – Ma il cuore le rispose subito da sé.
– Tuo figlio? chi è tuo figlio? ne avesti mai? – e lo guardava in modo spiritato per tenerlo ginocchioni e saper tutto.
Il Sultano capì d’essere uscito dalla buona strada, e si sforzò di rompere in una bella risata, per buttare tutto allo scherzo.
Ma le labbra e le mandibole irrigidite e dure non volevano rispondere alle crudeli contraddizioni del padrone; pure gli riuscì di sorridere, e si alzò con umore gentile e carezzevole.
– Marina, ho voluto provarti: qualcuno mi disse stasera che da un pezzo tu mi tradisci.
La donna non si scosse, non fiatò.
– Ecco perché son tornato a quest’ora: ecco perché ti parlo in tono di vendetta.
Marina non osava credere che egli s’ingannasse davvero.
– Io sono sicuro che se anche frugassi qui intorno, non avrei nessuno da uccidere, n’è vero?
Marina rispondeva con piccoli movimenti del capo: la vita era negli occhi.
– Non se ne parli più, mia cara: ti lascio colla buona notte…
Ella cercò trattenerlo, ma non potè chiamarlo. Lo vide uscire passo passo, colle spalle curve, barcollante, preso da vertigini, e seguì per un pezzo il trambusto sordo ch’egli faceva di là, nel buio.
Che le restava a credere? che le diceva il cuore? cose orribili senza nome. Suo marito era ubriaco, pazzo o feroce? Perché si era inginocchiato? perché aveva nominato suo figlio?
Il Sultano si compiaceva delle tenebre. Si agitò a lungo nel salotto vicino, sia che i piedi fossero ritrosi, sia che la bussola del pensiero si sbilanciasse, sia che gli piacesse avvoltolarsi nell’ombra. Felice se avesse potuto uscirne nero e trasfigurato! Ma fra tanta vergogna non gli sortì mai l’idea di uccidersi: tra i morti aveva dei nemici conosciuti, e di qui sperava nel caso.
Quella notte bevette molto rhum, per rischiarare di molti fuochi fatui il cupo sotterraneo dell’anima; gozzovigliò da solo, folleggiò con se stesso, finché non sentì le gambe piegarsi di sotto e la testa ingombrarsi di sonno. Era necessario che dormisse, e strettosi in un tappeto si sprofondò nella poltrona innanzi al camino. Ardeva un po’ di fuoco; la bottiglia gli giaceva fra i piedi; il soprabito di viaggio col molto pelo pareva una belva accovacciata sopra una sedia: la [156] candela smoriva intorno al fungo del lucignolo. Qualcuno cominciò a schiacciarlo, senza però che egli soffrisse tortura: i fumi di due o tre liquori, cozzando fra loro, riuscivano a trasfigurarlo in esseri e cosi grotteschi: a poco a poco scomparì a se stesso, né gli rimase che un ruvido sentimento, come se fosse un vivo mucchio di cenci.
Marina invece si dibatteva fra le più orribili paure: sentiva il pericolo, ma non sapeva dove fosse. La notte era muta, e tendendo l’orecchio la poverina sentiva solamente il picchiare violento dei suoi polsi.
Pensò di venire in traccia di suo marito e di strappargli con qualunque arte la verità. Vestì un’ampia sottana di flanella bianca, si imbacuccò la testa d’uno scialle morbido di marcellina color fumo, e venne a spingere l’uscio dello studio. Sentì ch’egli russava, e si avanzò senza strepiti, posò il suo lume sulla tavola di mezzo, osservò il disordine della stanza, e la testa dell’ubriaco che ricascava sul petto, le sopracciglia piatte, le labbra contratte a un’espressione di ribrezzo, e i pochi capelli tirati a prolungare le orecchie.
Marina avrebbe voluto leggere il gran segreto sulle rughe e sulle pieghe del volto; avrebbe voluto sentirlo nei rantoli brevi che ingombravano il mantice d’una respirazione grossa ed eguale. Frugò nelle tasche del soprabito, trovò un portafogli, molte carte, un giornale: sfogliò, rovesciò ogni cosa sulla tavola: percorse con un rapido sguardo la cronaca cittadina di quella gazzetta milanese; aprì qualche noterella, la buttò la riprese, l’animo stretto, quasi sospesa nell’aria, le dita agili e metalliche, finché trovò una lettera colla data di Napoli, e un nome ignoto.
Lesse in fretta quelle righe, ma non capì: si appoggiò coll’anca alla sponda della tavola, si fece più sotto al lume, e vide che si parlava del figlio di suo marito.
Dunque viveva un figlio del Sultano, stato da lui abbandonato: il nome di questo figlio...
Poteva essere? ella non sognava? non v’era modo di svegliarsi da quel pauroso letargo? Molti altri spaventi erano scomparsi col dar volta nel letto, col non dormir più sul cuore, col tornare del giorno. Il sangue cominciava a intirizzire. Ma pur troppo non era sogno, appunto perché avrebbe voluto sognare: la carta di quella lettera crepitava davvero fra le dita, e le ore d’un orologio vicino suonarono, una, due, tre, con tocchi lenti, solenni, lasciando dietro di loro un’onda maestosa.
Provò a leggere ancora: il Sultano aveva un figlio che si chiamava Linucci, il quale era vissuto esule e vagabondo a Parigi... Era [157] una storia assai nota a Marina, che l’aveva udita più volte dalla bocca stessa di Giorgio: questo sogno passava i limiti della probabilità, era troppo stravagante per sogno. Forse era una storia vera!
Che aveva detto poco prima quel miserabile? non aveva nominato suo figlio? l’aveva ucciso? perché?...
Ah! la punta al cuore! Frugò ancora fra quelle carte: ecco un ritratto con una scritta che dice: «Mi terrai sempre sul cuore». È lei stessa.
Sentì la terra tremare, e fu per gettare un grido: ma non gridò, non cadde perché fra lei e l’ubriaco correva un fascino: colle mani, colla volontà, con un impeto prepotente del petto trangugiò il suo dolore. Si tenne salda, si aggrappò meglio, cadde sopra una sedia, digrignando i denti e pensando se dovesse afferrare un tizzone. Anche il Sultano sentiva la nausea di un’atmosfera malsana, e aprì una volta gli occhi.
Aprì una volta gli occhi, ma non si svegliò; il suo sguardo era cieco, come quello dei morti.
Marina avrebbe voluto piangere, ma più del dolore spadroneggiava in lei l’ira e la follia.
Uscì da quella stanza, tratta da un impetuoso pensiero e, tentoni attraverso il buio, giunse al pianerottolo dello scalone.
A destra si allungava un corridoio, che finiva in un finestrone ad arco acuto, con vetri arabeschi, in cui batteva qualche cosa meno dell’ombra e che non era luce. Nel resto silenzio.
I polsi del capo battevano come martelli, lanciando scintille nel buio: v’è un’angoscia in cui anche i pensieri stridono, e l’anima, come presa d’artrite, non può agitarsi senza spasimo. A tale era giunta la poveretta.
Che faceva lì, sola, in cima a una scala, a quell’ora?
Sapeva che in fondo a quel corridoio si apriva una terrazza a piombo sul mare, e si compiacque di fissare lo sguardo in quel barlume, che spiccava nel fondo, come se fosse l’alba d’una nuova esistenza.. A quell’ora tutti dormono a Venezia, e le nere gondole si raggruppano negli spigoli coll’aria di gente che susurra. Nessuno sarebbe accorso al tonfo. Così pensò.
Ma per giungere fino alla terrazza bisognò passare innanzi ad un uscio, mezzo nascosto in un andito; ivi era la camera di suo padre. Qual pensiero? che meritava ancora quest’uomo, causa prima de’ suoi mali?
Strinse la tempia fra le due mani, socchiuse gli occhi e sciogliendosi con estrema violenza da quell’ultimo sentimento di pietà, che la tratteneva alla terra, si sentì come attratta dalla voce del morto [158] amico. Credeva, morendo, di cadere nelle sue braccia: certamente v’era in quel delitto qualche voluttà. Corse, ma un filo di luce, che usciva dalla camera di suo padre, fu come una sbarra di ferro.
Marina esitò, e si resse in piedi, contro la parete del corridoio, gli occhi immobili. Non era mai stata tanto perversa, e la pietà non estinta de’ suoi primi anni sorse a combattere l’ultima guerra. Che sarebbe di suo padre, quando ella fosse morta? Il mondo cercherebbe le ragioni della sua morte e il disonore, scontato quasi con tanta pazienza, sarebbe il suo suffragio.
Il vecchio ragioniere, che per abitudine dormiva poco, stava innanzi a un tavolino, sotto una piccola lucerna, intento a calcolare in molte colonne gl’interessi scalari d’una somma di milioni fantastici. Era il suo peccato e il suo castigo: raschiava cifre d’oro, ne cercava i filoni nelle astruserie aritmetiche, egli che per poco non era annegato in una goccia d’inchiostro.
Era molto invecchiato; i patimenti non tanto, ma le speranze consumavano, limando a poco a poco, la sua vita. Cercava non avvedersi dei sacrifici di Marina e abusando di liquori, godeva qualche soave visione.
Marina sentì la voce rantolosa del vecchio, che calcolava: se monsieur Talbot era veramente arrestato, nessuno l’avrebbe tenuto dall’accusare il complice per dividere la pena; suo padre aveva un corpo di ferro e un’anima vile, e credeva migliore la prigione che la morte.
Che sarebbe di lui già cadente, quando il Sultano non gli offrisse i mezzi di fuggire, o per vendetta lo accusasse egli stesso?
Marina traguardò nella piccola apertura dell’uscio e vide i lineamenti biancastri di suo padre, e la fronte nuda e lucente sormontata da un fiocco bianco di capelli. La stravaganza che precede solitamente la pazzia, traspariva nell’aggrottare spesso delle ciglia, nel figgere ch’egli faceva lo sguardo in una pigra contemplazione del nulla, nel sorridere a conclusione di calcoli bislacchi.
Se Marina mancava a suo padre, il Sultano, Talbot, i ministri della giustizia, le leggi, i carcerieri, per dispetto, per ira, per dovere, tutti gli sarebbero venuti addosso. La forza e la prepotenza, che si fa zimbello dell’imbecillità è spettacolo che fa piangere.
Marina in buon punto sentì la dolce violenza della pietà, e non osò fare un altro passo verso la morte.
Ma stretta anch’essa fra la vita e la morte, spinta dalle furie, trattenuta dalla compassione, costretta a pensare, a provvedere, a costruire, mentre stava per distruggere; non potè resistere agli strappi di tante contraddizioni e si sentì cadere.
[159] Mandò un gemito come di supplica a Dio e batté mollemente la testa nell’uscio, che cedette. Il vecchio sollevò lo sguardo e vide sua figlia avvolta in poche vesti, pallida e come morta attraverso la soglia.
Prima di sera in quel palazzo non abitava che un vecchio custode.
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