Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Due anime in un corpo

PARTE SECONDA

IV VILLA CARNICA

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IV

VILLA CARNICA

 

Tornai a sedermi nell’angolo del fuoco per aspettare la mattina. Finalmente ero solo e fra me e lei non restava che un tratto di via e un po’ di nebbia. L’oste mi disegnò sulla cenere la strada che avrei tenuta per giungere più presto alla villa Carnica e mi lasciò alla contemplazione di quei ghirigori. La strada grossa correva per un buon pezzo diritta, ma giunta a un certo ossario – aveva detto l’oste – io dovevo piegare a destra e prendere un’altra strada, che girava il lembo della collina; dopo mezz’ora o poco più io sarei giunto alla villa.

Il disegno geografico era semplice, ma avviene di molte cose che a lungo guardarle si confondono, per cui, rimasto solo in quella stanza color fumo, al lume d’un dito di moccolo, e con un gran freddo nelle spalle, quel ghirigoro nella cenere prendeva un aspetto cabalistico, come se chiudesse una misteriosa minaccia.

L’oste mi aveva assicurato che il signore, passato poco prima, viaggiava solo e non c’era dubbio che Marina non fosse rimasta in casa. Di tanto in tanto guardavo i vetri d’una finestra, che cominciavano a imbiancare, e quando mi parve abbastanza chiaro da non dare nelle fosse, uscii frettoloso, come se alcuno mi aspettasse veramente altrove.

Sulla neve fra le molte traccie di carri e di carrozze se ne distinguevano due fresche e sottili, onde pensai: se io seguo queste righe il Sultano mi condurrà, senza volerlo, innanzi a Marina.

Camminavo a testa bassa, come deve fare chi ha molti pensieri e pel tratto lungo di strada maestra, che mi restava a percorrere, non alzai che due o tre volte gli occhi a speculare il cielo, a studiare il terreno di qua e di , oltre le siepi, rasentando un argine e sempre in mira d’una macchia biancastra, forse una borgata, che a poco a poco scaturiva dalla nebbia.

Di fioccare era cessato, anzi un venticello gelato, che penetrava fino al cervello, cominciava a rompere la nuvolaglia color piombo e a mostrare qualche lembo di sereno; e la nebbia, verso oriente, dilatandosi innanzi al calore del sole, prendeva un leggiero incarnatino e si spargeva a fiocchi soffici, come la .

Battei quello stradone senza limiti per mezz’ora e fra i mucchi di ghiaia, le pozze e la neve fracida non era un bell’andare. Non conoscevo la provincia, e arrivato al buio, uscivo ora al lume del giorno, [172] come una quaglia da un panierino chiuso. Il paese era deserto, non un uomo, non una voce nei campi, e più camminavo e più sentivo accendersi la voglia d’andare presto, senza voltarmi, senza aver preciso e netto innanzi a me lo scopo per cui m’ero mosso.

Marina mi aveva affascinato e mi attirava con tutte quelle stregonerie, che stanno riposte nella curiosità, nell’ignoto, nella speranza. Animo dunque, Marcello, – dicevo – il Sultano ha pensato a cadere da sé nella rete e Marina ti sarà riconoscente del bene che hai voluto al povero Lucini. Non le dirai che egli è morto, no, ma accennerai il pericolo in cui si trova suo marito, il pericolo che sovrasta a suo padre, la necessità di una fuga; le offrirai la tua protezione, in nome del povero Lucini. Ella domanderà perché egli non sia venuto con te: le dirai che è morto? se poi odiasse il triste ambasciatore? Diavolo! che Marcello non sappia persuadere e consolare una donna che piange? Alla fine, fra tanta rovina, Marcello solo può darle un buon consiglio, può soccorrerla, liberarla dalla sua schiavitù e se il suo cuore non è di ghiaccio, ella dovrà dire a questo povero figliuolo: «Grazie, amico... eccovi la mia mano». La sua mano! ch’io stringa questa mano sul mio cuore, ch’io la baci, ch’io la bagni di pianto...

Dio onnipotente! – esclamai ad alta voce, alzando le mani verso l’oriente. Il sole era spuntato, e la catena delle Alpi a settentrione, coperta di ghiacci, splendeva d’oro e d’argento.

A un tratto mi fermo e i polsi del capo battono due o tre martellate dure. Senza avvedermi era giunto all’ossario, una specie di tabernacolo in mattoni scalcinato e crepo, con una inferriata a scacchi, orlata di crani, e sormontato da uno scheletro di sasso, che teneva una falce. La neve gli aveva ricamato una cuffia e orlato di un candido fichu le costole e le anche. Ma non fu la morte, che mi avesse data tanta paura, bensì la vista dei due carabinieri, che tornavano dalla villa, a passo di carica e colle mani vuote.

Innanzi all’ossario si distaccava la seconda strada della collina fra i rami nudi e intirizziti di due alte siepi. Io avevo potuto scoprire i miei due amici prima che essi mi ravvisassero, per cui, fermatomi, pensai essere necessario, se volevo veder Marina, ch’io sfuggissi d’incontrarli. Se no, i due amici mi avrebbero tirato alla ricerca del Sultano. Perdere Marina, quando già ne tenevo il lembo del vestito, mi pareva ed a ragione uno scherzo doloroso, onde pensai in fretta quel che mi restasse a fare e corsi ad appiattarmi dietro uno spigolo dell’ossario. Man mano che i due soldati passassero innanzi, io avrei destramente girato l’ossario, finché fossi sicuro di me.

Stetti dunque un po’ col cuore in subbuglio, innanzi a una delle [173] finestrette laterali, da cui un curato morto vent’anni prima mi guardava con un sorriso ironico e col berretto storto sopra l’occhio sinistro.

Intanto il passo sonoro si accostava e già udivo il brontolìo malinconico de’ miei amici.

In quella sospensione d’animo io mi domandai con meraviglia, se avessi per avventura commesso qualche delitto, perché il Sultano al mio posto non avrebbe trepidato di più. Ma le cose di quaggiù, per l’artificio delle nostre passioni, hanno spesso un significato diverso da quello che Dio ha loro dato; anzi, noi viviamo per nostro capriccio molte vite, che non sono la nostra, per quel pazzo desiderio dello strano, che ne spinge a forare le montagne invece di sorpassarle, e a bere il caffè amaro con lo zuccaro accanto.

I due carabinieri si fermarono innanzi all’ossario, e io che piatto piatto ne girava la schiena, mi arrestai, sospeso, dirò, quasi tra cielo e terra, coi capelli irritati, il fiato mozzo, e due dita alle orecchie, per credere di non far rumore. La situazione era così stravagante che s’io fossi uscito improvvisamente a spiritare, quei due soldati forse... ma non stiamo a dir male del prossimo.

Siam venuti di qui, te l’assicurodisse uno di loro, ed entrambi riconosciuta la strada tirarono innanzi.

Attinsi il respiro fin dalle scarpe e appena li vidi abbastanza lontani, saltai sulla strada della collina e la presi alla corsa. Ma col freddo e con la riva non era il miglior modo: camminai più dolce. Se l’oste aveva detto bene, villa Carnica doveva essere vicina, forse in cima alla riva, oltre lo svolto. La strada era più asciutta e più alpestre: la siepe spesso interrotta da gruppi di belle piante, di pioppi, di betulle, di olmi sfrondati, che sgocciolavano al tocco del sole. Dall’alto del ciglione l’occhio si stendeva sopra una vasta pianura ondulata, ingombra di molte nubi, fra le quali però tremulavano due o tre striscie taglienti come l’acciaio, forse il mare.

Spinsi l’occhio una prima volta, sperando di scoprire la villa, o almeno un campanile, o un uomo, o un segno di vita: ma dopo il primo gomito la strada seguitava ancora più ripida, più stretta, e come incassata fra due boschi.

Il coraggio cominciava a cadere. A mezzo delle imprese interviene sempre il pensiero della loro inutilità ed è questa la causa della nostra dappocaggine. Per me, dopo tanti casi e dopo uno strano viaggio notturno, la stanchezza era naturale, onde discussi un poco il partito di tornarmene e d’uscire una buona volta da quell’imbroglio. Ma le gambe, quasi obbedissero a una seconda coscienza, a me sconosciuta, continuarono la salita, finché fra due filari di pini, [174] vagamente spruzzolati di neve, apparve un palazzotto o gran casolare signorile, di bello stile, sostenuto da una gradinata e colla faccia rivolta alla pianura e al mare.

Dovetti appoggiarmi a un muricciuolo per uno sgomento che non so spiegare. Era villa Carnica, e me lo disse anche una freccia e un’iscrizione dipinta sul muricciuolo. Molte finestre erano aperte e il nome di Marina pareva che risuonasse dentro e fuori di me.

[175]

 

 

 


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