Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE PRIMA

IV. Altre conoscenze.

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IV. Altre conoscenze.

 

Di maggio il nono ‑ L'anno dieci sette

Videro qui Maria anime elette

 

dice una vecchia pietra del mille e seicento al luogo ove ora sorge il Santuario della Madonna del Bosco; e dice ancora come, quasi a conferma dell'apparizione, un castano presso che, essendo di maggio, non aveva cominciato se non da poco a metter le foglie, comparve ad un tratto ricco dei suoi frutti. E quasi se ciò non bastasse, si vuole che in questo bosco un fanciulletto, figlio di poveri pastori, venisse azzannato da un lupo; ma la Madonna, invocata con fede dalla mamma del piccino, ottenne che la mala bestia deponesse sull'erba il fanciullo senza fargli alcun male. Non dice se il lupo si facesse frate; ma il caso meraviglioso fu poi figurato in rilievo in mezzo a una gloria di angeli inverniciati, in una cripta sotto l'altare, presso uno zampillo d'acqua freschissima, che fa bene anche a chi non ci crede. Dalla cripta per una doppia gradinata scende la scala santa nell'ombra del bosco, per la quale continuo è l'andare e il venire dei devoti, che lasciano ad ogni scalino un po' del peso della loro vita. Dalle terrazze del tempio la vista si apre sulla valle, fino alle ultime case del territorio di Lecco, che biancheggiano sul monte, come lenzuoli messi al sole ad asciugare; ma, più che la vista lontana, piace l'ombra vicina, piace nelle ore calde e poco frequentate il silenzio mistico del bosco e del sagrato, dove svolazzano le bianche colombe del Rettore che vanno a bere alla fontana della Madonna, e svolazzano i pensieri di chi fugge al rumore delle cose.

Giacomo, che era nato e cresciuto quasi all'ombra del santuario, stava descrivendone la segreta poesia, quando la brigata s'imbatté nell'illustrissima famiglia Magnenzio, che scendeva alla Messa dal sentiero del Ronchetto. La villa co' suoi due piani spaziosi, e colle sue sessanta finestre di stile romano, dominava nel mezzo d'un giardino accomodato come una pittura, dall'alto d'un ampio terrazzo, a cui si accedeva per un doppio ordine di scalinate fiancheggiate da massicci vasi di terra cotta. Nella piena luce di quella bella mattina di settembre, col sole d'oro che si specchiava nelle lucide vetriate delle finestre e delle serre, coi viali umidi che mandavano il buon odore della terra misto ai mille profumi confusi che uscivano dagli sterrati messi a fiori e dalle serre, giardino e palazzo, colla bandiera bianca e azzurra, svolazzante sulla torretta, facevano pensare più agli incantesimi di Armida che non alla sobrietà morale di una famiglia di clericali, che vi coltivassero i doveri del decalogo e i precetti della Santa Madre Chiesa.

Alla vista del conte, Mauro Lanzavecchia si levò il cappello e, agitandolo come una ventola, esclamò colla sua voce di maresciallo:

‑ Che bella Madonna di settembre eh!... sor conte...

Il conte Lorenzo Berengario Magnenzio di Villalta, quasi a dispetto de' suoi nomi sonori e dei due draghi spiritati che si azzuffano da ottocento anni nell'antico stemma della famiglia, era un ometto di bassa statura, già sulla sessantina, dall'andatura lenta e addolorata,come se camminasse sempre coi piedi nudi sui ricci delle castagne; ma era pure un gran buon uomo, rispettoso anche dei deboli, pauroso dell'ombra sua, dotto come una libreria, e non privo di quell'arguzia un po’ grassoccia, che piaceva ai novellieri del buon tempo antico, tra cui messer Giovanni è il capo dei ladri. Purista appassionato, archeologo non da buttar via, più che a far libri, com'è la smania nuova si divertiva a leggerli, a patto che fossero libri scritti colle mani e non coi piedi. Siccome però intorno a quel che sia lo scrivere bene come. intorno a quel che sia il buon governo, ognuno ha diritto di avere un'opinione sua, così il conte trovava che dal Monti in poi nella poesia, e dal Giordani in poi nella prosa, in Italia non si era più scritto un libro tollerabile. Il Monti, il Giordani, un poco di Botta e bott , soleva dire. Dopo di questi, per colpa specialmente di quel bon omo del Manzoni, lo scrivere non è più un'arte, ma un mestiere che si fa in maniche di camicia. Non contenti di aver scassinata la vecchia sintassi, giornalisti, pubblicisti, romanzieri e perfino professori di università lavorano ora a tutto spiano a scassinare l'ortografia, introducendo anche nella grammatica quella smania di novità e di distruzione che entra dappertutto.

Come si sente, c'era un tantino di pedante; ma nella penuria desolante dei signori che studiano, don Lorenzo si poteva dire uomo raro, originale, un prezioso avanzo d'altri tempi e di altri gusti meritevole d'essere conservato nella bambagia.

La contessa, maritata giovanissima a quest'arca di scienza, più che all'alba della seconda età, si poteva considerare arrivata allo splendido tramonto della prima. Alta della persona, quasi maestosa, con capigliatura ricca di un biondo vivo, che spiccava sulla carnagione d'una pallidezza sana e fiorente, temperava quel che vi poteva essere di troppo forte nell'indole, colla dolcezza d'uno sguardo aperto a una gran luce, colla modulazione d'una voce media, di signorile morbidezza, colla grazia di un sorriso sempre pronto e cortese, che metteva in vista dei denti bellissimi. La sua condotta onesta e diritta, di una perfetta trasparenza morale, la sua religiosità alquanto austera le aveva acquistato la riverenza non solo dei suoi dipendenti, ma il rispetto, più difficile a ottenere, de' suoi pari, di cui non esitava a urtare colle parole e coll'esempio le facili transigenze, le opinioni accomodanti, i comodi pregiudizi, le volgari abitudini.

«Cristina è una vita parlante» soleva dire suo zio, monsignor di San Zeno, parlando di lei. Credente fervida e sincera, non immiseriva la sua fede in piccoli pensieri; ma aveva un'opinione così alta dei doveri a cui Dio destina la nobiltà, che ai leggeroni di professione la sua morale non tornava sempre simpatica e di facile digestione. Ma chi poteva avvicinarla nell'intimità sentiva in lei l'energia d'una volontà che genera altre buone volontà, come la forza del fiume che dove passa genera lavoro e ricchezza, e sopportava non mal volentieri un'autorità benevola e signorile, che è una cosa ben diversa dell'autoritarismo delle anime volgarmente aristocratiche.

Costretta a essere forte anche per conto degli altri, la sua virtù intelligente s'era andata via via concentrando, non senza forse irrigidirsi alquanto, per necessità di resistenza, nell'amore e nell'educazione dei figli, nelle opere di carità e in quelle istituzioni, in parte di propaganda, in parte di reazione, che sono la sostanza più vitale del programma del partito conservatore.

‑ È peccato che il figliuolo non somigli né a suo padre, né a sua madreprese a dirmi la mamma di Giacomo, colla quale ero rimasto in disparte, mentre i Lanzavecchia presentavano il loro rispetto al conte e alla contessa.

- C'è anche un figlio?

- Sì, don Giacinto, una spina nell'occhio di questa signora così buona.

‑ Che cosa fa questo don Giacinto?

‑ Fa il bel giovine e l'ufficiale. Il ragioniere Riboni non arriva a tempo a pagargli i debiti.

- Come state zia? ‑ disse una voce dietro di noi.

- Oh sei tu? beato chi ti vede. Siam proprio diventate forestiere del tutto, figliuola.

- Ho molto a fare, zia.

- Questa è una mezza mia figliuoladisse la signora Santina volgendosi a me. ‑ Giacomo le avrà parlato di Celestina.

‑ E come! ‑ esclamai, aprendo tanto d'occhi su quella famosa bellezza a cui l'amico aveva consacrato un altare perpetuo. Vidi una giovinotta sui vent'anni vestita come una cameriera, con due bellissimi occhi neri e grandi, col viso ovale e colorito delle belle ragazze brianzuole, che spiccava nell'amabile contorno d'una bianca cuffietta di rensa, foggiata alla bretone. Vicino alla pallida bellezza preraffaellita della contessa Enrichetta, questa solida ragazzona del popolo faceva pensare a una bella santa del Rubens. Quel che vi poteva essere di meno classico nella sua floridezza di forme compariva come ingentilito dal vestitino lindo e chiaro e dallo studio della contessa, che sapeva estendere intorno a sé un'atmosfera di saviezza e di composta eleganza.

Mi parve di scorgere che la fanciulla nel raffigurar Giacomo, che stava parlando col conte, si facesse a un tratto smorta smorta e trasalisse come spaventata. La contessa se ne avvide subito, tornò verso di lei, si fece dare i libri di preghiera che essa aveva recato con sé, e susurrandole in fretta un comando, a cui la ragazza non osò opporsi la rimandò a casa. Tutto questo in un baleno, tanto che Giacomo, che il conte aveva chiamato giudice in una questione d'ortografia, non ebbe tempo di accorgersene.

‑ Dunque avete visto Giacomo? anche il Rigutini ha sbandito l'j dal suo Vocabolario. D'ora innanzi non più canteremo alleluja, ma soltanto alleluia...

Don Lorenzo, oltre al far sentire colla voce qual sia la differenza tra un j e un semplice i, volle disegnar le due lettere sul suolo colla punta del bastone.

Sicuro, caro Giacomocontinuò il bravo signore, mentre rispondeva con un famigliare segno di mano alle scappellate dei contadini che andavano raccogliendosi sul piazzale del santuario. ‑ che cosa dirà il boja, quando gli avranno applicata questa caudae diminutio... ‑ E stringendo gli occhietti fino a farli scomparire del tutto nelle pieghe della pelle, il conte aspettò che Giacomo assaporasse la malizia dell'osservazione, per continuare poi: ‑ E dovremo oltre questo avvertire con un decreto tutti i cani, perché da oggi innanzi cessino d'abbajare come han sempre fatto fin qui. Sarà appena tollerato che abba‑i‑no... che abba‑i‑no... da non confondersi con abbaino ‑ Ed esagerando con una specie di guaiolo il verso d'una cagnetta, il conte, a cui stillavano già due piccole lagrime dagli occhi, volle far sentire anche al buon popolo quanto di serio vi sia in certe grandi e strombazzate riforme. E concluse: ‑ Diremo anche questo un prodotto del liberalismo moderno? non vi pare piuttosto una minchioneria?

Giacomo assentiva con benevola indulgenza: ma il , che stava ad ascoltare con rispetto e colla sua aria di fiera protesta, non sapendo resistere alla voglia d'associarsi a un voto di biasimo contro quel mondo birbone, rovinato dai liberaloni, entrò in mezzo per dire:

- Sa che cosa farebbe bene all'Italia, sor conte?

- Sentiamo, sentiamo, caro Mauro... ‑ sollecitò il conte, che amava riferirsi al buon giudizio popolare.

‑ Sei mesi di cessato governo farebbero bene con un po' di bankaraus e qualche forca qua e , per far presto.

‑ O povero Petrarca, o povero Filicaja!... ‑ esclamò ridendo il conte, che vedeva ancora l'Italia (beato lui!) attraverso alle canzoni e ai sonetti dei poeti classici. Ed era per citare un verso quando il suono della campanella avvertì che la messa stava per uscire. La compagnia si salutò e si divise, seguendo l'onda del popolo che si affollava nell'atrio. La chiesa, non molto vasta, fu presto piena dell'insolito concorso dei devoti, che approfittavano della bella giornata per onorare la Madonna. Molti che non poterono entrare si raccolsero sotto il portico, o andarono a sedere sui muricciuoli del sagrato, fin dove poteva arrivare il borbottamento frettoloso della messa di don Andrea, che aveva dovuto lasciare il «Roccolo» in un momento impagabile. L'aria che da una settimana pareva stagnante, rotta finalmente da un buon temporaletto di montagna, mandava giù per la valle dell'Adda correnti fresche con uno sterminio d'uccelli. Quella mattina si cominciava a vedere finalmente qualche tordo; quindi la messa fu più spiccia del solito.

Io e Giacomo ci mettemmo a sedere sulla gradinata, da dove la vista s'apre sulla valle. E quando nella chiesa ebbero intonate le litanie, cessata la ragione del raccoglimento, dissi, battendogli la spalla:

‑ Mi congratulo col filosofo idealista. Abbiamo fatta la conoscenza di Celestina.

Dove?

‑ Qua presso. La signora ha dovuto rimandarla a casa.

‑ Ebbene?

‑ Ebbene, molto bene. Per un filosofo distratto è forse troppo bella, ma tu la meriti, povero Giacomo.

Aspetta, cavallino, che l'erba cresca... ‑ disse con un sospiro.

‑ Non sarà sempre così, vedrai. La felicità non si compra a danaro. Da quel che sento, il figlio di questi bravi signori va a comperarsi la rovina co' suoi denari.

‑ È vero. Don Giacinto può essere definito il fallimento di tutte le nostre massime educative. Cresciuto sotto gli occhi di una donna santa e virtuosa, che lo raccomanda a Dio tutti i giorni nelle sue preghiere, il caro giovanotto batte allegramente una brutta strada. Un po' le donne, un po' lo sport, un po' il giuoco, a quest'ora ha già dissipata la dote di venti ragazze da marito.

‑ E come spieghi il fenomeno?

‑ Che vuoi che ti dica? ai ricchi la virtù è più difficile che a noi. L'ozio, il rispetto umano, lo spirito d'imitazione, le digestioni pesanti...

‑ Questo è del materialismo, caro mio.

‑ Come ci sono i malati di denutrizione, così ci sono gli esuberanti e i pletorici. Il conte, immerso ne' suoi libri e nelle sue iscrizioni non ha la forza di volere; e la contessa forse vuol troppo, con troppo rigore e con troppo orgoglio. L'educazione se non è un equilibrio di forze, è una macchina che stritola. Se la povera donna si cruccia, n'ha di che. Essa ha provato varie volte a cambiar aria al ragazzo: l'ha tenuto in collegio presso i gesuiti a Ventimiglia, se l'è tenuto in casa sotto la guida d'un precettore tedesco, suggerito dal cardinale Hohenlohe; ma il giovine, che è già grande e grosso come tre filosofi, dice che mammà lo vuol far morir tisico. Donna Cristina si compiace d'interrogarmi per vedere se nella mia profondità pedagogica so dare un suggerimento: ma che rimedi possiamo suggerire noi, poveri pedagoghi che viviamo di pane e formaggio, a questi giovinotti che possono spendere venticinque lire in una colazione? Le madri vorrebbero poter edificare la loro casa sui figliuoli, e hanno ragione. Se questo orgoglio è naturale in ogni donna, pensa la contessa! Quando si nominano i Magnenzio di Villalta, e più ancora quando si parla dei San Zeno, non solo in questi paesi, ma a Cremona, a Milano, a Roma, è come nominare la famiglia di Sant'Ambrogio. Il partito conservatore ha in questi nomi i suoi stemmi più illustri: in hoc signo vinces... Dispiace veramente che un patrimonio così prezioso di buone condizioni vada sperperato nelle mani delle ballerine; ma sa più bene il suo mestiere il diavolo che non tutti i moralisti presi in mazzo.

 

 


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