Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE PRIMA

VI. Il fallimento della filosofia.

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VI. Il fallimento della filosofia.

 

Quando si trovò solo sulla strada buia, sparsa di sassi disuguali, tra due spesse siepi, nella silenziosa e nera solitudine della notte, il vino, che fin qui aveva sostenuti gli spiriti, lo abbandonò come un cattivo amico, anzi gli si rivoltò contro anch'esso come un creditore e congiurò colla disperazione a sollevare i più foschi fantasmi.

Mauro sentì le gambe rompersi sotto l'ampio peso del corpo, mentre vedeva la strada rizzarsi e diventare una montagna insormontabile. Dopo un lungo girare senza mèta attraverso i campi, dopo aver urtato negli spigoli dei muricciuoli e nei paracarri che non sapeva vedere nell'aria scura, avvisato e condotto dall'abbaiare dei cani, che si svegliavano irritati al sonar del suo passo rotto e pesante, gli riuscì d'orientarsi e di riconoscere nell'ombra della notte la linea magra dei camini delle sue fornaci, che, uscendo esili e lunghi dai bassi edifici, giganteggiavano nel vuoto.

Poco dopo sbucò nello spiazzo aperto, che sta intorno ai magazzini e che mette nello scuro dei campi una gran macchia giallastra, su cui in quel momento batteva il chiarore scialbo della luna. Queste fornaci, questi magazzini pieni di roba erano il lavoro consolidato dei Lanzavecchia, su cui domani si sarebbero stese le unghie rapaci dei creditori, dell'esattore, del fisco. Dei mille e mille mattoni tra cotti e crudi accumulati sotto le tettoie e sparsi sul terreno, delle mille tegole, che avevano rinomanza per venti e trenta miglia all'intorno, come le più solide e oneste che uscissero dalle mani d'un fabbricante, non un coccio apparteneva ai Lanzavecchia, che avevano lavorato e sudato per il loro disonore e per la miseria.

La rovina era cominciata, secondo l'idea di Mauro, il giorno che, col pretesto di fare l'Italia, gli italiani avevano tirato in paese insieme ai calzoni rossi anche il mattone francese, a cui tenne dietro la tegola quadra alla romana e tutte quest'altre diavolerie di zinco e di lava del Vesuvio, che chiamano progresso, ma che lascian piovere in casa. Poi venne la strada ferrata a dar l'ultimo tracollo al commercio del burchiello, che sotto il cessato governo portava il bel materiale fabbricato a Parè, a Olginate, a , a Trezzo fino dentro il cuore di Milano, colla facilità dell'acqua che va in giù, alimentando clientele che duravano da cent'anni e che misero in piedi palazzi e chiese, che dureranno ancora quando sarà scomparsa tutta questa roba marcia di gesso e di poltiglia con cui s'è fatta l'Italia. Finalmente, a compimento dell'opera, venne fuori la bella invenzione della ricchezza mobile, talché un povero industriale si sentì in mezzo a tre forche. Non gli restava ora che di appiccarsi a una quarta.

Ombre di Nicodemo e di Galdino Lanzavecchia! ‑ gridò il vecchio, fermandosi sul piazzaletto e alzando il bastone verso la faccia della luna, come se volesse fare uno scongiuro. ‑ Uscite a vedere come mi hanno tradito; venite anche voi a gridare: Viva l'Italia!

A questo schiamazzare d'un uomo che parlava ai morti tenne dietro il gran silenzio della notte, nel quale tornò a farsi sentire il rumore stridulo dell'Adda povera d'acqua.

‑ Voi sapete chi mi ha tradito: voi sapete chi mi vendicherà...

Col passo disuguale che gli faceva fare il vino, il vecchio fallito giunse in vista della sua casa, che spiccava più nitidamente colla loggetta vestita di frasche nel tenue chiarore della luna. Tutte le finestre verso la corte eran buie, tranne quella di Giacomo, che dava sulla vignetta. Il filosofo vegliava sulle sue bozze di stampa. Mentre di fuori un povero negoziante di materiali di fabbrica piangeva sulla sua rovina, di dentro, nella stanza silenziosa del filosofo, si preparavano i materiali per una grande costruzione ideale, per il gran tempio dell'avvenire, nel quale si sarebbe celebrato il connubio di pace tra l'uomo e la natura.

«L'uomo padrone della scienza» diceva uno dei cento foglietti «è il vero dominatore della natura. La forza è nel pensiero, o per dir meglio, la forza è il pensiero stesso».

«Se potessi persuadere il mugnaio di questa verità, potrei mandarlo in pace con poca fatica» ripensò Giacomo, giocando colla penna sulle parole stampate, alle quali avrebbe voluto aggiungere una nota: «E se si dicesse invece che la forza è nella volontà?».

Questo conflitto tra un pensiero che sillogizza in poltrona e una volontà che corre e s'adopera per la casa non gli si era mai presentato così vivo, come dal giorno che suo padre gli aveva colle lagrime agli occhi domandato cinquecento lire in prestito. Da quel momento le parole stampate delle sue bozze, che contenevano prima affermazioni di bronzo, cominciarono a sconnettersi e a ballare una strana contraddanza sotto i suoi occhi stanchi dalle veglie e dallo scarso lume della candela di sego. Una continua voglia lo tentava, ed era di metter a piè di pagina molte note di mesta contraddizione, che avrebbero forse accontentato Blitz e l'anima scettica ch'era trasmigrata nella bestia; ma le note, oltre a diminuire il valore giudicato della dissertazione, avrebbero finito coll'inghiottire il libro e il filosofo in compagnia.

Non è mai utile complicare la verità, specialmente quando si ha bisogno di far quattrini. Inoltre, se non vogliamo screditare la scienza, non bisogna mai tagliare in erba il fieno del nostro contradditore.

Giacomo, deponendo di tanto in tanto la penna, dava fuoco alla pipa sulla fiamma della candela, tirava tre o quattro boccate di fumo, col pensiero perduto in aria, dietro i fantasmi della meditazione, mentre gli pareva di stare a sentire lo stormir delle foglie, scosse dai soffi intermittenti del vento.

Riscontrava un testo greco di Aristotile, e come allo svoltare d'un angolo di casa, s'imbatteva nella soave immagine dell'avvocato Brognolico, in casa del quale doveva ritrovarsi al mattino per addivenire col mugnaio e col signore della Rivalta a una transazione o, quanto meno, a un respiro che permettesse a lui e a suo padre di prendere cognizione dello stato delle cose.

Il mugnaio aveva qualche giorno prima fatta una brutta scena anche a Battista sulla piazza d'Imbersago, e n'era nato un putiferio da non dire. Battista, corto in dialettica, ma solido in altri argomenti, minacciava di rispondere alla sua maniera, che non era la più conciliante. Anche la Lisa s'era lasciata trascinare a un pettegolezzo indecente colla Fiorenza sulla soglia dell'osteria, dove le due ragazze avevano perduto un pezzo di lingua. Il bisogno che fa gli uomini cattivi, fa brutte le donne. Bisognava impedire che da un male limitato non nascessero pubblici scandali, aspre responsabilità e fieri rimorsi; e a chi toccava di aver giudizio se non si moveva il sapiente di casa? A che cosa serve la sapienza stampata, se non vale almeno come cerotto su un dito tagliato? Questi brutti pensieri venivano a mescolarsi e a sovrapporsi alle argomentazioni della sua tesi, ne confondevano i sensi e i segni, ne storcevano le intenzioni più nobili, dando alle conclusioni del filosofo idealista quasi un'intonazione di amara corbellatura.

Trovando a un certo punto citato in una nota Parmenide, egli, che pure aveva scritto di suo pugno questo nome sulla carta, rimase colla penna in aria quasi in procinto d'esclamare anche lui sul far di don Abbondio: ‑ Parmenide? chi era costui? un mugnaio? e che mi può giovare Parmenide nei miei bisogni? che m'importa di lui? come ho potuto perdere il mio tempo a occuparmi dei fatti suoi, mentre l'oste della Fraschetta divorava il mio pane e l'usuraio della Rivalta ipotecava la mia casa?

Sentendosi un poco opprimere da queste riflessioni aprì la finestra in cerca d'aria e stette, appoggiato al davanzale, a strologare il cielo e la luna. Le nubi mosse e sollevate dal soffio eguale e sostenuto dell'aria andavano a poco a poco allargandosi e come lacerandosi intorno al disco luminoso, di cui riflettevano i placidi splendori con lucide fosforescenze metalliche. Dagli strappi, per dir cosi, di quella fascia vagante di nebbia, quasi all'invito di una silenziosa volontà, uscivano spazi aperti d'un sereno purissimo, che parlava d'una pace alta e intangibile, di cui qualcuno mette nel cuore umano il mesto desiderio.

Dalla vignetta immersa nell'oscurità uscivano bisbigli di foglie scosse dal vento e fuggevoli fischi di scoiattoli che corrono su per i pergolati.

Di care e lunghe memorie era popolata quella vignetta, così folta di verde dov'egli era cresciuto fanciullo, dove aveva imparato ad amare e a soffrire. Ogni angolo gli diceva qualche cosa di Celestina; ogni foglia pareva bisbigliare di Celestina. Quante volte l'aveva portata sulle spalle, quando non era che una bimba, all'ombra dei pergolati! In quel frondoso frassino, che riempiva coll'ampio ombrello di foglie lo sfondo del cielo, s'eran fabbricata una loro villetta aerea, nascosta tra i rami, e vi avevano ingannato insieme molte ore dei pomeriggi estivi, appollaiati come due tortore, in mezzo al rumoroso stridore delle cicale. Cento volte avevano aperta una botteguccia nelle vecchie botti della tinaia e vi avevano invitato i ragazzetti del vicinato a comperar nòccioli di pesche, patate e carote affettate, sacchetti di fagiolini, chicche e dolciumi rubati dalle tasche della povera zia Marianna. Nel fienile sopra le stalle, di cui vedeva sporgere nel chiarore della luna i ciuffi arruffati, la piccina si era addormentata molte volte sulla sua spalla, prima che lo zio prete mettesse in campo la questione della vocazione e del posto gratuito nel Seminario vescovile.

E quante lagrime vergognose e segrete il povero pretino, tornando a casa nelle vacanze, aveva versato nell'erba folta e nelle frasche del grano turco, quando, non ben persuaso ancora della voce di Dio, si faceva peccato e scrupolo d'ogni passo che egli movesse per cercare la bambina, d'ogni parola allegra che gli scappasse dal cuore ancora inconsapevole di quel che fosse amore! Seguirono poi i giorni del combattimento, durante i quali l'anima sua fu come dilaniata da misteriose apprensioni, da strazi paurosi che nessuno seppeleggere, né indovinare; ma le piante della vignetta conoscevano tutta questa storia dell'amoroso contrasto e glie la ripetevano ora con bisbigli di gioia. Vinta la gran battaglia, restituito il collare del chierico allo zio prete, era tornato con altre idee; la veste nera cedette il posto alla camicia rossa dei garibaldino durante la guerra del sessantasei, e alla camicia del soldato era successa una giubba un po' logora di professore di grammatica. Perfino il buon Dio del modesto altarino di casa era andato via via crescendo nella sua testa e nel suo cuore e cresceva oggi ancora fino a travalicare i confini del conoscibile; tutto s'era mutato fuori e dentro di lui; ma quell'amore no. Esso gli parlava nel cuore colla salda sicurezza dell'innocenza.

Tante immagini, tante ombre di pensieri e di cose evanescenti, uscendo dai pergolati, venivano a consolare la memoria del filosofo e lo cullavano in una soave tenerezza... quando una voce aspra come una sega rimbombò nell'aria:

Giacomo Lanzavecchia, scrivi la sentenza di tuo padre.

Sporse il capo a cercar nella corte e riconobbe l'ombra del , che contro il suo costume s'era attardato fuori di casa. Capì che il aveva inaffiato un po' troppo i suoi fastidi.

Dove siete? che fate ? ‑ gli gridò dalla finestra.

Giacomo Lanzavecchia, ascolta la voce di tuo padretornò a gridare il vecchio, che gesticolava come un attore tragico.

‑ Venite in casa.

Prendi la penna del filosofoseguitò l'altro, movendosi per la corte come se recitasse veramente su un palcoscenico. ‑ A tuo padre non resta più che la nuda terra. Tutto è perduto tranne l'onore. Gli hanno portata via la casa, la terra, la roba, l'anima. La morte e l'inferno ai tremendi vigliacchi!

Nel tono rauco con cui il vecchio imprecava contro il destino, Giacomo vide tutto lo squarcio di quella pover'anima.

‑ State zitto, ‑ gli disse ‑ non svegliate la mamma; ora vengo io dabbasso.

Ohi, che vi ha preso stanotte, ? questa volta non è Battistella che dondola... ‑ gridò un'altra voce dalla finestra presso il granaio.

Rispetta tuo padre, lasagnonerimproverò Giacomo, che riconobbe la voce di Battista.

‑ Tu, tu... ‑ muggì il fratello con parola convulsa ‑ tu fa il professore a casa tua e quando avrai finito di mangiare il pane a... a... a...

E lo sbattimento villano dell'impannata coprì il resto delle parole.

‑ Non avete vergogna, ? ‑ gridò anche la Lisa, mettendo fuori da un finestrino una testa fasciata come un dito malato.

Figliuoli, nessuna lega coi traditori. Un Lanzavecchia non si deve vendere né per cento, né per duecento. Prendi la penna della filosofia, Giacomo, e stampa anche questo: la morte e l'inferno ai tremendi vigliacchi!

Il vecchio esaltato, afferrata colle due mani la catena che stava legata alla corda del pozzo, in preda alla frenesia dell'animo sconvolto, cominciò a battere sulla pietra colla violenza fanatica d'un santo che flagella un demonio. E a ogni colpo ripeteva disperatamente:

‑ Nessuna alleanza... la morte e l'inferno...

Blitz, che dormiva nella stalla, si risvegliò spaventato e cominciò ad abbaiare dietro l'uscio.

In quel furioso esercizio del battere si sarebbe detto che il vecchio fornaciaio cercasse uno sfogo alle sue forze compresse, alla sua collera, alla sua sovraeccitazione; ma i figli, che sapevano come di solito andavano a finire queste frenesie (Mauro aveva avuto in sua vita qualche attacco epilettico), senza por tempo in mezzo, scesero in fretta le scale, coi lumi in mano, e furono intorno al disgraziato, che già colla bava alla bocca si rotolava nella polvere in preda a spaventevoli convulsioni.

La povera Santina, che dormiva su brutti pensieri, saltò dal letto e si fece incontro sulla scala, pallida e come estenuata nella sua cuffia, invocando i nomi di Gesù, di Giuseppe e di Maria. Accorse anche Angiolino a piedi nudi, e tutti insieme sollevarono il corpo pesante del , che si dibatteva con stanchezza, Giacomo e Battista sorreggendolo per le spalle e per le braccia, la Lisa e Angiolino per le gambe, e, portatolo a gran fatica su per la stretta della piccola scala, lo distesero sul letto. Caduto l'accesso epilettico, il viso da infiammato e gonfio divenne subitamente bianco, floscio; la bocca si irrigidì in un sorriso che restò fisso in una smorfia sardonica e beffarda; il corpo divenne duro come un tronco. Gli occhi gonfiati dalla congestione fecero capire che un gran male scombussolava la vita; ma per quanti sforzi egli cercasse di fare, le labbra non poterono mandar fuori che dei suoni rotti. Era l'apoplessia.

Mauro rimase sei o sette giorni in quello stato, spegnendosi a poco a poco senza parole, senza gemiti...

Il dottor Brandati, chiamato in fretta, tentò tutti i mezzi e fece capire che soltanto un miracolo può risuscitare un morto. Per Giacomo e per i suoi fu una settimana di ansiosa e tormentosa agonia, durante la quale nessuno osò pensare ad altre cose che non fosse l'assistenza al malato.

Quando Giacomo si accostava al letto, gli occhi del morente si facevano più teneri ed espressivi, come se cercassero di penetrare e di parlare all'anima. Il figlio cercava di farsi interprete dei pensieri del padre e, seguendo i suggerimenti di quegli sguardi carezzevoli, andava dicendo:

‑ Sì, , voi avete sempre lavorato con onestà, con giustizia, con timor di Dio, e Dio ve ne renderà merito. ‑ Oppure: ‑ Abbiate pazienza, perdonate a chi vi ha fatto del male. Il vostro nome è nelle nostre mani. Voi ci lasciate grandi e robusti, e non ci manca la buona volontà...

Il vecchio moribondo si lasciava consolare da queste parole, che gli venivano dal suo Giacomo. Gli occhi pieni di pianto pareva rispondere: ‑ Tu sei stato la mia consolazione, tu sarai la mia gloria. Tu devi stampare in qualche libro la storia dei tradimenti di cui fu vittima tuo padre.

Il signor curato, che conosceva da trent'anni la coscienza del galantuomo, somministrò gli ultimi sacramenti e benedisse l'agonia. Mauro Lanzavecchia cadde in letargo e morì tranquillo, la vigilia stessa del giorno in cui la Gazzetta del Commercio stampava il suo fallimento.

 


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