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Il compleanno della contessina cadeva ai venticinque di settembre, e in quest'occasione i signori del Ronchetto solevano invitare le autorità minori del paese e dei dintorni, come sarebbe a dire il pretino rettore dei Santuario, il segretario Balsamino, il maestro della banda e qualche parente. Giacomo, nella sua qualità di professore campestre, come soleva definirsi, non poteva mancare. Quest'anno avrebbe avuto una buona scusa per esimersi: ma donna Enrichetta mostrò d'averne un così gran dispiacere ch'egli non osò dir di no.
‑ Venite, Giacomo, un po' di distrazione non fa male ‑ gli disse il conte. ‑ Saremo quasi in famiglia e potremo discorrere un poco delle nostre faccende. Di quel mio Discorso preliminare mi sono venute dieci paginette che non sono il diavolo: ma la materia mi cresce nelle mani, tante sono le cose che si possono dire intorno ai doveri della nobiltà nel presente tempo: voi potrete consigliarmi a togliere il troppo e il vano.
Questo pranzo del compleanno di donna Enrichetta era, secondo l'espressione del conte, una semplice messa piana. La gran messa cantata coi rivestiti e con musica aveva luogo in agosto, il giorno di San Lorenzo, coll'intervento del prevosto, del sindaco, del dottore e del buon canonico Ostinelli di Corno, un amico fidato della contessa, un po' romantico, un po' rosminiano, manzoniano perduto, ma non privo di coltura e di finezza. I preti non impedivano che anche il padrone di casa pontificasse, e l'una e l'altra volta, sul testo, più antico che sacro, del post mortem nulla voluptas...
Giacomo, che dopo il nuovo beneficio si sentiva legato a questa cara famiglia ancor più di prima, e che per la contessina aveva il cuore debole del padre protettore, nel mandarle un'edizioncina diamante di Dante, l'accompagnò con un sonetto da lungo tempo promesso, che gli uscì spontaneo in mezzo alle tribolazioni, come un fiore da un mucchio di sassi.
Fu la cara bambina che gli venne incontro saltando sulla terrazza. Quantunque non compisse in quel giorno che i quattordici anni, la persona lunga e slanciata, la ricchezza fluente de' suoi capelli d'oro, che portava appena raccolti in due nastri dietro le spalle, la spigliatezza un po' nervosa di un temperamento eccitabile le davan l'aria precoce d'una donnina.
Essa gli stese la mano e lo ringraziò del regalo, del sonetto, d'esser venuto; ma Giacomo capì che c'era in aria un piccolo temporale. La contessina aveva gli occhi rossi. Frequenti erano le burrasche, un po' per colpa della fanciulla, che, come una foglia sensitiva, s'irritava a ogni minimo tocco, un po' per colpa della mamma, che del bene aveva un concetto troppo geometrico e metteva, senza accorgersi, nel comando più voce che non fosse necessaria.
La dolce e poetica pigrizia dell'età giovanile, che ama tanto sedere all'ombra dei propri pensieri, era troppe volte e troppo bruscamente disturbata dal rigido programma materno e dall'orario di ferro di miss Haynes, un orario, che, visto a due passi dall'uscio, ove l'inchiodavano quattro spilli, pareva la gratella del martirio che mettono in mano a san Lorenzo. La messa alle sei, la colazione alle sette, il francese alle otto, l'inglese alle nove, il piano alle dieci, la seconda colazione e il passeggio dalle undici a un'ora, e poi da capo il piano, il francese, l'inglese, un po' d'italiano, che si riduceva a una lettura di storia greca e romana; e questo dal lunedì al sabato, tranne qualche ora del giovedì consacrata alla spiegazione del catechismo. La lezione di Giacomo non era segnata nella gratella, ma aveva luogo quando la contessa poteva disporre del suo tempo per assistervi; e più che una lezione, era un vago discorrere sulle bellezze dei poeti e sui caratteri generali dell'arte.
Dante era il testo unico, da cui il maestro sapeva cavare gli argomenti della sua conversazione, alla quale prendeva parte, per sua istruzione e per amore alle idee, anche la contessa. Giacomo, che aveva anche lui molti peccati di fantastica pigrizia sulla coscienza, soleva intervenire coll'autorità del filosofo educatore in queste non infrequenti disarmonie pedagogiche tra la figlia e la madre, e, quando parlava lui, la ragione era sempre a vantaggio di donna Enrichetta. ‑ Creda pure, contessa, che l'orario è una dura necessità, come ci vuole una scala per andar al piano di sopra; ma non è escluso che un uccellino possa arrivare anche più in alto senza far la scala. I meriti del rosario non sono nei grani infilati, ma nella spontaneità dell'anima che lo recita. Si faccia pure un orario per la regola del convento, ma ricordiamoci che noi accontenteremo la natura tutte le volte che c'ingegneremo di violarlo.
Per miss Haynes, che, dopo essere stata maestra alla madre, cominciava a invecchiare nelle consuetudini, queste idee del signor Lanzavecchia eran semplicemente eresie d'uomo di mondo, che non crede agli orari colla stessa facilità con cui non crede a qualche cosa di più sacro e di più indiscutibile. Buona come un angelo, finiva però col cedere anch'essa qualche volta, e lasciava che Enrichetta svolazzasse in giardino in qualche ora destinata ai verbi irregolari.
‑ Gli occhi rossi in un giorno come questo? è un po' troppo. Che cosa è accaduto? ‑ chiese il professore.
Enrichetta si contorse un poco, e lottando tra il bisogno di piangere e l'orgoglio di non mostrarsi una sciocchina, raccontò che mammà l'aveva poco prima allontanata dalla camera con una parola cattiva.
‑ Non è la prima volta che usa con me questi modi. Immagina forse che vada di sopra a far la spia. La spia di che? Vuol più bene alla sua Celestina che a me.
‑ Certe cose non si dicono e non si pensano nemmen per burla, signorina.
‑ No, no, è così. Da un mese questa è diventata la casa dei misteri.
‑ Se anche ci fossero, è naturale che le ragazze non abbiano a conoscere tutto. Ci sono i dispiaceri dei piccoli e quelli dei grandi. Quando sarà mammina anche lei, vedrà che non si può sempre essere di buon umore. Via, donna Enrichetta, ci tenga allegri, mi faccia vedere i suoi regali.
Giacomo prese sotto il braccio quello della fanciulla e si fece condurre da lei nel salottino di studio, dove su una tavola stavano esposti i molti regali e i molti mazzi di fiori, che amiche e parenti avevano mandato per la fausta circostanza.
Essa cominciò con voce più consolata a farne la spiegazione. Il bel vaso di Sèvres l'aveva spedito il nonno da Bergamo; la splendida Madonna in miniatura era un regalo della zia monaca di Monza. C'era un tagliacarte d'avorio della zia Adelasia e un libro della zia Gesumina di Buttinigo. Il babbo aveva offerto alla sua Enrichetta il «Lessico della infima e corrotta italianità»; la mamma una collana di perle; miss Haynes un album inglese di ricami e d'iniziali; e perfin Fabrizio, quel povero vecchio di Fabrizio, aveva voluto farsi avanti con una scatoletta incrostata di conchigliette e di lumachelle.
‑ Soltanto il mio illustrissimo fratello ufficiale non si è ricordato della sua Enrichetta. Tutto occupato a conquistar l'Africa...
‑ Non sa che vogliono mandarlo in Africa? Al babbo però non si deve dire.
- A qualche cosa serve anche l'Africa ‑ pensò in cuor suo Giacomo; ma, non potendo parlare di queste cose alla fanciulla, si limitò a domandare se la mamma era a parte di questo segreto.
‑ La mamma lo sa. Gliel'ha scritto il generale Piani, nostro parente. Tra la mamma e il generale corre da qualche tempo un gran carteggio, ma io non devo saper nulla. Io non conto per nulla in questa casa.
‑ Sia buona, ecco la mamma... ‑ fece Giacomo, vedendo entrare la contessa.
Questa, nell'incontrarsi repentinamente con lui, ebbe ancora un piccolo scatto nervoso, che cercò di reprimere, stendendogli la mano, mentre gli diceva:
‑ Bravo, la ringrazio d'essere venuto... ‑ Poi, volgendosi verso un alto specchio, che occupava una parete, mettendosi le mani nei capelli, come se avesse bisogno di accomodare uno spilione, continuò con un tono di naturale noncuranza: ‑ Celestina è un poco ammalata, tanto che l'ho obbligata a mettersi in letto. Ieri ha voluto stirare colle finestre chiuse, e s'è buscato un forte mal di testa con qualche nausea di stomaco. Se può dormire, passerà tutto... ‑ E, mutando a un tratto il discorso, sorse a domandare senza voltarsi: ‑ Conosce, Giacomo, le mie cognate di Buttinigo?
‑ Credo di essermi trovato con loro un'altra volta.
‑ Sono a pranzo con noi. ‑ E per l'inquieto bisogno, che sentiva, di non rimanere troppo in una cosa sola, con altra voce chiamò: ‑ Enrichetta.
‑ Mammà ‑ esclamò la fanciulla, correndo ansiosa verso di lei. La contessa le ravviò il vestitino bianco e, carezzandola sui capelli, le disse sottovoce: ‑ Sai che non voglio essere disturbata senza necessità.
‑ Scusa, mammà ‑ disse la bambina, a cui gli occhi splendevano di commozione.
‑ Accompagna il signor professore in sala e fa le presentazioni. ‑ Quando Giacomo e la fanciulla ebbero lasciato il salottino, donna Cristina si strinse le tempie nelle mani, socchiuse gli occhi, e pregò con un mormorio di affanno mortale: ‑ Signore, sostenetemi!
Verso le sei, fu servito il pranzo nel severo salotto parato di cuoio, che due grandi e massiccie credenziere intagliate nel grosso stile del seicento arredavano su due lati. La tavola era splendente di argenterie e di cristalli finissimi, sui quali si riverberava la luce rubiconda del giorno, che moriva dietro la piccola pineta del giardino. Fabrizio e un altro servitore più giovine, nella sobria livrea color tabacco coi paramani bianchi, servivano con precisione in un raccoglimento quasi religioso, recando grandi piatti d'argento cesellati colle iniziali e cogli stemmi delle due famiglie.
La contessa pareva aver ricuperata tutta la sua forza di spirito.
Seduta a capo della tavola, esposta al caldo bagliore del tramonto, la sua bella testa di matrona ancor giovane spiccava sul fondo bruno della parete, alleggerita, per dir così, dalla luce fuggente dei brillanti, che popolavano i suoi capelli, dalla nebbia dei pizzi candidissimi e da un pallore marmoreo del volto, soffuso con insolita civetteria da un roseo velo di cipria. Indossava elegantemente un vestito di piccolo velluto amaranto, col busto eguale, sul quale ripiegavasi a guisa di collare un ampio risvolto di pizzo di Fiandra. Al collo, unico ornamento, era un filare di perle, una delle quali grossa quasi come una nocciuola, spiccava in mezzo al color fulvo di quei famosi capelli, che formavano l'ambizione di Celestina.
I giorni d'invito erano per la giovane cameriera giorni di palpiti e di trepidazione. A Celestina la contessa rappresentava quanto di più bello, di più elegante, di più ideale possa prendere la figura di una donna sulla terra; e se c'era pericolo che ella potesse soffrire in qualche confronto con altre signore, le precauzioni, le cure, le trepidazioni non avevano mai fine. La ragazza la faceva passare tutta, filo per filo, dalla punta delle scarpe alla punta dei capelli, e dopo averla aggiustata, ritoccata, adorata, l'accompagnava fin sull'uscio della sala, stando dietro il battente ad assaporare il trionfo, come se una parte di merito andasse a lei.
Questa volta la povera Celestina non aveva potuto accompagnare la sua signora. Una piccola e fiera battaglia era stata combattuta tra lor due nelle stanze superiori, dove miss Haynes, la vecchia istitutrice, era rimasta di guardia per impedire che la ragazza facesse uno sproposito. Donna Cristina, nella signorile acconciatura, sorridendo agli invitati, si sforzava di sostenere la conversazione colla consueta amabilità, provocando essa stessa i discorsi, perché nessuno avesse a leggerle negli occhi il suo affanno; ma se il corpo era in sala, il suo cuore era rimasto confitto di fuori. Essa avrebbe voluto persuadere Celestina a lasciare il Ronchetto quietamente, senza far scene, sotto un pretesto, che si trova sempre; e assumeva sulla sua responsabilità l'incarico di avvertirne Giacomo e di fargli parere questa partenza come una cosa naturale e provvisoria. La stessa di Breno si era offerta di ricevere la ragazza sotto la sua protezione, e, or sì or no, la poverina ne pareva persuasa. Ma quanto più si avvicinava il fatale momento, non sapeva distaccarsi dalla contessa, che nella sua tremenda disgrazia rappresentava l'unica àncora di salvezza, l'ultima protezione, un testimonio della sua innocenza, un'amica, una mamma. Nelle mani degli altri essa sarebbe diventata di nessuno, o, quel che è peggio ancora, preda di tutti: e in questo timore, come se sentisse di camminare verso un precipizio, impeti di fiera ribellione succedevano a freddi propositi di rassegnazione, ripulse selvaggie a miti acconsentimenti, lagrime sfrenate a lunghi silenzi di morto stupore.
Più d'una volta la contessa aveva dovuto trattenerla, stringerla nelle braccia, baciarla sugli occhi, bagnarle il viso di lagrime, supplicarla con parole umili e piccine, sussurrate nelle orecchie, perché non avesse a gridar così forte, a non richiamare l'attenzione della gente di casa; finché la Celestina, commossa da quel dolore non meno grande del suo, debellata da quelle parole, che si accordavano alle sue, rammollita da quelle lagrime, che si mescolavano alle sue, prometteva di esser savia e paziente, di lasciarsi condur via, di fare tutto quello che la signora contessa le avesse detto di fare.
Con una di queste promesse, strappata all'ultimo momento e ricompensata col dono d'un bel rosario di madreperla, donna Cristina era discesa in mezzo a questi suoi familiari, dopo aver soffocato con uno sforzo supremo della volontà le aspre inquietudini e le eccitazioni nervose sotto un amabile e ridente contegno, come aveva fatto sparire la traccia delle lagrime e delle notti mal dormite sotto il velo roseo della polvere profumata.
Questa straziante, necessaria, insolita energia di dissimulazione, la povera martire l'attingeva al pensiero che in essa era la salvezza della sua casa, come il capitano valoroso sa che dal suo contegno fermo e sicuro nel fitto della battagila può dipendere la sorte della giornata campale.
Insieme ai padroni e alla padroncina di casa sedevano, come s'è detto, intorno alla tavola il segretario Balsamino, il maestro della banda, don Iginio, pretino giovane e delicato, e le due zie di Buttinigo, sorelle di don Lorenzo, donna Adelasia e donna Gesumina, contesse Magnenzio, due dame attempate, non prive di barba, tonde e piccolette come due gomitoli, vestite tutte e due colla stessa severità quasi monacale di seta nera; ma si capiva dai molti anelli e dall'astuccio degli occhiali che si aveva a che fare con due dame e non con due monache.
Erano sempre vissute zitelle, non credo per avversione al santo matrimonio. Donna Adelasia aveva amato, sul tramonto della sua giovinezza, un uomo di quarantacinque anni, che la voleva sposare; ma il povero marchese Caccianino, proprio quindici giorni prima del fausto avvenimento, cadde da cavallo e restò sul colpo. Da allora la meno brutta delle Magnenzio, considerandosi come vedova, non fece che coltivare le meste memorie.
Donna Gesumina, anima di bambina in un corpo poco sviluppato, era invecchiata senz'accorgersi nella sua innocenza, vivendo un giorno dopo l'altro per quasi sessant'anni, di amaretti, di caramelle di gomma, di rosoli, di novene e di santi e pudibondi sgomenti per tutto ciò che leggeva sui giornali o che sentiva raccontare intorno agli oltraggi che si recano continuamente alla Chiesa e al cuore del Sommo Pontefice.
Vivevano sole in quel loro casone di Buttinigo, ma non rifuggivano dal mondo, al quale cercavano non mal volontieri gli argomenti di scandalo e le occasioni per deplorare la decadenza dei buoni costumi. Non insensibili al fasto e alle decorose tradizioni della famiglia, portavano a spasso l'antica nobiltà in un carrozzone foderato di stoffa color guscio di castagna, che aveva sulla portiera i due terribili draghi colle fauci aperte, una diavoleria araldica da far venire la tremarella alla Convenzione. A proposito di questa spaventosa impresa un canonico Ildefonso Magnenzio aveva scritta una dissertazione storica, pubblicata a Bergamo l'anno 1653, nella quale si tira in ballo perfino Berengario I, per dimostrare che Magnenzio deriva da magnar, corruzione di manducare, che in certi incontri storici può essere anche sinonimo di divorare. Comunque sia, quelle gran bocche aperte rappresentavano, per le due dame e per il Rebecchino, loro cocchiere e factotum, una gloriosa tradizione, alla quale era attaccato qualche milione di patrimonio, che sarebbe andato a cadere in bocca a don Giacinto, unico erede maschio di una prosapia quasi millenaria.
In quest'unico rampollo, com'è facile immaginare, le due vergini dame riponevano le loro femminili e aristocratiche compiacenze, amando in lui, non solo il passato illustre, che sarebbe rifiorito in lui, ma tutti i figliuoli, che esse non avevano potuto avere.
Il giovinotto era bello, bianco di carnagione, coi baffetti biondi, spigliato, spiritoso, amabile, non imminchionito nei libri come suo padre, sapeva essere a suo tempo e luogo ardito e prepotente; insomma le zie di Buttinigo vi trovavano tutti i sapori, lo sovvenivano di nascosto di denaro, lo compassionavano come una vittima di un sistema educativo irragionevole e, pur inchinandosi alle intenzioni di donna Cristina loro cognata, si permettevano di osservare sommessamente tra loro che i nobili non vengono al mondo per istudiare la filosofia e per incretinire sulle lapidi, come faceva il loro fratello antiquario. Giacinto capì presto, prima ancora di mettere un pelo di barba, che le due buone zie di Buttinigo eran da coltivare come due buone vigne. Con un tantino di ipocrisia, che in francese si dice savoir faire, coll'esagerare i suoi stessi sentimenti di buon credente, col fingere qualche straordinaria mortificazione in quaresima, col racconto ameno di tutte le storielle galanti che correvano negli aristocratici salotti, il ragazzo, a furia di soddisfarne gli istinti materni e la disoccupata curiosità, s'era fatto delle due zie due potenti alleate, sempre pronte a dargli ragione, a difenderlo contro le sofisticherie di mammà, a fornirgli sottomano i mezzi di pagarsi qualche scappuccio.
Né la contessa poteva da parte sua contraddirle sempre, e per un giusto riguardo a don Lorenzo, che sopra ogni cosa amava la pace e l'armonia, e anche per un riguardo ai due draghi e all'annesso patrimonio. Il giorno che, per isfuggire ai pedagoghi di mammà, il bel giovinotto si presentò alle zie nella chiara divisa di Piacenza cavalleria, cogli stivaloni alla scudiera, collo spadone al fianco, coi kolbach di pelo sulla sua bella testa di biondo Apollo, per poco le due zitelle non isvennero di consolazione. Lo fecero passeggiare in su e in giù per il salone, vollero sentire il tin tin degli sproni, sfoderarono esse stesse la terribile spada e gli regalarono subito cento lire ciascuna per le sigarette. A turbare la gioia di questo trionfo venne l'ordine del Ministero, che destinava il giovane soldato a Roma; ma, consultatesi con quel brav'uomo del prevosto di Trezzo, le due apostoliche zitelle cercarono di riparare l'offesa involontaria che un Magnenzio recava al cuore del Santo Padre, coll'incaricare lui stesso di versare cinquecento lire alla cassa dell'Obolo di san Pietro. Giacinto ritirò da un chierico una polizza per cinque lire, vi aggiunse di sua mano un paio di zeri, e giocò le altre quattrocentonovantacinque al faraone. Il diavolo, com'era dover suo, lo aiutò e lo fece vincere.
***
Don Lorenzo, da buon umanista, fece onore alla tavola, specialmente a un manicaretto di pasta frolla imbottito di tartufi, che Orazio non aveva potuto mettere in asclepiadei. Egli era in vena di celiare, e per il gusto che gli dava ogni bella compagnia, e per l'appetito, che per fortuna non guastava questa volta l'opera del cuoco. Giacinto gli aveva scritta ancora una cartolina, mica male, povero Ippofilo, tranne la smania di togliere l'acca alle voci dei verbo avere, che l'hanno sempre avuta.
‑ Son novità di quei signori toscani, che si possono compatire in un giovinotto; ma di questo passo non le pare, don Iginio, che si vada diritti all'anarchia ortografica?
Il pretino timido, che stava attento a non commettere errori di convenienza, si scosse, dètte una lavatina asciutta alle mani, le aperse come se celebrasse all'altare, e, facendosi rosso in viso, rispose:
‑ Sicuro, signor conte, l'acca ci vuole.
‑ Togli l'acca di qua, taglia di là la coda ai beneficj, a maleficj, al boja, leva un t a Cattolico e a Catterina, che è come levare una costola a una di queste signore... e poi che cosa resta dell'italiano di Dante, del Petrarca e del Boccaccio? che ne pensa il nostro egregio Balsamino a secretis...?
‑ Ecco, se mi permette, io le dirò, signor conte ‑ rispose col solito rustico coraggio il segretario comunale, che non dubitava mai della forza delle sue arguzie d'uomo semplice: ‑ Se permette, io per me preferisco il suo vin di barolo, signor conte... ‑ e lanciata la bomba, rise molto, sperando che gli altri facessero lo stesso; ma un freddo silenzio gli fece capire che questa volta la bomba gli era scoppiata in mano.
Donna Adelasia, per aiutare il povero pretino, che pareva quasi asfissiato dalla suggezione e dalla presenza delle signore, volle sapere da lui che cosa fossero le quaranta proposizioni di Antonio Rosmini, che il Papa aveva riprovate e messe all'indice come ereticali. Il poverino, che, tutto occupato a confessare le donne, non aveva tempo di leggere, dopo aver lavate con tre o quattro fregatine nell'aria le sue piccole mani, se la cavò col dire:
‑ Vede, donna Adelasia? Il Rosmini è un panteista.
‑ Ho visto! ‑ soggiunse col suo fare alquanto torbido la maggiore delle due zitelle; e volgendosi a Fabrizio, che si avanzava coi piatto, chiese collo stesso grado di curiosità:
‑ E questa che roba è?
‑ Questo è zampone di Modena, contessa ‑ disse Fabrizio.
‑ C'è qualche altro, che pencola verso il panteismo ‑ intonò il conte colla bocca fatta morbida da una soave pasta di patate, alzando un dito minaccioso verso Giacomo, che sedeva all'altro capo della tavola, tra la contessa e donna Enrichetta.
‑ Dice a me, conte? ‑ domandò Giacomo, fingendo di non capire.
- Noi sappiamo leggere fra le righe, Giovannino!...
- Piano, piano: lei mi fa una terribile accusa davanti al Santo Uffizio ‑ soggiunse Giacomo, ridendo e accennando coll'occhio a don Iginio.
‑ Zitto là, sor filosofo: bene intendenti pauca. Solamente guardate quel che fate, signori idealisti ‑ aggiunse don Lorenzo coi pomelli accesi, alzando il tono della canzone; poi, tenendo sollevato sulla forchetta un boccone di quel ghiotto zampone di Modena, che aspetta ancora il suo poeta, continuò: ‑ Guardate, giovanotti, che a furia di scassinare i principj, non vi manchi la terra sotto i piedi. I tempi son grossi di arie cattive e una cattiva filosofia è sempre la staffetta d'una cattiva repubblica, L'abbiam visto in Francia ai tempi della Rivoluzione, quando sul posto d'ogni altare abbattuto il buon popolo innalzò una ghigliottina. Che ne pensa la mia dilettissima consorte, che oggi mi par più malinconica del solito, quantunque ciò non guasti la sua casta bellezza?
La contessa si scosse da' suoi pensieri e si sforzò di sorridere; poi, volendo mostrare che prendeva parte ai discorsi dei convitati, chiese al maestro della banda qualche notizia su un certo contrasto nato tra la fabbriceria e il Consiglio comunale... a proposito d'un funerale.
‑ La signora contessa sa che la nostra banda non ha opinioni politiche ‑ disse il maestro, un ex‑tromba dell'esercito, a cui faceva bene il vino di Piemonte. ‑ La musica è un'arte, e l'arte dev'essere superiore alle opinioni. Si trattava d'un reduce garibaldino, e io domando se si poteva rifiutare di sonar l’inno di Garibaldi.
‑ L'inno di Garibaldi in luogo sacro... ‑ entrò a dire il conte simulando un santissimo orrore per un così grosso sacrilegio. ‑ Che ne dice, don Iginio?
‑ Ecco... ‑ provò a dire il pretino, facendosi rosso per lo sforzo ‑ poiché Sua Eminenza il nostro vescovo ha proibito ai parroci...
‑ Che cosa ha proibito? ‑ gridò il maestro, che in questa benedetta questione degli inni patriottici s'era più volte asciugata la gola. ‑ Con qual diritto può proibire un vescovo la manifestazione d'un sentimento patriottico?
‑ Fin che durerà questo dissidio... ‑ s'arrischiò d'aggiungere il pretino, sostenuto dalla coscienza del suo dovere.
‑ Ma mi faccia il piacere, don Iginio! ‑ strepitò il maestro, con gusto infinito del conte che si divertiva ad aizzarli l'un contro l'altro parendogli di assistere all'epilogo dell'antica lotta delle Investiture. ‑ Se lei avesse visto il fuoco come l'abbiam visto noi a San Martino, a Palestro, a Custoza, saprebbe che certi sentimenti non si smorzano nemmeno con l'acqua santa...
‑ Questa è buona, Giovannino!. ‑ approvò il conte, picchiando sulla tavola il calice del suo vin bianco dolce; e, strizzando gli occhietti verso Giacomo, stava per citare un verso di Orazio quando, sul caldo frastuono della discussione dei piatti e delle posate, risonò un grido acuto e spaventato, che parve un grido di donna, a cui tenne dietro un forte sbattere di usci e un correre confuso di gente.
‑ Che cosa c'è? misericordia! correte a vedere. Chi si è fatto male? ‑ confusamente esclamarono i convitati.
‑ Sapete che questi spaventi mi fan male, benedetto Iddio... ‑ balbettò il conte, che rimase lì colla forchetta in aria e col boccone infilzato.
La contessa era subito scomparsa, ma rientrava poco dopo con Fabrizio a dire che non c'era nulla di grave. La donna di guardaroba era caduta sulla scala con una catinella in mano, ma tutto era finito con molto spavento, e col danno della stoviglia.
‑ Meno male, ma, santo Iddio, state attenti a non procurarmi di questi spaventi, che guastano la digestione. Sapete che son mezzo malato e il cuore mi salta per niente. Par sempre la casa del diavolo. Un po' di riguardo, per bacco! Mi versi un altro dito di vino, maestro. Bevete tutti, fatemi coraggio.
Tutti bevettero, per obbedienza, alla salute del signor conte e alla felicità di donna Enrichetta.
Donna Cristina, che, durante il pranzo, era stata continuamente col cuore sollevato, al primo grido di quella disgraziata era scattata in piedi, in preda a una violenza nervosa, era corsa di fuori, e giunse appena in tempo ad arrestare sul pianerottolo Celestina, che mezzo svestita, coi capelli in disordine sciolti sulle spalle, colla faccia stravolta, si dibatteva nelle braccia di miss Haynes.
La contessa, col tono severo e autorevole che sapeva prendere quando il caso richiedeva, l'afferrò per un braccio, la trasse con sé per il corridoio buio della foresteria, la chiuse nella sua stanzetta, dove Celestina s'inginocchiò:
‑ No, contessa, mi perdoni, ‑ pregava ‑ sarò buona. Mi pareva che volesse pigliarmi.
‑ Chi? chi ti perseguita?
‑ Il diavolo.
‑ Tu non mi vuoi più bene.
‑ Le voglio bene, signora. Lei è la mia mamma. Ma c'è proprio un diavolo che mi tormenta.
‑ Sei malata, capisci? Senti come abbrucia questa povera testa. Torna a letto. Non sai che ci farai morire, se non obbedisci?
- Giacomo è qui. Lasci che gli dica tutto.
- Tu non gli dirai nulla, perché io non lo permetterò. Guarda che so essere anche cattiva. Ti farò chiudere in una stanza... Vieni, invochiamo insieme la Madonna dei dolori...
Celestina, passata la crisi, dette in un pianto dirotto, si lasciò collocare sul letto e promise di essere savia e obbediente. La contessa chiuse l'uscio a chiave e lasciò miss Haynes in sentinella. Tutto questo accadde nel minor tempo che occorre per raccontarlo, in una specie di furiosa scaramuccia, a cui le due infelici creature andavano da qualche tempo abituandosi. La contessa, non solo si meravigliava di saper vincere e domare la sua vittima, ma una meraviglia più alta sorgeva nell'animo suo alla prova della sua forza, che mai avrebbe immaginato di possederne tanta; una forza morale e nervosa, che sapeva ardire e nascondersi, che, oltre a insegnarle le astuzie del vincere e del resistere, le manteneva sul viso quasi una maschera sorridente. E non eravamo che alle prime scaramuccie d'una tremenda battaglia! Sarebbe bastata questa forza il giorno che avesse dovuto affrontare il grosso del nemico? non vedeva né il quando, né il dove questa battaglia si sarebbe combattuta; ma, se si raccoglieva un istante, le pareva di sentire non molto lontano un muggito d'una moltitudine di mali selvaggi, non mai immaginati, davanti ai quali il morire, il morir subito, le compariva una liberazione.