Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE PRIMA

XI. Anche i buoni sono furbi.

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XI. Anche i buoni sono furbi.

 

In una lettera, scritta verso gli ultimi di settembre, Giacomo mi discorreva ancora delle sue idee e delle sue speranze per l'avvenire:

«Non ho osato respingere il beneficio, che mi offrirono questi miei vecchi benefattoriscriveva ‑ e non me ne pento. Intanto chi procura all'amico l'occasione di essere utile gli procura uno dei più delicati piaceri, e io sento che il saper ben accogliere un beneficio è un riconoscere nel miglior modo che la bontà esiste nel mondo. Ma, lasciando queste sottigliezze che farebbero ridere, se le dicessi, l'oste della Fraschetta, è certo che io ho potuto ottenere una moratoria (dico giusto), placare i creditori più feroci, destar della fiducia in questo signore della Rivalta, che si è offerto di mettere un puntello sotto il tetto di questa povera casa crollante. Il povero dormirà meno male sotto la terra. Sento che questa è la strada del dovere e procuro di batterla senza discussioni. La necessità ha questo di buono, che non lascia tempo alle esitanze: o correre o cadere. Questo signor Mangano della Rivalta di cui ti parlo, e che io considero come la causa principale della nostra rovina, è venuto a trovarmi con un viso umile e compunto, s'è sprofondato in inchini e in giustificazioni, sforzandosi di dimostrarmi che non aveva nessuna colpa nel disastro, che a mio padre voleva un gran bene, che di me ha una stima immensa, che soltanto le tristi circostanze hanno potuto congiurare contro un galantuomo; e, per provarmi che la sua non è un'amicizia di sole parole, mi offrì di ritirare lui tutti i crediti che gli altri possano vantare verso di noi, e di unire le sue forze alle nostre per continuare nell'azienda delle Fornaci, che, a parer suo, potrebbero avere un grande avvenire, quando si rinnovassero i metodi di produzione e ci fosse una buona testa direttiva.

«Che l'ex‑impresario abbia a cercare anche questa volta il suo vantaggio, è chiaro come il sole; ma, nel suo vantaggio, non si può negare che non vi sia un utile e una sicurezza anche per noi. I miei fratelli, se va quest'accordo, metterebbero le braccia, e l'ometto della Rivalta il grande ingegno che Dio gli ha dato per far quattrini. La casa resterebbe così assicurata a queste povere donne, che, alla sola idea di andar raminghe per il mondo (e dove si andrebbe?), si lascierebbero morire di spavento. Questo signor Mangano trova che io non manco d'un certo bernoccolo per gli affari, e da una settimana in qua mi ronza intorno, perché persuada la contessa a cedergli un certo campo e una cascina, detta la Colombera, in corrispondenza di alcune cambialette di don Giacinto cadute nelle sue mani. È un tasto doloroso che dovrò toccare alla contessa: ma non è la prima e non sarà l'ultima volta. Ed eccoti, caro trapezio, come un filosofo idealista, quasi trascendentale, può trasformarsi, senza ch'egli se ne accorga, in un mediatore di affari e in un fabbricatore di tegole. Ovidio non ha prevista questa metamorfosi». E finiva la lettera con questa notizia: «Celestina è stata poco bene in questi giorni con una piccola minaccia di tifo, che pare scongiurata. Essa ha trovato nella contessa una madre amorosa, che me la farà guarire».

 

Giacomo era tanto lontano dall'immaginare il terribile disastro della sua vita e dal supporre nella gente oscure intenzioni che non esitò a trattare direttamente per incarico della contessa questa faccenduola delle cambiali di don Giacinto, recandosi egli stesso una bella mattina di ottobre a far visita al signorotto della Rivalta.

L'edificio, che portava il nome di Rivalta, avrebbe quasi potuto aspirare all'onore di palazzo, se non fosse stato il deplorevole abbandono, in cui da cinquant'anni in qua lo avevano lasciato i molti e cattivi padroni, che se l'erano barattato. Di fuori conservava ancora le traccie e la fisionomia dello stile pesante del seicento per il suo portone a grossi dadi di pietra, sovraccaricato da un enorme mascherotto di sasso, e per due vecchie colonnette mal sagomate messe davanti, che reggevano ancora qualche rugginoso pezzo di catena; ma l'erba cresceva tra i ciottoli del grossolano selciato, spuntava dalle screpolature delle sconnesse cornici, le gelosie si sgretolavano nei loro vecchi telai, dopo aver lasciata l'ultima vernice come una allumacatura lungo le pareti delle muraglie, e le macchie s'incontravano, scendendo, coll'umidità che saliva dalla corte, come sparse ombre di desolati fantasmi. Il caseggiato signorile, dopo aver servito per alcuni anni ad uso di filatoio, era caduto, in conseguenza d'un fallimento, nelle mani rapaci di questo signor Ignazio, un ex‑impresario teatrale, intraprenditore di affari indecisi, sovventore riconosciuto di denaro al prossimo, che tra le molte trappole aveva piantata qui la famosa sega a vapore. La sega non lavorava più per mancanza, diremo così, di combustibile; ma il sottile affarista lavorava sempre anche al buio, stendendo i suoi fili invisibili per un circuito di venti o trenta miglia a tutti gl'ingenui, a tutti i discoli, a tutti gli allucinati, a tutti i credenti e miscredenti della fortuna.

Mauro Lanzavecchia era stato uno degli ingenui. Siccome questo signor Ignazio, ricco ormai del suo, era oggi molto meno bisognoso di far affari, aveva sugli altri suoi pari il vantaggio di poter aspettare le buone occasioni, le quali non si maritano che agli uomini pazienti. E ciò spiega come molti buoni figliuoli di famiglie oneste lo preferissero agli altri esosi speculatori di mestiere, che non mirano che a guadagnar presto. Don Giacinto l'aveva, per esempio, sempre trovato un uomo ragionevole, e in certe occasioni quasi generoso. La stessa educazione dell'uomo, che aveva molto viaggiato e trattata la compagnia variopinta degli artisti, oltre a dargli il tratto civile e corretto, non gli permetteva di mostrarsi sordidamente avido e taccagno, come si mostrano gli strozzini di seconda qualità. Dacché cominciava a invecchiare e a schiudere la mente, come soleva dire, ai casti pensieri della tomba, il suo primo pensiero non era tanto di far quattrino da quattrino, quanto di collocare onestamente la sua Norma a una persona onesta, che facesse onore al suo denaro. Un galantuomo è anche lui un buon capitale nel mondo, quando sia ben impiegato; e nessuno sa meglio apprezzare la rendita che fruttano le modeste virtù di un uomo onesto, quanto colui che si è trovato qualche volta nelle condizioni di non poter esserlo. Questo pensiero non era estraneo al desiderio, che lo spingeva ad accostarsi al giovine Lanzavecchia, a mostrarglisi ragionevole, docile, transigente, migliore della sua fama, disposto ad accogliere una buona proposta, a rendere un buon servizio, a riparare, se pareva necessario, un torto o una ingiustizia, a rimetterci del suo, piuttosto che passare agli occhi del sor Giacomo come un aguzzino bramoso del sangue altrui. E in questo suo desiderio era tanto più lodevole in quanto che, a sentirlo, avrebbe potuto maritare la sua Norma a fior di banchieri ricchi sfondati e, se avesse voluto, farne una contessa o una marchesa. Duecento mila lire pronte e il resto a babbo morto, col tempo che fa, possono indorare le vecchie corone, che, senza lo splendore del metallo, nessuno le vuole più nemmeno per insegna d'osteria. Invece, se Giacomo Lanzavecchia si fosse fatto avanti col fallimento in una mano e il suo diploma nell'altra, l'amoroso padre l'avrebbe preferito a un principe, non una volta, ma quante volte il carattere, l'intelligenza, il sapere, il nome superano i titoli oziosi.

Giacomo andò alla Rivalta col denaro e coll'autorizzazione di ritirare le cambiali, che don Giacinto aveva rilasciate a favore di alcuni suoi compagni di studio. Dal piazzaletto della vecchia villa si dominava un gran tratto della valle e del corso dell'Adda. Il Ronchetto col suo fastoso palazzo biancheggiava nel verde folto del giardino; più sotto era il Santuario; e più in basso ancora le Fornaci, con due vecchi camini lunghi e affumicati, colla vecchia casa dal tetto bistorto, dai pioventi cascanti anneriti dal tempo, coi riquadri dei mattoni rossi, che spiccavano sugli spazi giallognoli esposti al sole dove gli operai lavorano a modellare la terra nelle forme, all'ombra di un graticcio di foglie secche. Dall'alto si poteva scorgere anche un tratto del muricciuolo, che chiude il camposanto.

Giacomo si soffermò un istante a riassumere, con un'occhiata pensosa, la storia della sua povera casa, e provò un senso quasi d'orgoglio davanti alla riflessione che la filosofia, usata bene, può servire a qualche cosa. Se i creditori non erano piombati come uno stormo di avvoltoi sulla sua casa, se i suoi fratelli avevano lavoro e sua madre un letto e un boccone di pane, il merito stavolta era stato dei mangialibri. La stima lungamente coltivata aveva fruttato il credito; e il credito aveva disarmata l'avarizia. «Anche i buoni son furbi» ‑ finì col conchiudere in cuor suo, mentre coll'occhio andava a cercare tra le sessanta finestre di casa Magnenzio una certa finestra verso ponente, a cui soleva mandare le sue giaculatorie. Era la stanza di Celestina. La trovò, l'ultima sopra le serre, vi si fermò un istante, e, ricordando che «Frulin» era malata, un senso di oscura tristezza passò come una nuvola nell'animo suo. Un grande abbaiamento di cani lo fece uscire dai suoi pensieri. Si mosse e andò a battere al portone chiuso.

Al rimbombo, che rispose di dentro, si raddoppiò lo sguaiato abbaiamento, in mezzo a cui risonò la voce poco armoniosa d'una donna, che sgridava le bestie, inviandole all'inferno.

Il catenaccio interno cigolò un pezzo negli anelli, si aprì uno sportello, e comparve la figura poco pulita d'una vecchia serva, che, colle maniche rimboccate fin sopra ai gomiti, dava maledizioni con un padellino a quattro o cinque botoli grassi, ringhiosi che si avanzavano.

- È lei, sor Giacomo? venga avanti.

- C'è il signor Ignazio? ‑ domandò Giacomo alla donna, nella quale riconobbe una certa Serafina, che aveva servito molto tempo in palazzo. Si voleva che l'avessero mandata via per poca fedeltà. Sui passi della donna, attraversò una corte d'apparenza signorile, ma forse d'aria ancor più umida e tetra che non fosse di fuori.

Sora Normachiamò la serva.

Una bella voce di contralto rispose con un gorgheggio:

‑ Chi mi chiama?

Ed ecco subito dopo comparire sull'uscio della sala una florida ragazza, dal portamento soldatesco, coi capelli scomposti sopra un giubboncello rosso fiammante ornato di alamari d'oro come una divisa ungherese, che si teneva in braccio una cagnolina appena nata, colla tenerezza con cui si porterebbe una bimba a battezzare. Gli occhi grandi e neri come quelli delle famose odalische ebbero un lampo di gioia. Tirandosi accosto l'uscio, senza però nascondere la bella e arruffata testa di zingara, la signorina Norma si scusò di non essere presentabile, e pregò il signor Lanzavecchia di passare nello studio di papà.

Il signor Ignazio, con indosso una vestaglia da camera a fiorami rossi su fondo giallo, con un berretto da cavallerizzo in una mano, stese l'altra mano al caro visitatore, si sprofondò in cerimonie, che avevano un non so che di frettoloso e di agitato, e, chiesto perdono per il gran disordine, fece sedere Giacomo in uno stanzino pieno di vecchi mobili, di quadri, di suppellettili preziose, che gli davano l'aspetto d'una bottega di rigattiere.

L'ex‑impresario, magro, secco, nervoso, col viso volpino di certi uomini d'affari, si mostrò d'una cortesia infinita, profondendosi in complimenti, che il suo accento triestino rendeva ancora più morbidi. Quando Giacomo fece l'atto di levare il portafogli di tasca, non volle assolutamentericevere, né vedere il denaro:

Dica alla signora contessa che non intendo far speculazioni sulla inesperienza di un giovinotto allegro. Don Giacinto ha firmato per gli altri, ed è giusto che gli usi qualche riguardo; io sono pronto a rinnovare questi piccoli effetti, che possono valere molto meno di quel che dicono. Spero invece che la signora contessa vorrà accontentare quel mio modesto desiderio che lei sa, caro signor Giacomo, e vorrà cedermi quel pezzo di campo della Colombera a cui faccio la corte da un pezzo. Questa Rivalta è un cimitero, come vede, e il mio sogno è di finire i miei giorni al sole. Lei deve assolutamente aiutarmi in questa faccenda.

Casa Magnenzio non usa a vendere e non so come potrò persuadere la contessa...

‑ Lei può molto, ora, lo sappiamo; e sappiamo anche che può chiedere quel che vuole a quei signori.

‑ Sono un magro mediatoretornò a dire il buon uomo.

‑ Lei è più filosofo di tutti, mi lasci dire, e noi dobbiamo fare della strada insieme. Ora le presenterò mia figlia... ‑ E, dirizzandosi coi suo passetto scivolante verso l'uscio, chiamò due o tre volte: ‑ Norma, vieni un po’ qua. ‑ E poi gridò verso la cucina: ‑ Porta il caffè, Serafina... ‑ E poiché Norma si faceva alquanto aspettare, egli tornò a sedersi davanti al giovine, pose confidenzialmente le mani ossute e lunghe sui ginocchi di lui, e, dopo aver battuto tre o quattro colpetti confidenziali, passò la mano sul filo di due baffetti sottili, tinti e tirati aguzzi come punteruoli: ‑ Che piacere che provo, caro professore, di stringere con lei un po' d'amicizia. Io non sono né un letterato, né un protettore di letterati, ma so giudicare gli uomini e li peso per il loro valore. Lei è un uomo, che andrà molto avanti, e per la strada maestra. Noi poveri affaristi, che siamo costretti a rimestare negli stracci, non sempre le mani vanno dove si vorrebbe. La scienza invece è una cosa astratta e pulita; non solo, ma la scienza oggi è la sola e genuina aristocrazia possibile di fronte a questi contini e marchesini, che non valgono più della porcellana rotta. Il mondo, oggi, è di chi pensa e di chi lavora. Vieni, Normadisse, alzandosi di nuovo, andando incontro alla figlia, che entrava col vassoio del caffè. ‑ Conosci il professor Lanzavecchia? è un filosofo, che è stato anche garibaldino. La penna e la spada, ecco uno stemma che mi piace.

Giacomo si alzò, s'inchinò alla signorina, che nel frattempo aveva dato un colpo di pettine alla chioma selvaggia, e accettò il caffè, ch'essa gli versò lentamente da un cuccumino tignoso, stando in piedi come un gendarme davanti a lui, carezzandolo cogli occhi neri e morbidi come il velluto, fino al punto di costringere il bravo giovinotto ad abbassare i suoi sul piattello.

‑ Questo è il mio gioiello, dirò anch'io come la madre dei Gracchiesclamò l'orgoglioso padre, stringendo con affettuosa dimestichezza nelle dita la gota rubiconda della ragazza ‑ e, siccome non ho che lei al mondo, posso dire che questa è la mia vita. Essa è nata in America da madre spagnuola. Non è forse un bel pezzo d'andalusa? Avrebbe voluto studiare il canto anche lei come sua madre, che è morta, poverina, di febbre gialla: ma io, che conosco il mestieraccio, glielo proibisco. Quando si hanno duecentomila lire di dote, si può fare qualche cosa di meglio che non andare a scopare i palcoscenici colle gonnelle.

Sposerò un principe russouscì a dire la bella creatura con tono lieto e scioccherello.

‑ Che principe d'Egitto! sposerai l'uomo che ti piacerà, e mi darai dei nipotini, ai quali voglio lasciare qualche cosa, perché tuo padre non ha ancora eseguiti tutti i pezzi del suo programma.

Si parlò di molte altre cose alla ventura, fin che Giacomo, sentendosi avviluppato in quell'aria come da invisibili ragnatele, con un atto d'energia, che sapeva trovare nei momenti decisivi, alzandosi repentinamente, tagliò corto col dire:

‑ Bisogna che io veda subito il ragioniere Riboni e lo mandi qui a definire la faccenda di queste cambiali. La signora contessa desidera che il conte non ne sappia nulla...

So rispettare tutte le delicatezzedisse il padrone di casa con un fare umile umile. ‑ Io spero che il signor Giacomo vorrà favorirmi qualche altra volta. Abbiamo di una piccola raccolta di monete antiche, che forse potranno interessarla. Norma sa distinguere benissimo un Nerone da un Diocleziano. Sento dire che anche il conte Magnenzio è un mezzo antiquario. Lo incoraggi, e me lo conduca qualche volta. Troverà prezzi, dirò così, di fallimento. Norma, accompagna il signor professore...

E dopo avere stretta la mano di Giacomo nelle sue di scheletro vivente, s'inchinò per l'ultima volta, chiuse l'uscio, lasciando che la ragazza accompagnasse il giovane a vedere la raccolta delle medaglie antiche. Ma Giacomo, che possedeva la sua psicologia e sapeva servirsene, mostrò di avere una grande premura, promise che sarebbe tornato con più comodo e, rinnovati i suoi rispetti alla signorina, si avviò verso il portone seguito dai botoli, che mostrarono colle loro giravolte e con certi mugolii di tenerezza di saper anch'essi apprezzare la filosofia.

Quando Giacomo fu di fuori, corse a un tratto per la bella strada al sole, colla contentezza del topolino che fugge da una trappola troppo grande per il suo piccolo corpo. Che il signor Ignazio volesse bene a sua figlia e lavorasse per accrescerle la dote, che Norma, la figlia della spagnuola, avesse due magnifici occhi e un fare procace di baiadera, eran cose naturali, che stavan bene al loro posto; il punto difficile cominciava nel voler trovare quel tal uomo rispettabile, che servisse di errata corrige alle cattive speculazioni del suocero e che, insieme a una bella ragazza spettinata, si rassegnasse a sposare una ricchezza racimolata nei due emisferi a furia di baratti e di usura. Sollevando lo sguardo alla finestra della sua Celestina, l'ultima sopra le serre, che splendeva nella luce del sole, gli parve di guardare in un angolo del paradiso.

 

 


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