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Don Lorenzo si sarebbe lasciato tagliare una gamba piuttosto che introdurre, come sappiamo, in una epigrafe la parola fornaciaio, una parolaccia che fa rima con merciaio, formicaio, letamaio; ma, d'altra parte, non sapeva capacitarsi come il canonico Ostinelli, a cui aveva mandata per un'ultima approvazione l'iscrizione sul povero Mauro, trovasse a ridire sulla voce laterizio, che non è poi un latinismo della Valle Brembana! C'è o non c'è in Plinio? Non che egli fosse contento in tutto e da per tutto delle quattro righe, che aveva consacrato al buon vicino delle Fornaci; c'era anche per lui in quell'iscrizione qualche cosa che non finiva di finirgli. Là dove diceva, per esempio: «A Mauro Lanzavecchia dell'arte laterizia maestro industre» quell'estro, ustre, dava al suo orecchio un certo suono di banda campestre, che urtava la tromba d'Eustachio. Si sarebbe potuto girare la locuzione e di dire in altro modo: «Qui i resti mortali posano di Mauro Lanzavecchia che nell'arte calcaria fu per dieci lustri operoso maestro»
‑ È vero che le sue ultime tegole non hanno impedito l'anno scorso che si bagnasse tutto il nostro frumento; ma. questo non si può dire in epigrafe. Mauro era veramente un buon diavolo, un po' rumoroso, operoso e rumoroso maestro...
Il conte, che si rallegrava facilmente e volontieri in questa valle di lagrime, purché il cuoco non gli guastasse un piatto, rideva tutto solo nel suo studio luminoso, parlava con sé stesso, movendosi in mezzo ai libri, come il pesce si muove nell'acqua chiara e trasparente del fiume in cui è nato, cercando che la stanza fosse né troppo calda, né troppo fredda, ascoltando il suo stomaco, litigando spesso per lettera con quel benedetto canonico Ostinelli, un manzoniano spiritato, che trovava (bontà e coraggio suo) fiori di lingua perfino nei «Promessi Sposi».
In fondo non era malcontento che la non grave malattia della contessa gli offrisse una ragione sufficiente per rimanere senza inquietudini eccessive un paio di settimane di più al suo Ronchetto, al suo Tusculo. La regola ormai secolare di casa Magnenzio voleva che non si restasse in campagna mai più tardi del San Martino, vale a dire non mai dopo la riscossione degli affitti e l'aggiustamento dei conti coi mezzadri. Cogli ultimi di novembre dunque la famiglia doveva ritornare regolarmente a Cremona nel gran carrozzone della nebbia, così detto, perché pareva agli abitanti della contrada che con esso viaggiasse l'inverno. Don Lorenzo non s'era mai potuto abituare a quella diavoleria scatenata del vapore, e preferiva andar nella sua carrozza e co' suoi cavalli, che si possono fermare quando si crede. Siccome per la stessa legge fisica e filosofica delle cose, quando non c'è una ragione più forte che spinga a far diverso, la necessità naturale vuole che si continui a far quel che si è sempre fatto, così non era accaduto mai, nei cinquantanove anni dacché don Lorenzo era venuto al mondo, ch'egli vedesse la neve cadere sulle piante del Ronchetto. Grazie alla piccola febbre reumatica di Cristina, che aveva permesso di fare uno strappo alle abitudini, gli era stato concesso anche questo nuovo spettacolo di una bella nevicata sulle piante del giardino, e se lo godeva tutto, stando dietro le doppie vetriate della finestra, coi piedi nelle pantofole di pelo, con in testa un berrettone cosacco, che faceva comparire più grossa la testa e più piccina e più pallida la sua buona faccia di arguto pedante. Meno d'una volta ora sentiva il desiderio di tornare in città. Quantunque vivesse nel suo guscio come una lumaca e non amasse mescolarsi nelle beghe amministrative e politiche, fino a rifiutare l'onore di essere fabbriciere del duomo, tuttavia non poteva impedire che il rumore delle agitazioni cittadine, dei conciliaboli politici, delle lotte elettorali non arrivasse qualche volta fin sulla sua tavola insieme al formaggio e agli amaretti.
Da qualche tempo, in seguito a un'attiva propaganda repubblicana e anticlericale, andavano dìffondendosi nel cremonese, specialmente nel basso popolo, le idee del più scamiciato socialismo, per non dire dell'anarchia addirittura, che avrebbero trascinata la società agli eccessi del famoso Terrore, quando si segavano le teste come gambi di trifoglio.
Quantunque don Lorenzo non arrivasse fino al punto di veder in pericolo la sua cucuzza, si capisce tuttavia che un uomo pauroso come lui sedesse mal volentieri sulla mina e sognasse l'idillio di ritirarsi un bel giorno al Ronchetto a rileggere il suo Guicciardini e le prose del suo Giordani, l'ultimo degli scrittori veramente italiani. Ora che Giacomo Lanzavecchia aveva accettato di metter le mani nelle sue schede epigrafiche e gli toglieva il fastidio della fatica materiale, il conte sognava di lasciare a' suoi figli un monumento storico, che testimoniasse ai posteri come equalmente un certo conte Lorenzo Magnenzio di Villalta, del decimonono secolo, non fosse un merlo del tutto. E come una leccornia, si riserbava l'unica e dolce fatica di premettere il suo gran «Discorso preliminare sugli Uffizj della Nobiltà del presente tempo», che doveva essere il suo testamento morale e stilistico, al quale pensava già con una specie di febbre indosso. La vecchia aristocrazia italiana, specie quella del secolo scorso, della quale egli si sentiva moralmente contemporaneo, aveva lasciata una gloriosa tradizione di coltura, di amore agli studi, di buon gusto nelle lettere e nelle arti, come dimostrano i nomi dei Verri, di un Beccaria, di un Alfieri, di un conte Gozzi, di un marchese Spolverini, l'autore di quel gioiello didascalico intitolato la «Coltivazione del riso»... Oggi invece, ‑ diceva qualche volta con un senso di rammarico a pestar tutti i nostri nobili insieme in un mortaio, non cavate il sugo per condire un sonetto. Le vecchie e illustri biblioteche sono in bocca ai sorci o nelle mani dei rigattieri; i preziosi archivi se li mangiano le tarme; le raccolte dei quadri di valore se li portano via i sarti e i dentisti arricchiti; e così il basso popolo si abitua a non stimarci più, ci considera come nati solamente fruges consumere, aspettando il momento di portarsi via colla forza quel che non abbiamo ancora perduto colla pigrizia. Brutti tempi! ma ne vedremo di più brutti: e quando diremo «mea culpa, mea maxima culpa», non ci sarà più nessuno dei nostri in grado di dettare sul nostro sepolcro una iscrizione passabile... ‑ Queste erano le idee, dirò così, in camicia, che dovevano entrare vestite e decorate nel gran «Discorso preliminare» pel quale andava facendo spogli di lingua dal Davanzati, dal Machiavelli e dall'aureo libretto della «Vita civile» del Palmieri; e passeggiando nelle sue pantofole, mentre risaliva col pensiero alla grandezza politica dell'aristocrazia romana e veneta, gli pareva di diventar grande anche lui e di sentirsi lo stomaco riscaldato da un sentimento nuovo di coraggio e di magnanimità che lo faceva digerire più bene.
Non meno felice del babbo fu donna Enrichetta per questa ritardata partenza. Per lei Cremona era una specie di monastero, senza nemmeno la distrazione del coro. Vecchie dame austere, reverendi sacerdoti, antichi amici, affumicati come i ritratti dell'anticamera, formavano l'unico diversivo delle sue eterne giornate piene d'inglese, di aritmetica, di musica tedesca, di orazioni. Qui al Ronchetto le era concessa più libertà di svolazzare per il giardino, di scendere in compagnia di qualche buona ragazza a visitare le sue vecchie malate nei cascinali circostanti o a copiare dal vero un gruppo di piante, senza quella fodera inglese di miss Haynes, o di pregare sola nella chiesa del Santuario, da dove l'occhio scorreva nella valle dell'Adda coperta di neve. La malattia di mammà e qualche cosa d'insolito, che non osava indagare, rendevano la vigilanza meno rigida: quindi quel trovarsi a un tratto libera da ogni reticolato d'orario prestabilito, le fecero parere quei venti giorni di freddo dicembre una vera e mai provata vacanza. E cercò di goderseli leggendo e scrivendo a lungo, improvvisando grandi poemi in prosa sulla natura bianca, sui morti che sognano al camposanto, sui genii del molino, sul fumo che esala dagli umili tuguri verso il cielo, su un mondo non ancora esplorato di sentimenti, d'impressioni, di fantasie poetiche, che, prima di partire, voleva dedicare al suo professore sotto il titolo di «Foglie cadenti».
Un giorno, tornando dalla messa, sentì da una vecchietta della cascina Colombera, che il signor Giacomo era stato trovato come morto in un luogo detto la Cava presso il fiume, e, portato a casa, dibattevasi da una settimana tra la vita e la morte. Questa notizia colpì il cuore della ragazza come una pugnalata. Di mano in mano che dalle Fornaci arrivavano cattive notizie, sentiva crescere le lagrime negli occhi. Fece accendere una lampada all'altare della Madonna e distribuì ad alcune povere donne gli ultimi avanzi del suo privato peculio, perché pregassero secondo la sua intenzione. Se mammà avesse permesso, sarebbe discesa tutti i giorni alle Fornaci a chieder notizie; non potendo farlo, cercava cogli occhi i neri fumaioli nel candore della neve e dalla sua finestra stava molto tempo immobile e pensierosa a ripetere mentalmente degli auguri. Quando il dottore assicurò che la congestione cerebrale era vinta e che il signor Giacomo si metteva in via di sicura guarigione, donna Enrichetta, come se anche il suo cuore uscisse da una grande malattia, aggiunse molte pagine alle «Foglie cadenti». Una finiva con queste parole:
«Come ti chiami, o fiorellino, che dalla candida e sterile neve sbocci, portando il saluto della terra? Sei tu il fiore della vita, o sei il fiore della speranza, che nessun gelo può spegnere? O modesto fiore dell'elleboro, va fino a lui e portagli il saluto della vita e della speranza. Possa, allo sciogliersi di questa neve, apparire la terra seminata di violette. Già presento il profumo che inebria l'anima».
Pensieri ben diversi passavano intanto nell'animo di suo fratello, il bel tenente di cavalleria. La contessa giudicava male suo figlio, quando scriveva in una lettera alla Breno: «La gioventù è egoista. Egli crede che col denaro oggi si arrivi dappertutto e dorme nell'illusione, in cui vissero i suoi antenati, che mezzo mondo sia stato creato da Dio a servizio e a divertimento dell'altro mezzo».
No, Giacinto non arrivava fino all'orgoglioso concetto di creder sé qualche cosa di superiore e di privilegiato, a cui gli umili dovessero inginocchiarsi. Questa idea spagnolesca di sé stesso non poteva essere nell'indole allegra, cordiale, espansiva, leggerona del giovine, che amava semplicemente il vivere allegro, interrotto, e odiava come la morte le cose difficili e noiose.
Bellissimo, ben costituito e pieno di tutte le sue forze vitali, soltanto una ferrea volontà e una solida tempera di carattere avrebbero saputo salvarlo dagli istinti prepotenti e dalle tentazioni così numerose, così seducenti per i giovinotti ricchi, molto in vista, molto cercati e pei quali la vita galante è quasi un obbligo sociale; ma su questo argomento egli soleva ripetere una facezia, che non mancava d'una certa ingegnosità filosofica: ‑ Per fabbricar la volontà ci vuol la volontà, e non è colpa mia, se il buon Dio non mi ha data questa materia prima.
Avrebbero potuto salvarlo le tradizioni austere della casa, l'affetto de' suoi parenti e l'azione moderatrice della religione; ma le tradizioni di casa Magnenzio, per quanto donna Cristina si sforzasse di tenerle su, s'erano già troppo illanguidite nella bonaria incapacità dei padri; l'affetto non era in armonia colle idee; e la religione non passava la pelle. Quel buon uomo del conte, allevato in un guscio d'uovo nei tempi della Ristorazione, quando s'è creduto di poter rompere le corna al diavolo a colpi di rosario, da uomo così amico della sua pace, pur di non turbarla questa pace, pur di non sentir gridare, metteva sottoterra i cocci delle cose rotte e ci metteva su una pietra. La mamma, alla quale era mancata nella sua vita di donna la rivelazione di quell'affetto, che sorregge nel tempo stesso che si abbandona, metteva forse nella sua educazione troppi sforzi spirituali, troppe idee estranee alla natura delle cose, credendo in buona. fede che il volere possa sostituire il sentimento. In quanto alla religione, è vero che Giacinto si sentiva e si confessava buon cristiano cattolico e osservante; è vero che non senza rimorso trasgrediva ai precetti della Chiesa; è vero che, vivendo in compagnia di amici nobili e ricchi, pei quali la religione, così come sta, non è l'ultima delle difese sociali, era tratto a considerare con rispetto e con benevolenza tutto ciò che si riferiva allo spirito e al meccanismo della Chiesa; ma gli pareva di aver fatto abbastanza, quando aveva pagato il suo tributo alla pratica obbligatoria.
Farsi veder alla messa, specialmente in campagna, mangiar di magro il venerdì in faccia alla servitù, comunicarsi a Pasqua e a Natale, rispettar qualche vigilia, non celiar mai sulle convinzioni... Andiamo, via!... per un giovinotto, che portava una spada, era più di quel che si potesse domandare. Queste quattro pratiche non eccessivamente complicate, in cui è riassunto in certo qual modo il pensiero della Santa Chiesa, lo sbarazzavano dall'obbligo di pensare al resto, cioè, a Dio, all'immortalità e a tutte quell'altre tribolazioni, che logorano la coscienza degli spiriti filosofici.
Anzi, come uno scolaro che, sbarazzati in fretta i quattro lavorucci di scuola la sera del sabato, si piglia tutta la santa festa per spassarsela, così don Giacinto, una volta eseguite le quattro pratiche tradizionali, sentiva d'aver una maggior libertà di movimento per tutto il resto.
Di contro a questi argini posticci vennero a urtare le onde minacciose delle passioni e delle seduzioni mondane nella compagnia allegra di giovani corrotti e di ragazze disinvolte, nelle lusinghe dei balli e dei teatri, dove anche le signore oneste fanno di tutto per piacere in quel che hanno di più bello e di meno morale. Tutto stimola i sensi di un giovine di vent'anni, tutto parla al suo essere fisico in questi ritrovi, in cui la donna è specchio alla vanità dell'uomo; ed e facile che la donna così detta onesta, riesca anche più pericolosa delle altre, se le piglia il ghiribizzo di giocare coll'inesperienza d'un giovane non spento del tutto. Questo fu appunto il caso di Giacinto colla famosa principessa romana, che lo fece soffrire sulla corda fin dove un giovane come lui era capace di soffrire, e gli tolse quest'ultimo sentimento di rispetto, che il maschio conserva anche in mezzo alla sua decadenza per la più fragile delle creature.
Celestina ne pagò le spese. Ma, per arrivare fin qui, era necessario che il vino gli togliesse il sentimento di rispetto che ogni uomo, anche il più tristo, nutre per sé.
Nelle accese giornate di corsa, nell'ebbrezza di un trionfo, nell'espansione d'una riunione di caccia, ora all'ombra di una tribuna, ora nella frescura d'un bosco selvaggio, dove anche la più gentile signora cerca a un bicchier di sciampagna il grido selvaggio dell'amazzone, Giacinto aveva presa l'abitudine di bere, senz'accorgersi, due volte, tre volte più della sua sete, deliziandosi nel ritrovare tra i fumi della vaga ebbrezza una dolcezza di cose misteriose, che parevano scendere a lui da un mondo ideale. Il vino dà spesso anche agli imbecilli l'idea delle cose grandi, per le quali non son nati: e così accadeva che don Giacinto vedesse attraverso al lucente tremolio del cristallo la bellezza e la perfezione di quel misterioso ed eroico gentiluomo che era in lui, che Dio aveva mandato in terra a riassumere la secolare tradizione di casa Magnenzio, per consegnarla nobile e pura a un'altra serie di illustri discendenti. Peccando d'intemperanza, egli sacrificava all'ideale. Il male era questo: che passata la sbornia. non restavano della dolce poesia che i conti da pagare!
«Naturam expelles furca...» ha detto un poeta latino, Orazio, salvo errore, in un verso che Giacinto sapeva citare a mezzo nella fiducia che gli altri sapessero il resto. Tutta la sua erudizione classica si arrestava a quella furca... ma credeva di saperne abbastanza per tirare anche Orazio dalla sua.
Del resto che male c'è, se a ventidue anni un ragazzo si sente giovine? Un uomo, che può spendere diecimila lire all'anno senza sconcertare i bilanci del suo ragioniere; che col tempo avrebbe raccolta la bellezza di tre patrimoni, non solamente non era nato per portare gli occhiali, ma non poteva capacitarsi come mammà si ostinasse a voler cavare da lui un assessore comunale, o un fabbriciere, o un segretario di opere pie. Era lo stesso come voler cavare da un cavallo da sella un professore di greco. Vedendo che mammà non sapeva risolver nulla, e che alle sue insistenti lettere non rispondeva più che inconcludenti querimonie, chiesto un congedo di alcuni giorni, capitò a Milano, dopo aver scritto un biglietto a donna Fulvia, che aveva in ogni circostanza mostrato per lui delle tenerezze materne.
Donna Fulvia, che era appena entrata nel suo elegante quartiere d'inverno, lo invitò a colazione. Prima di andare da lei, il bel giovane si lasciò vedere al circolo degli ufficiali; quindi in compagnia di Pierino Scala fece una passeggiata nelle sale dell'Unione, dove si raccoglie la sera il bello e il buono dell'aristocrazia maschile di Milano.
Capì, dalle accoglienze e dai discorsi degli amici, che la sua avventura campestre non era ancora uscita dalle siepi e dall'ombra, e si consolò come un capitano, che sente di arrivare prima del nemico in una buona posizione.
Donna Fulvia lo accolse colla espansione gioviale che fa di lei una delle più ridenti signore di Milano. A colazione si parlò di tutto un po' delle corse di Roma, della bella principessa di Cerere, che doveva venir sposa nel prossimo carnevale con uno dei più amabili gentlemen della società lombarda. Don Lodovico di Breno, uomo di non troppe parole, ma fino come una lesina, intavolò una discussione semipolitica sull'espansione italiana in Africa, ch'egli riteneva, a quei tempi, la cagione principale del nostro disagio economico; ma Giacinto, che non per nulla portava una divisa coi bottoni d'argento, gli dimostrò, tenendo la forchetta in aria, che l’avvenire del paese era là, al lago Tsana. I popoli vecchi, diceva, non hanno che da guadagnare nella fusione coi popoli nuovi; e in quanto all'Italia, noblesse oblige, era il caso di dire. Quando si è stati una volta i padroni del mondo, non si può senza vergogna rinunciare alla propria missione civilizzatrice. Per conto suo, se mammà non avesse avuto dei pregiudizi, avrebbe domandato subito d'essere mandato a combattere ras Alula.
‑ Sì, sì, ma intanto... ‑ brontolò il conte, abbassando la sua testa precocemente calva e aguzzando gli occhi miopi su una certa miscela di carne fritta, che il cuoco aveva mandato in tavola con una salsa, in cui entrava, non so come, il principe di Galles ‑ intanto noi roviniamo la nostra agricoltura.
‑ Voi moderati non vedete che la politica dei vostri fagiuoli. Siete un partito vecchio, senza ideali.
La bella faccia del giovane Magnenzio si rianimò all'immagine delle caccie grosse, che si posson fare al pian delle Scimmie, e alzando il calice pieno di bordò, il bel tenente bevette alla gloria dell'esercito.
‑ Noi non ti lasceremo partire, Giacinto ‑ soggiunse la contessa, che nella luce candida della finestra brillava d'una biondezza trasparente; ‑ noi siamo gelose di quest'Africa, che ci toglie i nostri figliuoli.
‑ In quanto a' tuoi figliuoli ‑ brontolò il conte, ridendo nel piatto, mentre rivoltava la carcassa africana di quel suo magro pollo inglese ‑ non te li toglie nessuno i tuoi figliuoli.
Giacinto fissò gli occhi scherzosi negli occhi ridenti dell'amica di mammà, che rimbeccò con spirito:
‑ La colpa è della tua politica moderata.
Il bel tenente si rovesciò sulla spalliera della sedia e, balestrando il conte con una briciola di pane, gli disse:
- Te la sei meritata questa volta, Vico.
- Tu, taci ‑ ribatté il conte, minacciando il giovane col dito ‑ ne sappiamo di belle della tua politica liberale.
Giacinto arrossì, e fu sul punto d'aversene a male. Ma la contessa fu pronta ad alzarsi e ad invitare il giovine a prendere il thè nel salottino.
‑ Io vi lascio. Ho una seduta al tocco presso la Deputazione provinciale per la difesa di quei quattro fagiuoli che ci restano. Fulvia ha carta bianca per tutto ciò che posso fare per te; abbi confidenza in lei e lasciati guidare, mio caro Orlando paladino. Siamo tutti interessati a proteggerti, ma bisogna che tu faccia giudizio.
Giacinto strinse la mano del conte con lunga e affettuosa insistenza per fargli comprendere che apprezzava il suo valido appoggio, e, raggirando nei polpastrelli la punta dei baffetti, promise cogli occhi quel che l'emozione non gli lasciò dire colle parole.
Nel salottino rosso della contessa ardeva un bel focherello. Quando il giovine fu seduto davanti al caminetto, donna Fulvia gli offrì una sigaretta, poi gli domandò con un'intonazione un po' grave:
- Ebbene? devo fare una predica?
- Sono così pentito, cara contessa, ‑ rispose il giovine, voltando la sigaretta fra le dita ‑ che potrei già scrivere un quaresimale.
- È desolata, ma non sa trovare un rimedio.
- Non è sempre facile trovare un rimedio: ma come impedire uno scandalo?
- Ha parlato con questo signor cugino, sì o no?
- Nell'ultima sua lettera non mi dice ancora quale sia stato il risultato del suo colloquio con lui. E comincio anch'io ad essere un po' agitata. Comprendo tutte le preoccupazioni della povera donna. Questa benedetta questione s'impernia in un complesso di così gravi circostanze che ogni passo falso può condurre a un disastro. Monsignor vescovo non resterà certamente troppo edificato, quando saprà che quel suo san Luigi di nipote si compromette colle cameriere. Ma come è potuto accadere?
‑ Come... come... ‑ balbettò con una spallata chinandosi ad accendere la sigaretta alla fiamma del camino. ‑ È così facile immaginare, Dio buono...
‑ Diremo che è stata anche questa una passione africana, ‑ disse col suo bel ridere argentino donna Fulvia, mentre allungavasi sulla poltrona, stendendo il corpo fino a toccare colle punte delle scarpette gli alari dorati. ‑ È almeno bella questa Lucia del Ronchetto?
‑ Non mi tormenti, via! ‑ replicò egli, non senza una certa scontrosità; e, facendo sonare sul tappeto gli speroni, buttò la sigaretta nel fuoco.
‑ Povero Giacinto, mi piace di vederti così contrito e umiliato. Giovinastri senza principii, senza garbo, senza orgoglio! Ma lasciamo perdere le prediche e parliamo seriamente per rendere il male minore di quel che è. Perché è inutile illudersi, in questa faccenda siamo interessati un po' tutti, i Magnenzio e i San Zeno per primi, e un poco anche i di Breno in seconda riga. Vico, che ho dovuto mettere a parte del segreto, come hai capito, ha fiutato subito il pericolo che l'affare, da scandalo privato, pigli per contraccolpo una estensione immensa, fino a compromettere i nostri interessi politici. Siamo alla vigilia delle elezioni amministrative, e puoi immaginare con che gusto i nostri nemici s'impadroniranno di questa belle Hélène. Sai che Vico l'ultima volta la portò fuori per un pelo; e uno scacco nelle elezioni amministrative vorrebbe dire in questi momenti la fine dei partito moderato nella nostra provincia. Tu non capisci che la tua politica africana, ma bisogna essere sul campo di battaglia per capire che cos'è una lotta elettorale. Come una cartuccia sparata a tempo dall'ultimo dei fantaccini può decidere una vittoria, così un sasso, una trave messa di traverso, può trascinare la sconfitta. Vedi quindi se Vìco è interessato a mettere cenere su questo fuoco, che tu gli hai acceso accanto al pagliaio. Egli ha forti aderenze anche fuori dei suo partito e potrebbe con qualche compromesso ottenere e, se occorre, comperare il silenzio degli organetti. Ma bisognerebbe che tu aggiustassi presto i conti col cugino. Non ho ancora capito di che stoffa sia fatto questo contadino filosofo fabbricatore di tegole. Sento che ha stampato dei libri, quindi è presumibile che sia un uomo ragionevole. Vediamo un caso: potresti accettare senza scapito una sfida da lui e portare così la controversia sul terreno cavalleresco? Vico trova che, se egli potesse seguirti su questa via, sarebbe forse il caso di transigere su qualche particolare e di trattarlo come da pari a pari. Un reduce delle patrie battaglie, se non è nato, è cavaliere per diritto di conquista. Vico osserva anche che, se questo signor Lanzavecchia non manca d'orgoglio, dovrebbe aggradire d'essere considerato senza restrizioni. Un duello limiterebbe la questione personale e obbligherebbe più tardi le due parti a un reciproco rispetto. Ma questo, ripeto, è il discorso di Vico. Noi donne, naturalmente, e come donne e come buone cattoliche, non possiamo approvare le risoluzioni violente. La tua povera mammà si sente morire alla sola idea che tu possa trovarti di fronte alla canna di una pistola: ma la tua divisa non ti dà un certo diritto per la scelta dell'arme? Oh che pasticcio! Vedi, benedetto figliuolo, in che imbroglio ci ha messi tutti quanti questa tua ragazzata?
Donna Fulvia, che si era mossa per accendere la fiamma sotto un bricco di porcellana, si volse e, con un atto di protezione materna, passò leggermente la mano sui capelli corti, tagliati a spazzola, del bel giovinotto, che, sprofondato nella poltroncina, colle mani infossate nei taschini de' suoi stretti calzoni d'alta tenuta, stava come oppresso sotto il peso della sua responsabilità.
‑ Quando penso che Giacinto, il biondo Apollo, è già divenuto papà... ‑ Un sorriso d'ironia, che vibrò nella tenerezza di quella voce carezzevole, fu per il giovine tenente un filo rovente raggirato intorno alla carne viva del cuore. Nell'inchinarsi su lui, l'amica di mammà vide ch'egli piangeva. Una piccola stilla aveva già solcato il panno scuro della giubba, lasciando tra un bottone e l'altro il segno d'un punto esclamativo rovesciato.
‑ O povero Giacinto, ti ho fatto male? come sono stata cattiva! ‑ riprese la signora con delicata sollecitudine e con tono piagnucoloso di rimprovero a sé stessa. Volendo rimoverlo da quell'inerzia di spirito, in cui lo vedeva immiserito, si affrettò a soggiungere: ‑ Io non dico che tu non possa trovare qualche altro rimedio. Tra gli espedienti, se io fossi in te, vorrei prendere il mio coraggio colle due mani e andrei diritto a confessare tutto allo zio vescovo. Peccato confessato è mezzo perdonato. Credo che monsignore amerà meglio saperle da te le cose, come sono andate, mentre si è ancora in tempo a rimediare, che se venisse a conoscerle dai giornali, quando non c'è più tempo di far nulla. Nella sua alta posizione egli è più di noi in grado di misurare il pericolo e anche di prendere gli opportuni provvedimenti. Per quanto rigido e intransigente, non può non assolvere un peccatore, che confessa piangendo il suo peccato.
‑ Andrò a farmi ammazzare in Africa ‑ borbottò tra il rustico e lo spavaldo il giovine, buttando nella fiamma, con un gesto aspro, la sua seconda sigaretta, come se cercasse di riaversi e di darsi della forza. Il suo capriccio non si era mai trovato a contrastare con tante seccature. Abituato a trovar sempre le porte del suo piacere spalancate, si meravigliava con attonita impazienza che non si potesse passare anche questa volta. Possibile che mancando la chiave, non si potesse sfondare l'uscio?
‑ Per Dio! ‑ disse ingrossando la voce per far comparire più rauca la tenue bestemmia soldatesca, alzandosi, movendosi per il salottino. Era agitato e girava in cerca d'uno specchio per vedersi la faccia in collera. Come se l'elettricità gli uscisse da tutti i bottoni lucidi, mosse le sedie, scrollò un tavolino, e mise così malamente la mano sopra una gracile donnicciuola di vieux Saxe, che la rovesciò e le ruppe il naso. ‑ Che cosa si vuole, per Dio? che mi tiri un colpo di pistola nella testa? che faccia contessa la mia cameriera?
‑ Queste sono brutte parole, Giacinto, che ti fanno torto. Abbi pazienza. Oggi scriverò a mammà e domani concerteremo qualche cosa con Vico. Avresti difficoltà, per esempio, che mio marito andasse a parlare direttamente con Monsignore? Son due mezze potenze, sai, che nelle condizioni attuali hanno bisogno d'intendersi, e chi sa che il diavolo non sia poi così brutto come ce lo immaginiamo. Non andar poi a dirglielo, a monsignore, che l'ho chiamato diavolo.
Donna Fulvia, sentendo muggire il thè nel bricco, ne versò una chicchera e l'offrì al giovine, stando in piedi sotto la grande specchiera, nella quale le loro belle immagini si riflettevano con nitido splendore.
Calmati gli spiriti, la contessa poté condurre il discorso ad argomenti meno spinosi, e tutti e due, dopo un pezzetto, finirono col ridere come due ragazzi.