Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE SECONDA

III. Sorelle nel dolore.

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III. Sorelle nel dolore.

 

Celestina, una volta che fu persuasa d'accettare con rassegnazione la sua sorte, trovò nel palazzo delle due vecchie contesse un asilo quieto e sicuro. Già fin dai primi giorni la confortò il sentirsi segregata in un sito dove non era conosciuta da nessuno, lontana da quella maledetta casa, ogni angolo della quale le ricordava un segno della sua disgrazia, fuori dagli occhi di Giacomo, ch'essa aveva ragione di temere come un giudice implacabile.

Le due vecchie dame, che non avevano mai avuto per le mani una matassa più ingarbugliata, e che nella protezione della fanciulla sentivano di carezzare i peccati del loro Giacinto, fecero di tutto per trattarla bene, le assegnarono la più bella stanza della guardaroba, che dava sull'aperta campagna; e, per giustificare agli occhi della gente la presenza di questa fanciulla in casa, dissero alle altre donne e al Rebecchino che l'avevano domandata in prestito alla contessa per la sua abilità nel ricamare. Avvicinandosi il centenario della Madonna della Noce, volevano finire il bel padiglione, un lavoro di pazienza, minutissimo, per il quale non bastavano le sole loro mani e i loro poveri occhi. Questa Celestina, oltre a essere brava di mano, aveva bisogno di rimettersi anche di una malattia, di cui recava le traccie sul viso, mentre a Cremona l'aria non è così buona. Con queste ed altre abili bugiette, riuscirono a rendere naturale non solo la sua presenza a Buttinigo, ma a giustificare anche una certa quale predilezione, di cui facevano segno la povera orfanella.

Fecero portare nella sua stanza il telaio col bellissimo lembo ricamato a imitazione d'un arazzo, offerto dalle monache Preziosine di Monza. Tra due alti margini di corone di spine intrecciate e ricorrenti si svolgevano i profili simbolici della Passione di Cristo, i calici, i flagelli, i chiodi, la croce a punto ribattuto di seta cruda, collegati un oggetto coll'altro dalle iniziali di Maria Santissima, a punto rincrunato d'oro, sopra un fondo di raso color cielo perso, che mandava fosforescenze di madreperla.

Donna Adelasia, che per essere stata fidanzata tre mesi al povero marchese Caccianino, si sentiva nella condizione non solo di conoscere, ma anche di poter discorrere dei piccoli misteri della , le aveva tenuto fin dai primi giorni un gran discorso per raccomandarle la prudenza, la rassegnazione, il santo ritiro:

‑ Qui ‑ le dissedevi considerarti come in un convento. Non ti mancherà nulla, ma non devi offrir motivo ai discorsi della gente. Quando una povera ragazza ha avuto la disgrazia di perdere il fiore della santa purità, non può avere che un conforto: la religione. Quando capitano certe disgrazie, com'è capitata a te, povera pecorella, la gente non crede mai che sia senza colpa. E allora diventa uno scandalo il solo farsi vedere. Negli esercizi della pietà potrai trovare la tua redenzione e anche la pace del cuore. Col tempo non ti mancheranno le occasioni per acquistarti dei meriti, potrai consacrarti al servizio dei poveri e degli infermi in qualche ospedale e trarre dalla tua stessa disgrazia i più preziosi frutti spirituali. Ho letto che una grande peccatrice di Parigi, tocca dalla grazia, dopo tutta una vita di perdizione, si era data all'esercizio delle buone opere con tanto fervore che tutti la chiamavano la madre dei poverelli e morì quasi in odore di santità. Questo non per dire che tu sia una donna cattiva, povera pecora, ma per dimostrarti che si può sempre in ogni condizione ottenere i doni della divina misericordia.

A queste raccomandazioni, che la carita sincera e la trepidazione paurosa di uno scandalo inaudito suggerivano allo spirito stretto della pia dama, Celestina non sapeva opporre che un attonito sìlenzio, come chi teme di offendere col voler capire più di quel che permette la sua ignoranza. Non sempre sapeva entrare col pensiero nello spirito delle cose che sentiva dire, non sempre osava rispondere a interrogazioni che contenevano curiosità oscure o mal represse, miste a bizzarrie di desideri invecchiati o morti insoddisfatti; ma cedeva volontieri alla seduzione carezzevole della benevolenza e della protezione di queste buone signore, che avevano nelle mani la sua vita. Come un'edera molle e rigogliosa, che si attacca e si stende sopra un vecchio muro cadente, nel suo abbandono e nella sua incapacità si sentì appoggiata a questa protezione, si adattò al mite e ombroso ambiente, mise volontieri le mani in un lavoro, che parlava già da sé stesso di sacri dolori e di eterne consolazioni. Le crisi divennero meno frequenti, perfino un'ombra di colore riapparì sulla pallidezza del suo volto lavato da troppe lagrime, si abbandonò alle pratiche della pietà, che per gli spiriti umili e bisognosi tengono il posto delle persuasioni che non si possono procacciare; accettò di buon grado tutte le medagliette e tutte le coroncine, che mandava il convento e che le sante dame facevano venire apposta per lei da Lourdes o da Loreto, piccoli segni di quella forza di fede, che è più facile canzonare che non sia il farne senza.

Così passò tutto il novembre.

Dopo una nevicata, che rallegrò le feste di Sant'Ambrogio e che lasciò le campagne belle bianche, il dicembre seguì eccezionalmente dolce. Il più bel sole si diffondeva nella stanza dove le pie signore tenevano un vecchio altarino colla statua dell'Addolorata sotto un tempietto di fiori di carta. Donna Gesumina che era bravissima nei lavori pei quali ci vogliono manine di piuma, veniva spesso a trovarla, sedeva con lei davanti al telaio, ordiva il tessuto nuovo, dava qualche suggerimento per il resto. Se il punto era alquanto cruccioso o troppo pigro per sostenere la pazienza, la buona signora intonava sotto voce le litanie su una cantilena facile e girante come un arcolaio, tale da aiutare senza sconvolgerlo il filo del lavoro. Celestina in quella vocina di monaca digiuna faceva entrare a intervalli la bella nota media della sua voce, con cui soleva sostenere le litanie al Santuario, e si lasciava cullare così in una dolce dormiveglia piena di oblio.

Nelle nature sane pare che anche i dolori perdano del loro veleno e finiscano coll'essere assorbiti, come sono assorbiti dalle sane costituzioni i contagi che persistono. Un secondo dolore non fa più soffrire come un primo, come se i tristi pensieri, a furia di passare, facessero nell'anima un solco sempre più inclinato e largo.

Come il montanaro si abitua a portare sulle spalle i più grossi carichi e non si sente ben equilibrato sulle gambe, se non quando ha tutto il suo solito peso addosso, così si oserebbe quasi dire che la natura dia alle costituzioni robuste, non guaste dalla troppa filosofia, l'abitudine di portare una certa quantità di patimenti.

Questo può spiegare come nel rifiorire della pace anche il fisico della ragazza, aiutato da forze spontanee più potenti della volontà, ricominciasse a fiorire. Nel benessere di tutto il corpo essa provava non rari istanti di ristoro e di nervosa ebbrezza, non priva di godimenti, come capita nei dolci istanti di buona convalescenza. Anima semplice e primitiva, priva di raffinatezze intellettuali, incapace di uscire o di allontanarsi troppo dal momento presente, bastava che l'idea dolorosa fosse momentaneamente assente, perché tutte le altre idee, quasi ancora fanciullesche, godessero di una specie di vacanza. A vederla in certi istanti, uno avrebbe detto che la sua disgrazia era più grande di quel ch'ella fosse in grado di soffrirne. Pensava qualche volta: ‑ Poiché era diventata così indegna, non per colpa sua, Giacomo avrebbe imparato a dimenticarla. Forse era per lui una fortuna. Giacomo aveva camminato troppo avanti sulla strada del sapere, perché potesse contentarsi di voler bene a una povera ragazza come lei. Se la terribile disgrazia doveva fruttare a qualcuno, in mezzo al male era un bene che fruttasse almeno a lui la libertà, e qualche compenso. La contessa aveva promesso che, fin dove un male si può riparare a denaro, Giacomo doveva far conto sugli aiuti della sua casa. Alla famiglia dello zio Mauro non sarebbe mancato più nulla. Ebbene (seguitava a riflettere, offrendo a sé stessa, non senza qualche orgoglio, questa consolazione), se la mia disgrazia salva questa povera gente dai bisogni e dai creditori, se mette Giacomo nella condizione di poter continuare nella sua carriera e di farsi col tempo un grande onore, perché devo disperarmi? Certo avrei voluto restituire in un altro modo il bene che ho ricevuto; ma poichè Dio ha voluto così, sia fatta la sua volontà.

Ma non sempre questa rassegnazione parlava così forte. Improvvise curiosità intervenivano a interrogarla: «Che cosa avrà detto di me? crederà proprio ch'io sia stata innocente? perché non è venuto ancora a vedermi? perché non mi scrive? gli avranno detta la verità? sa dove sono e in mano di chi?» In questi incalzanti quesiti, a cui non era in grado di dare nessuna risposta e che andava ripetendo a sé stessa con una ostinazione piena di rancore e di compianto, tornava a provare le vecchie ansietà, la sua mente cadeva in paure profonde; agitazioni nuove, accompagnate da una febbrile impazienza, non la lasciavano più ferma sulla sedia.

La contessa aveva le prove della sua innocenza, e Giacomo non poteva non credere a una donna come la contessa; ma, riandando minutamente ai particolari della sua sventura, ora temeva che l'interesse avesse a far rinnegare la verità anche ai santi, ora si accusava di non aver saputo respingere con più violenza le cortesie del giovine conte, di non aver provato abbastanza ribrezzo di lui, di non averne parlato subito a Giacomo, e malediceva in cuor suo alla floridezza della sua giovinezza, di cui si era servito il demonio per perderla. In questo modo, co' suoi stessi dolori, essa andava fabbricando nuovi strumenti di tortura e finiva col ritrovare la spina del rimorso fin nel fiore dell'innocenza.

In certe ore, in modo speciale verso sera, quando, al morire della viva luce del sentiamo venir meno in noi molte certezze, la sua stanza le diventava uggiosa come una prigione. Lampi di follia tornavano a guizzare nella tempesta dei pensieri. Stava immobile, cogli occhi perduti in una lenta stupefazione sulla campagna coperta di neve, o fissi alla linea dei monti lontani, tra cui andava ricostruendo qualche nota giogaia. Sentiva di essere più che morta, sepolta viva, e piangendo, diceva in modo di poter ascoltarsi:

Giacomo, perché mi abbandoni? Vieni a vedere che cosa hanno fatto della tua Celestina.

‑ Non pensi, Adelasia, che quella ragazza possa aver bisogno di qualche speciale benedizione? ‑ disse un giorno donna Gesumina alla sorella. ‑ Ho letto nella vita di Santa Zita, patrona delle donne di servizio, che il demonio ama tormentare queste ragazze povere e ignoranti per tirarle al male.

‑ Certi diavoli, quando ci sono, non c'è benedizione che li possa scacciare. Bisogna aspettare che se ne vadano da . Sono i fenomeni del suo stato.

Così disse donna Adelasia quasi con solennità scientifica.

Basta, basta... tu sei più in grado di me di saper giudicarerispose, umiliandosi, la più giovine delle due vecchie zitelle; e non tornò più sull'argomento.

Dopo molto aspettare, un giorno arrivarono finalmente due lettere di donna Cristina, una per Celestina, l'altra per donna Adelasia. A Celestina, riferiva in poche righe, non tutte sincere, il risultato del colloquio avuto con Giacomo:

«Per quanto il colpo sia stato grande» scriveva la contessa «egli mi ha promesso di perdonare, e sarebbe già venuto a vederti costì, se un po' di febbre buscata con questi freddi non l'obbligasse a letto. La sua pace, la sua salute, il destino di tutta la sua vita dipende unicamente da te, mia cara figliuola. Se tu sarai buona, docile obbediente a tutto quello che ti diranno di fare queste tue benefattrici, vedrai che col tempo proverai una grande consolazione. Io faccio pregare sempre per te.»

Nella lettera a donna Adelasia la contessa lasciava trasparire invece tutte le paure e le preoccupazioni che aveva ridestate nel suo cuore il primo incontro con Lanzavecchia:

«Speravo di trovare nel giovine una maggiore arrendevolezza; ma ho paura di aver sbagliato nel giudizio che mi son fatta del suo carattere. Soffre meno per il fatto doloroso che non per l'orgoglio ferito. Il pensiero che ci deve qualche cosa gli è insopportabile. Quale altra soddisfazione vorrà chiederci? come intende vendicarsi di Giacinto? La mia povera testa si confonde e non sa più che cosa pensare e che cosa temere. Ora è piuttosto gravemente ammalato, non si sa se per una minaccia di tifo o per una congestione cerebrale, che lo tiene in continuo delirio: e questo dottore non è senza qualche apprensione. Nel mio egoismo non so più che cosa augurare a me stessa e agli altri. Mi pare che, prima d'ora, non abbia mai saputo che cosa sia soffrire, né mai prima di questa grande battaglia ho tanto compatito chi piange. Ora, sì, sento nel cuore le sette spade dell'Addolorata e capisco come le ricchezze, i titoli gli onori, le vanità del mondo, non valgano un'ora di buona coscienza. Non c'è donna così povera tra queste contadine, colla quale non farei cambio volontieri, se Dio mi potesse restituire la pace. No, il morire non è il peggior male: è peggio il non poter morire, quando si vuole. Dio sa se io vorrei essere sotto la terra da dieci anni! almeno sarei morta nell'illusione della mia felicità, nella freschezza delle mie gioie materne, sarei morta compianta, benedetta, e avrei trovato nella memoria de' miei cari il suffragio, che ci fa vivere anche dopo la morte. Questa invece non è né la vita, né la morte. È un'agonia, un singhiozzo che non cessa mai. Io sono un dolore solo, temo d'ogni scossa, non ho più lagrime e non ho finito di piangere, non ho riposogiornonotte, e, poiché non posso morire, invoco quasi la pazzia, che mi liberi da questa spaventata coscienza. Lorenzo, che non deve mai saper nulla, s'è lasciato persuadere a restare al Ronchetto fino a dicembre: così almeno spero di poter rivedere il giovine e di strappargli almeno una promessa, che salvi la mia povera casa. Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive più, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza

 

 


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