Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE SECONDA

IX. Una visita inaspettata.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

IX. Una visita inaspettata.

 

Seguirono due o tre giorni di agitazione, pieni di sinistri presentimenti, di reciproci inganni, in cui ciascuno dovette fingere di ignorare quel che era scritto a ciascuno sul viso. Don Lorenzo, per quanti sforzi acrobatici facesse fare alla sua tremante volontà, per quanto sferzasse un coraggio che non era mai stato, non che esercitato, nemmeno preso in considerazione, non poteva nascondere a Cristina, alla figliuola, a quei di casa il grande sgomento, come si nasconde un librettucciaccio proibito. A colazione, a pranzo, non gli riusciva quasi d'assaggiar nulla, o tutt'al più, se si sforzava di inghiottire una mezza fetta di galantina, o una gamba di pollo, se le sentiva inchiodate sullo stomaco come un errore d'ortografia. Molto meno si poteva pretendere ch'egli si distraesse nei giri de' suoi periodi... Altro che «Discorso preliminare»! altro che «la tradizion del passato»! Vipere e scorpioni, minaccie, ricatti per il momento; domani sarebbero state bombe e pugnali.

Non potendo pigliarsela con Galiasso, si sfogava a brontolare o perché la stanza era fredda, o perché il brodo era lungo, o perché Giacinto non scriveva mai, o perché l'Istituto veneto gli aveva lasciato scappare tre errori di stampa; e, messo sulla strada delle malinconie, cadeva a parlare delle teorie sovversive, che distruggono ogni sentimento di religione e di rispetto. La figura torbida di Galiasso, ch'egli s'immaginava con un ceffo di bravaccio, cieco d'un occhio, per tre o quattro giorni entrò a frastornare le sue occupazioni e i suoi stessi pensieri, sia ch'egli pigliasse in mano un libro od un giornale, sia che arzigogolasse colla penna nei complicati incisi del suo «Discorso preliminare», sia che parlasse con quei di casa o coi pochi amici che venivano a fargli passare la sera. In mezzo ai discorsi e alle distrazioni non cessava mai dentro di lui il lungo monologo contro i tempi e contro le idee sovversive: aggrottava le ciglia, i gesti gli scappavano involontariamente, e, inconsapevolmente, faceva sentire a sé stesso il ritornello, che non cessava di martellargli il cuore: «Si precipita».

La contessa, per non essere obbligata a chiedere e a dare delle spiegazioni incresciose, fingeva di non accorgersi di questi suoi patimenti, e questa sua noncuranza riusciva di maggior pena al povero conte, che nelle tribolazioni amava d'essere consolato e amorosamente contraddetto. Dopo aver ruminato un pezzo nel suo segreto, pensò che Giacomo Lanzavecchia poteva essergli di qualche aiuto, essendo il luogo detto il Sasso del Pin, indicato da Galiasso, poco lontano dalle Fornaci, sulla stradetta che mena al «Roccolo» di Don Andrea. Colse il momento, che la contessa e la figliuola erano fuori ad assistere a una pia conferenza del santo Cenacolo (un'altra francioseria introdotta da poco tempo dai gesuiti), si chiuse nello studio, fece accendere la lucernetta, che anche di pieno aiutava a rischiarare il nesso delle idee, si raccolse, passò due volte la mano sulla fronte per rimuovere le ultime titubanze, che facevano sempre di lui l'uomo più indeciso del mondo, prese una faccia oscura, severa, d'uomo oltraggiato, che conosce i doveri suoi e cominciò a scrivere: «Carissimo Giacomo, deve esistere in cotesti paesi un cotal nominato Galiasso o Galeazzo, persona veramente dedita a cattivi maneggi, non saprei dire se più bisognosa o perversa, la quale mi ha in questi giorni trasmessa una lettera, vero oltraggio ortografico, con cui vien chiedendo una non misera somma a mo' di minaccia o di ricatto. Comeché io possa...»

Signor contedisse Fabrizio entrando col suo passo soffocato: ‑ questo signore ha una lettera di presentazione per la signora contessa, ma siccome non può fermarsi a Cremona che poco tempo, domanda il permesso di dir una parola al signor conte...

Il conte accostò il biglietto, che Fabrizio gli offrì, al lume della lucerna e lesse il nome dell'avvocato Genesio Brognòlico.

Brognòlico! ‑ ripeté, rimpicciolendo gli occhi come chi cerca di fissarsi in qualche cosa, che vede e non vede. ‑ Non è quel nostro radicalone rosso di , che insieme al farmacista ha fondata la Società operaia?

Precisamente, quel pancione. Dice che ha una lettera del signor conte di Breno.

Don Lorenzo, a cui balenò subito l'idea che questa visita inaspettata potesse avere qualche relazione col fatto del famigerato Galiasso, parendogli che convenisse abbondare nelle cerimonie e, ove fosse opportuno, farsi dell'avvocato radicale un difensore, ordinò che entrasse. Si mosse anche lui, girò due poltrone in modo che l'una guardasse l'altra, collocò la lucernetta sulla sponda della scrivania in cima a un muro di libri e movendo incontro al suo avversario politico e amministrativo, con tutto quel buon garbo, che non si spende mai tanto volentieri come quando si tratta d'un avversario:

‑ Qual buon vento, ‑ esclamòsignor avvocato, a Cremona?...

Un uomo fatto a guisa di un pallone aereostatico, a cui fossero state attaccate due gambe, e sul quale fosse stata messa una testa arruffata, riempì tutto il vano dell'uscio. Gli occhi eran nascosti da un paio di lenti affumicate, che mettevano due macchie scure e fisse nello scompiglio d'una zazzera e d'una barba bianco‑sporco‑rossiccia. Vestito di panno oscuro, colle mani insaccate in due otri di pelle, colla grossa catena d'oro, risplendente sull'equatore di quel globo, che viaggiava come un galleggiante, l'avvocato Brognòlico salutò il conte con un inchino alla rovescia, che gli fece cacciare indietro la testa leonina e sporgere una protuberanza, che non avrebbe mai potuto piegarsi diversamente.

Perdonerà Eccellenza, se non potendo disporre che di poco tempo, tra una corsa e l'altra, oso interrompere i suoi preziosi studi. Vengo a nome dell'onorevole di Breno, che ha visto il Sottoprefetto e che mi ha dato questa lettera aperta, per la signora contessa.

Caro avvocato, si accomodidisse don Lorenzo, al quale non capitava troppo spesso l'onore di sentirsi chiamare Eccellenza. E mentre l'altro scendeva a poco a poco a riempire lo spazio vuoto del seggiolone, il conte corse, brontolando, sulla lettera aperta di don Lodovico di Breno, che sonava in questi precisi termini:

«Gentilissima signora contessa,

«Ho sudato tre camicie e un farsetto a persuadere questi signori del Vessillo democratico a non sollevare un putiferio. C'eran già le mine cariche e non mancava la voglia di farle saltare. Però, a furia di reciproche concessioni, ci siamo accordati in un non intervento. La direzione del Vessillo incarica l'egregio avvocato Brognòlico di liquidare in via amichevole la parte materiale in un compenso corrispondente ai danni, che questa neutralità porta al giornale. E veramente è giusto riconoscere che questi signori si mostrarono discreti e ragionevoli, quando si pensa all'autorità che uno scandalo di questa natura avrebbe dato a tutto il partito. Direi quindi di transigere fin dove si può. Fulvia ha scritto a Giacinto, dandogli notizie di queste pratiche...»

A questo punto don Lorenzo non ci vide più. Il suo turbamento però non gli impedì di ritrovare l'egregio avvocato Brognòlico, che pareva addormentato nella poltrona.

Credo di capire qualche cosa... non tutto però... In che cosa posso servirla, avvocato? ‑ disse, mettendosi anche lui a sedere, con un fare timido e trepidante, sull'orlo della sua poltrona.

‑ L'onorevole di Breno ha avuto la bontà di leggermi questa lettera e siam perfettamente d'accordo. Aggiungerò che ieri ho veduto anche Monsignor vescovo. ‑ L'avvocato credeva che per farsi capire bastasse accennare a questi nomi, senza bisogno di scendere a troppi ingrati particolari.

‑ Come sta Monsignore?- chiese ingenuamente il conte.

‑ Anche Sua Eminenza pienamente d'accordo coll'onorevole di Breno...

- Hanno fatta la pace?

L’avvocato, a questa domanda così fuori d'intonazione, rimase un po' perplesso, come accade spesso ai furbi, quando si trovano al cospetto d'una cosa troppo semplice, che si dipana da sé. Si sforzò di rispondere che l'aspetto di Monsignore gli era parso buono; poi soggiunse subito per venir presto all'argomento della visita:

Stamattina ho parlato con Ferrazzi.

Ferrazzi... ‑ fece il conte, corrugando la fronte e cercando, con uno sguardo interno, se nel magazzino delle cose viste c'era un nome cosi... ‑ Quale? il canonico Ferrazzi, che ha scritto qualche cosa sulla basilica di San Pietro in Oro?

‑ No, no, Ferrazzi, il direttore del Vessillo... ‑ ribatté l’avvocato con una certa forza impaziente per far capire al conte ch'era informatissimo d'ogni cosa e che con lui si poteva discorrere liberamente. ‑ Ho parlato con Ferrazzi in seguito al colloquio avuto coll'onorevole di Breno e con Monsignore, e gli ho dimostrato che, in ultima analisi, gli conveniva accettare un accordo, perché in queste guerricciuole di scandali e di personalità non ci si guadagna, né da una parte dall'altra. Egli voleva sostenere che in momenti di lotte elettorali un partito non può buttar via nemmeno una cartuccia senza defezionare la bandiera...

Il conte, che seguiva con un viso fermo ed attonito questo preambolo, sempre nella speranza che da una parte o dall'altra avesse a saltar fuori il famoso Galiasso, non poté a meno di inarcare un poco le ciglia a questo mostruoso defezionare la bandiera, che puzzava di gergo giornalistico lontano un miglio. L’avvocato non se ne accorse, ma, volendo venir presto a una perorazione, che gli permettesse di concludere e di partire colla corsa delle tre e mezzo tirò avanti:

Ferrazzi mi dimostrò che molte spese eran già fatte, che si era dovuto dare dei contrordini ai corrispondenti e ai reporters, modificare tutto il piano generale, perché, se prima l'onorevole di Breno, che si poteva sperare combattuto dai clericali, aveva i piedi d’argilla, ora li ha di bronzo; permodoché – (l'avvocato caricò di voce questo suo avverbio favorito) ‑ una campagna contro di lui sarebbe per il nostro partito un mezzo disastro, per cui, tutto sommato, faressimo, come si dice, un buco nell'acqua.

Il conte, che non respirava nemmeno, sempre in attesa di veder sbucare Galiasso, e che aveva inghiottito in pace il reporter, non poté non protestare con un addolorato batter di ciglia contro questo barbino faressimo, che sconnetteva le più legittime coniugazioni. Ma l'amico, migliore della sua grammatica, tirava via come un violino:

‑ Ad onta di tutto questo, anzi in forza di tutto questo, è naturale che i miei amici del Vessillo non possino digerire questa sconfitta, come se fosse un uovo fresco; poiché si deve perdere, dicono, facciamo strage dei Filistei... ‑ Brognòlico cercò di ammorbidire questa minaccia biblica, accompagnandola con una risata bonaria e con un colpetto di mano leggiero leggiero, che lasciò cadere su un ginocchio del conte. – È naturale, vede adunque Eccellenza, che que' miei amici scapestrati si servino di quel segreto che hanno in mano, come di una fiche de consolation.

Amici scapestrati? ‑ disse in cuor suo il conte. - Dunque Galiasso non è che il capo dei ladri.

‑ Il signor conte è troppo amico della pace per star a guardare un quattrino di più o di meno.

Scusi, avvocato... ‑ interruppe con uno sforzo penoso il conte. ‑ Sa lei quel che mi hanno scritto?

So tutto e son venuto apposta a Cremona per accomodare questa faccenda.

Conosce anche questo Galiasso?

‑ Chi sia non so, ma conosco benissimo la famiglia Lanzavecchia, so dov'è la ragazza.

Crede lei dunque che con un centinaio di lire una volta tanto si possano persuadere questi signori scapestrati a...

‑ Io credo, signor conte, che ella non abbia un senso troppo esatto della gravità della situazioneosservò con forzata benevolenza il mediatore della pace. ‑ Se Ferrazzi dichiara la guerra, è un uomo che sa tener bene la penna in mano.

‑ Oh sì, me ne sono accorto... ‑ scoppiò a dire buffonchiando il conte, che aveva sotto gli occhi il famoso L'orenzo.

Brognòlico a questi sgambetti, a questa diplomatica impassibilità del conte, dubitò per un momento o di essere arrivato troppo tardi, cioè a cose già accomodate, o di avere a che fare con un politicone raffinato, e che sapeva rappresentare a meraviglia la sua parte di gonzo. La sua grande furberia gl'impediva d'immaginare il caso d'un uomo, che di furberia non ne aveva né punto, né poco. Temendo rimetterci anche le spese del viaggio, si affrettò a sparare tutte le batterie di guerra, nella speranza d’intimorire col rumore quelli che non poteva ferire colla mitraglia.

Senta, Eccellenza, ‑ riprese, attaccandosi colle due mani alle spranghe degli occhiali ‑ a parte la questione personale, creda pure che se Ferrazzi... o altri... – (e tenendo la mano sollevata in aria aspettò un istante per dar tempo al conte di capire quel che egli credeva che l'altro fingesse, per una politica sopraffina, di non capire) ‑ se Ferrazzi... o altri mettesse alla luce questa storia, sarebbe una vera degringolade per tutto il partito così detto ben pensante. La tensione dei partiti del nostro Collegio è tale che basta una goccia d'acqua a far traboccare un mare d'inchiostro. Se lor signori non trovano il modo di appianare la cosa sulla modesta base concordata dall'onorevole di Breno e da Monsignor di San Zeno, garantisco che questa primavera portiamo un deputato radicale massonico a Montecitorio. Uno scandalo in casa Magnenzio, compromettendo i più bei nomi dell'aristocrazia, farà perdere vent'anni di lavoro al partito clericale. Noi abbiamo le nostre Società operaie fortemente organizzate, e, se tre o quattro giornali vogliono divertirsi, lo scandalo Magnenzio, San Zeno, Lanzavecchia, abilmente lanciato, in quindici giorni fa il giro di tutta Italia. Siccome sono amico politico non solo di Ferrazzi, ma ho qualche relazione all'Estrema, so quel che si può fare, quando c'è l'interesse di fare. D'altra parte, ho molta stima per l'onorabilità e la rispettabilità della sua casa, caro signor conte; conosco anche il signor Giacomo Lanzavecchia e so che uomo è; finalmente son uomo anch'io, so capire e compatire questi peccati di gioventù; anzi, è il caso di dire: chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma la politica non ha viscere di pietà; quando ha fame divora, se non altro, anche i suoi figli. Permodoché, tutto sommato, vale a dire, tenuto conto degli interessi morali da una parte, degli interessi pubblici dall'altra, io credo che, in ultima analisi, noi dovressimo proprio venire a una soluzione pacifica. Ci vuol pazienza, caro conte, il mondo va pigliato com'è. Pensi che nel grosso del pubblico non c'è nulla che faccia tanta impressione come un romanzetto galante tra un elegante della jeunesse dorée e una povera ragazza del popolo. Le figlie del popolo, che servono ai piaceri dei ricchi, è un tema non ancora sfruttato, molto più in questo caso, in cui c'è modo di battere insieme al blasone anche l'eroismo d'un ufficiale di cavalleria, che, mentre gli altri vanno a farsi ammazzare in Africa, resta a casa ad abbracciare e sedurre le cameriere... Perdoni, don Lorenzo, se oso dare al cuore d'un padre queste crudeli trafitte; ma è bene che ella abbia sott'occhio tutto quel che si può dire e tutto quel che domani potressimo stampare. Qualora, invece, si cercasse di accomodare lo strappo inter nos, senza bisogno di testimoni e di reciproche scritture, né venti, né venticinque mila lire devono parere una somma esorbitante.

A questa lunga e corrente esposizione dell'avvocato Brognòlico, don Lorenzo, tenendo le mani appoggiate ai ginocchi e gli occhi immobili nel volto del suo interlocutore, prestò un'attenzione che andò di sorpresa in sorpresa, di meraviglia in meraviglia, di curiosità in curiosità, di paura in paura come proverebbe un villano ignorante davanti ai prodigi diabolici d'un abile prestigiatore. Partito col desiderio di conoscere chi fosse il famigerato Galiasso, prima trovò che il brigante era un giornalista, poi che il giornalista era d'accordo col deputato, il quale, non capiva bene in qual modo, se l'intendeva col vescovo per minacciare qualche cosa di grosso, non a lui, pover'uomo, ma a qualcuno de' suoi, che aveva abbracciata una cameriera. E quel ch'era più bello ancora, le tremila lire di Galiasso diventavano, strada facendo, ventimila, venticinquemila... Nello sforzo che egli faceva dentro di sé per entrare nello spirito di questo strano racconto, in cui vedeva, peggio che nelle Metamorfosi d'Ovidio, un brigante trasformarsi in un narciso e un framassone in una mitria, tutte le rughe del volto confluirono sulla sua fronte, le grosse ciglia bianche formarono come un cespuglio spinoso sopra il naso, la sua carnagione andò oscurandosi come sotto una nuvola, che passasse davanti al globo della lucerna. E di mano in mano che l'avvocato andava pesando il pro ed il contro, riferendosi con certezza a fatti che erano ignoti a uno di loro, il povero conte si sentì inondare da una fredda paura, da un febbrile sgomento, che gli tolse la capacità di rispondere.

Quando il Brognòlico cessò di parlare, don Lorenzo rimase colle mani sui ginocchi, gli occhi attenti ad aspettare il resto della curiosa storia. Vedendo che l'avvocato non aveva più nulla a dire e che ora toccava a lui, proprio a lui, di parlare, alzò lentamente una mano, che tenne sollevata un pezzo in aria, mosse le labbra entro una frase sconnessa, in cui passò ancora una volta il nome di Galiasso, e, allungato il braccio tremante fino a toccare il bottone del campanello, a Fabrizio che comparve sull'uscio, chiese:

- È tornata la signora contessa?

- Sì, signor conte.

- Digli che l'aspetto qui.

Nel breve intervallo che rimasero ancor soli, l'avvocato, che stava studiando l'effetto della sua proposta sulla cera appannata del conte, interpretando il suo silenzio come un freddo e disdegnoso risentimento, cercò di raddolcire la sua proposta, dicendo che non si sarebbe mai fatta una questione di numeri, che, con un po' di deferenza dalle due parti, si sarebbero facilmente messi d'accordo.

Donna Cristina era appena tornata dalla conferenza, quando Fabrizio venne ad avvisarla che il conte aveva bisogno di parlarle. Al nome dell'avvocato Brognòlico, ch’essa conosceva come un suo nemico nato, vale a dire quanto un giacobino deve essere nemico di un aristocratico, indovinò quel che poteva essere accaduto. Fabrizio non osò disingannarla. Si può immaginare che cuore fosse il suo, quando con passo rotto, con una pesante spossatezza di tutto il corpo, entrò nello studio del conte

Guarda un po’, Cristina, se sai spiegare questo biglietto del deputato di Breno ‑ Il conte, in piedi dietro la scrivania, indicò col tagliacarte d'avorio l’avvocato, che all'entrare della contessa si era tirato in piedi anche lui e stava in attitudine rispettosa: ‑ Presento il signor avvocato Galeazzi: voglio dire Ferrazzi...

Brognòlìcocorresse l'altro; il quale, volendo in poche parole far capire alla signora lo scopo e l'importanza del suo mandato, si affrettò di soggiungere: ‑ Signora contessa, vengo a nome di Monsignor vescovo.

Il conte, sempre in balìa d'un tremito convulso, toccando ora un libro, ora un calamaio, ora una penna, come se cercasse con questi contatti materiali di scaricare una corrente di elettricità, agitando il tagliacarte in aria, domandò volgendosi alla contessa:

Devi tu qualche cosa a Monsignore? ti sei forse impegnata in qualche obbligazione politica? chi è che abbraccia le cameriere in casa mia? Si può sapere qualche cosa di quel che si fa e di quel che si bùggera in questa casa? mi scrivono lettere minacciose, vengono in casa mia a farmi delle proposte disonoranti, mi oltraggiano in ciò che mi resta di più nobile, e non mi è dato nemmeno sapere a chi devo dir grazie. E che c'entrano i giornali coi fatti miei? Io non li leggo nemmeno i giornali, per non guastarmi lo stile, e quindi posso pretendere che non abbiano a occuparsi di me. Sai che cosa ha avuto il coraggio di dire questo signore a un nobile Magnenzio di Villalta? ‑ Il conte nel metter fuori queste parole appuntò il tagliacarte d'avorio come una spada verso gli occhiali affumicati. ‑ Ha avuto il coraggio di dire che in casa Magnenzio le figlie dei popolo servono ai piaceri dei padroni...

La contessa, non potendo più sostenersi sulle gambe, si lasciò cadere col corpo quasi sfasciato sopra una sedia.

Era un'altra battaglia perduta. E il conte, sempre più acceso in viso d'un color rosso, che faceva comparire ancor più candidi i capelli lunghi ed i baffi, battendo col tagliacarte sul legno della scrivania, prese a dire, colla dignità con cui avrebbe declamato all'Ateneo di Bergamo il suo «Discorso preliminare»:

Signor avvocato Brognòlico, lei è entrato in casa nostra colla presentazione d'un amico e d'un parente e io amo rispettare in lei il carattere sacro dell'ambasciatore; ma mi permetta di dirle, e lo dica pure a chi l'ha mandato, che i Magnenzio, da Berengario in poi, non solo non hanno mai risposto a proposte disonoranti, ma possono dire con Dante: la vostra miseria non mi tange...

E come se in questo supremo sforzo morale si fosse consumata l'ultima energia della schiatta, il conte, arruffato un gran gesto colla mano stanca in aria, restò a bocca aperta, paralizzato, nell'incapacità fisica di continuare. Accorse Fabrizio, che, sorreggendolo, gl'impedì di cadere. La contessa gettò un grido spaventato e si affrettò a riceverlo nelle braccia. Si mosse anche l'avvocato, che ritirò le sedie, fece largo per aprir la strada verso l'uscio della cameretta vicina, dove il povero conte fu adagiato su un divano. Preso da uno dei suoi accessi di cuore, sbarrando gli occhi, non faceva che mormorare delle sillabe scucite, che parevano invocare un po’ di carità, un po' di compassione. Agli squilli dei campanelli uscirono altri servi, accorse miss Haynes, che fu mandata indietro a trattenere donna Enrichetta. Il conte cominciò presto a riaversi. Allora donna Cristina, tirato in disparte l'avvocato, definì con lui in un discorso concitato e positivo quest'ultima parte della vertenza e gli consegnò un biglietto per il ragioniere Riboni.

‑ Sono addoloratissimo, creda, signora contessa, di essere stato causa innocente di tanto male; se avessimo immaginato che il signor conte non era al fatto delle cose, non avressimo certamente... ‑ Ma la contessa gli voltò le spalle prima che egli avesse potuto finire. Col prezioso biglietto in mano Brognòlico traversò le due anticamere, uscì sullo scalone, si fece indicare da un servo lo studio del ragioniere Riboni, e guardando l'orologio per rifare i suoi conti sul tempo, si rallegrò in cuor suo di aver spazio avanti a sé anche per mangiare un boccone. Se avesse potuto formulare in parole la confusa compiacenza, che rischiarava in quel momento la sua diplomazia, senza pretendere di far ombra a Nicolò Machiavelli, avrebbe potuto riassumere il suo pensiero in questa grave sentenza: «La miglior politica non è quella che corre, bensì quella che arriva a tempo».

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2010. Content in this page is licensed under a Creative Commons License