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Dal giorno del suo arrivo a Buttinigo eran passati quindici giorni, senza che Celestina ricevesse notizie di Giacomo, e cominciava a pensare ch'egli l'avesse dimenticata, dopo averla sprezzata e maledetta; ma poteva anche essere malato, morente di dolore. In questo stato di crudele incertezza non poteva durar più. Capiva che le signore, oltre a carpirle le lettere e a tenerla rinchiusa come una prigioniera, cominciavano a inventare pretesti per mandarla ancora più lontano, in mano d'altra gente, come si fa quando si vuol perdere una persona. Era necessario che vedesse Giacomo. Anche a costo d'essere battuta e respinta da lui, voleva buttarsi a' suoi piedi, fargli sentire come l'avevano sorpresa, tradita, martirizzata; e poi non le sarebbe importato nulla di morire su una strada, in mezzo ad una campagna; ma non l'avrebbero sepolta viva in un ospizio, dopo averla trascinata all’ultima disperazione.
Quantunque a questo nuovo tranello sentisse quasi una lama fredda passare in mezzo al cuore, pure un sentimento quasi d'indignazione le impedì di avvilirsi e di piangere. Simulò un contegno freddo, rassegnato; alle carezzevoli dimostrazioni di donna Adelasia non oppose che un silenzio umile e rispettoso; ma l'idea di cercare uno scampo con una fuga s'impossessò con tanta forza del suo spirito che per alcuni giorni non seppe pensare ad altro, come se quest'idea avviluppasse ogni altro sentimento e rendesse sterile ogni altra considerazione.
Si può aggiungere che in questa nuova speranza e nello sforzo mentale di preparare i mezzi per deludere la vigilanza delle sue carceriere, il suo cuore, provò quasi un senso di riposo e di distrazione da ogni altro dolore, una specie di esaltazione fantastica, che scosse il suo spirito inoperoso e stanco.
Nei giorni che precedettero le feste di Natale si mostrò alacre, docile, volonterosa; ma nel segreto del suo animo andava preparando i mezzi della fuga, cosa facile in una casa aperta come quella in cui l'avevan collocata, non custodita che dalla buona fede di chi l'abitava e dal rispetto dei vicini. Le pie signore nella loro timida debolezza non pensavan nemmeno che una ragazza potesse uscir sola e mettersi sola per una strada; molto meno questo dubbio poteva entrare nell'animo del Rebecchino e delle altre persone di servizio, che non conoscevano i segreti motivi di questa schiavitù. Essa avrebbe potuto uscir dalla porta ed incamminarsi per un sentiero in qualunque momento, tanto di giorno come di notte; il coraggio solo di saperlo fare avrebbe levato alle signore ogni voglia di inseguirla. Dopo aver scartato molti progetti, si fermò in uno, che più d'ogni altro le si presentò sicuro. Ogni martedì sul far della mezzanotte soleva uscire dalla corte rustica il così detto cavallante della casa, soprannominato il Pasqua, col carro della roba che le signore e altri proprietari del paese mandavano a Monza ed a Milano ai loro amici e corrispondenti. Più volte Celestina era stata svegliata dal rumore grosso del carro rotolante sul selciato del cortile e dallo scalpitare del mulo nel gran silenzio della notte. Sentiva lo sgangherato portone dell'orto cigolare sui cardini, poi un gran sbattere. Vagolava per un istante un lume nell'aria, il rauco brontolìo delle ruote perdevasi a poco a poco nella lontananza, e tutto tornava in silenzio... Il pensiero che essa avrebbe potuto fuggir da questa parte, in un'ora in cui tutti dormivano, col vantaggio d'aver molte ore per sè, prima che alcuno si accorgesse della sua scomparsa, si impose come il più naturale, e non stette a cercare altre vie. Sapeva che il Rebecchino era solito attaccare la chiave dell'uscio che mette nel cortile a un chiodo infisso nel battente. Non si trattava dunque che di scendere al primo rumore, aprir l'uscio, mettersi in coda al carro, protetta dall'oscurità, e svoltar subito per la strada opposta a quella che il Pasqua soleva far battere alla bestia. Ma non parendole ancora un giuoco abbastanza sicuro, pensò di cercare anche un pretesto per allontanare i sospetti e per ingannare il vecchio cavallante. Fece un grosso involto con un fazzoletto, in cui mise alcune sue vesti e una scatola, strinse i gruppi del fagotto, che nascose sotto il letto, e si preparò ad aspettare la sera. Fu una giornata eterna quel benedetto martedì! Donna Gesumina venne una volta a leggerle una lunga Enciclica papale intorno alla santificazione della festa: poi le raccontò quel che a Milano un Comitato di pie signore intendeva di fare per imporre ai negozianti e ai rivenditori l'obbligo del riposo festivo. Celestina l'ascoltò benevolmente e lasciò che la signora mettesse anche il suo nome in una lunga lista, che monsignor Vicario doveva trasmettere a Roma. Queste pie preoccupazioni, accostate al grande e affannoso pensiero che le faceva il cuore duro e pieno di dolori, non potevano aver nemmeno la forza di irritarla; ma servirono invece ad accorciare il tempo, interminabile dell'aspettativa. Più tardi venne di sopra anche Menico, il figlio del Pasqua, con in braccio un gran fascio di rami d'edera e di lauro fresco, con cui le due signore solevano ogni anno, nella settimana di Natale, costruire il presepio nel vano d'un armadio. Celestina fu lieta di poter aiutare la vecchia Costanza a levare da una cesta, a sciogliere dai loro involucri di carta, a nettar dalla polvere i pastori di terra cotta, le statue del Bambino, della Madonna, il bue, l'asinello, che facevano di quel presepio una delle poche meraviglie di Buttinigo.
‑ Quest'anno aggiungeremo anche un molino mobile, vedrai ‑ disse donna Gesumina. ‑ Le monache della Noce non hanno un presepio più bello. La vigilia vengono qui tutte le ragazzine e i bambini del paese colle loro mamme; e si dànno tre noci e una mela a ciascuno; ma prima si cantano le litanie.
Un fuggevole senso di pentimento, un mezzo rimorso, venne una volta a indebolire le sue disposizioni. La sua scomparsa non poteva che turbare queste sante feste dell'innocenza e della pace, e procurare alle povere signore un grandissimo spavento. Se invece avesse mandato i suoi progetti a qualche giorno dopo le feste? Ma rifletté che più tardi non sarebbe stata sicura di trovare Giacomo a casa. Poteva ella passare il giorno di Natale come una prigioniera in casa altrui, senza aver nessuna notizia de' suoi, nella cupa tristezza di chi si sente abbandonata?
Dopo aver risposto, come gli altri giorni, al rosario della servitù nella grande cucina, verso le nove e mezzo accompagnò di sopra donn'Adelasia, portò l'acqua nella camera di donna Gesumina, dette e ricevette la buona notte, ridiscese in cucina a provvedersi d'un mazzetto di zolfanelli, si assicurò che la chiave dell'uscio fosse attaccata al suo chiodo. Finalmente, quando le parve che tutti fossero ritirati nelle loro stanze, calzò le scarpe di vitello sopra un paio di calze pulite, indossò un giubbetto di lana e il vestito più pesante della festa, intascò la corona del rosario, il suo libretto di preghiere, una collana di granata e il borsellino con tutto il denaro regalato dalla contessa, si ravviò i capelli, si affaccendò più che non abbisognasse a mettere in bell'ordine il letto, le sedie, il telaio dei ricami, il cestello delle sete e dei gomitoli, in modo che le signore avessero a ritrovare tutto a posto. Quando ebbe finito, sentì sonar le undici. Aveva ancora un'ora da aspettare. Spense il lume, s'inginocchiò a fianco del letto, si dispose a raccogliere la mente in qualche preghiera: ma l'anima non suggeriva nulla, come se la coscienza fosse già partita. Rimase però sempre in ginocchio, colla testa sprofondata nelle coltri in atto di pregare, perché il Signore e la Madonna vedessero il suo stato e l'aiutassero in questo passo. E intanto cercava di riandare nella mente la traccia della strada che avrebbe dovuto battere per arrivare alle Fornaci. Fino alla Madonnina della Noce la conduceva la solita strada del molino; al di là passa la grossa strada provinciale, nè poteva sbagliare se camminava sempre verso i monti. Rifacendo i conti a memoria, calcolò che, se la carrozza della contessa aveva impiegato meno di due ore a venire dal Ronchetto alla Madonnina, questo voleva dire che, partendo a mezzanotte e camminando sempre, lei avrebbe potuto essere alle Fornaci sul far del giorno. Se anche non ci fosse stato Giacomo, la zia Santina non l'avrebbe lasciata morir di freddo sulla strada, no povera zia, così buona! E forse anche la Lisa non avrebbe avuto il coraggio d'incrudelire contro una disgraziata. Le stesse bruscherie gelose della invidiosa cugina sarebbero state quasi una musica per le sue orecchie, quando avesse potuto rìposare nel pensiero d'essere nella casa de' suoi parenti. Del resto, facessero pur di lei quel conto, che si può fare di una poveretta senza meriti e senza diritti; la tenessero pure in casa come l'ultima delle serve, avrebbe lavorato per tutti, senza più alzare gli occhi in faccia a nessuno; ma non dovevano permettere che queste signore la facessero chiudere in un ospizio, forse in compagnia di cattive traviate, o che la mandassero lontano, in paesi sconosciuti, tra gente brutale, senza timor di Dio, che l'avrebbero forse maltrattata, o fatta morire a tradimento.
Abbandonandosi senza ritegno alla corrente dei pensieri, che nel silenzio e nell'ombra della notte risonavano nel suo capo in una specie di gorgo, correva a immaginare colla fantasia sconvolta le più terribili insidie da parte di questi signori, che temevano in lei un parlante testimonio dei loro peccati, e che avrebbero avuto della sua morte un sollievo immenso. Che cosa vale la vita d'una ragazza, che nessuno conosce, che nessuno difende? Se non ci sono più nei palazzi i trabocchetti, dove una volta si facevano sparire le persone, non mancavano ai signori altri trabocchetti di ogni sorta per sopraffare i poveri. Non l'aveva forse la contessa intronata di parole e di promesse per metterla nelle mani di queste vecchie, che ora volevano seppellirla viva in un ospizio?
Da questi pensieri, in mezzo ai quali errava la sua immaginazione sgomentata, fu tolta dal fragore del carro, che il Pasqua stava allestendo nella corte per la partenza. Si mosse, fece due volte il segno della santa croce, si alzò, trangugiò un mezzo bicchier d'acqua per sciogliere l'amarezza della bocca, avvolse le spalle e la testa in uno scialle bigio di lana, prese da di sotto il letto l'involto, che vi aveva preparato; e, dopo aver soffiato sulla candela, si mosse per uscire. Allo sparire del lume, la finestra si disegnò nella luce umile della luna, che dal mezzo di un cielo rigido, solcato da leggerissime ale di nuvole bianche, incombeva sulla campagna immersa nella neve. Celestina fu assalita da un panico immenso. Per poco il cuore ricusò d'obbedire alla volontà, che fin allora aveva comandato con tanta forza. La sua energia oscillò un breve istante in uno di quei dubbi dolorosi e tremendi, da cui, come dal fulcro d'una bilancia delicatissima, dipende spesso il male e il bene di tutta una vita. A sospingerla sottentrò la riflessione che per lei non vi poteva essere un male che fosse peggiore del perdere per sempre il suo Giacomo e del lasciarsi seppellir viva; e che ogni passo, in qualunque senso si faccia, per uscir dalle braci, non può essere un passo perduto. Spinse l'uscio e stette ad ascoltare ancora un momento sul pianerottolo. Quando fu persuasa che dormivano tutti, scese al buio la piccola scala di servizio, tenendosi attaccata alla parete. Guidata dal chiarore, che entrava da una mezza finestra, raggiunse l'uscio di cucina, cercò, palpando, la chiave, l'infilò nella toppa, provando al rumore che fece nel girare, quasi uno scricchiolamento in tutte le ossa; stette a sentire se alcuno dava segno di vita: e coperta dal rumore che facevan di fuori nel caricare, uscì nel cortile. Il Pasqua finiva d'attaccare il mulo, aiutato dal suo ragazzetto, che rischiarava con una lampadina la stalla. Affogato in un ferraiolo di schiavina, col cappuccio calato sulla testa, il vecchio cavallante lasciò qualche ordine al figliuolo, che si curvò ad accendere la lanterna a vento sotto la traversa del carro. Una luce giallognola e oleosa si sparse sul biancore lucente della neve e proiettò l'ombra incappucciata del vecchio, ingrandita come quella di un gigante delle tenebre, sul muro livido e muto del palazzo. La bestia istigata dalla voce sepolta del padrone, cominciò a raspare sul terreno per cercar sotto la neve il sasso; il carro si mosse, ballottando la lanterna e portandosi seco le ombre in una danza sconvolta.
Quando fu per uscir dal portone e per svoltare, Celestina uscì dal suo nascondiglio, traversò il cortile; aspettò che Menico tornasse per rinchiudere, e, andandogli incontro gli disse, fingendo una certa apprensione:
‑ O Menico, avete dimenticato questo fagotto, che va alle monache.
Menico prese l'involto dalle sue mani e chiamando: ‑ O pà, ‑ corse dietro al carro. La giovane colse quel momento e voltò a sinistra. Camminando in fretta lungo il muro del brolo, uscì sulla strada del molino. Non era ancora sonata la mezzanotte, quando cominciò a camminare verso la strada della Madonnina della Noce, che apparve ben presto in fondo al viale in una massa densa, resa più oscura dal riflesso vivo della campagna. Tirava una brezza acuta, quale può mandar giù la montagna in dicembre; ma essa se ne difese imbacuccandosi fin sopra agli occhi nel grosso scialle di lana e affrettando il passo. L'idea del trovarsi sola, di notte, per una strada deserta tutta piena di neve, in un paese sconosciuto, questa sola idea, che qualche mese prima, passando in sogno, l'avrebbe risvegliata in un sudor freddo, ora non le incuteva più nessuna paura. Non c'è nulla, che abitua così presto al male, quanto la minaccia del peggio: e anch'essa ritrovava nella necessità delle cose quella forza misteriosa, che meraviglia così spesso la nostra stessa presunzione. I ladri, le ombre dei morti, che vanno attorno per il mondo, gli orrori dell'oscurità, gli spauracchi delle ombre, i gemiti, i fischi, che escono dai profondi silenzi della notte, le reminiscenze delle fiabe spaventose udite raccontare dalle comari, i terrori addensati nello spirito umano da secolari pregiudizi passati in lei per eredità, non mai scossi, che non si possono scuotere del tutto nemmeno dai più forti, tutto questo era sempre qualche cosa di più sopportabile in paragone di quel che gli uomini avevano fatto e volevano fare di lei. La notte, non limpida del tutto, era però rischiarata dal quarto abbondante di una luna, che le nuvole sparse per il cielo e più accumulate verso i monti non riuscivano a nascondere; e quella luce fredda, quieta, che scivolava sulla neve, eccitandone i segreti splendori, dava alla notte e alla solitudine un non so che di tenero, di seducente, o almeno di non cattivo, che parlava con una certa indulgenza all'anima primitiva della giovine. Quando, uscita dal viottolo del mulino, si trovò davanti la strada provinciale, larga, piana, rotta dai lunghi solchi delle ruote, che pareva correre senza fine al piede dei monti oscuri; e quando, fissando questi monti avvolti nelle nuvole, li vide lontani lontani, rimpiccioliti, sprofondati nella lontananza, un senso di nuovo terrore e di scoraggiamento ghermì il suo cuore. Il suono improvviso e pesante delle ore, scoccando sulla sua testa dal vicino campanile, ruppe quel breve istante di titubanza e di inerzia, che l'aveva fermata nel mezzo della strada, l'incoraggiò a continuare. A spingerla aiutò la vista d'un alto carro, che lentamente lentamente, col moto ondeggiante d'una barca che si avanza, veniva dalla parte di Bergamo, dondolando una lanterna sulla neve.
L'idea d'aver dietro di sé in un momento di pericolo questo appoggio la sostenne. Volendo però stargli davanti per sfuggire alle questioni curiose dei carrettieri, si affrettò a riprendere il suo cammino nella direzione dei monti, che la chiamavano.
A destra e a sinistra taceva la campagna nella sua gelida inerzia; ma questo silenzio avrebbe finito collo sgomentarla, se, oltre al soffio del suo respiro non fosse arrivato di tempo in tempo a sostenere il suo coraggio il rumore spezzato del carro che la seguiva, a cui, col raccorciare un poco il passo, cercava di accompagnarsi, appoggiandosi a quel rumore amico, che rappresentava per lei gli ultimi aiuti del mondo: così il bambino che si sveglia per un brutto sogno, si riaddormenta al rumore dell'arcolaio, che gli parla della mamma. E andò così tre o quattro chilometri, senza incontrar anima viva, sempre nella strada aperta, sempre col pensiero e coll'occhio rivolto a quei monti, che non mutavano di aspetto. Intanto pensava:
- Prima che a Buttinigo possano pensare a me, io sarò quasi alle Fornaci. Troverò Giacomo? egli non può non tornare a casa a passar le feste, specialmente quest’anno di disgrazia. Se la zia non mi volesse ricevere andrò a cercar un ricovero in qualche cascinale, finché Giacomo non torni; e se anche lui non mi vuol ricevere e mi serra l'uscio in faccia, andrò a cercar lavoro a Brivio, a Lecco, in qualche filatoio, andrò a far la serva, a lavar la biancheria dei soldati, a cercar, se Dio vuol così, la carità sulle strade; ma in un ospizio non ci vado a farmi rinchiudere, a morire disonorata, arrabbiata come una cagna...».
Col capo circondato da questi pensieri, come da uno sciame irritato di vespe, camminava sull'orlo della strada, dove la neve era già stata battuta da altri passi, fissando lo sguardo a qualche gruppo di piante lontane, che vedeva disegnarsi coi rami duri e neri sullo sfondo dell'aria, provando nel suo muoversi rapido e nel calore che andava sviluppandosi dal suo corpo giovine e robusto, un senso quasi di soave energia. Dopo quattro mesi di sottili angoscie e di spasimi, durante i quali la volontà degli altri aveva fatto ogni sorta di strazi di lei, avviluppandola di fili invisibili, ubbriacandola di false dolcezze e di carezze e di moine snervanti, ora, finalmente, si sentiva libera, padrona di sé e dei suoi dolori, libera di soffrire e di morire a modo suo.
Il calore del corpo, eccitato dall'andar lesto e faticoso su di una strada rammollita, dopo aver con una segreta delizia rianimato i suoi spiriti, cominciò a salire in un'afa soffocante alla testa, chiusa nel pesante scialle di lana. Lo lasciò andare sulle spalle, e provò un vero refrigerio a camminare così a testa nuda. Dopo quasi un'ora di non interrotto viaggio in cui poté più di una volta abbandonarsi e dimenticare sé stessa nella successione rapida e luminosa di immagini lontane, che uscivano dal fondo scosso della memoria, cominciò a scorgere, nel bianco della strada, un gruppo di case, un villaggio, o un grosso cascinale da cui sentiva venire un abbaiare ingiurioso di cani, che si chiamavano nella notte. Stette un momento e si chiese se doveva aspettare e unirsi al carro che brontolava dietro di lei. Ma vinse quest'ultima incertezza con un senso crudele di disprezzo verso di sé. Se anche i cani uscivano a sbranarla, tanto meglio. Si affrettò a raggiungere le case, che dormivano tutte chiuse in una quiete che aveva un non so che di pensoso e di accigliato. Attraversò un grosso borgo passando prima davanti ai tarlati portoni dei cascinali, dietro i quali sentiva l'urlare e il raspare della bestia, poi davanti alle botteguccie chiuse e alla chiesa che dominava col vasto profilo nel vuoto d'una gran piazza deserta, non incontrando anima viva, cercando inutilmente coll'occhio una fessura, da dove uscisse un filo di luce. Dormivano tutti: i vecchi che hanno il sonno scarso, i giovani che portano a letto il corpo inquieto, i ragazzi che giocano anche in sogno; dormivano anche le povere mamme, che hanno i figli al camposanto; essa sola andava come un'anima in pena per le strade deserte a cercare qualche cosa che nemmeno il Signore le poteva dare... Non avrebbe domandato a Giacomo che una parola. Era persuaso della sua innocenza? bastava un suo sì, che fosse la convinzione in lui che in tutta questa disgrazia il suo amore, non solo non gli era mai venuto meno, ma non era stato toccato. Capiva che non poteva essere più sua, ma l'essere abbandonata da lui non era nulla, se egli diceva di credere alla sua innocenza. Il suo amore gliel'aveva dato tutto e nessuno glielo poteva togliere.
Questo pensiero le avrebbe infusa la forza di vivere in qualche maniera, lavorando, mendicando: nessuno, nemmeno il Signore, le poteva togliere l'orgoglio di essere stata amata da Giacomo... Ma se lui la cacciava via, se non la voleva vedere... oh allora... chi poteva assicurare della sua testa? E come se si spaventasse all'insorgere intempestivo di questa nera previsione, si fermò sui due piedi, strinse la testa nelle mani per aiutarsi con un atto vivace a non disperare, invocò tre volte il nome di Gesù, che aveva tanto patito anche Lui su questa terra; e per chiedere un aiuto a una sensazione esterna, che la sorreggesse in quel momento di vertigine, si voltò a cercare il suo carro. Ma la strada era vuota, immersa nella tristezza d’una nuvola che passava sulla luna. Forse il carro s'era fermato al borgo. Allora, per non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, corse con affannosa precipitazione fino allo svolto della strada, che cominciava a discendere e a penetrare in certe boscaglie tenebrose piene di una neve più bianca, che copriva un terreno più tormentato e mosso. Sentendo passar nelle ossa un brivido di freddo, si strinse lo scialle indosso, si coprì di nuovo la testa per schermirsi dalle minute goccioline d'acqua, che stillavano dai rami sotto le scosse del vento: e fatto il segno della croce, trasse la corona e incominciò a intonare il rosario con una voce sostenuta ch'essa ascoltava.
La preghiera lunga ed uguale, che nel suo sonoro meccanismo par fatta apposta per condurre gli spiriti più inerti verso una lontana e indeterminata speranza, dopo aver rimesso in movimento la sua volontà, segnando quasi la battuta dei passi, la sottrasse per qualche tempo alla sofferenza de' suoi pensieri; non così bene però che gli sgominati fantasmi, sospinti da una parte, non rientrassero a poco a poco da un'altra, insinuandosi tra le avemarie, intralciandone la seguenza, interrompendone la benefica energia, finché a poco a poco la parola le moriva sulle labbra, i passi si facevan più piccoli e pigri, l'infelice, continuando a muoversi collo spirito, dimorava coi piedi nel mezzo della via, rivolta e intenta a cercare dietro di sé qualche cosa di cui aveva più il desiderio che la memoria.
Una volta la scosse da quest'attonita immobilità il vociare grosso d'un carrettiere, che svegliatosi all'improvviso arrestarsi della bestia, gridava con anima assonnata a quest'ombra, che gli impediva di passare. Celestina trasalì con un guizzo acuto di spasimo in tutti i muscoli, balzò in disparte, si rimbacuccò nello scialle e riprese a correre sull'orlo della strada.
Camminò un'altra mezz'ora, concentrando gli sforzi mentali nel richiamare la memoria di un sito, il cui nome ora le sfuggiva, dove sapeva che si passa l'Adda. Nel disordine sparpagliato delle immagini, la risonanza confusa del nome d'Imbersago, dov'è il passo del fiume, serviva come di nucleo e di centro a' suoi pensieri dispersi, in mezzo ai quali passavano delle fosforescenze febbrili.
Lasciò indietro altri casolari isolati, sparsi nella campagna dai quali non usciva un filo di luce. Sentì muggire dal fondo delle stalle: incontrò altri carri schierati che seguivano il passo affaticato delle bestie e mettevano dei cupi rumori nell'aria intirizzita e chiusa.
Scivolò, passò via non avvertita dagli uomini, che dormivan sulle robe, sempre sostenuta dall'orgasmo febbrile, che la faceva sognare a occhi aperti, aprendole davanti delle prospettive luminose, in cui nereggiavano i camini e i tetti bassi delle Fornaci. In questa mèta, che essa fabbricava a sé stessa, la fantasia inferma andava collocando le figure del suo pensiero, in costruzioni false ed illogiche. ‑ Che avrebbe detto donna Gesumina, quando entrando la mattina nella stanza della guardaroba, non l'avesse più ritrovata seduta davanti al solito telaio? forse avrebbe fatto bene a lasciare una parola scritta in un biglietto: le due signore l'avevano sempre trattata bene; ma Giacomo avrebbe scritto meglio di lei per giustificare la sua fuga. Non c'era che Giacomo che poteva disporre di lei: essa era sempre stata sua fin dal giorno che lo zio Mauro l'aveva condotta alle Fornaci sulla timonella, dopo la morte della povera mamma Mariannina. Aveva allora poco più di cinque anni. Lo zio Mauro, che durante il viaggio se l'era tenuta sul ginocchio, nel calarla dalla timonella, l'aveva collocata in braccio a Giacomo, che la portò subito in vignetta a vedere i conigli. Fu ancora lo zio Mauro, che per una sua idea cominciò fin d'allora a chiamarla «Frulin», un nome senza senso, che pareva averli tutti al suo orecchio, quando ricordava i bei giorni passati. La zia Santina volle subito indossarle una sottanina di lana d'un color rosso vivo, che spiccasse bene in mezzo all'erba, quando andava a correre nel prato, perché non v'era buco in cui «Frulin» non si cacciasse, tanto era piccina e inquieta. E quando Giacomo sonava la chitarra nella stanza del torchio dell'uva? Lui sonava, zufolando sull'aria: Tant che l'era piscinin; e lei ballava, girando in una grande tinozza, che mandava il forte profumo del mosto. Nei sensi le parlava ancora questo acuto profumo d'uva calda. Un'onda spumante le pareva di veder scorrere qua e là in macchie purpuree sul candore della neve. E quando Giacomo se la recava sulle spalle nella gerla in mezzo alle colorite pannocchie del granoturco?
Camminò su questi pensieri, senza poter distinguere sempre tra le impressioni reali e le immagini, che apparivano alla memoria, or più or meno confuse, fin che giunse all'incontro di più strade. Qui si fermò, non sapendo per quale andare avanti, e novamente l'assalirono, come se fossero ivi appiattati ad aspettarla, i terrori della sua vita di ragazza oltraggiata, reietta, ingannata, figlia di nessuno, che nessuno voleva più. Al chiaror della luna, che ricomparve un momento con improvvisa nitidezza, vide, sulla neve pesta, l'ombra della sua persona rimpicciolita, della sua testa nuda, che perdeva le treccie, dello scialle che, scivolando dalle spalle e mal trattenuto in vita, andava strascicando nel molliccio. Si vide, e cominciò a singhiozzare dolorosamente ed a cercare intorno a sé un'anima, che volesse aver compassione del suo stato. A sostenerla nel tristo momento venne un primo colorirsi del cielo dietro i monti, quasi un sospiro dell'alba in mezzo ad una nuvolaglia spessa, che si ammontonava sulle creste.
Di là scendevano soffi più densi, di un vento umido, pieno di ghiacciuoli, che le avviluppavano il capo, le stiravano i capelli, le facevano desiderare qualche rifugio. Le strade del crocicchio partivano lunghe e larghe per direzioni diverse nel vasto piano di neve solcato dalle ruote, calpestato dai cavalli e dagli uomini: ma non un'anima viva nel deserto! Solamente un capanno di paglia presso una pianta, un trenta passi fuori della strada, usciva dalla neve e pareva invitarla a prendere un po' di riposo. Vi si avviò, avendo creduto d'intendere voci di ragazze, che la chiamassero; ma, fatti alcuni passi nella neve molle, cominciò a sprofondare fino al ginocchio; e allora tornò indietro; poi, per quanto cercasse intorno, non vide né il capanno, né la strada.
Si fece il segno della croce e, richiamate con uno sforzo acuto della volontà le energie dello spirito, avviò un secondo rosario colla intonazione alta, con cui soleva precedere la processione della chiesa al camposanto, durante la novena dei morti.
La preghiera traboccava dalle labbra per un impulso meccanico della voce; ma il pensiero andava a ritroso, risaliva a tempi lontani, s'immedesimava con cose passate e morte, rivivendo, con lucida illusione i momenti trascorsi, indimenticabili, di una vita umile e dolce, piena di affetti, di tenerezze, di gioie nascoste, di pudibondi sogni, che non aveva mai osato esprimere a sé stessa, quando il più santo dei desideri le pareva così bello che non osava carezzarlo senza qualche rimorso. Si sparpagliavano come foglie trasportate dal vento le immagini, che illustravano la storia segreta del suo amore per Giacomo, dal dì che se l'era veduto venir davanti vestito da pretino (allora essa non sapeva ancora che cosa fosse amore) fino all'altro dì, così diverso, al tempo della guerra, quando, dopo aver provato tutti gli spaventi della morte, seppe che era tornato sano e salvo. Essa era in vignetta a coglier dei piselli per la minestra, quando il Manetta, che amava le grosse celie, le disse: ‑ Cerestina, c'è il Garibaldi: non senti pim pum pam? ‑ Essa rispose: ‑ Che mi fa a me il vostro Garibaldi? ‑ Ma non aveva ancora finito di parlare, che dietro il verde dei fagiuoli vide muoversi qualche cosa di rosso, come sarebbe stato un grembiale che sventolasse all'aria, e invece era lui, che, appiattandosi, cercava di avvicinarsi senza farsi scorgere... era lui, colla camicia rossa del garibaldino, arrivato improvvisamente; era lui annerito dal sole, lacero come un povero ladro; che, senza pensarci, se la prese tra le braccia: e anche lei, senza pensarci, gli aveva buttato le braccia al collo... mentre il Manetta cantava l'inno di Garibaldi e batteva le mani, piangendo come un ragazzo.
Era così viva e presente questa scena che la poverina, come se l'allegria la portasse in aria, affrettava il passo, volando sulla neve, ridendo ancora giulivamente, mentre vedeva verdeggiare la strada e, in mezzo al verde, vedeva uscire il suo garibaldino. Cercava buttargli le braccia al collo senza poter raggiungerlo mai; e correva innanzi, sorretta dalla calda ebbrezza della febbre crescente, che non le lasciava sentire i brividi dell'aria mattutina. Una volta fu repentinamente arrestata e svegliata da un fischio acutissimo e dal passare rumoroso di un treno, che scivolò, lanciando una fiammata di scintille. Si fermò, girò gli occhi intontita, si raccapezzò, sentì la sua febbre, la sua pesante stanchezza; ma si consolò nel vedere già chiaro il cielo e nel trovarsi in mezzo alle note alture, poco lontana dalle sue montagne. Piovigginava da una mezz'ora, e non se n'era accorta. Sentendosi lo scialle e i vestiti inzuppati e freddi come ghiacciuoli, li scosse, si rimbacuccò, ringraziò il Signore d'averla accompagnata e (poteva dire d'aver camminato in sogno) si volse a cercar qualcuno, che le insegnasse la strada più corta per andare al traghetto del fiume. Al rintocco d'un'avemaria, che venne da una chiesuola poco lontana, di cui scorse il campanile disegnarsi tra due cipressi, si avviò a quella parte, si mise a sedere sul gradino della chiesa, e stette ad aspettare che qualcuno aprisse la porta. Così accovacciata, colla testa sui ginocchi, si assopì un istante, rotta dalla fatica. Le furiose scosse della febbre la svegliarono: temette di morir intirizzita sulla strada, e colla forza nervosa ed esaltata, che dà il delirio, si mosse, si volse a tre contadine, che andavano al mercato a vender uova, e chiese loro la strada per il passo dell'Adda. Le fu indicata una stradetta, che scendeva al fiume, senza bisogno di girar tutta la carrozzabile; ed ecco dopo cinque minuti poté scorgere dall'alto della riva l'acqua incassata d'un color nero inchiostro, e al di là, nell'ombra grigia del crepuscolo, nel biancore della neve, la macchia del Santuario, il palazzo del Ronchetto e i neri camini delle Fornaci. Non sentì più a quella vista né stanchezza, né brividi, né titubanze: di là c'era il suo Giacomo.