Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE SECONDA

XII. Povera Frulin!

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XII. Povera Frulin!

 

Si rannicchiò nelle coperte, sprofondò il capo nel cuscino; ma l'immagine di Angiolino gli tornava davanti colla baldanza alquanto oltraggiosa d'un rivale. Questo ragazzo aveva parlato semplicemente come un uomo che ama; mentre i libri, l'analisi, l'aristocrazia dei pensiero, la ripugnanza per il lavoro che logora le mani, l'ebbrezza cercata e ripetuta dalle astratte speculazioni avevano snervata la volontà del filosofo. Ecco, ecco: dopo di non aver saputoprevedere, impedire il male, ora non sapeva nemmeno respingerlo, ma vi languiva sopra, miseramente, di obbrobrio a sé e agli altri, non più uomo, ma spoglia vuota d'ogni energia, non più savio, ma cadavere mummificato d'un filosofo morto d'inazione.

Chi disprezza l'opera sua lascia libero il campo ai predoni. I piccoli egoismi s'affollano come mosche sul cadavere dell'imbelle. Ecco il castigo dell'orgoglio! ed era naturale che nel mal esempio si guastasse anche la virtù dei buoni. È sul terreno dei doveri trascurati che più crescono le erbe velenose del male.

Fu solamente verso le quattro del mattino che il povero afflitto poté addormentarsi, abbattuto dalla sua stessa fatica. Sognò cose meno torbide, cose lontane, in cui entravano le camicie rosse dei garibaldini, il lago di Garda, le montagne del Tirolo e certi viottoli angusti e sdrucciolevoli, per cui passava una compagnia di soldati sotto un'acquerugiola fina, fredda, noiosa; finché gli parve di arrivare a un certo podere, dove bisognò piantare le tende... Fu allora che intese per la prima volta chiamare: Giacomo, Giacomo!

Gli pareva di stringersi nella meschina coperta, di rannicchiarsi sotto la tenda umidiccia, cercava di riprendere sonno, quando di nuovo sentì la voce che lo chiamava. Stava per rispondere: presente: e in quella alzò la testa dal cuscino. Riconobbe che aveva dormito e sognato. Cominciava appena ad albeggiare.

Giacomo! ‑ risonò di nuovo la voce, dalla parte della corte.

«Chi mi chiamadomandò mentalmente, senza alzare la testa.

‑ Oh il mio Giacomo, sono io...

‑ Sei tu? Dio, Dio, è lei... ‑ disse a voce alta mettendosi a sedere sul letto, come se si sentisse afferrato da una forza non umana.

Giacomo, senti, sono la tua Celestinachiamava la voce dolente con una intonazione di tenerezza.

‑ Non sogno, Dio! è lei... ‑ Prese i vestiti dalla sedia, se li indossò in fretta, mentre andava ripetendo macchinalmente: ‑ Dio, è lei. Sei tu? ‑ gridò aprendo la finestra e sporgendo il capo a cercar nella corte.

Il giorno era appena chiaro, di quella prima luce che lotta ancora colla pigrizia della notte: ma il riflesso vivo della neve aiutava a far vedere le facciate delle case e i contorni degli oggetti. Giacomo cercò lungo il muro e vide la figura di una donna, ritta in piedi, colla mano sul paletto dell'uscio.

‑ Sei tu? o Madonna, aspetta che vengo...

Calzò le scarpe, avvolse la gola scoperta in una sciarpa di lana, uscì sulla loggetta, scese nel buio passaggio della scala, attraversò a tentoni la cucina fredda come una ghiacciaia, fece saltare l'arpione dell'uscio, andò fuori...

‑ O Giacomo, non mi cacci via? ‑ La voce di Celestina aveva in sé qualche cosa di ridente. Giacomo aprì le braccia, strinse quel povero corpo indurito dal freddo, fracido di pioggia, le impedì di gridare mettendole una mano sulla bocca: ‑ Taci, dormono: entra. Sei proprio tu?

‑ Sì, sono io, proprio io: tu non mi cacci via...

‑ Da dove vieni? sei venuta sola?

‑ Sono scappata. Lasciami morir qui, Giacomo.

Egli la fece entrare e nell'oscurità dell'uscio, che richiusero dietro di sé, i due promessi sposi si baciarono, si carezzarono, piansero, mescolarono le loro lagrime, si strinsero cuore su cuore, per finir di soffrire tutto quel male, che non aveva più parole, che non comprendevano più, che li travolgeva come un grosso fiume, verso una profondità, in cui non senza un'idea di contentezza sentivano che c'era la fine di tutto.

‑ Tu sei malata, tu hai la febbre... ‑ disse Giacomo, quando sentì il povero corpo guizzare nelle braccia in un tremito violento e convulso.

‑ No, sto bene, Giacomorispose, sempre colla sua voce ridente la poverina.

‑ Vieni, che accendo il fuoco. Sei scappata? sola, di notte? che cos'hai fatto? Sei venuta da Buttinigo fin qui a piedi? ‑ Giacomo, che tremava anche lui di freddo e di emozione, dopo aver cercato gli zolfanelli sulla pietra del camino, accese un moccoletto, tolse dal cassone un gran fascio di sottili stramaglie, l'ammucchiò sul focolare, vi appiccò il fuoco, e, quando la fiamma cominciò a farsi strada e a crepitare, trasse la Celestina a sedere sulla cassapanca, le tolse dalle spalle lo scialle impregnato d'acqua, le asciugò col fazzoletto la testa grondante e, vedendola rianimarsi al calore della fiamma, si domandò se per caso non fosse ancora uno strano sogno. Chi sa misurare la grossezza del filo che intercede tra la verità e il sogno? e chi non ha visto, sognando, la segreta anima delle cose?

‑ A Imbersago ho dovuto aspettare quasi una mezz'ora che la chiatta del porto venisse a portarmi di qua: pioveva e non mi sono accorta. Ma ora sto bene: questa fiammata è il paradiso.

‑ Hai camminato tutta la notte nella neve?

‑ Sempre. Era così bello... Fu nel discendere verso il porto per un sentiero gelato e liscio come un vetro che son due volte sdrucciolata... ma non è nulla... Ora sto bene qui accanto a te.

Giacomo dallo squallido disordine delle vesti, che portavano i larghi segni dello strapazzo e del fango, e più ancora dell'animazione eccessiva, quasi nervosa, che spingeva la poveretta a ridere e a celiare sulla sua avventura, fu tratto a pensare che lo strano viaggio non fosse andato senza pericoli e senza spaventi.

Le scarpe, le calze erano una pietà. Il fango impiastricciava le balzane, i gomiti, il volto fin sopra i capelli. C'era sulla fronte qualche riga di sangue. Al bagliore dei fuoco gli occhi di lei risplendevano d'una luce fissa e cristallina, che pareva mirar lontano. Le braccia avevan bisogno di stirarsi: il corpo pareva desiderare d'annidarsi in quella gran fiamma, che riempiva il camino. Pure, con tutto questo, essa era contenta d'essere arrivata, e parlava sempre con voce elevata, ridente, piena d'infantile contentezza.

Giacomo cercò nell'armadio la bottiglia della vecchia acquavite, che il povero soleva versare nel caffè.

Bevi, questa ti farà bene: ti scalderà lo stomaco.

Essa prese il bicchierino colla mano traballante e tracannò il liquore con avidità, come se fosse latte. Le sue gote si rianimarono subito d'un calore interno.

Grazie della carità. Come sei buono, Giacomo!

Togliti le scarpe: fai pietàpregò con voce sommessa.

‑ Hai ragione: ho i piedi rotti. Fu un grande andare... ‑ E con docile obbedienza lasciò che colla lama del temperino egli tagliasse le stringhe e aiutasse a levar le povere scarpe, che non erano più scarpette da ballo. Le tolse anche le calze, che parevan state in molle e volle che asciugasse i piedi nudi alla fiamma. Celestina lasciò fare con una infantile accondiscendenza, provando nella gioia fisica di quel calore, che la ristorava, qualche cosa di lieto e di splendido, che correva ad accendere tutti gli spiriti della vita.

Cominciò a raccontare con tono eccitato e molto sconnesso le avventure della sua fuga: come avesse ingannato le due signore, perché lei in un ospizio non ci voleva andare: si era accorta che volevan seppellirla viva: disse anche come da qualche tempo le mettevano nel pane, che aveva un sapore amarognolo, una piccola goccia di veleno per farla morire a poco a poco. Allora pensò di fuggire: uscì di casa dietro il carretto del Pasqua e s'era incamminata per quella benedetta strada lunga lunga lunga, tutta coperta di neve. Una volta incontrò il Manetta, che le disse: È arrivato il Garibaldi... Allora s'era consolata tutta: ma alcune donne, che andavano al mercato di Merate, la volevano condurre con loro per raccomandarla alla Madonna del Bosco, dove c'è un lupo che mangia i bambini... Ma essa capì che volevano farla perdere, perché eran streghe travestite. ‑ Il portolano d'Imbersago, quando mi vide comparire così, come se fossi stata pescata allora dall'Adda, non voleva a tutti i costi trasportarmi dall'altra parte. C'era una nebbia, ve'... Provò a chiamare un ometto colla barbetta rossa, che voleva sapere chi aveva colta la castagna, chi l'aveva sbucciata e mangiata. Io dissi a quei due burloni che avevano buon tempo e feci vedere un cinque franchi. Allora si persuasero a portarmi di qua. L'acqua era verde come una biscia. Poi non ebbi più paura di nessuno, perché sapevo che di qua c'eri tu, Giacomo; ma devo aver perduto il borsellino colle sessanta lire della contessa. Credi che abbian potuto rubarmelo quei vecchi? l'ometto dalla barbetta rossa, se non era il diavolo colle scarpe, era uno de' suoi figliuoli più vecchi... ‑ La febbricitante, mentre raccontava così, a spizzico, sconnessamente, non cessò dal togliersi le forcine dai capelli, che sciolse interamente e spremette colle mani, fissando con un sorriso di tenerezza il suo Giacomo. A un tratto, come se venisse meno ogni motivo di gioia, si rannuvolò, strinse nella mano convulsa una treccia e rimase immobile, cogli occhi fissi sulla brage, simile all'immagine simbolica dell'afflizione. ‑ L'Adda era verde come una biscia, ‑ ripigliò colla voce di chi parla in delirio ‑ ma quando fui al di qua del fiume, non ebbi più paura di nulla. Di qua ci sei tu, Giacomo; tu sei il mio Gesù. ‑ E sporgendo un piede nudo verso la fiamma, soggiunse con dolorosa ironia: ‑ L'ometto dalla barbetta rossa voleva che lo sposassi; ma io gli dissi: «Levatevi la scarpa: fate vedere il piede. Certo era il diavolo».

Detto questo, appoggiò la testa stanca al palmo della mano, chiuse gli occhi, abbandonò il corpo e, se Giacomo non era pronto a riceverla fra le braccia, stramazzava nelle fiamme, rotta dal sonno e dallo strapazzo. Egli lasciò che posasse la testa dolente sulla sua spalla, la sorresse col braccio, circondandola, le ricoprì colla sciarpa i piedi, e se la tenne addormentata un pezzo, rannicchiandosi nell'angolo del vecchio camino, mentre la fiamma si spegneva a poco a poco nella cenere e cresceva la luce bianca del a schiarire le cose. Il gallo cantò. Poco dopo, cominciarono le campane a sonare l'avemaria, rompendo l'aria muta e ghiacciata con una specie di domestica cantilena. Era proprio Celestina, che dormiva sulla sua spalla colle labbra aperte a un inerte sorriso, sotto i colpi di piccoli fremiti. Era lei, era la sua povera Celestina, che gli parlava coi gemiti del suo dolore assopito.

E nel carezzarne i capelli, sentiva uno strano bisogno di ripeterle cose dolci e soavi; come se tra lor due non fosse mai discesa alcuna fatalità.

Nella luce ardente di questo istante presente impallidivano i ricordi del passato. Alla realtà l'animo commosso non sapeva opporre che una morta resistenza. La ragione non parlava più, finalmente, in lui, ma dall'anima sua buona e commossa traboccava la santa pietà, la santa forza operosa che libera e redime.

Che cosa diventano i piccoli argomenti della piccola logica davanti all'onda di quel sentimento di amore e di carità?

‑ Tu sei il mio Gesù ‑ essa aveva detto nell'invocare la sua misericordia; e forse parlava veramente al suo cuore una carità più grande del mondo, quella che Gesù recò sulla croce e che vinse contro le leggi del mondo.

‑ O povera «Frulin» ‑ le andava ripetendo, parlandole sommessamente nei capelli: - Che cosa hanno fatto di te? perché ti hanno ridotta così? che male abbiamo fatto noi due per essere così puniti?

L'ascoltava essa? pareva che uno spirito vegliasse nell'oscurità profonda di quel sonno letale, che impiombava le sue palpebre e snervava tutte le sue forze, perché alle parole carezzevoli rispondeva talvolta un breve corrugare delle ciglia, un movimento languido delle labbra, che cercavano ancora un sorriso. Di mano in mano che la luce si diffondeva nella stanza e i pensieri della realtà entravano a dominare la sua commozione, Giacomo, nel contemplare quel povero corpo rattrappito nelle sue braccia, quei piedi nudi illividiti, le vesti sciupate, i capelli cascanti sul viso arso dalla febbre, non seppe più trattenere il pianto. Credeva che fosse inaridita per sempre la fonte delle lagrime, e invece se le sentiva colare tiepide e larghe nei solchi del viso, le vedeva scorrere come un vero lavacro dagli occhi suoi sul viso e sulle mani della disgraziata...

Povera Celestina, povera «Frulin»! se ti vedesse lo zio Mauro, che ti voleva tanto bene... Perché dovevo provare questo dolore? no, no, non avrei mai creduto che si andasse così lontano nella via del patimento. Se non si muore di questi mali, è segno che veramente c'e in noi qualche cosa che non può morire.

Così parlava o credeva di parlare a lei, ma in fondo non faceva che ascoltare sé stesso. E intanto non osava muoversi per paura di rompere quel breve momento di riposo e di benedetta dimenticanza, che la ristorava. Pensava che, perché la poverina avesse avuta l'audacia di fuggir da una casa ospitale di notte, e di mettersi tutta sola per una strada piena di neve, affrontando i pericoli e gli sgomenti di un viaggio così pauroso, questo voleva dire che la febbre dei suoi mali l'aveva eccitata fino al delirio. Ne' suoi discorsi, nel suo stesso ridere festoso c'era già qualche cosa di troppo, di oscuro, di irregolare; e questa febbre cresceva spaventosamente ad abbracciarla, la faceva gemere nel sonno, emanava in una vampa rovente, in cui cominciava ad ardere egli stesso, come di un fuoco che si propaga...

Finalmente sentì muovere nella stanza di sopra gli zoccoletti della Lisa, che poco dopo sonarono sulla loggetta. Aspettò ch'ella venisse dabbasso e, quando la vide entrare in cucina, le fece un richiamo colla mano.

 


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