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PARTE PRIMA
I.
CHI SONO I RACHITICI
È un pezzo che dura quest'uso della Strenna dei Rachitici, ma, ch'io sappia, nessuno pensa a lamentarsene; anzi ogni anno pare che la Strenna diventi una cosa sempre più desiderata e quasi necessaria, come le vecchie amicizie.
A voi, vecchi associati e benefattori, porge l'occasione di fare un po' di bene, e questo bene so che vi fa bene: dunque per voi la Strenna è un gusto e un bisogno del cuore.
Per gli altri, che vedono il libro la prima volta, è una curiosità che invoglia. Alla vista di un libro così ben stampato, è naturale che uno desideri di sapere chi sono questi Rachitici, e che cosa si può fare per loro: e la Strenna risponde: - Giù quattro passi dal ponte di porta Romana, un tratto al di là della chiesa di S. Calimero, per una strada vuota e silenziosa, dove all'ombra di un gran muro cresce l'erba tra i sassi, sorge un bell'edificio, chiuso da una cancellata e tutto circondato da un giardino. A tutta prima il luogo ha l'aria d'una villetta. Il sole, il verde, le ombre, il riposo fanno del sito, a chi passa guardando senza saper nulla, un angolo delizioso; se non che, osservate un po' bene, tra le foglie, sotto il portichetto... ecco seduti o accovacciati su delle basse seggiolette dei bimbi e delle bimbe, al di sotto dei sette anni o poco al di sopra, quale in una posa stanca e sfasciata, quale colla grossa testa che cade sul petto, quale penzolante sopra il fianco: chi si strascica a fatica attaccato al seggiolino, chi va colle gruccette, chi dorme in un aria malinconica, chi guarda il sole in una specie di attonita immobilità, chi par che aspetti qualcuno che non vien mai. Sono i Rachitici: è l'infanzia malata, la cosa più triste a vedere.
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Voi che avete i vostri figliuoli così sani e allegri e così santamente indiavolati, vi sentite stringere il cuore alla vista di questi piccini, che sembrano già stanchi di vivere. Voi che li avete avuti malati qualche volta, o che avete tremato presso il loro lettuccio, sapete che cosa voglia dire un bimbo che non può guarire. È la vita schiacciata sul nascere, è la vita nata male, è la progenie del dolore e della miseria, del peccato e dell'imprudenza, del brutto e della tristezza. Son corpi mal concepiti, che contengono spesso anime fine, delicate, anime che ingrandiscono a poco a poco nell'angusto e rattrappito organismo e ingrandiscono qualche volta fin troppo, fino a soffrire più di quel che il corpo possa capire. E allora la morte manda la malinconia a prenderle queste povere anime.
Intanto vi guardano attraverso a occhioni languidi, vi parlano in tal maniera che voi, lasciati i sofismi, non andate più a cercare (come vien voglia) perchè questa miseria di corpi viene al mondo e se vale la pena di conservarla. Si sente subito - e siamo appunto per questo quel che siamo - si sente solamente che bisogna fare, fare, fare, dare, dare, dare e lasciar cantare ai sofisti quel che vogliono cantare. Bisogna fare tutto quello che si può per rendere la vita fisica di questi esserini meno dolente e la vita morale meno incresciosa. Bisogna dare tutto quello che uno si sente di dare, quasi per togliere un peso, uno scrupolo, una mortificazione dal cuore. Per sollevare una miseria c'è sempre una gran ragione che non si può definire, ed è in queste ragioni senza parole che consiste la logica del cuore.
Provate: giù quattro passi dal ponte di porta Romana...
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Che la Strenna giovi ai poveri Rachitici è inutile dimostrare, perchè vien dimostrato ogni anno dai rendiconti dell'amministrazione. L'obolo dei generosi che si trasforma in carne, in brodo, in vino, in rimedi e in cure mediche è per tanti infelici sole e rugiada: e se molti di quei piccini malinconici riescono a stare sulle loro gambe, se molti sentono l'anima diffondersi meno disagiata nel corpo, se molti sorridono alla vita, qualche merito l'ha questa Strenna, non tanto per quel che dice, quanto per quel che suggerisce. Oh si potesse trovare un rimedio anche all'altro grande Rachitismo morale che logora da qualche tempo la povera Italia! È per una malinconica analogia che vien voglia di fare dei confronti.
Questi piccini grami di corpo fan compassione; ma non minore è la compassione che suscitano questi grandi rattrappiti nel pensiero e nella coscienza, che non sanno nemmeno d'essere malati, anzi pretendono di guarire i mali del tempo e del paese. Io non so se il brontolamento sia nell'aria, o se veramente le cose vadan male: ma non mai come in questi tempi l'Italia fu malata di tristezza, di anemia, di esaurimento nervoso. E non c'è Strenna che possa aiutarla!
E non l'Italia sola è malata, ma il mondo sta poco bene. I vecchi vizi cominciano a produrre il loro effetto. Ve lo dicono i giornali di tutti i paesi, che da qualche anno in qua non fanno che registrare e commentare ruberie, oltracotanze, malvagia speculazioni, rovine pubbliche, catastrofi private, nervosità senza scopo e senza ragione, e dappertutto la stessa incapacità nei buoni a trovare un rimedio. Spesso i rimedi son peggiori dei mali: segno che la forza morale è sfinita, anemica... rachitica. È una sfiducia immensa negli animi; rovina la fede di qua, la buona fede di là, l'onore e l'illusione un po' dappertutto e non si sa camminare che appoggiati alle gruccette di qualche sofista declamatore, oppure ci si sdraia nella nostra seggioletta, indifferenti, ad aspettare che l'ultimo raggio di sole si spenga dietro l'orizzonte. Non è rachitismo? E non ci deve essere un rimedio anche per noi? Perchè non si fanno dei libri di igiene morale o almeno delle Strenne?
Io son d'avviso che qualche cosa si possa fare, se non per noi, almeno pei nostri figliuoli.
Per noi che viviamo ormai di reminiscenze, invecchiati prima del tempo (o forse è il tempo invecchiato prima di noi?) poco male ci fanno i mali e poco bene ci possono fare i rimedi; ma i nostri figliuoli hanno diritto di nascere sani e robusti e di vivere in un'aria non ammorbata: e trista sarà la nostra responsabilità, se non facciamo presto una lega tra noi padri di famiglia in nome della santa igiene morale per amore di queste creature che seguitiamo a mettere al mondo e che ci domanderanno la consegna dell'azienda, quando noi saremo per andarcene.
Guarire i cronici non si può; ma i figli nostri hanno diritto d'essere sani: la salute del mondo non può venire che da loro. "Io ho sempre pensato - diceva il vecchio Leibnitz - che si riformerebbe il genere umano, quando si riformasse l'educazione dei giovani". I nostri figliuoli son l'anima dell'avvenire. Predicare riforme sociali ai morti che giova? educate bene i vostri figli e sarete detti i salvatori del mondo. Fate che un vostro figliuolo cresca sano e forte d'anima e di corpo, con una volontà robusta, col sentimento robusto della giustizia e avrete scritto il miglior trattato di igiene e di morale pubblica. Chi predica libertà, riforme, progresso, istruzione, solidarietà, e non si cura de' suoi figliuoli, è un ciarlatano che non crede ai rimedi che spaccia.
Chi è cattivo padre di famiglia non può essere buon cittadino.
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* *
- È per questo che la Strenna dei Rachitici s'intitola quest'anno i nostri figliuoli?
- Per questo; ogni pretesto è buono per dire qualche verità.
- Se il mondo credesse ai libri....
- Scusi, signore: ha dei figliuoli lei?
- È il caso di dire: troppa grazia, sant'Antonio!
- Non si lamenti. I figliuoli portano fortuna.
- Io non mi lamento. Si ha quel che si cerca.
- Scusi, un'altra domanda, se mi permette.
- Si accomodi.
- Sa lei come vanno educati i figliuoli?
- Cioè, che cosa intende dire?
- No.
- E allora non le chiederò come si fa a sonare il flauto. Ma poichè ha la fortuna d'essere padre di famiglia, è naturale che sappia in che consiste la buona educazione dei figliuoli.
- Certo lo so, o almeno credo di saperlo, quantunque io sia cresciuto un po' come una pianta. Ma eran altri tempi. So che i figliuoli devono crescere obbedienti, sobri, studiosi, religiosi, virtuosi insomma....
- È già qualche cosa aver delle buone idee. Ma crede che tutti i padri sappiano educare i loro figliuoli?
- Tutti no, pur troppo. Ce n'è di quelli, che ingolfati nella politica o negli affari, non se ne curano affatto.
- Perchè li hanno messi al mondo?
- Chi sa? per distrazione. Ce n'è di quelli che se ne curano sì e no, a seconda dell'umore; e di quelli che li educano sì, ma alla rovescia. Ce n'è di troppo bigotti, e ce n'è di troppo liberali: di ignoranti e di pedantissimi: di amorosi e di intransigenti: di fanatici e di guastamestieri. Ci son padri dissoluti, padri prodighi, padri ubbriaconi....
- Per modo che la prima regola per ben educare i figliuoli sarebbe, secondo il suo avviso....
- Quella di educare i padri che li mettono al mondo.
- Pienamente d'accordo. E aggiunga anche le madri.
II.
Fu celebre in Milano alcuni anni fa l'avvocato N. uomo di ruvida ed energica eloquenza, di selvatica bonarietà, che conservava nei tratti e nelle espressioni tutta la sincerità della sua origine popolana.
Una sera d'estate egli sedeva nel giardinetto dell'elegante caffè Cova nell'ora del più gran concorso, circondato dai soliti amici e ammiratori, che convenivano ad ascoltare volentieri l'arguta maldicenza, con cui il famoso penalista sapeva tagliare i panni sul dosso a colleghi e ad avversari.
Quella sera aveva condotto a prendere il sorbetto un suo nipotino, ragazzo sugli otto o nove anni, a cui il vecchio burbero, che non aveva figliuoli, voleva un gran bene. Non so come si venne a parlare di scuole, di figliuoli e del modo di educare: - A me piace sempre trattare i ragazzi come si trattano gli uomini - diceva col suo tono rauco e rabbuffato il famoso avvocato - cioè mi piace ragionare e farli ragionare. I figliuoli non sono cani, ma è la bella maniera, la persuasione, la logica che ci vuole. Così il ragazzo impara a ragionare e a distinguere col suo cervello il bene dal male, diventa un essere logico e non una macchinetta....
A questo punto della bella predica Giacomino, arrivato alla fine del sorbetto, che al Cova non è mai troppo abbondante, credette lecito di dare una leccatina al piattello, commettendo un atto poco pulito certamente per qualunque sito, ma addirittura sconcio in un luogo così aristocratico e così frequentato. Lo zio, che stava dimostrando la forza educativa della bella maniera e della persuasione, offeso, irritato da quell'atto senza decenza, colla stessa mano che teneva in aria quasi a fabbricare il suo essere logico - To'.... impara a leccare i piattelli, animale! - fece e lasciò cadere nell'impeto della collera un tal manrovescio sulla zucca di Giacomino, che ragazzo, sedia, vassoio, piattello e tazza dell'acqua andarono a rotolare d'un colpo sotto il tavolino. Il ragazzo abituato a questo genere di dimostrazioni si rialzò alla meglio, sforzandosi di non piangere; ma gli amici, che cominciavano a credere alla teorica della persuasione e delle belle maniere, non potettero trattenere una risata, che sforzò a ridere nella barba anche il burbero benefico. Giacomino ebbe in compenso un altro sorbetto.
L'aneddoto piccolo in sè dimostra che a far delle teoriche educative ci arrivan molti: spesso ci arrivano anche coloro che non sanno far altro. Una cosa è il dire e il dar precetti e il riconoscere quel che è buono e ragionevole: un'altra cosa è il saper applicare e praticare queste leggi e il non guastarle col proprio temperamento.
Non c'è maestro d'abbicì che non si creda in caso di scrivere un libro di massime: ma pochissimi sono coloro, che non sacrificano le più belle massime del mondo ai risentimenti, ai vizi del loro temperamento o alle piccole ragioni del loro tornaconto. La maggior parte di quelli che credono di ben educare, più che condurre, urtano, e se qualche volta l'urto è per caso in senso buono, il più delle volte manda l'allievo a rotolare sotto i tavolini e obbliga a un eccesso d'indulgenza che guasta in un altro senso. Per educar bene ci vuole, oltre al cuore e al cervello, una mano eguale come quella del tessitore; non l'impazienza, ma la continuità, non le scosse nervose che scompaginano i fili della tela, ma la volontà scorrevole e forte che opera senza stridere.
I rimproveri che scattano, non dal risentimento della ragione, ma dalla foga e dalla sovrabbondanza di un temperamento troppo eccitabile, sono armi che si scaricano in isbaglio, son colpi perduti, che vuotano l'arme senza vantaggio e possono anche uccidere un innocente. Nell'educazione il temperamento dell'educatore può essere un bonissimo servitore; ma è sempre un cattivo padrone.
Càpita qualche volta che un temperamento troppo forte, venendo a urtare in un soggetto troppo delicato, lo guasti per sempre o perchè lo avvilisce o perchè lo snatura. Il debole spaventato è uno a cui mancano le forze: che vale frustare un cavallo sfinito?
Ho conosciuto uno di questi padri troppo rigorosi, che aveva un culto così solenne della virtù e un senso così alto dell'autorità paterna, da non permettere ai figliuoli d'aprir la bocca, se non interrogati su cose di grande importanza. A pranzo si taceva come in un convento: il ridere forte era sconvenienza, il rider per nulla sciocchezza, il dormire un po' a lungo indegno dell'uomo, il mangiare con troppo gusto foga bestiale. Il far il bene era la regola, quindi inutile la lode a chi fa bene, come non si loda il sole quando ritorna al mattino. L'idea del male, del disordine morale, del debito, della dissolutezza giovanile non si discuteva neppure, come non si parla di cose che non ci riguardano. Non ammettevasi nemmeno in ipotesi che uno di casa potesse, passando vicino a qualche cosa di sporco, insudiciarsi un pochino la manica. E i figliuoli eran così persuasi di questa fatalità morale, che per paura di mettere il piede in fallo non si arrischiavano quasi a camminare. Così da un padre forte e austerissimo discese una famiglia di ragazzi timidi, paurosi dell'ombra propria, sempre indecisi, che dopo aver tentennato in varie cose, finirono per mancanza di presenza di spirito in umili impiegucci senza gloria e senza responsabilità. Uno solo più vivo degli altri, avendo cercato ribellarsi, andò a cader peggio. Messo in collegio imparò subito a falsificare gli attestati scolastici, tale e tanta era in lui la paura di tornare a casa con qualche punto al di sotto del bene. Per coprire i falsi dovette imparare anche l'arte del mentire con prontezza senza arrossire: per comperare il silenzio dei complici pericolosi dovette più d'una volta pigliar del denaro in casa, e non bastando, pigliar anche quello in prestito dagli strozzini. Scoperto, la paura di confessare questi delitti a un padre così terribilmente virtuoso, riempì l'animo del nostro timido colpevole di tanto terrore, che preferì fuggire e darsi a una vita d'avventure. E se ne andò per molti anni reietto e maledetto, vivendo un po' della pietà dei parenti, un po' mendicando la vita in uffici degradanti, perseguitato dalla voce che insegue sempre i colpevoli, nell'ombra gelida della diffidenza e della paura. L'austero padre ne morì di dolore e l'ultima parola che scrisse nel testamento fu una sciagurata imprecazione al Caino, che aveva disonorato il nome di una intemerata famiglia. Il vecchio intemerato scese nella tomba colla coscienza della sua infelicità, non con quella della sua incapacità educativa e della sua colpa.
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Son due casi di persone colte, educate al senso delle cose, che credevano d'applicare dei princípi: ma quanti altri casi potrei recar qui di persone meno colte, o ignoranti del tutto, alle quali la natura assegna il santo e nobile ufficio di educare e non sanno nemmeno da che parte s'incominci. Come può educare gente che non fu mai educata? Chi dà il diritto a certi vetturali di guastare l'anima d'un uomo, come non guasterebbero peggio il corpo d'una bestia? A qual prezzo hanno acquistato questo sacro diritto? Perchè un uomo in un momento d'ubbriachezza ha generato un figliuolo, basta per riconoscere in lui la dignità di padre? può la società, che dall'unione di tutte le famiglie ritrae la forza sua, riconoscere questa dignità in persone, che ammaestrano la prole come si fa colle scimmie? e perchè non potrà togliere quest'autorità a chi non è degno, come leva i diritti al ladro e all'incendiario? Guastare un uomo non è qualche cosa di peggio che scassinare un uscio o dar fuoco ad un pagliaio?
Ecco un gruppo di questioni che una Strenna non potrebbe per ora risolvere senza diventare un libro troppo serio e forse anche un poco pericoloso; lasciando al lettore la fatica di rispondere, citerò altri esempi, osservati da me, e che son troppo frequenti per non essere creduti: anche questa volta si tratta di gente, che credeva di dare ai figliuoli quel che si dice la loro brava educazione.
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Era mio vicino di casa e abitava un appartamento dirimpetto al mio un modesto impiegato dell'archivio, il quale aveva un figliuolo che capiva poco il latino. Il buon padre, volendo che il ragazzo approfittasse anche lui della bella lingua dei protocolli, si metteva ogni sera d'estate dietro il tavolino del figlioletto, mentre questi attendeva ai doveri di scuola, e aperto il libro degli esercizi, cominciava di solito con questo preludio: - Ora vediamo il sor asino alla prova... - Si noti che le finestre erano aperte e che la voce squillante del padre educatore passava sopra i tetti. I casigliani, che in quelle ore d'estate stavano alle finestre a prendere un po' di fresco, erano dunque invitati ad assistere alle prove del sor asino. Il quale asino diventava un somaro al primo scarabocchio, e il somaro un somaraccio, e siccome i somari meritano d'essere picchiati, ecco scapellotti massicci piovere sulla zucca rossiccia del piccolo Tito Livio a ogni minima sconcordanza. Il povero educando sentendosi scombussolare sotto quei colpi le caselle delle declinazioni, capiva ancor meno; e più il padre zelante strillava coi diti aperti per fargli intendere la regola dell'ut e del quamquam, tanto meno il ragazzo era in grado di intendere. Non bastando gli scapaccioni, il padre maestro provava a scoterlo sulla sedia, a schiacciargli il muso sulla grammatica, finchè qualche vicina pietosa non usciva a gridare che quella non era la maniera d'educare i figliuoli. - II libero cittadino, offeso ne' suoi diritti domestici, rispondeva che di suo figlio era padrone lui, e che quando un padre procura di dare a un asinaccio la "sua brava educazione" la gente non dovrebbe metterci il naso.
Il ragazzo, che capiva d'avere ne' casigliani dei santi protettori, cominciava a strillare come un aquilotto; e allora alle tranquille meditazioni filologiche succedeva la casa del diavolo. Volavano sedie, ballavano tavolini, urlava il padre irritato, schiattiva il figlio inseguito, e qualche volta la lezione educativa finiva con una rottura di vetri, che il figliuolo doveva pagare a poco a poco a furia di mortificazioni sulla colazione e sul desinare.
Quel povero padre archivista soffriva sinceramente d'aver un figliuolo così testardo; nè si accorgeva nella sua buona fede che l'asino era lui.
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Nella stessa casa abitavano certi coniugi Cuci, di Napoli, piovuti a Milano dopo una lunga serie di peripezìe domestiche con un nidiata di bambini dagli otto anni in giù. Di che cosa vivessero e come nutrissero i figliuoli, non si è mai potuto capire. Il marito usciva la mattina dopo aver regolarmente picchiata la moglie, che forte e robusta come una montanara, sapeva magnificamente difendersi colle molli del camino. Poi usciva anche lei e perchè la gente non rubasse i bambini, li chiudeva in casa, vestiti sì e no, coi letti disfatti, spesso col fuoco acceso. Venivano da quelle stanzuccie strilli, schiamazzi, lunghi piagnucolamenti di bimbi in camicia, che tiravano per la casa le coperte del letto e invocavano la mamma. Quando questa, rientrando dopo le sue misteriose escursioni, trovava la casa in disordine, picchiava a destra e a sinistra senza distinzione di sesso; se la sera rientrava il marito ubbriaco, la musica era perfetta. Con tutto ciò non mancavano i giorni di tenerezza, quando marito e moglie e i cinque figliuoletti, ravviati con qualche cura, uscivano insieme a prendere un sorbetto o a far una passeggiata sui bastioni. Guai a colui che avesse toccato un capello a uno di quei vezzosi piccini! L'ultimo dei maschietti andava quasi sempre vestito da bersagliere e il babbo se lo portava attorno in braccio con una specie di ostentazione patriotica, come se mostrasse Luciano Manara. Eran bei bambini biondi, delicati, ma sporchi, ignoranti, turbolenti, sempre alle man tra loro, senza rispetto per nessuno: nelle contese tra babbo e mamma ne pigliavan sempre, ma poi si faceva la pace. Papà sonava la chitarra e quando non era troppo ubbriaco, intonava volentieri una canzonetta di Piedigrotta. Data la nota e il tono cantavan tutti come merli in quelle quattro stanzette aperte in cui entrava il bianco raggio della luna.
Babbo e mamma avrebbero dato il sangue per i loro cari "piccirilli"; ma era un amore ubbriaco, che ispirava un ubbriaco sistema di educazione.
Ero alle mie prime armi - mi raccontava un giorno la buon'anima del professor Marchini - e in grandi strettezze di mezzi. La laurea mi aveva portato via gli ultimi risparmi dell'annata e i miei di casa, più che a darmene, aspettavano che io cominciassi a restituire. I mesi delle vacanze passarono senza lezioni e senza offerte: già cominciavo a disperare, quando un prete del mio paese mi propose di entrare in una casa di signori in qualità di precettore e di maestro d'un giovinetto sui quindici anni, futuro erede d'un gran nome e d'una grande sostanza.
Per quanto mi facesse male l'idea di chiudermi in gabbia, pure, visto l'andamento della stagione, accettai subito e rimpannucciatomi con denari presi a prestito, mi presentai, non dispiacqui al conte e alla contessa e coi primi di novembre entrai a far parte della famiglia. Per un uomo nato in una fattoria, abituato alla giacca e alla pippa del cacciatore non fu un piccolo sacrificio il dovere star sull'etichetta dell'abito nero, sempre in quinci e in quindi nei discorsi, nei complimenti, nelle riverenze. Non tutti son nati per far la vita del signore e uccel di bosco non ama la gabbia d'oro; ma non mi aveva il mio professore di pedagogia parlato dell'opera dell'educatore come di una missione di sacrificio? lo spirito d'un signore davanti alla scienza ha gli stessi diritti dello spirito d'un poveretto e se altri, migliori di te (dicevo a me stesso) si sacrificano a una vita di stenti, in cima a una montagna, per la redenzione morale delle plebi, puoi anche tu, Giacomo, sacrificarti a mangiare tre piatti a tavola per redimere un conte. Questo giovinetto un giorno sarà padrone di due o tre milioni; tu non hai milioni, Giacomo, ma hai delle idee. Se puoi innestare delle buone idee sui milioni del tuo discepolo, non vedi quanto bene puoi fare a lui, alla patria, all'umanità?
Con questi propositi dètti principio alle mie lezioni di latino, di greco e di bel comporre. Ma avevo fatto i conti senza l'oste, e l'oste era questa volta, parlando con poco rispetto, l'illustrissimo don Momolo, mio scolaro, un bel ragazzotto sano e robusto, pieno di vita e di prepotenza, che amava più il suo cane da caccia e il suo puledro che non tutti gli eroi della Grecia e di Roma presi in un mazzo.
Sapeva d'essere ricco, sapeva che avrebbe ereditato alla morte di uno zio un immenso patrimonio, sapeva che la mamma era debole e il babbo inconcludente, quindi comandava a bacchetta, per non dire a bastone, trattando la servitù come bestie, ignorante sì, ma altrettanto pieno di sè, come se il mondo fosse stato fatto pe' suoi piedi.
La prima volta che ci trovammo soli davanti al tavolino, accese una sigaretta e mi disse tra una fumata e l'altra: - Senta, sor Giacomo, lei capisce che io di queste sue grammatiche non so che farne e che se mi rassegno è per non disgustare il principe mio zio. Anche per far piacere a quella buona gente là (voleva dire i suoi genitori) mi rassegno a star qui con lei qualche ora al giorno; ma vediamo di non tormentarci a vicenda. Lei spieghi, io cercherò di capire, ma se non capisco non si disturbi. Dica a mamà e a papà che le cose van bene e così vivremo in pace. Per lei, è tanto fiato risparmiato, lavora meno e non ci perde nulla, per me è tanta salute. Coll'altro suo predecessore si era fatto così e si andava benone.
- C'è già stato un altro prima di me? - domandai.
- Dica due o tre, tra cui un prete pedante che si rese impossibile per la sua sporcizia. L'ultimo era più ragionevole, ma sul più bello mi accorsi che mi rubava le sigarette. Speriamo che con lei si possa trovare un modus vivendi... dico bene in latino?
Lascio immaginare l'effetto che un discorso di questa natura in bocca a un ragazzo di quindici anni produsse sulla mia povera pedagogia. Il primo sentimento fu di ribellione, cioè di prendere il cappello e di andarmene; ma la povera contessa al mio risentimento si commosse fino alle lagrime, mi pregò di aver pazienza, di non dare importanza alle parole. Le avevano detto molto bene di me e ormai la stagione era troppo inoltrata per poter trovare un altro personale. Don Momolo non poteva naturalmente frequentare le scuole pubbliche, dove s'insegna un po' di tutto, e lo zio principe pretendeva che fosse istruito almeno nei classici. Ora stava per entrare in un'età pericolosa e guai se non avesse avuto sempre al fianco una brava persona prudente! Io dovevo fare insomma da contrappeso alla sua giovanile sfrenatezza e impedire che lo zio principe si disgustasse d'un nipote così poco disciplinato.
- Proveremo tre mesi - dissi - ma voglio carta bianca. Se dopo tre mesi non vedo un miglioramento, dichiaro fin d'ora che cambio mestiere. - Noi ci fidiamo di lei - esclamarono colla voce piagnucolosa quei due poveri genitori spodestati; e confesso che in quel momento provai una certa compassione della loro debolezza. Buoni, teneri di cuore, innamorati e superbi di quel loro maschiotto, unico erede d'un gran nome e d'una grande sostanza, avevano cominciato fin dai primi anni a rinunciare ai loro poteri. Tutto era bello quel che veniva da Momolino, anche gli schiaffi e le insolenze. Tutto era ben fatto quel che faceva lui, anche quando metteva le mani nei piatti della salsa e la salsa in faccia alla gente. Tutto doveva inchinarsi davanti a don Momolino e se don Momolino diceva che il sole era polenta, non bisognava contraddirlo, ma: sì, signorino, il sole è polenta, sono io l'asino, il sapiente è lei... - Così per una serie lunga di amorose vigliaccherie, padre, madre, parenti, servi, maestri avevano messo insieme quel bel tipo di ragazzo, ingordo nel mangiare, intemperante nel bere, già bisognoso di liquori alla sua età e con quel temperamento, manesco con tutti, fin colle ragazze... E io dovevo colla mia pedagogia, co' miei Romani e co' miei Greci far da contrappeso a questo colosso, redimere uno spirito, domare la belva. Era possibile sbagliare nel metodo; fallita la forza dell'amore e della persuasione, chi garantiva che potesse giovare la forza della forza? Il ragazzo era troppo forte egli stesso, troppo padrone della situazione e del cuore de' suoi per non saper resistere a un giovine pedagogo armato fino ai denti di cronologia e di verbi. Se un giorno io avessi respinta una sua insolenza con un'altra e il futuro principe avesse alzata una mano, a me, naturalmente, non restava che di stritolarlo, o di metterlo sotto i piedi, sistema non ancora approvato dalla pedagogia sperimentale e il meno adatto forse per la buona educazione d'un giovine signore. Basta - dicevo per consolarmi - -tre mesi non sono la morte d'un uomo; mordere non mi può mordere: o almeno speriamo che non sia idrofobo.
Cominciai a tenere un contegno riservatissimo, corretto, senza adulazioni e senza sgarbi, una vera posizione verticale, come dev'essere sempre la linea dell'educatore. Quando tornò a ripetermi il suo famoso programma di studio, risposi semplicemente: - Parlo al gentiluomo, non all'allievo. Capisce che io non posso accettare e nemmeno ascoltare simili proposte, ma d'altra parte non voglio essere nemmeno il suo carceriere. Proviamoci a vicenda tre mesi; se non c'intenderemo, ci lascieremo da buoni amici. Nè lei ha bisogno di me, nè io fortunatamente ho bisogno di lei. Riconosco anch'io che lo studio per un giovine vivace e ricco come lei possa sembrare una gran noia. Lo so per prova, perchè è stata una noia anche per me. - Che? anche lei si è annoiata? - Mortalmente. Alla sua età preferivo dar la caccia ai fringuelli, ma poi ci ho pigliato gusto, come vede, e vivo coi libri. Per me il caso era un po' diverso; io dovevo farmi una posizione e mettermi in grado di guadagnarmi il pane; lei non ha nessuna necessità di sacrificarsi. Provi questi tre mesi; se dopo sentirà di non poter resistere, io persuaderò i suoi genitori a non tediarla più. Non è necessario che tutti siano sapienti a questo mondo: anzi... - e lasciai capire che è quasi un bene che i ricchi siano un po' ignoranti.
Il discorso parve a don Momolo così nuovo e così originale, che mi guardò con occhi meravigliati e non osò replicare; e siccome non cessava dal rotolare sigarette, gliele tolsi di mano, con bella maniera, dicendo: - Senta, io ho un vizio più brutto del suo: fumo nella pippa. Troverebbe decente che io affumicassi di tabacco trinciato il suo gabinetto? Dunque facciamo un sacrificio a vicenda. - Sulle prime parve sorpreso lui stesso di non poter respingere questi comandi; abituato a vincere sui deboli, non capiva questa forza che gli resisteva, non capiva dove fosse e come fosse. Era semplicemente la forza morale che ha sempre vinto e dominato gli istinti; è la forza del fraticello inerme che arresta il cavallo del barbaro conquistatore: è la forza che vien dall'età e dall'esperienza, che serve di freno agli impeti irragionevoli della natura.
I nostri studi nei primi tempi non furono mai eccessivi. Lasciando in disparte le aridezze grammaticali, mi distesi a raccontare quanto di più interessante e di più curioso offre la storia degli antichi popoli, gli usi e i costumi dei Greci e dei Romani, il segreto delle loro vittorie, l'ordinamento dei loro eserciti, il modo e la tattica delle loro battaglie, la foggia delle vesti e delle armi offensive e difensive. Parlavo passeggiando per la stanza, disegnando col gesso sulla tavola nera le figure e i punti strategici, schiarendo il discorso con libri illustrati e colla rappresentazione dei monumenti, delle statue e delle rovine. Furono per don Momolo quindici giorni di passatempo delizioso, talchè ebbe a dire con suo padre che lo studio fatto in questa maniera era un altro paio di maniche.
In capo ai tre mesi rinnovammo il contratto. Don Momolo cominciò a stimare il suo maestro e a far qualche cosa; io già speravo che avrei a poco a poco rifatta la coscienza del mio allievo, ma, povero a me, non ho potuto rifare quella de' suoi genitori. Qualcuno andò a raccontare alla pia contessa che io ero un po' troppo liberale nelle mie idee, che nella storia non dicevo sempre bene dei papi, che non biasimavo abbastanza gli orrori della rivoluzione francese, che mangiavo di grasso il venerdì. Raccolsero un piccolo consiglio di famiglia e dopo aver pesato il pro e il contro, con bella maniera mi mandarono a dire che intendevano mettere don Momolo in un collegio all'estero, presso i padri gesuiti di Lione. In premio de' miei buoni servigi oltre il convenuto mi regalarono una bella pippa di schiuma. - Che Dio vi benedica! - dissi in cuor mio, non senza un po' di amarezza.
Don Momolo oggi è uno dei più sfrenati giocatori; e giuoca, io credo, per dimenticare il male che ha fatto a' suoi e a sè. In mezzo alla sua rovina non ha conservato che una passione, voglio dire una certa manìa per le cose antiche.
Chi aggiusta il capo a certi genitori?
III.
Lasciando stare certe miserie che non si possono guarire con delle Strenne, ci sia permesso domandarci come mai da uomini probi e da donne oneste, che hanno a cuore il bene dei loro figliuoli, derivino non di rado figli libertini, dissipatori, giocatori, ragazze pettegole, ambiziose, rovina delle loro case e di quella dei loro mariti.
Gli è che le buone intenzioni non bastano: è il metodo che occorre.
L'educare è un mestiere, diciamo così, che bisogna saper fare come ogni altro, almeno; per non dire meglio d'ogni altro. E invece è quello che meno s'insegna e che meno volentieri s'impara.
Una signora si vanterà facilmente di conoscere l'inglese e magari anche il russo; ma dirà coll'eguale assurance che, già, lei non sa educare i suoi figliuoli: che per questo li mette in collegio.
Molte lo confessano con una specie d'ingenuo candore, come si confessa una simpatica debolezza che non si sa vincere; ma è pur vero che non si sono mai preoccupate d'imparare quel che non sanno. A molte questa preoccupazione parrebbe una stravagante pedanteria. O che si deve studiare pedagogia, leggere il Lambruschini, seguire un corso di metodica alla scuola normale? - Non credo che sia necessario leggere libri e andare a scuola per imparare quel che molte altre imparano così bene col cuore e col buon senso. In quanto ai libri - tranne le Strenne - è bene non fidarsene, perchè chi li scrive di solito non ha figliuoli ed è sempre facile educare i figliuoli degli altri. Basterebbe, signore mie, dire presso a poco così: "Se il mettere al mondo dei figliuoli o l'opera più importante della vita, è naturale che a quest'opera si dia qualche importanza, come la dò a molte altre cose meno importanti."
"Una creaturina umana, ragionevole, così bella e delicata, uscita da me, affidata a me, destinata a vivere con me e dopo di me, a raccogliere il mio ultimo respiro, a palpitare d'amore per me e per altri esseri, destinata a patire molte ingiustizie o forse a produrre cose meravigliose e immortali, è degna d'ogni riguardo. Io la devo tener ben da conto: è la cosa più preziosa della mia casa: sempre poco sarà tutto quello che io saprò fare. Una creatura siffatta, in cui c'è il soffio di Dio, è tal tesoro che al mondo uno maggiore non può darsi. Per colpa e negligenza mia questa creaturina ora così bella e così promettente, che ruba i baci cogli occhi, può diventare un soggettaccio qualunque, un fior di vigliacco, un ubbriacone, una megera, un pezzo di fango, come all'incontro per merito mio può diventare un Rafaello, un eroe, un santo, un angelo di bontà e d'amore. Posso dunque disinteressarmi di questa missione? posso scaricarne la responsabilità sulle spalle degli altri? Io che palpito per il mio bel vaso del Giappone, che balzo dal letto se mi pare che altri me lo tocchi, devo rimanere indifferente per questo vas spirituale, che ho fabbricato io con quanto di più dolce concede la natura, coll'amore? Le visite, i libri, la musica, le scuole, la politica, la scienza, le corse dei cavalli, le ville, i vieux Saxe, i Sèvres sono tutte bellissime cose, che hanno una per una la loro ragione d'essere. I commerci, la bottega, la casa, il ménage, la scuola, lo studio, il banco, la politica, sono alla loro volta occupazioni importantissime, svaghi e pensieri che hanno pure la loro ragione d'essere; il rosario, la santa messa, la scampagnata, il romanzo, la maldicenza, il processo del giorno, la colazione, il pranzo e fin un paio di scarpe rotte possono dare un momento a pensare; ma in mezzo a tutti questi pensieri il pensiero dei propri figliuoli dev'essere sempre presente, anzi deve fare di centro agli altri, dev'essere sempre sottinteso come quello in cui s'impernia la vita. Non si capisce come non sia sempre e naturalmente così per tutti e in ogni circostanza, perchè gli altri pensieri vengono dagli uomini e dalle cose, quello dei figli vien dalla natura. Non si capisce come possa alla forza violenta della natura sovrapporsi la foggia d'un cappellino, una moda, un capriccio, una pigrizia meschina, una deviazione così strana degli affetti. Se si lasciasse parlare la voce schietta della natura, nessun'altra voce potrebbe parlare più forte; nessun dovere ci sarebbe più dolce o soave; non si vorrebbero altri compagni che i figli nostri fino alla morte; e in nessun luogo ci sembrerebbe più santa la preghiera e più bello il culto della virtù che in mezzo a loro. Così dev'essere, signore mie, non per comandamento di alcuna legge incisa in pietra o su tavole di bronzo, o per disposizione di codice sacro o profano; ma perchè così vuole l'istinto stesso dell'umanità.
Rinunciare agli affetti domestici per cercarne altri più enigmatici e più lontani è come chiudere le finestre alla luce del sole per correr fuori a comperare delle candele di sego.
Chi ama i suoi figliuoli è ricco di un bene che non ruba a nessuno e che nessuno gli può rubare.
Negli affetti domestici e il germe degli affetti sociali, che hanno bisogno di nascere in qualche luogo e non nascono meglio che all'ombra della casa. Le virtù che non furono nel loro nascere raffinate dalla mano materna sentono sempre alcun poco dello scabro e del selvatico.
È per l'uscio della casa che gli eroi passano nella storia.
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L'avvenire vedrà molte cose, che ora non si sognano nemmeno, ma non potrà mettere uno spillo attraverso ai cuori. Se avvenire ci sarà, non potrà essere che più bello, nel senso cioè che sia dato a un numero maggiore di persone di godere delle squisite gioie domestiche, che ora sono riservate a pochi. Lo stesso socialismo, che sorge come uno spauracchio della famiglia, dovrà fondarsi su di essa quel dì che vorrà essere naturale.
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Noi dobbiamo amare i nostri figli per quel che sono e per quel che saranno; ma se non basta questa ragione oggettiva, procuriamo almeno di amarli per conto nostro. "Il fanciullo - dice uno scrittore - non è dato all'uomo solamente per continuarne la specie, per seguirlo e per sostituirlo, ma anche per sorreggerlo, per rallegrarlo, per ripararne le perdite, per ringiovanirne la vita. Presso al termine della sua carriera, l'uomo solitario si sente preso da un invincibile languore e si distacca dalle cose con tristezza. I suoi gusti, i suoi piaceri, le sue facoltà, le sue affezioni cadono come foglie secche e sbattute dal vento a' suoi piedi. Davanti a sè non vede che una tomba. Ebbene il fanciullo lo rivolge verso una culla, nasconde l'abisso coprendolo di fiori. Il vecchio tronco rinverdisce in un tenero e fresco rampollo. No, il padre non invecchia. Egli muore, ma, dirò così, muore pieno di vita. Si spegne ma pieno di speranze. Egli sogna, fa progetti, ama, soffre, rinasce nel suo figliuolo. - Dimmi, o vecchio, quanti anni hai? - Gli anni di mio figlio." (T. Dufour).
IV.
NOI SIAMO NEI NOSTRI FIGLI.
Per educare bene i figliuoli bisogna prima conoscerli, ma conoscerli bene non si può, se non conosciamo prima noi stessi, che li abbiamo messi al mondo. Ciò ritorna a dire che per educare bisogna essere educati.
I nostri figli, è stato scritto in un'altra Strenna1, sono spesso la parte migliore di noi stessi; ma ciò non toglie che qualche volta possano essere la parte peggiore. In generale avranno molto di noi nelle buone e nelle meno buone qualità, a cominciare dagli umori e dal temperamento fino alle simpatie e alle stramberie. Si dà non di rado che i figli non siano altro che la risultante finale, la continuazione, lo svolgimento naturale d'un germe, che spesso rimase incompleto nei padri. Giovanni Santi, mediocre pittore, fiorisce in Rafaello; un modesto sonatore di corno trionferà in Gioacchino Rossini, suo figliuolo. Riteniamo dunque che la chiara conoscenza di noi stessi è già una buona bussola per bene orientarci nell'indole dei nostri figliuoli.
La memoria di quel che abbiamo più amato e odiato da ragazzi, le angoscie sofferte per le piccole cose, le ineffabili noie lentamente digerite negli anni della giovanile aspettazione, le ripugnanze istintive per certi gusti, gl'impeti e gli scoraggiamenti tra cui navigò la nostra vita sono altrettanti documenti di quel che possiamo trovare in chi è nato da noi. Molto intende chi molto ricorda: il primo libro di pedagogia siamo noi stessi.
Con questa scorta o vademecum di noi stessi potremo spiegarci dei misteri nell'animo involuto del nostro bambino. Qualche volta vi scopriremo una vocazione che non ha potuto attechire in noi, o aggravata una cattiva tendenza che non ebbe tempo di svilupparsi. Non sempre da un sonatore di corno nasce un Rossini, ma quasi sempre da un padre indolente deriva un figlio indolentissimo, se non ci si pone un rimedio. Credere in tutto e per tutto alla fatalità dell'ereditarietà, come vogliono questi scienziati e come ha dimostrato a esuberanza lo Zola in venti romanzi, non è il caso; è bene ammettere in ogni individuo qualche cosa che vien da altrove. Ma molto si trasmette e una chiara conoscenza di noi stessi è già una buona carta per orientarci nell'indole dei nostri figli. Così opereremo con più giustizia e con più compassione; non incolperemo i nostri figli di cattiverie, che abbiamo loro inflitte mettendoli al mondo, e non correremo il rischio di castigare troppo severamente negli innocenti le nostre colpe trascurate.
Quando vedete un padre furioso battere bestialmente un suo ragazzo petulante, dite pure che quell'uomo batte sè stesso un po' in ritardo. E se vedete una mammina carezzare e leccare un suo caro frugolo indolente, dite pure che essa continua a carezzare la sua pigrizia.
In ogni piccola vanitosa chiacchierina traluce e parla sempre una vanità e una leggerezza più lontana, che non è difficile scoprire, tornando indietro qualche passo.
Se i precetti assoluti valessero qualche cosa in questa serie di rapporti diffettivi che si chiama vita, si dovrebbe scrivere che il miglior mezzo per avere dei figli buoni e virtuosi è quello di dar loro genitori buoni e virtuosi; ma siccome bisogna contentarsi sempre del minor male, è già molto se i genitori sanno prevedere nei loro figli i difetti che non hanno saputo correggere in loro stessi.
Così nei figli nostri noi diventiamo migliori; educando ci educhiamo. Dove possiamo noi trovare maestri più cari e più amabili? come condurre le sacre leggi e i dolci vincoli di natura a una maggiore espressione morale? Buoni non si può essere per conto nostro? Pensiamo che pei figli nostri non si è mai buoni abbastanza. È in questo invito soave che ci viene dai piccini che troviamo la forza d'essere grandi. È in questo senso che la paternità riveste il carattere d'una missione civile e religiosa, è in questa missione che l'uomo non è soltanto un animale della terra.
Che cosa di più divino sulla terra d'una madre che educa un bel sentimento in un piccolo cuore? come può esservi un uomo più nobile e più forte di colui che sorregge colla mano un giovinetto attraverso un passo scabroso?
E se possiamo a due belle domande aggiungerne una terza meno lusinghiera, ci sia dato di chiedere ancora: - Quanti intendono questa missione?
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Si son maritati per desiderio di stare insieme, per cieco amore, come si dice, e la conseguenza fu un certo numero di figliuoli. Ora che i figli ci sono, è naturale che i genitori li faccian crescere mediante un certo consumo quotidiano di pane e di pietanza e che li mandino vestiti come vuole il decoro della famiglia. Arrivati a una certa età, andranno a scuola o in collegio, impareranno quel che imparano gli altri, si avvieranno a una professione, ma tutto questo avviene per una forza naturale di successione, per il contraccolpo d'una cosa sull'altra, spesso per un disimpegno, non perchè il babbo e la mamma abbiano nel cuore un'idea e sotto gli occhi un piano di educazione. Il babbo ha la sua politica, i suoi affari in borsa, la sua candidatura, i suoi libri, i suoi giornali, gli amici del club, quando non ci sono anche delle amiche; la mamma ha da pensare alle sue telette, ai ricevimenti, ai teatri, alla sua influenza morale sulla carriera del marito, al suo salotto. L'uno e l'altra sanno che ai figliuoli non manca nulla e basta. Per i primi anni stanno nelle mani della servitù, poi in quella dei maestri, delle istitutrici o delle suore: poi passano, quasi senza fermarsi, i giovinotti nel bel mondo, le ragazze, sposate, dotate e imbrillantate, nella casa dei mariti.
Questa successione di cose è quel che dicesi in generale dare una buona educazione. Non sempre riesce male, se l'indole è naturalmente buona, se i casi si coordinano da sè con una certa armonia; ma basta l'urto tra due cose per sviare una volontà, per guastare un carattere, per rovinare un uomo. Dove manca un affetto che sorveglia giorno e notte, dove manca un cuore che nota i minuti che passano, ivi non può essere vera educazione. Il denaro può pagare lautamente degli educatori mercenari, ma non può sostituire ciò che non si paga: l'amore.
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Peggio vanno le cose quando tutta la famiglia poggia sul falso, perchè tra marito e moglie non c'è accordo di sentimenti, ma solamente un equilibrio apparente mantenuto da convenienze e da convenzioni sociali, da rispetti umani, da un freddo cerimoniale d'ordine, da regole più di galateo che di cuore. È una disgrazia nascere in queste case, anzi son d'opinione che tali figliuoli non dovrebbero nascere. Generati nell'equivoco da due persone che non si amano e forse non si stimano, devono portar nel sangue il germe dell'equivoco e della falsità. Non sono fiori nati al sole aperto dell'amore, ma poveri fiori di serra, che l'arte e l'industria dei giardinieri seguiterà a guastare fino alla fine. Da queste famiglie escono certe nature moralmente rattrappite e arzigogolate come orchidee, alle quali manca ogni profumo di bontà e di simpatia. Le malattie morali della nostra fine di secolo, la morbosità e la nevrosi di certi cuori e di certi cervelli giovanili, quel non so che di degenerato e di decadente che logora le stesse manifestazioni dell'arte moderna, sono conseguenze in gran parte dei falsi connubi. Dalla radice la crittogama si comunica a tutta la pianta e i frutti imbozzacchiscono sui rami.
Bugiarda è la pace domestica, bugiardo il rispetto apparente, bugiardo il sorriso della mamma, bugiardi i grandi affari che tengono il babbo fuori di casa; bugiarde sono fin le lagrime che commuovono qualche volta il piccino, quando la mamma agitata, sconvolta se lo piglia sui ginocchi e cerca alla sua creatura un soffio d'innocenza e di sincerità. Bugiardi sono i servitori, i parenti, i conoscenti che mentiscono un rispetto, una stima, un'amicizia che non provano.
Come può in quest'aria satura di menzogna crescere e svilupparsi una coscenza onesta e sincera? Se il piccino potesse parlare da filosofo, ecco quel che dovrebbe dire a' suoi genitori: "Voi mi avete messo al mondo senz'amore e senza desiderio: io vi ho seccato fin dal principio, vi secco e vi seccherò sempre, perchè io sono, per voi una bugia incarnata. Io non vi ho chiesto di mettermi al mondo; ma ora che ci sono, ho diritto alla mia parte di sole, di pane e di amore; ciò che non mi vien dato io ruberò. La bugia genera il ladro. Io sarò dunque il ladro della vostra casa, dissiperò il vostro patrimonio, ingannerò anch'io una donna, quando sarà la mia ora, le ingannerò tutte, barerò al giuoco, falsificherò qualche firma, mentirò a tutti e a me stesso, sarò insomma quel che mi avete fatto, un uomo falso".
Son cose che fanno pena solo a pensarle, non è vero? eppure se si risale a cercar l'origine delle molte e spaventose catastrofi, che sgomentano i tempi nostri, a Parigi, a Roma e un poco dappertutto, al di là o al di qua del solito cherchez la femme, si trova sempre una coscienza falsa.
E il filosofo che volesse risalire più in su, dove non arriva il giudice istruttore, fino all'origine di quella coscienza, troverebbe quasi sempre la responsabilità di altre coscienze false, che usurparono alla natura i santi nomi di padre e di madre.
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C'è infine della gente - e forse ce n'è troppa - che nel matrimonio non vede che sè stessa, i suoi comodi, il piacer suo. Per costoro i figli sono un di più, per non dire un di più noioso. Questi bravi egoisti credono che la religione e la sapienza degli antichi e dei moderni legislatori non abbiano fatto altro che promovere e stabilire le leggi della loro personale felicità. Innamorati o gelosi, dopo i loro beatissimi amplessi, non c'è nulla che più li occupi quanto le piccinerie e i pettegolezzi del loro amor proprio. Sono costoro gli egoisti del matrimonio, pei quali i figliuoli e il pensiero della loro educazione guastano la digestione dell'amore. Questa razza di gente, facendo sè stessa centro del mondo e non operando che all'incremento della loro illustrissima personalità, non vedono nella istituzione del matrimonio che un meccanismo della loro felicità, non già un contratto e un'obbligazione di due convenuti verso dei terzi, che una volta incomodati, hanno diritto di essere ascoltati e rispettati. I figliuoli per i beati egoisti (tra cui il numero maggiore è forse di egoiste) più che a consolare e rallegrare la casa, nascono a disturbare una grande quantità di bei progetti e a rompere i sonni tranquilli del babbo e della mamma. E son poi questi stessi signori egoisti che al primo malumore invocano a grandi stridi la legge del divorzio. Se il meccanismo è guasto e non fabbrica più quella certa quantità di felicità giornaliera di cui hanno bisogno, gridano che il matrimonio è una galera, una catena corta, una cosa irragionevole; mai vien loro in mente che il matrimonio è fatto per l'interesse e per la protezione dei minorenni e nell'interesse generale della società. Le religioni e le leggi che consacrarono il matrimonio non videro in esso che uno scopo, precisamente quello che i beati egoisti non vedono - i figliuoli - eredi naturali della vita, del progresso e dei beni del mondo. Che deve importare al legislatore il tenero amplesso di due amanti? Ma i signori egoisti si ostinano a non veder che sè stessi, anche in mezzo a una dozzina di figliuoli.
Quando ci son dei figli, il matrimonio non è più un numero divisibile per due e molto meno per quattro. Un uomo e una donna non si maritano per sfruttarsi a vicenda. Chi ha questo gusto non ha bisogno d'incomodare la parrocchia, lo Stato civile, due paia di testimoni e una mezza dozzina di carrozze di gala. Un matrimonio è un'obbligazione che due incontrano verso la società civile, che promette alla sua volta la protezione delle leggi: e - fin che ci sarà - sarà sempre un atto giuridico a beneficio di un terzo interessato, che ha diritto di essere sentito in giudizio e di dire anche lui le sue ragioni nelle differenze del signor padre e della signora madre. Se poi c'è anche un quarto o un quinto, hanno diritto anche loro di essere sentiti. E se qualcuno è a balia, bisogna aspettare che possa capire e giudicare. Che due coniugi bisbetici provvedano all'infelicità dei loro figliuoli, senza sentire nemmeno il loro parere, è cosa che grida vendetta in cielo, ossia in ogni cuore che abbia senso d'umanità.
Queste son le cose che andrebbero stampate in oro nella sala del sindaco: o meglio ancora giova stampare nel cervello dei nostri figliuoli grandi che il matrimonio è una cosa seria, molto seria, tanto seria, che in certi casi se ne può far senza; che non è tutta una festa d'amore come s'immaginano le nostre ragazze, che sognano il velo bianco, la corona di fior d'arancio e le armonie dell'organo, ma una catena d'anelli d'oro d'argento e di ferro, che si sopporta bene soltanto da chi ha la robustezza di compiere il suo dovere fino in fine. Maritarsi per la smania di maritarsi è un gettarsi nell'acqua senza saper nuotare; maritarsi per impazienza e per vanità è una imperdonabile leggerezza. L'impazienza è un'impudica consigliera, la vanità una sciocca madrina.
Care e simpatiche ragazze, che oggi ridete così volentieri, pensate sempre che, maritandovi, potreste avere una dozzina di figliuoli.
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Le cose che siam venuti dicendo miravano a dimostrare che dove non c'è armonia, affetto, ordine tra i genitori e nella casa, è inutile pretendere che vi siano dei figliuoli bene educati. In questi casi i genitori sono i traditori dei loro figli. Nessun codice umano li può colpire, ma essi saranno fin troppo puniti dall'indifferenza o dal giudizio finale che i figliuoli infelici porteranno sopra di loro.
Ma anche là dove regna l'armonia e la pace e dove non mancano le più belle intenzioni, vediamo spesso venir meno lo spirito educativo o per un pregiudizio di cervello o per un pregiudizio di cuore. Dove non guastano i pregiudizi, guasta non di rado la debolezza: pregiudizi e debolezza son poi sempre figli della santa ignoranza. In ogni caso noi guastiamo un'anima, cioè, dopo aver sofferto tanto a mettere al mondo una creatura e a levarla di fascie, con tutte le migliori intenzioni e col miglior volere del mondo, facciamo di tutto per renderla infelice.
«Quando si pensi quale delicato congegno sia il cuor del fanciullo, quando si pensi che celestiale splendore sia quello dell'anima sua e si ricordi come ogni più tenue impressione può recare uno squilibrio nelle fibre di quel cuore e ogni impercettibile moto turbare la radiosa serenità di quell'anima; quando si sappia che un momento di sconforto, un istante di noia possono forse informare tutta una vita, allora ogni parola, ogni sillaba acquistano singolare valore: allora ci persuadiamo che in questo piccolo mondo dell'infanzia sono la divinità del mistero e la terribilità dell'infinito, che in esso le minime cose, vedute col microscopio del cuore diventano grandi, onde ciò che all'occhio profano apparisce trascurabile, da trascurare non è2». Quel che qui è detto dell'infanzia si può e si deve ripetere d'ogni altra età: la comunicazione di spirito tra i figli e i genitori non ha mai ora per cessare e guai se cessa!
I nostri figliuoli li abbiamo nella mano, li alleviamo, li plasmiamo noi per più di vent'anni. La loro felicità futura risiede in molta parte nella nostra previdenza presente. Se non potremo dar loro una gran fortuna, potremo sempre dare una
On meurt d'être aimé trop comme de
Un falso amore è quello dei parenti che vogliono troppo bene, se questo troppo bene è frutto di debolezza. L'amore è o almeno vuoi essere il godimento della propria energia; mentre all'incontro certe svenevolezze sentimentali non possono derivare che da esseri languidi, malaticci, amanti dei propri comodi, indifferenti alla loro missione, fatti più per essere carezzati che per carezzare.
So che è un argomento ingrato specialmente al cuore tenero delle mammine. E veramente secca anche a chi predica di dover dir male di un affetto che non conosce limiti e restrizioni, che è fiamma ardente e fiamma del cuor di madre in un mondo dominato dall'egoismo e dall'odio. È così difficile trovare un altro amore così puro e così disinteressato che, ripeto, il far delle proibizioni è come un voler gettare della cenere nella lampada dell'altare. Ma l'esperienza, una nonna che non perdona, deve insegnare alle madri troppo amorose che mai dalla debolezza è potuto derivare alcun bene. La forza vien dalla forza, dice, non la pedagogia, ma la meccanica morale.
A molte anime gentili e pietose ripugna l'esercizio della forza. La carità adorabile di queste creature le porta a sacrificarsi tutte quante sull'altare degli altri e a dare sè stesse in olocausto ogni qual volta si domanda un sacrificio. Sono le Ifigenie dell'amore. Tutti ne conosciamo di queste anime care e ardenti, che mettono dell'entusiasmo a sacrificarsi anche per della gente che non merita nulla, che a nessuna causa buona rifiutano il loro cuore, che nessuna ripugnante miseria trattiene e respinge. Non è dunque a meravigliarsi che ci siano delle madri che si fanno in briciole e si consumano per il bene dei loro figliuoli.
- "Il mio ideale - esclamava sempre la buona vedova Terassini, mentre carezzava la testolina bionda dell'unica sua figliuola - il mio ideale è di maritare Cecilia a un buon uomo di campagna e di andare a far la serva a lei e a' suoi figliuoli." C'è veramente una specie di spirituale voluttà in questo soigner le nostre creature fino all'infinito, accontentando ogni loro capriccio, bevendo le loro lagrime, raddolcendo i minuti della loro vita, attaccandoci insomma al loro tronco che cresce e frondeggia sul nostro capo. Ma c'è anche un pericolo; che delle due piante una diventi parassita dell'altra. E allora toccherà naturalmente alla più giovine mantenere la più debole; ossia finiremo con questo nostro attaccamento a succhiare l'energia, la volontà, l'originalità e la sovrabbondanza dei nostri figliuoli, che ci ripagheranno coll'arido egoismo dei deboli. In quanto alla signora Terassini fu beata quel dì che credette di aver raggiunto il suo ideale. Trovato il buon uomo di campagna, onesto e ben provveduto come se lo sognava, accompagnò la figliuola e si collocò in un angolo della nuova casa in attesa dei figliuoli. Ma Cecilia abituata alle delicatezze e alle viziature materne, a non essere mai contraddetta, a veder nascere le rose sotto i piedi, stentò a rassegnarsi ai modi alquanto recisi del suo galantuomo di campagna, che aveva il vizio di fumare nella pippa e di dormire in compagnia del suo can di caccia. Prima dei figliuoli nacquero dei guai. Quando avrebbe avuto bisogno di buoni consigli e anche di energia, la sposina trovò la "serva di casa" pronta a compassionarla, a compatirla, ad asciugare coi baci le preziose lagrimette, a ingrandire i mali per avere una vittima più grande da consolare. In questo modo sotto le carezze si spense l'ultima resistenza morale di una ragazza già troppo delicata. Il resto del romanzo s'indovina. Un signore vicino fece parere ben presto il buon uomo di campagna più ruvido e grossolano. Quando il marito aprì gli occhi, cacciò via la moglie e colla moglie la sua serva, come si caccia una manutengola.
Esempi di beniamini, che risposero coll'ingratitudine e col disprezzo alle morbide dolcezze materne, non mancano nei libri e ognuno ne può raccontare qualcuno; ma gli esempi non giovano, se non entra la persuasione, e la persuasione non entra se non accettiamo la discussione nelle questioni di cuore.
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L'aurea sentenza che al cuore non si comanda è una di quelle massime stampate su una carta che fa coll'oro un agio del cinquanta per cento. Se guardiamo al di sotto dell'aurea apparenza, troviamo spesso dell'egoismo o della pigrizia bella e buona. Perchè non si deve comandare al cuore se la legge impone di comandare al sangue, all'istinto e fino alla fame? E se questo benedetto cuore m'inganna, dovrò sacrificare i miei figli a un inganno?
L'igiene mi dimostra, per esempio, che i dolciumi guastano lo stomaco dei ragazzi e che uno stomaco guastato in principio è causa perpetua di malanni, di svogliatezza, d'ipocondria, di misantropia. Può una madre rimpinguare il suo bebè di torte e di leccornie, rovinargli la digestione, renderlo ottuso ai cibi semplici e naturali, farne un eterno incontentabile, un gourmand noioso e e stupido per la bella ragione che al cuore non si comanda? - La petulanza non ha mai reso simpatico e felice nessuno a questo mondo. Può una madre permettere che il suo bebè manchi di rispetto alla gente, salti sulle sedie e sui tavoli, metta le mani dappertutto, motteggi i vecchi, i maestri, i disgraziati, si mostri insomma scioccamente spiritoso per dar piacere e gusto al cuore? Quel che non fa la madre a tempo farà il tempo fuori di tempo. Il ghiottone vivrà stupido, il petulante morirà disprezzato. Il pigro non scosso quando era ancor possibile muovere delle forze, finirà irrugginito: il libertino consunto. E le madri loro moriranno di crepacuore e di rimorsi.
Negare certe leggi di dinamica morale è un voler negare la natura per contentare un cuore irragionevole, o in altre parole è un porre il nostro egoismo travestito di benevolenza e la nostra pigrizia camuffata di bontà al posto della natura e del dovere.
VI.
IL SÌ E IL NO
Sarebbe così bello poter dire sempre di sì, così bello e così comodo! Questo caro monosillabo, che si accompagna con una delicata movenza del capo e col ricamo d'un sorriso indulgente, è un gusto del cuore e della bocca, è la gioia di chi parla e di chi ascolta, è il sogno degli innamorati, la forza della legge, la gloria dei re, il cenno divino che afferma e crea. Troppo oscura sarebbe la vita se non fosse tempestata di piccole gioie, e ogni gioia contiene un sì. Perciò quando vi si raccomanda, dolcissime mammine, di imparare a dir di no, sappiamo di proporvi una fatica ripugnante all'indole e ai bisogni del vostro istinto.
Quel no che chiude o intoppa la via dell'anima, quel no di sasso che precipita sul cuore e spreme tristezza e lagrime, quel no assoluto e tagliente come una spada, che sa anche battere e ferire, pare uno strumento di tortura nelle mani di una madre, e io compatisco se poche son quelle che all'occasione sanno mostrarsi severe e inesorabili. I babbi di solito preferiscono dir nè sì nè no, pigliano il cappello e se ne vanno. Tocca sempre alla povera mamma prender l'iniziativa, aprire la porta del bene, chiudere quella del male, tirare il sasso che fa male. E non ci vuole meno prontezza all'aprire che al chiudere; il peggio di tutto è di lasciar le porte semiaperte.
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A proposito di porte, una buona signora, madre amorosa e intelligente, che vorrebbe conciliare il sì col no, mi scriveva tempo fa per conoscere la mia opinione sulla "chiave della porta":
"Il mio Giannino ha quasi sedici anni e crede d'aver diritto alla chiave della porta, che da noi si chiude poco dopo le nove di sera. So tutto quel che significa per un giovinetto aver la chiave della porta in tasca, ma Giannino dice che l'hanno anche gli altri. Obbligarlo a rincasare tutte le sere prima delle nove è un non fidarsi di lui, dice; è un crederlo ancora un ragazzo. Tuttavia, per quanto desideri conciliare il conciliabile, non so dir di no, ma mi rincresce dir di sì. Che mi dice di fare, professore?"
A questa lettera rispondevo presso a poco così:
"Questo suo Giannino ha sedici anni, mi dice, e non si contenta più di guardar fuori della finestra, vuole la chiave per uscir a vedere quel che si fa nella via, oltre l'angolo, o ancor più in là, nei teatri, sul corso e nelle conventicole de' suoi compagni di liceo. Dare una ricetta per iscritto, buona per tutti i casi, è cosa difficile e potrebbe essere anche pericolosa: bisognerebbe conoscere il malato. Ma in massima io direi alla mamma: non lo lasci scappare.... Verrà lo stesso e ben presto il giorno in cui essa dovrà abdicare a molti poteri; ora fin che può, fin che il no vale il sì, dica di no e non rinunci a quella dolce autorità che vien da natura e dai diritti acquisiti.
Il suo Giannino, se è ragionevole, dovrà riconoscere che il suo no è pieno di ragioni e quando avrà trent'anni, guardandosi indietro a contare gli spropositi fatti (tutti ne facciamo per conto nostro) non rimprovererà mai a sua madre d'avergli impedito uno sproposito di più. L'età che attraversa il suo Giannino è la più pericolosa, perchè è appunto la più ingenua e la più ardente. Basta un passo falso, uno scappuccio sulla soglia dell'uscio, per far perdere inesorabilmente il frutto di sedici anni di pazienza e di sacrifici. Dai sedici ai venti è la crisi morale dell'uomo. Le passioni sono poetiche, vale a dire, cattive come tutte le passioni, ma vestite dei più bei colori dell'innocenza e della virtù. Son malattie che lasciano indietro convalescenze lunghe e pericolose. Tra il raziocinio che dovrebbe essere il padrone e il corpo che dovrebbe essere il suo cavallo non c'è tutto quell'accordo che s'impara più tardi a furia di vivere. Il cavallo è spesso una bestia ardente, balzana e cieca, che non sente la mano del cavaliere, e una volta presa la rincorsa, tira il padrone in precipizio. Occorre che qualcuno venga in aiuto del signorino e giovandosi di tutti i mezzi che dispone la terapeutica educativa, di quelli cioè che l'affetto, la poesia, le distrazioni, i passatempi, i libri, la poesia, lo studio, i viaggi mettono alla portata anche di una madre, bisogna servirsene, dico, per far inghiottire quei quattro no ancora necessari alla cura ricostituente del ragazzo. In ciò beata lei, signora, che ha saputo cominciare fin dal principio, talchè non c'è nessuna novità a dir di no come a dir di si; quindi immagino che certi no saranno già sottintesi. In certi casi, quando si è costretti a pronunciarli, è già una partita mezzo perduta. Se il suo Giannino fosse già tanto innanzi nella sua emancipazione da credere d'aver diritto a una chiave, il contrastare a un diritto legittimo o supposto è sempre un po' cavilloso. Preferisco ritenere invece che il suo Giannino desideri rimaner qualche volta fuori di casa un po' più tardi delle nove, in compagnia di buoni amici, desideri vedere di tanto in tanto una bella commedia, o solamente desideri di mostrare agli altri che, volendo, può rimanere fuori di casa anche lui, che possiede anche lui il suo pezzo di chiave. In questi casi contemplati ne faccia fare una apposta un po' pesante e visibile e lo contenti: e nel consegnargliela gli dica: - Ho pensato che alla tua età tu abbia a veder qualche volta gli amici, andare a teatro, far qualche visita alle tue cugine, e in carnevale accettare qualche invito: eccoti quindi la chiave della porta. Ma pensa che è un regalo della tua mamma e che le sere che tu resterai fuori io non chiuderò gli occhi e non spegnerò il lume finchè non sia entrato a darmi la buona notte....
Siccome so che in casa sua, cara signora, le cose sono andate sempre, fin dalle origini, col sistema del "poco per volta" così son sicuro che Giannino farà anche della chiave della porta quell'uso ragionevole, e dirò così, naturale che si fa delle cose ragionevoli e naturali. Anzi stia a vedere. Messo sul puntiglio della generosità può essere che d'ora innanzi il suo Giannino torni a casa prima del solito. Se si giuoca a far piacere, son sempre i giovani che vincono. Tutto il segreto è di saper insegnar loro il giuoco ".
VII.
IL POCO PER VOLTA
Natura non facit saltus, ha detto Linneo in un latino molto facile; e come nella natura così nell'educazione. Non crescono forse i nostri figliuoli insensibilmente sotto i nostri occhi, e non ce li troviamo grandi in casa senza che un giorno ci sian parsi diversi dall'altro? Se non ci fossero gli estranei a dirci di tanto in tanto: - Oh com'è diventata grande questa piccina! Oh che giovinetto hai qui! - per conto nostro non ci accorgeremmo della differenza tra l'oggi e l'ieri, tra l'ieri e il domani. E come si trasforma insensibilmente il corpo, similmente per un processo microscopico di assorbimento si svolgono e si trasformano i sentimenti, le voglie, i desideri, i pensieri e il modo di pensare. Non è più difficile in questo lento sistema di coltivazione educare una buona abitudine di quel che sia inocularne una cattiva; e sempre per la forza della natura una buona abitudine non la si smette tanto facilmente come si crede. La legge del poco per volta è la più naturale nell'educazione.
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Le piante che meglio vengono in terra aperta e all'aria libera son quelle che fino a una certa grossezza furono bene coltivate nei vivai e nei vasi.
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Il poco per volta continuamente ripetuto è la forza che crea quell'altra forza così resistente e tenace per l'esercizio della vita, che prende il nome di buona abitudine.
La buona abitudine è quasi una seconda natura che veste, arma, protegge quella che si porta dalla nascita: modella la vita come una corazza d'acciaio, costringe a camminar diritti, ci fa soldati forti nella battaglia della vita. Ma i nostri figliuoli, di natura mobili e bisognosi di varietà, hanno bisogno di chi li aiuti ad acquistare delle buone abitudini. Pretendere che essi s'impongano da sè mortificazioni e strazi per diventar migliori è volere quel che non tutti i santi sanno fare. L'alzarsi presto la mattina, l'amore della nettezza e dell'ordine, il garbo, la gentilezza nel tratto e nelle parole, la pazienza negli studi e nei lavori difficili, la moderazione nel mangiare, e tante altre simili piccole abitudini non si acquistano che con un ripetuto esercizio di tutti i giorni, mediante piccoli sforzi continui e successivi e per un certo numero d'anni. Tocca a chi educa prendere l'iniziativa e mantenerla.
Il famoso atleta Sandow, che passa oggi per l'uomo più forte d'Europa, che collo sforzo di due dita ti piega una moneta d'argento come un'ostia, dimostrava ad alcuni nostri ginnasti come egli non debba lo sviluppo de' suoi muscoli a esagerati movimenti dinamici, ma alla semplice e ripetuta manovra di due manubri del peso di pochi chilogrammi. Qualche cosa di eguale si può ottenere nella ginnastica morale. Non sono i salti di testa e gli sforzi acrobatici che danno gli uomini più resistenti; anzi certe specialità acrobatiche, che meravigliano per la loro agilità di spirito, buone tutt'al più per lo spettacolo d'un circo, nella pratica quotidiana della vita riescono uomini di poco conto e di nessuna resistenza. Non sono i bersaglieri che vincono la battaglia, ma è la massa solida e resistente della buona fanteria, che un passo dopo l'altro, conquista il campo e lo conserva.
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Le grandi virtù che tanto si ammirano negli uomini straordinari e che, viste da lontano, sembrano vette inaccessibili, non sono spesso che il risultato di una serie di piccole abitudini abilmente coordinate e concatenate in modo, che una aiuta l'altra, e tutt'insieme aiutano l'uomo.
Quanto valga la forza d'un'inveterata abitudine lo dimostrano luminosamente le cattive abitudini. Dite al vecchio fumatore o all'ubbriacone che lascino la pippa e il bicchiere; se anche fossero sull'orlo del sepolcro, se dallo smettere il brutto vizio dipendesse la loro vita, pochi son quelli che sanno liberarsi dal bisogno che li fa schiavi. Perchè non facciamo conto di questa forza e non cerchiamo di accumularla fin dai primi anni nel senso del bene a vantaggio dei nostri figliuoli? Chi fin dalla sua giovinezza prese l'abito del bene difficilmente se ne spoglia. Anche il far bene diventa un bisogno come il fumare e il bere. Per un uomo abituato all'ordine e alla precisione ogni disordine ripugna, come al delicato ripugna ogni schifezza che urti l'occhio e il naso. Ai buoni per abitudine l'essere buoni non costa nessuna fatica; e se vogliono qualche volta fare il cattivo, non ci riescono, quasi per una resistenza meccanica del loro organismo morale.
VIII.
RAGAZZI DISTRATTI, EGOISTI, POLTRONI ECC.
Abituate presto i vostri figliuoli a quegli esercizi che tendono a rinvigorire la fibra morale, specialmente a quelli che aiutano a vincere la distrazione, l'egoismo e la poltroneria.
I nostri figliuoli, se anche sono di buona indole, lasciati a loro stessi facilmente si stortano per la naturale loro esilità verso cattive tendenze o inselvatichiscono come piante abbandonate. Le stesse debolezze della loro natura s'induriscono e diventano altrettanti gruppi di ostinazione e di cattiveria.
Una mente forte finisce col diventar caparbia e superba. Una volontà viva si fa violenta, una natura mite s'intenerisce troppo e casca nella nullaggine: un'indole riflessiva e prudente, se la si lascia incantare, finisce col perdere la forza del risolvere e dell'operare: la forza fantastica svampa in bizzarrie e in sbadataggini: il coraggio si fa crudeltà... Insomma il germe, in luogo d'un frutto dolce, non ci dà che un nocciuolo duro, o uno spino, o una buccia vuota.
Se ciò avviene, la colpa non è della pianta, ma di chi la coltiva. Come opporsi a queste tendenze oblique? ci si arriva studiando attentamente l'indole del nostro bambino e un poco la nostra. È di natura distratta il vostro fanciullo? Ebbene, mi occuperò in modo speciale di raccogliere la sua attenzione ogni momento e sulle minime cose. L'obbligherò a rendermi continuamente dei piccoli conti su ciò che fa, che vede, che sente a dire, che legge: loderò in modo speciale i suoi primi saggi di attenzione e di precisione; starò attento perchè stia sempre attento.
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Una buona madre che aveva una bambina molto dissipata, irriflessiva, volage e balorda, la guarì a poco a poco con una cura paziente di lente e minuziose osservazioni. - Gina - le diceva - va a vedere quante zampe ha una mosca. - La Gina non si era mai curata di contarle: e lo sforzo di osservare e di contare le zampe d'una mosca fu per una volta un esercizio non inutile. Dopo la mosca venne la volta dei ragni e delle formiche. Qualche altra volta la mamma dava a Gina una matita e l'obbligava lì per lì a disegnare su un pezzo di carta a memoria la figura d'un animale comune, d'una pianta, la foglia di un fiore ordinario, e non c'era pace, finchè o bene o male, lo scarabocchio non usciva nelle sue linee sommarie. Allora mandava la Gina a confrontare il disegno sul vero e obbligava la bambina a correggere. Servivano a raccogliere l'attenzione della distratta i così detti giuochi di pazienza, i rompicapi diversi, che si combinano su disegni, l'infilare delle perline a colori alternati, il mettere insieme dei piccoli mosaici coi sassolini del viale: e così a poco a poco, la pianticella sfarfallata che andava prima in sole frasche, fu corretta e raccolta.
- Sapesse quanta fatica mi è costata questa cura! - mi diceva la buona signora.
- Perchè? forse la Gina si ribellava?
- Tutt'altro, essa era sempre docile e obbediente. Ciò che pesava a me era lo sforzo d'inventare sempre qualche nuovo artificio e più ancora quello di aspettare che fosse eseguito. Per vincere una cattiva tendenza nei nostri figliuoli non basta gridar loro: - correggetevi! - bisogna correggere, bisogna vincere dapprima la nostra forza d'inerzia, turbare il nostro equilibrio, consumare una certa quantità di energia viva e non sempre se ne ha d'avanzo. O si è stanche, o si è tribolate da altri pensieri, o ci si sente poco bene, o ci si stufa: eppure chi non sa fare questi sforzi sopra sè stesso non saprà mai educare. Le debolezze dei nostri figliuoli bisogna prima vincerle in noi.
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Cleto, un ragazzo d'indole furiosa e prepotente, quando entrò in collegio era già arrivato a quell'età in cui la forza naturale del carattere non si può facilmente piegare; ma siccome c'era in lui un fondo di bontà e di generosità, così non rinunciai all'impresa di domare il piccolo selvaggio. Per un po' di tempo finsi di non vedere i suoi atti di petulanza e di tirannia verso i compagni più deboli; ma colsi presto l'occasione per cambiargli di posto, lo collocai vicino a un compagno mingherlino, malaticcio, un po' corto di cervello. Poi tirato in disparte il sor prepotente, con un tono serio serio, gli feci un discorso presso a poco così: - Senti, Cleto, ti metto vicino a Giovannino, perchè voglio che tu me lo aiuti un po', che me lo protegga e che me lo difenda da quelli che lo pigliano a perseguitare. Tu sei forte, hai molta memoria e potrai anche aiutarlo ne' suoi doveri. Vedi come è patito e sofferente? fagli un po' da babbo... - Mentre poco prima Giovannino era la vittima del forte, da quel dì divenne il suo protetto, il suo tesoro. E imparando così a gustare le dolcezze della bontà, quasi insensibilmente Cleto divenne da quel giorno anche verso gli altri più mansueto e più rispettoso. Bisogna saper dare ai ragazzi il gusto del bene e innestare le loro debolezze sulle loro migliori qualità.
IX.
Wolfango Goëthe racconta nella sua Autobiografia: "L'architettura antica della nostra casa coi tanti angoli oscuri era fatta apposta per suscitare nell'animo d'un fanciullo spavento e timore e disgraziatamente si aveva il principio in casa nostra che ai fanciulli bisogna togliere presto il sentimento della paura, coll'avvezzarli a tutto ciò che lo può ispirare.
Si pretendeva quindi che noi dormissimo soli, e quando, vinti dalla paura, lasciavamo i nostri letti per ricoverarci presso la gente di servizio si vedeva a un tratto comparire nostro padre colla veste da camera messa al rovescio, trasformato in ispauracchio, che ci ricacciava nei nostri letti. Ognuno immagina facilmente il risultato poco felice di tal sistema. Come mai potrà liberarsi dalla paura chi si vede stretto da due cose che l'ispirano?
Mia madre, carattere brioso e armonico e desideroso di accontentar tutti, immaginò uno spediente pedagogico molto migliore. Era il tempo delle pesche. Essa ci promise di darci un'abbondante colazione di questi frutti ogni volta che sapessimo vincere la paura della notte. Questo nuovo metodo ebbe un risultato felice che contentò tutti".
Non credo che in tutti i casi una bella pesca possa persuadere un ragazzo pauroso a digerire la sua paura. A guarire questa malattia, in cui spesso c'entrano i nervi più che non si creda, bisogna molto riguardo e molta carità. Alla paura non si comanda e molto meno si posson fare delle dimostrazioni. L'unico mezzo per salvarsi dalla bestia nera è di schivarla, girando al largo più che si può, fin che vada lontano da sè. Ridere d'un fanciullo che ha paura del buio o d'un brutto cane o d'un pitocco schifoso, trattarlo da sciocco e da coniglio, non è nè giusto nè pietoso. Uomini con tanto di barba hanno paura di cose che farebbero ridere un fanciullo. Non parlo delle mie delicate lettrici che strillano e svengono alla vista di un topo, di un ragno, di un pipistrello. Tutti abbiamo i nostri peccati in fatto di paure e di fantasmi e di irritabilità nervose. È naturale che i fanciulli più sensibili e più inesperti ne soffrano di più.
Buona e vecchia regola cento volte predicata è di non metter in mente ai fanciulli paure sciocche col racconto dell'orco, delle streghe, dei folletti ecc. Giova fin dai primi anni avvezzarli alle tenebre prima che ne abbiano paura, cioè prima che colla loro imaginazione vadano a popolarle di fantasmi. Si osserva generalmente che i più paurosi son sempre i più grandicelli, quelli che pensano e ragionano di più. Non abituate i vostri figliuoli a dormir col lume acceso. Non fateli dormire in camere lontane, isolate, dove sentano troppo la solitudine; ma non teneteveli troppo addosso. Essi devono distaccarsi da voi a poco a poco. Non dite mai a un fanciullo che va a cercare qualche cosa in una stanza lontana, di sera: - Non aver paura... - È proprio la maniera di ricordargliela. E se torna colla faccia un po' smorta, non tormentatelo, ma ditegli francamente che alla sua età avevate paura anche voi, proprio come lui, forse peggio di lui, e raccontategli qualche aneddoto della vostra semplicità. Questa sarebbe la paura del niente.
C'è anche la paura dei pericoli, dei luoghi, delle bestie, delle persone, che fino a un certo punto merita rispetto, perchè è una forma di difesa che la natura suggerisce al più debole. La parte morbosa si vince col condurre il fanciullo vicino al pericolo, col dimostrargli quanto esageri colla sua paura, col passare due, tre, quattro volte nei luoghi a lui più sospetti in sua compagnia. In quanto alle miserie umane che fanno senso ai ragazzi, parlatene in nome della pietà, e la paura si trasformerà in compassione e in benevolenza.
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C'è una paura che è tutta timidezza. Guido davanti alle persone estranee diventa rosso, perde la voce, casca sulle gambe, e fa la figura d'un babbeo, mentre in mezzo a' suoi è il capo della banda e ha voce e spirito per dieci. Se lo mandan fuori a comperare un giornale o un francobollo, si rifiuta, gli vengono i lagrimoni agli occhi, ha paura, cioè ha suggezione della gente che passa, dell'uomo dei giornali, del bottegaio; a scuola non essendo da meno degli altri, fa sempre una figura meschina perchè legge male, recita male la sua lezione, e non osa rispondere quel che sa per mancanza di fiato.
Questa timidezza morbosa è una malattia morale che bisogna vincere a tempo, perchè se passata una certa età, resta nel sangue, può essere cagione d'infelicità per tutta la vita. In un mondo in cui si fa a chi più piglia, guai ai timidi! Molti che non hanno saputo farsi valere a tempo, son rimasti per sempre in una posizione inferiore ai loro meriti, avviliti, sdegnosi, scontrosi, incapaci di rendere nemmeno l'interesse di quel ricco capitale d'ingegno, di volontà e d'onestà di cui natura li aveva dotati. Molti altri che passano per superbi taciturni non sono che timidi corazzati di silenzio. Questo è un gran male per chi soffre del proprio carattere, ma è anche una perdita grave per il bene generale, perchè dove non va un timido onesto, volentieri siede un intrigante e spesso un poltrone che ha il solo merito d'arrivare a tempo. Un timido non potrà mai diventare un oratore, un autore drammatico, un musicista, un intraprenditore di costruzioni, un giornalista, un direttore d'istituti, un presidente di qualche cosa..., vale a dire che una quantità di carriere son precluse a un uomo che potrebbe per ingegno e coltura distinguersi in tutte. Un timido è un infelice che molte volte fa infelici quelli che lo circondano. La forza che non si sa spendere di fuori, concentrata in casa e in se stessi, ci rende intolleranti, brontoloni, burberi, inutilmente buoni e benefici.
A vincere la timidezza non c'è che un rimedio: esercitarla. Sulle prime si soffre, ma a poco a poco l'anima si rinforza e si soffre meno. Andando per gradi s'impara a conoscere la gente, a stimarla di più e anche di meno, si acquista una miglior opinione di sè: qualche piccolo buon risultato incoraggia, l'abitudine dà alla pelle una minore sensibilità, ci s'indurisce nel vivere, e si cammina, soffrendo sempre un poco, ma si cammina colla sicurezza che per parte nostra non saremo mai uomini sfacciati e prepotenti. Il bisogno e il sentimento d'un gran dovere a compiere può essere un forte stimolo per un uomo timido e modesto: e ciò spiega come aristocrazia nostra continui a restar indietro nel governo del mondo. Non avendo bisogni urgenti per vincere la timidezza e la paura dei primi esperimenti, essa rimane timida e paurosa per sempre.
Tocca a chi educa premere sulla naturale timidezza del fanciullo, spingerlo avanti, esporlo ai primi fuochi, abituarlo, come si dice, all'aria del mondo. Non tenetevi il vostro Guido in grembo, non covatelo col tepore della vostra eterna protezione, ma ogni piccola occasione sia buona per servirsi di lui; adoperatelo come fattorino, come messaggiero d'ambasciate, come segretario; mandate lui a far la spesa, a pagar la pigione, a pagar le tasse, a trovar gli amici malati, a tener compagnia ai vecchi, a leggere il giornale alla nonna; fate ch'egli possa recitare su qualche teatrino, che canti, che suoni in pubblico; non lasciategli tregua, fin che non vi pare che abbia acquistata la forza necessaria a un uomo per non essere urtato e soprafatto.
Guido nelle prime classi era sempre tra quelli che le pigliavano dai compagni. Quando veniva a casa a lamentarsene e a piangere, il babbo gli dava il resto e gli dimostrava in modo reciso che un uomo non deve mai lasciarsi sopraffare dai prepotenti. Contro ogni precetto evangelico gl'insegnò anche la maniera di appioppare all'inglese un buon colpo nello stomaco e gli raccomandò di farsi onore. La prima volta che Guido mandò ruzzolone un prepotente con un bel pugno dato secondo tutte le regole della box fu un altr'uomo, si sentì guarito e passò in mezzo ai compagni come un oggetto di meraviglia. La timidezza non si può cacciar fuori, se non sostituendovi il sentimento della propria forza e del proprio valore. L'angelo custode deve qualche volta cedere il posto al diavolo.
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"Pensate che i fanciulli hanno una finezza di criterio e una delicatezza d'impressione che quelli che non l'osservano attentamente, non suppongono nemmeno. Essi hanno l'istinto dell'equità e certe parole aspre e ingiuste buttate là da noi a caso restano impresse nel fondo del loro cuore e se ne ricordano per tutta la vita. Pensate che nel vostro figliuolo c'è un uomo, l'affezione del quale scalderà la vostra vecchiezza: rispettatelo se volete che vi rispetti e ritenete pure che non c'è un granellino di semente che buttato in un piccolo cuore presto o tardi non produca il suo frutto. Noi abbiamo sul nostro fanciullo un'influenza enorme e, diciamolo, tanto più spaventevole quanto più è forza riconoscere che spesso noi l'esercitiamo senza accorgercene e quasi a nostro dispetto. La nostra vita è la soglia della sua: è attraverso ai nostri occhi ch'egli ha veduto fin da principio. Approfittate, o giovani padri, dei primi istanti di candore del vostro bambino; cercate di penetrare nel suo piccolo cuore, quando è lì lì per aprirsi e collocatevi dentro solidamente. Essere amato da una creatura che si ama non è questo il grande problema della vita, il solo forse che merita degli sforzi costanti?" (Gustavo Droz, l'Enfant).
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"Il bambino tutto riferisce a sè stesso: è un piccolo egoista che inconsciamente lotta per l'esistenza non d'altro curandosi che del proprio piacere. L'educatore deve rivolgere la sua attenzione a questa tendenza naturale. Sarebbe irragionevole tentare di soffocare questo sentimento che è parte integrante della natura umana e un fattore potentissimo della vita sociale: bisogna però moderarlo col far sorgere nell'educando il senso opposto, cioè l'amore degli altri, il quale serva d'equilibrio. I genitori in generale pongono poca cura nell'educare l'amore di sè; anzi facendo nella famiglia centro di tutto il figlio, lo abituano ad avere molte pretese, cioè a conoscere troppo i propri diritti e poco i propri doveri. I figli di soverchio accarezzati, allorquando entrano per la prima volta in società con altri, non trovando da parte di questi tutte quelle attenzioni che erano soliti ricevere in casa, si trovano assai a disagio e crescono solo con gran dolore o non riescono del tutto a sacrificare l'amore di sè per adattarsi a vivere cogli altri". (Credaro, in Dizionario di Pedagogia).
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"Se ogni fanciullo prendesse uno sviluppo corrispondente a quello che sembra indicato dal suo carattere primitivo non avremmo nel mondo che uomini di genio". (Goëthe).
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"Si può definire il fanciullo come una persona che non conosce sè stessa. Lasciando stare poche eccezioni, l'infanzia in generale è felice e buona, felice senza saperlo, buona senza volerlo. Qualche bisbetico pretende di trovare già della cattiveria nel fanciullo: non credetegli. Io non voglio dire che il fanciullo non faccia qualche volta del male e qualche volta che non lo faccia volontariamente; più tardi vien anche l'età in cui le idee del bene e del male cozzano in lui; ma la prima infanzia è buona e ingenua". (Fanet).
"Il fanciullo è il padrone della società. Indipendente, irresponsabile, contemplando dal suo cantuccio sfilanti a lui d'intorno uomini e fatti, egli li giudica, egli si pronuncia in merito colla vivace stringatezza propria dell'infanzia; potrete voi adularlo, ma egli non vi adulerà". (Emerson).
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"Il fanciullo ha in sè qualche cosa di divino, perchè la sua piccola anima ha lasciato il soggiorno e la compagnia degli dei molto tempo dopo la nostra. Egli se ne ricorda di più e se anche non sa o non vuole parlarcene, il suo occhio limpido, il suo fresco sorriso, la sua voce dolce lo tradiscono. E una grazia divina che incanta il cuore degli uomini". (La Strenna).
X.
Mi domandano spesse volte come si fa a dar la voglia di studiare e di lavorare a un ragazzo, che di voglia ne ha poca o punta. Questa mancanza di volontà nei figliuoli è la disperazione dei poveri padri e delle povere madri, che pur di vedere i figliuoli bene avviati, non guardano a spese e a sacrifici; e molte volte si trovano con un pugno di mosche in mano. Nè rimproveri, nè castighi, nè consigli di maestri, nè mutamento di collegio, nè premio o mortificazione hanno potuto trasfondere in un ragazzo sano, grande e grosso quel po' di volontà necessaria a impedire che un uomo resti una botte vuota.
Non nego che vi sian casi cronici di malavoglia, che possono derivare dalla debolezza organica di un individuo; ma un caso o due non bastano a giustificare i cento casi d'infingardaggine più o meno intermittente, da cui son presi i ragazzi specialmente dai dieci e dai dodici anni in su.
Intanto è utile aver presente che l'attività è la forma più vivace della vita; quindi l'inattività sarebbe non un vizio di natura, ma un vizio d'educazione, contro natura. Il bambinello fino dai primi mesi non cerca e non desidera altro che di far qualche cosa e gode degli sforzi che può fare da solo, del sentimento che comincia ad avere della propria attività. Più tardi l'attività si trasforma in una quantità di giuochi inesauribili, che stancano prima il corpo che non la volontà di giuocare; e sul tramontare della vita il poter fare qualche cosa non è forse la gioia e l'orgoglio del vecchio cadente? e i ricchi che non hanno nulla a fare non si consolano con una quantità d'esercizi inutili di sport?
Dunque la malavoglia non è un male naturale, ma un male che si prende, un guasto nella macchina che si deve poter riparare e si deve riparare prima che la macchina irrugginisca e diventi inservibile. Il ragazzo è qualche volta il minor colpevole. È stata una sequela di piccole trascuranze da parte di chi lo doveva sorvegliare, di piccole inerzie materne, di piccole rinuncie, di molti lasciar fare, lasciar stare, di vedremo... faremo... penseremo domani, con cui parenti e istitutori hanno ritardato l'impiego di quella giovanile attività; la quale intanto che aspettava, si è addormentata.
Qualche altra volta la troppa trepidazione di una donna per la salute del suo figliuolo ne ha guastato lo stomaco e la volontà. Qualche altra volta si scopre che il ragazzo mangia troppo e troppa roba succolenta: occupato a digerire e a smaltire una grande quantità di vittovaglie, al piccolo allievo non resta volontà di far altro.
Qualche altra volta invece non si tratta che di un ragazzo fuori di posto. Si sa che la forza della volontà aumenta in proporzione dei successi che si ottengono, e che molti intristiscono soltanto perchè non possono trovare un campo per manifestare degnamente quel che sono e quel che valgono. Un cantante che si sente fischiato tutte le sere è un prodigio se non perde presto la volontà di cantare. Così un ragazzo messo a studiare o a fare cose in cui non riesce, in cui fa sempre l'ultima figura, perde il coraggio e col coraggio la volontà.
I rimproveri, i consigli, i castighi e anche le bastonate possono qualche rara volta ottenere lo scopo di risvegliare un ragazzo indolente, quando il male non è vecchio; ma non basteranno i bottoni di fuoco a scuotere la pigrizia d'un ragazzo condannato a farsi dare eternamente dell'asino. In questi casi i digiuni, i calci, il bastone, i castighi degradanti non farebbero che ammazzare del tutto quel po' d'energia che ci fosse. Pungere con una lesina un soldato affranto non è il miglior modo per farlo camminare; meglio è ristorarne le forze a poco a poco fin che può andare da sè. Se ogni male ha la sua cagione, cominciamo dunque a cercare il perchè della svogliatezza del nostro figliuolo, e provvediamo in merito, come dicono i legali. Qualche volta scopriremo che abbiamo messo il ragazzo col viso contro un muro e ciechi, ostinati, irragionevoli, pretendiamo che cammini contro il muro. Troveremo forse che agli strapazzi e alle violenze il ragazzo è sordo, mentre sente la voce della persuasione e della dolcezza; noi invece col seguitare a urlare e a pestare pretendiamo far sentire un sordo. In questo caso la sua malavoglia non è che la figliuola della nostra cocciutaggine. Cambiamo programma, cambiamo sistema, cambiamo strada e la volontà del nostro figliuolo ci verrà incontro allegra e festosa. Se il vostro figliuolo ha la natura della vite, a che vi ostinate a mantenerlo in risaia? Voi avete il torto di tenere il vostro figliuolo quasi sempre solo, in un ambiente annebbiato e annoiato, tra esercizi monotoni, in una bonaria ma asfissiante protezione; controllate tutti i suoi passi e tutti i suoi respiri: gli date a mangiare sempre la stessa minestra colla bella ragione che la mangiate anche voi da cinquant'anni e che vi ha sempre fatto bene; levate l'aria e la luce alla pianta, e vi meravigliate che intristisca. Non omnibus omnia; che in volgare vien a dire: quel che fa bene a uno fa male a un altro.
Insomma delle somme, per vincere la pigrizia dei nostri figliuoli bisogna cominciare a vincere la nostra, studiare l'indole del ragazzo, veder quel che gli fa male, quel che lo impedisce, rimuovere gli ostacoli, cambiargli l'ambiente come si cambia la terra ai vasi di casa; bisogna essere alacri e svegli per parte nostra, perchè pigrizia per pigrizia fa pigrizia.
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A dare la soddisfazione morale del successo che conforta è bene non pretendere dal nostro allievo uno sforzo superiore alla sua età e capacità, L'ambizione di fare dei sapienti precoci è la cagione più d'una volta che immiserisce le più fresche energie. Non si può amare ciò che ci punge. Le cognizioni acquistate faticosamente e continuamente in mezzo alle spine e alle ortiche devono finire col diventare odiose: e la volontà non si sveglia se non trova piacere e simpatia per ciò che fa. Un allievo che era l'ultimo della sua classe, dove lo si voleva mantenere per forza, divenne il primo di una classe più indietro e rimase sempre il primo fino a compimento dei suoi corsi, e oggi è ancora uno dei primi industriali della sua città. L'ambizione di correre più degli altri, è una ambizione sciocca per chi ha le gambe corte. Quando il lavoro è un equilibrato esercizio colle forze naturali, allora soltanto è lavoro sano, proficuo, piacevole, che rende più di quel che costa. Pretendere che un ragazzo lavori allegramente in pura perdita o pretendere da un ragazzo ciò che non si oserebbe chiedere nè a uno stoico nè a uno scettico che faccia professione di filosofia, e nemmeno al più modesto venditore di castagne. Mettete in disparte le straordinarie ambizioni; e contentatevi di un modesto interesse. Chi vuol fare troppe speculazioni sulla volontà e sulle forze de' suoi figliuoli, arrischia di perdere col tempo interessi e capitale.
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La volontà che contrasta alla vocazione e all'indole naturale è una lama che si consuma sulla pietra a vantaggio di nessuno. Non insistete a voler fare del vostro figliuolo un avvocato o un dottore per forza. Mentre siete a tempo, se vi pare che la sua volontà urti in una ripugnanza naturale, fatevi coraggio, desistete con una risoluzione energica, anche con qualche danno vostro, dal grande ideale che avete sognato. I conti bisogna farli coll'oste, cioè colle cose e cogli uomini, non coi sogni. Il vostro futuro avvocato non vuol saperne di latino? ebbene mandatelo altrove, all'estero, in commercio, fatene fuori un buon contabile, un fior di commesso viaggiatore, un procuratore di banca; si vive benissimo anche senza sapere il latino: anzi i professori che confrontano i loro stipendi con quelli dei banchieri e dei commessi viaggiatori dicono che si vive meglio. Un buon maitre d'hôtel che sa tre o quattro lingue e che guadagna dieci mila lire all'anno è più utile e rispettabile d'un cattivo avvocato senza clienti. Lasciate correre la volontà nella sua china e vi moverà molini e gualchiere: imprigionatela in un pregiudizio e vi marcirà dentro. Il chierichetto annoiato, slombato, può diventare un eccellente marinaio; un cattivo liceista può avere in sè la stoffa d'un magnifico agente di campagna. Ma i cambiamenti, se occorrono, bisogna farli presto, senza rincrescimento, senza rimproveri, senza rimpianti: non è colpa dell'acqua se non è vino, e non c'è nulla di più inutile come il pretendere che l'acqua diventi vin vecchio. E se la vigna vi ha dato del vino squisito, badate a non buttarmelo via, a non sciuparmi la ricchezza d'un ingegno vivo e ardente in qualche negozio senza conforti ideali, per l'avarizia di sfruttare un beneficio casalingo o l'avviamento d'una bottega. Chi è nato per essere un buon pittore sarà sempre un magro contabile e un cattivo negoziante di candele.
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Un buon contravveleno della pigrizia è l'amor proprio. Tenete elevato e confortato nel fanciullo il sentimento della sua abilità, qualunque essa sia, lodatelo volentieri, quando merita, per quel poco che sa fare, e il resto verrà naturalmente da sè. Mostrate in tutte le occasioni che vi servite di lui, che fate a fidanza sulla sua abilità, affidategli qualche volta impegni superiori in cui sia in giuoco qualche po' d'ambizione e vedrete la volontà riscaldarsi alla fiammella colorita della vanità.
Di solito, nelle case dei ricchi e dei poveri, si segue il sistema opposto, invece di eccitare si deprime. Le saggie madri credono che non si debbano mai lodare le ragazze per non suscitarne la vanità. I padri austeri, fissi nell'opinione che i figli devono stare al loro posto, non si permettono mai di trattarli da amici. Molti non vogliono lodare anche quando son persuasi che la lode è meritata: non vogliono dire una buona parola mai, o per rozzezza di spirito, o per non mostrarsi deboli, o per quella scontrosità selvatica che non sa trovare una voce soave. Quindi ai deboli manca sempre l'aiuto d'un buon incoraggiamento, mentre non manca mai la tempesta dei rimproveri e dei colpi di bastone: di qui la sfiducia, l'amarezza, il malcontento, l'avvilimento nell'animo dei figliuoli, che non vedono mai applicata la legge della giustizia. Di qui la nessuna voglia di far bene, che è il primo passo al mal fare.
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Se il vostro ragazzo non sa fare che l'arrotino, incoraggiatelo. L'arrotino salverà l'uomo. (La Strenna).
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Nell'educare bisogna saper unire un cuore di madre allo spirito di un uomo. (Girard).
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L'educazione deve saper sviluppare nel fanciullo l'ideale, ossia il divino che vi è nascosto in germe e provocarne lo sviluppo spontaneo. (G. P. Richter).
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La peggior maniera per farsi intendere dai nostri figliuoli è quella di gridar troppo. (La Strenna).
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Euripide ci rappresenta Ercole amante dei bambini. Ercole è il simbolo della bontà unita alla forza. Garibaldi amava i bambini: e questo è il simbolo dell'eroismo unito alla delicatezza. Socrate diceva: Amo i fanciulli e imparo più cose da loro che non da tutti i vostri retori e i vostri sofisti. Socrate era il simbolo della bontà unita alla sapienza. Cristo disse che dei fanciulli è il regno de' cieli e non mai la santità fu più bella come quando egli volle che i fanciulli andassero a lui. Perfino i tristi, i ladri, gli assassini si lasciano intenerire dalle grazie dell'infanzia. Anche il leone di Firenze ebbe pietà di Orlanduccio. Solamente gli sciocchi e i pedanti temono la compagnia dei fanciulli. (La Strenna).
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Dio ha armato l'infanzia e l'adolescenza di grazie e di allettamenti loro particolari: le rese invidiabili e seducenti e i loro diritti, fondandosi sulla natura loro spontanea ed amata, non possono essere ripudiati. Il fanciullo è il padrone della società. (Emerson).
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Ai caratteri precipitosi imponete la necessità di camminare lentamente, di scrivere lentamente: ai caratteri indecisi quella di agire con prontezza. Date agli astratti sempre assorti ne' loro pensieri l'abitudine di guardare in faccia e di parlare distintamente ad alta voce. Queste abitudini hanno sull'anima e sul corpo un'incredibile influenza. (Feuchtersleben, Igiene dell'anima).
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I precetti teorici possono contribuire molto a creare il senso morale; ma il maggior risultato lo si deve aspettare dall'azione continua dell'educatore sulla coscienza e sulla volontà. Lo spirito dei fanciulli non è tanto un vaso che noi dobbiamo riempire, quanto un focolare che bisogna accendere.
XI.
"Dobbiamo ogni volta che si presenta aprire alla gaiezza, porte e finestre, non esitare a riceverla, come facciamo spesso, volendo prima renderci conto se abbiamo motivo d'essere contenti.
La gaiezza è, per così dire, il denaro contante della felicità: tutto il resto non è che il biglietto di banca: essa sola può darci la felicità in un presente immediato. La gaiezza è il supremo bene. Per acquistarla niente vi contribuisce meno della ricchezza e più della salute..."
Così, molto bene, da par suo, scrive in certi suoi saporiti aforismi Arturo Schopenhauer, parlando della vita e de' suoi beni apparenti e reali.
Se la gaiezza è il premio del vivere, non si dovrebbe mai cessare dal raccomandare ai genitori, ai maestri, agli istitutori, ai distributori della sapienza e della virtù, alle balie e alle bidelle che hanno in custodia l'infanzia: - Per carità, procurate di educare con buon umore, se volete che l'animo dei figliuoli si apra alla serenità e alla rugiada. Certe faccie arcigne, annuvolate, chiuse come vecchi scrigni, certi musi fossili, che abbiamo visto nei nostri collegi e sulle cattedre delle nostre scuole, eran fatti più per spaventare, che non per invitare delle anime allegre a sedersi al banchetto del sapere. Certi predicatori fanno di tutto per rendere la virtù noiosa e antipatica. La virtù che non sa ridere è per lo meno una virtù malata al fegato: non di rado è malata al cuore. Molti disgraziati muoiono senza conoscere e senza amare il bene, perchè hanno avuta la sfortuna d'incontrarlo la prima volta sotto la figura d'un brutto cane ringhioso.
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Si devono abituare i ragazzi a soffrire? - Ecco quel che risponde Francesco Droz, nel suo trattato sull'Arte di essere felice, che fu premiato dall'Accademia francese: - Dicesi che sia utile collocare la scuola del dolore nell'età in cui le sofferenze sono più leggiere. C'è in questo un po' di vero e un po' di falso. Se le pene della fanciullezza ci paiono facili a sopportare, gli è perchè sono lontane da noi e non ne abbiamo più paura; ma il fanciullo che passa un anno sotto la ferula d'un maestro severo è infelice nè più nè meno d'un uomo fatto, che venga per un anno privato della sua libertà; e dirò ancora che costui è meno da compiangere in quanto un uomo fatto può trovare aiuto e forza nella sua ragione e nel suo carattere. Come possiamo pretendere che i bambini sacrifichino il presente all'incerto avvenire? potremo restituire quel che togliamo loro? Forse l'istante in cui li allontaniamo dalla felicità è il solo ch'era dato loro di godere. Se c'è un conforto nella sventura di perdere un figliuolo è di poter dire: - ho almeno cercato di renderlo felice nei pochi giorni in cui mi è stato affidato. - Tocca alla natura provarli coi dolori; nostro compito è d'insegnar loro l'arte di raddolcirli. Non è mai senza compassione che io vedo un bambino rimpiangere il suo balocco infranto e piangere il suo uccellino morto: è la natura che gli dà le prime lezioni di dolore e lo prepara a sopportare un giorno più amare perdite. Noi dobbiamo secondarla prudentemente e per consolare il bambino infelice non affrettiamoci a sviare il corso delle sue idee fuggitive e a cancellare un dolore con un piacere. Bisogna pure che i piccini esercitino il loro coraggio e la ragione infantile: noi dobbiamo aiutarli col prendere parte alle loro afflizioni e così prepareremo l'animo loro in modo che senza lamento sopporteranno il giogo della necessità..."
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Si teme che un sistema troppo gaio di educazione non prepari abbastanza l'animo dei giovani a sopportare le peripezie della vita, o abbia a rendere più neri i giorni cattivi in confronto dei giorni troppo felici. Si teme che la troppa felicità abitui all'egoismo... e anche in questo c'è una parte di verità. Ma non si dice che l'educazione abbia a essere un perpetuo teatro; si raccomanda che non sia una cripta o un ossario. Lasciate entrare la felicità da tutte le parti, come entra il sole in un locale con molte finestre: ciò che vi si proibisce è di andare apposta a chiudere le imposte per fare il buio. Se poi le giornate saranno piovose, pazienza! i bambini sopporteranno la pioggia nella speranza del bel tempo.
Certi sistemi monacali di fare il raccoglimento per forza e la musoneria per forza nell'animo dei giovani sono semplicemente attentati contro natura. E nei sistemi monacali metto anche la disciplina dei collegi militari, dove l'angheria e il meccanismo fanno di tutto per togliere alla giovinezza la libertà dei movimenti, che è il primo bisogno della vita e la prima condizione della felicità. A diminuire questa già scarsa dote di contentezza, che natura dà a ciascuno dei nostri figliuoli, concorrono da tutte le parti i programmi scolastici sovracarichi di scienza e di noia, le troppe grammatiche, la troppa analisi, la troppa carta scritta e inghiottita; e per colmo di sciagura, vi concorre fin la così detta ginnastica educativa, inventata, io credo, da un capo contabile di un distretto di provincia durante una quaresima piovosa. Che Dio salvi i vostri figliuoli dalla ginnastica scolastica a movimenti composti e persino razionali! Che sollievo per un ragazzo che desidera fare una bella corsa...3! e che grandi vantaggi ne ricava la fibra del nostro paese!
Se poi si guarda più in basso, alla povera gente che lavora, vien da piangere, quando si vede la fanciullezza scalza e slavata obbligata a non giuocare mai e a lavorar sempre. Gli assistenti dei filatoi che passeggiano nelle corsie popolate di fanciulle dai dodici ai quindici anni, quando si accorgono che il lavoro, dopo otto o nove ore langue, che le mani perdono l'impulso e si addormentano sulle ruote e sulle bacinelle, per rianimare gli spiriti e per non perdere un filo del matassino, permettono alle lavoratrici di cantare. Son le nenie lunghe e piagnulose che escono dai nostri filatoi, dove c'è di tutto, tranne che dell'allegria. In certi stabilimenti verso sera entra una suora maestra e intona il rosario. Il brontolio delle avemarie si mescola al rumore delle ruote e così si aggiunge un altro filo al matassino. Poi le bambine vanno a dormire e dormono un sonno duro, materiale, senza sogni. Forse chi si diverte di più in quest'antica patria del carnevale sono gli uomini seri.
Quelle qualità alla buona, che facevano dei nostri vecchi maestri eccellenti educatori, anche quando non brillavano per eccesso di dottrina e per numero di pubblicati volumi, col sistema attuale dei concorsi non avrebbero modo di valere e di farsi apprezzare. Le commissioni giudicano l'insegnante sul libri che fa, non mai o ben di raro su quel che sa insegnare, sul modo che insegna, sugli uomini che fa. Anime di ghiaccio son mandate a infiammare anime di scolari: nessuna meraviglia se la scuola diventa una ghiacciala. Così dev'essere e così sarà fin che nel maestro delle nostre scuole secondarie non si cercherà il maestro prima, l'erudito e l'archivista poi. Un dotto trattato di strategia, ch'io sappia, non ha mai procurato a nessun nano il grado di colonnello. Invece basta una grammatica o un nuovo prospetto di verbi irregolari per fare d'un pedante, d'un sordo, d'un balbuziente un professore di ginnasio o di liceo, vale a dire un distributore di idee, di sentimenti, di gusti, di opinioni che non ha o che non sa esprimere. Il gusto per gli studi classici non è mai tanto scaduto in Italia come dal giorno che salirono sulle cattedre dei licei i nostri giovani filologi così bravi nei libri; e col gusto dei classici venne meno il gusto di quel bello ideale che è la simpatia delle cose. Mancando lo scopo morale di questi studi, vien naturale di domandare a che cosa servono, e se non è meglio studiar ragioneria. L'insegnamento vuol essere cosa viva, vivificante, lieta come il vivere. La noia è il sonno dell'anima, il sonno simbolo della morte; con questo di più che tra le varie noie che affliggono il mondo quella che viene dagli eruditi, forse perchè più concentrata, è la più efficace
In quanto alla ginnastica ecco l'opinione d'un fisiologo, il Mosso:
"La ginnastica delle scuole è ora tutta indirizzata allo sviluppo delle braccia, non tiene quasi conto delle marcie e non tende, come dovrebbe essere suo scopo unico, a rendere robusta la gioventù. Dobbiamo cambiare e dare maggiore importanza alla marcia, alla corsa di resistenza e alla corsa di velocità... Fino a questi ultimi anni gli educatori e i fisiologi s'erano limitati a dire che la ginnastica tedesca era inutile e noiosa; ora si comincia a dire che è dannosa. E lo diciamo perchè essa dà troppa importanza allo sviluppo delle braccia in confronto delle gambe". (Nuova Antologia, 1 ottobre 1893).