Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Vecchie cadenze e nuove

PARTE II LE VAGANTI IMMAGINI

ODE A VERDI

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ODE A VERDI

 

Febbraio 1887.

 

Se ricordi, il luogo è questo

Dove un giorno al suon di spade

Saltellanti per le strade,

E fra pali insanguinati,

Dei Crociati

Intonasti il pio lamento,

Che le cento

Dell'Italia torri scosse,

Ed i morti sobbalzare

Fece all'orlo delle fosse.

 

Era pien di gridi il vento,

Pieno il mare:

E venìa per le lontane

Terre il suon delle campane

Calde ancor della battaglia.

O momento!

Il cader delle tue note

Era maglio che percote,

Era incendio entro la paglia.

 

Morta è l'aria. Più non viene

De' tuoi numeri prigione

Mista al suon delle catene

D'Israello la canzone.

Tace il monte e tace Scilla

Che balzò, divino Araldo,

Del tuo Vespero alla squilla.

Chiuso è il cielo. Sui gradini

Dell'altar spenta è la face

Dell'Idea

Che agli italici destini

Nel crepuscolo splendea.

Nella cenere dei morti

Vedi i gelidi risorti

Ricercar, se sopravanza,

Una brace

Per accender la speranza.

 

«Dare, avere - avere e dare»

Ecco l'inno che borbotta

Or la gente al santo Affare

Curva e ghiotta

Sul messale a conteggiare;

A noi figli di mercanti

Bella musica è il tintinno

Del marengo quando rotola

Nella ciotola.

 

«Dare, avere - avere e dare»

Questo è il santo intercalare,

Questo è l'inno,

Che prostrato gracchia il coro

Fra gl'incensi al vitel d'oro.

 

Già nel tempio, ove solea

Sparger fiori ed ire sante

La bell'arte, una platea

Fescennina adora inchina

L'Elefante.

Cerco invan pudor di gota

Ove ignuda salta e strilla

una gallica sibilla

A stessa sola ignota.

 

Se dal ciel ove dimori

Nella luce benedetta

Della gloria, in mezzo ai cuori

Non ci scagli una saetta,

O Signor degli alti canti,

Una gente di mercanti,

Che non canta e che non prega,

Farà tempio la bottega.

 

Ma tu puoi, tu che raccogli,

Eco eterna di natura

Nella mano

Il fragor dell'uragano;

Tu che togli

Alle selve, al mar, all'etra

L'armonia che scande i cieli;

E tra i fili della cetra

Tu che Dio soffermi e sveli;

Tu che cinto d'alti canti

Quest'erranti

Muse ancor ritorni a noi;

Sì, tu puoi,

Stretta in man l'antica tromba,

Trarne un suon aspro di ,

Che ci tolga dallo strame,

Che ci svelga dalla tomba.

 

La coscienza antica e sorda

Più non ha che questa lenta

Delle sette ultima corda:

Se a temprar l'affetto e il canto

Una mano non si attenta,

Onde scorra agile e pia

Della vita l'armonia,

Sul liuto, ahimè! del core

Il dolor va senza pianto,

Senza voce erra l'amore.

 

 

 


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