Salvatore Di Giacomo
L'ignoto

SUO NIPOTE

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SUO NIPOTE

 

 

Cominciava ad albeggiare, ma la luce si faceva strada quasi a fatica tra il fitto d'una caligine opaca. Accesi un fiammifero e ne appressai la fiamma al polso della mia mano sinistra. Al momento della mia partenza pel fronte mia madre mi vi aveva ella stessa attaccato un orologetto d'argento. Ora se l'è ripreso, povera donna; l'ha rivoluto, e lo porta appeso al collo con una catenina, e mille volte al giorno pare che abbia bisogno di guardarvi l'ora.

La piccola vampa del fiammifero arrossò in faccia qualcuno - per un attimo - che m'era vicino, e di cui non distinguevo che l'ombra immobile, quasi raggomitolata in quella semioscurità della trincea.

- È giorno....  - mormorò l'ombra.

- Sì - risposi - A momenti.

L'ombra si rizzò. E, come se ne avesse dato il segno, altre si agitarono in quella fossa lunga e stretta, umida e fumigante. Adesso, rapidamente, la luce svelava e coloriva tutto: i soldati, le armi, le corde arrotolate a cerchio e ammassate, gli apparecchi telefonici riparati in una buca, i mucchi di vanghe e di gavette il cui metallo accoglieva già de' riflessi luccicanti.

- Forza! - urlò in quel punto stesso, e ove più la trincea si rinserrava, una voce roca e beffarda.

Subito un'altra, più lontano, gridò:

- Granata a destra!

Levai pur io gli occhi in cielo. Vidi abbassarsi, nel lontano, su d'un albero fronzuto, una piccola nuvola tonda che quasi istantaneamente si squarciò e diventò come un gigantesco polipo giallognolo da' tentacoli spioventi e scricchianti. Udimmo un rombo, uno scoppio, uno schianto - e dal posto ov'era l'albero si levò un fumo nero e lento, che rimase quasi immoto.

L'ombra riprese, sottovoce:

- Signor tenente...

E Marcello Sant'Agàveto, novizio teatino, ora soldato semplice nel 141º di linea, mi si strinse così da presso che ora i nostri corpi si premevano. Sentii posarsi sul mio braccio la sua mano e, voltandomi, vidi lucere i suoi grandi occhi scuri. Ma la mano non tremava, e gli occhi pareva che mi sorridessero.

- Che vuoi!... Fa presto...

- Un minuto soltanto... Sentite... Voi siete stato una volta a Santa Chiara, da mia prozìa la badessa... Vi ricordate?...

- Sì, sì....

- Ebbene... un favore, signor ...

Infilavo in tutta fretta il mio cinturone con la mauser, e passavo sotto il mento e v'affibbiavo nervosamente la correggina dell'elmetto. Udivo i comandi venire dall'estremo limite della trincea, confusi, inquieti, accompagnati dal solito vocìo sordo, dal solito strepito di ferraglia. E qualcosa a noi s'avvicinava dalla vasta spianata, qualcosa che intendevamo e non distinguevamo.

- Promettetemi di consegnare questi oggettini a quella povera vecchia... Mi aspetta. È per me che vive ancora... Ditele....

Mi sentii ficcare nella saccoccia destra de' pantaloni una mano che vi s'addentrò fino in fondo, vi lasciò un involtino, e si ritrasse. Le confuse voci della trincea ora coglieva e ammorzava un poco un crepitìo lacerante, che cresceva sempre e, a quando a quando, era superato da scoppii più sonori. Seguirono, subitamente, a una di queste violente detonazioni un fumo violaceo, ch'empì tutta la buca formicolante, e un silenzio improvviso. Non vedevo più nulla: mi credevo accecato. Il teatino mi doveva tuttora essere accanto, poichè quella che lentamente, sommessamente terminava una preghiera, mi parve proprio la sua voce.

- ... committo spiritum meum...

Una vampata, un fragore, un urlio d'assalitori e d'assaliti, e il fumo, l'orrendo fumo che ci avvolgeva e ci stringeva alle fauci....

Nient'altro....

Non ricordo più nient'altro....

 

- Ave Maria! Chi volete?

- Vorrei parlare alla signora badessa....

- Figlio, è malata.

- E che ha?

Attraverso la rete di sbarre della duplice inferriata che separa da' visitatori l'antico e privilegiato gratino della badessa, da una penombra uguale, ove qualcosa di bianco s'agita un poco, trema un fievole sospiro.

- Che ha? - riprende la voce nella penombra. - Gli anni. Ottantasette, figlio. È un po' sorda: non può parlar più troppo, e ci fatica a scendere quaggiù.

Segue un silenzio. Odo, adesso, il tic-tac lento d'uno di quelli orologi a stipo che si vedono tuttora nei monasteri e pare che quasi siano per accompagnare col cadenzato lor ritmo le preghiere borbottate, o un canto lieve.

A poco a poco, guardando dentro per la inferriata, gli occhi miei s'avvezzano a penetrare quelle ombre che prima m'erano sembrate così tenebrose. L'orologio che subito non avevo visto, ora lo vedo: sta davanti a uno di quelli enormi canterani ove le monache ripongono la biancheria e i paramenti - e accanto all'orologio, che pare una bara in piedi, è un tavolinetto che sostenta uno scarabattolo. Mi pare di discernere in questo - ora che dal finestrone che sovrasta al canterano e all'orologio piove di passaggio un lume più diffuso - la testa di cera che fu cavata dalla maschera di Maria Cristina, la santa, e affidata da' familiari di Ferdinando II alle monache di Santa Chiara. Sì; mi pare che debba essere quella: ha i capelli di seta nera spartiti sulla fronte, gli occhi chiusi, la bocca esangue e sottile. Attraverso i vetri dello scarabattolo, rilevata dal cuscino di velluto amaranto in cui s'affossa, pare davvero recisa, e cadaverica e molle...

- E dalla signora badessa che volete, voi?

La piccola voce ora m'interroga un poco spazientita.

- Le devo fare un'imbasciata.

- La signora badessa vi conosce?

- Sì, mi conosce. E forse si sarebbe ricordata di me. Le ho parlato un anno fa, se non mi sbaglio...

Brevemente, dall'altra parte, suonò un risolino che subito si contenne.

- Ma, figlio, un anno fa la signora badessa stava bene! Un anno è un anno, pe' vecchi... Basta, glie lo dirò che è venuto un signore... E come vi chiamate?

- Così... Guardate. È scritto qui...

Pe' ferri della grata passò, scivolando sul marmo del largo balaustro e avanzando verso di me, qualche cosa come una di quelle spole in cui riponiamo le penne e le matite sui nostri scrittoi. Sbucò dalla mia parte, vi lasciai cader dentro la mia carta da visita, e la sottile barchettina si ritrasse e sparì. La donna non fece mostra di leggere la carta: da quel che potevo distinguere mi parve che se la ficcasse in saccoccia.

Vidi una cuffia bianca che si chinava.

- Ave Maria... Statevi bene.

- E allora, quando posso tornare?

- Che vi posso dire?.. Tra una settimana... Tra dieci giorni...

- E quando tornerò...

- Chiamate Maria Agnese la conversa. E io scenderò. E poi porterò l'imbasciata.

 

Maria Agnese s'allontanò. Quell'interno appartato ridiventò silenzioso. L'ora meridiana cadeva: così che dentro tutto adesso annegava in un'ombra diffusa, tutto spariva quasi rapidamente. Ma qui dove ero rimasto, nella stanzetta bianca - ove appiè della grata, sono alcune vecchie seggiole verdi di forma antica, a spalliere convesse e co' piedi a colonnine, le seggiole per i visitatori - la luce era ancor viva, ma d'un riverbero dolce e tranquillo, che si distribuiva ugualmente da per tutto. Rimasi in piedi un istante ancora - guardandomi intorno. Mi permettevo d'indugiarmi in quella cameretta come se sapessi che non mi sarebbe vietato quell'assaporamento d'una pace, d'una solitudine così profonde, velate dai veli aggraziati dell'arte ch'io vedevo espressa dalla nobile incorniciatura a cartocci in cui si rinserrava la duplice inferriata, da quei marmi commessi e policromi - che attorno attorno la ornavano come circoscrivendo un'arca preziosa - ancora, qua e , un poco macchiati di luci. Mi pareva che mi dovesse pure esser lecito di riposarmi, in silenzio, sopra una di quelle seggiole di paglia, capaci e grossolane, che dal seicento alla fine del settecento si costruivano e si vendevano all'Annunziata, ove ancora oggi quell'industria ha gli ultimi suoi tenaci continuatori. La signora badessa, la conversa, il misterioso di della grata, la rischiarata e quasi poetica cameretta ov'ero rimasto avvolto come da una tenera luce giallina e da un'aria impregnata di odore di rose secche, assorbivano adesso tutto l'essere mio, che dentro sembrava a me stesso come nuovo e forastiero - un essere che veniva dalle vie, risuonanti di ferro e pregne di ansie, d'una città non meno delle altre investita anch'essa dal furore e dai palpiti d'una tragedia immane, una città squassata, anch'essa, volta a volta, dagl'impeti della sua gioia o dalle contrazioni del suo dolore, e ancora percorsa da carriaggi e da soldati, e quasi mutata in tanti suoi aspetti singolari - da quello del suo mare, adesso deserto, ai deserti delle sue vaste arterie, delle sue piazze, dei suoi vicoli, sepolti in una notte paurosa e profonda.

Ora, mi pareva davvero che a quel luogo d'antica pace e d'antica fisonomia mi dovessi sentire estraneo in tutto. La stanzetta secentesca, que' quadretti in cornici dorate a rigonfii e volute, l'ornato e marmoreo gratino della badessa, la bella mensola addossata a una parete sotto uno specchietto veneziano dal vetro tutto chiazze si bagnavano ancora delle ultime luci che vi piovevano da un'alta finestra. Ma già una parte del pavimento di riggiole istoriate si copriva d'ombre: l'altra, più in qua, fin sotto ai miei piedi accoglieva tuttora un lume che andava scemando. Estranei a quell'aria tepida, a quella luce, a quelle figurazioni, a quel silenzio raccolto tanto sentivo l'esser mio, la mia figura, la mia divisa, il suono stesso della mia voce, che mi ritrassi pian piano, fino a quando potetti scivolare lungo l'usciuolo che si chiudeva sulla portineria e , per un momento, arrestarmi. Nemmeno in portineria era alcuno - ma su uno di quei sedili di pietra che girano appiè degli archi posava un cesto di fiori freschi. Chi l'aveva portato era forse per sopravvenire - e forse di da quella enorme porta sempre chiusa lo sapevano, poichè mi sembrò udirvi un pispiglio...

Rifeci la mia strada - passo passo. E con la sua figuretta tutta raccolta, con que' suoi limpidi occhi azzurrini che vivevano ancor tanto allora ch'io la prima volta la vidi - che vivevano e sorridevano - la signora badessa di Santa Chiara, una Caracciolo, mi accompagnò per la strada - piccola ombra rievocata, che mi tenne così compagnia per buon tratto, mentre pur mi pareva di udirmi allato quella tremula voce di bambina...

 

La mia licenza di trenta giorni era per scadere - e io pensavo che sarebbe ancora rimasto nelle mie mani il piccolo pacchetto che quel giovanotto mi aveva ficcato in saccoccia poco prima di far la fine straziata che fece.

M'urgeva di consegnarlo. Ora mi mandavano a Bari ove, appena arrivato, avrei saputo dell'ufficio a cui mi destinavano. Ma la guerra era per finire: ogni giorno ne arrivavano notizie liete per noi, e ogni giorno si sentiva più che mai il bisogno di liberarsi da quell'incubo orrendo. In questa nervosa impazienza ero anch'io. Avevo ancor gli occhi pieni di quelli spettacoli atroci, da' quali m'era sembrato addirittura che ogni cosa più bella della mia esistenza fosse quasi per essere demolita o trasformata. Nulla, nulla volevo più ricordare. Anche di quell'involtino che m'aveva affidato quel piccolo prete anelavo di sbarazzarmi...

Soltanto tre giorni prima della mia partenza per Bari potetti rivedere la badessa. L'antica mia qualità di funzionario all'Intendenza di Finanza mi permetteva di accompagnare nell'antico monastero fondato dalla regina Sancha un ispettore che vi si recava a compilarvi un inventario.

Ella non mi riconobbe subito. Aveva, ora, un'aria assai stanca e camminava pian piano, un po' curva, e mi veniva incontro come senza vedermi. Poi ci ritrovammo in un viale del grande giardino - ristorato nella prima metà del settecento da Domenicantonio Vaccaro - in piedi tutti e due dove i pilastri sono rivestiti di gioconde maioliche napolitane che iniziano il colore e il disegno delle viti feconde di cui sostengono il pergolato. Era, intorno, la terra tutta sparsa di quelle foglie rossicce - e la signora badessa pareva che le stesse a contare. Poi la sua mano scarna, che tremava un poco, scivolò sulla spalliera del prossimo sedile e vi si appoggiò, spiegata.

- Mi va il sole negli occhi...

Sedette. E senza levar la testa, con le mani congiunte sulle ginocchia, riprese a parlare, piano:

- Voi siete quel militare dell'altra volta, che venne da parte di Marcello... Sì... V'ho subito ravvisato. Sentite... ebbi una lettera sua, tre mesi fa... O meno?... Non so... Diceva: Se posso venire in licenza e io verrò, verso maggio, ma è difficile. Io l'ho aspettato... Pregando il Signore... Unico figlio d'una figlia di mia sorella Mariantonia...

La lasciavo parlare. Ella parlava più a se stessa che a me, con la testa un poco reclinata: le due piccole mani di cera parevano inchiodate sulle sue ginocchia congiunte.

Continuò più lentamente:

- Anche Sabina, mia nipote, il Signore se la chiamò alla gloria degli angeli... Sia fatta la sua volontà... La madre di Marcello, così, da dieci anni, sono io... Povera serva di Dio...

Mise un sospiro - e sorrise, con un sorriso di bimba incantata.

- Ah, che consolazione... quando tornerà!... Gli farò dire la prima messa al nostro altare privilegiato... Immaginate che consolazione... E poi perchè digiuniamo, da cinque mesi ch'è lassù, alla guerra?... Signore, aiutateci!... Faccio digiunare anche le converse... Mezz'ora di preghiera, ogni sabato, la facciamo...

Aveva parlato eccessivamente e ora continuava a fatica, con un po' di sopraffiato.

- ... sulla pietra, in ginocchio...

Un piccolo colpo di tosse la interruppe.

- E la guerra che fa, signor militare?... È tanto giusta la causa... Anche Marcello me lo scrive... E santa Chiara... santa Chiara miracolosa...

Non distinsi altre parole. Il loro senso mi sfuggì. Si disperdevano adesso in un lieve sbadiglio, in un balbettìo di labbra che parevano affaticate.

A un tratto, lievemente, la vecchietta piegò il capo sulla spalla. Si sciolsero le sue mani, e una scivolò lungo un ginocchio. Non parlò più. S'era assopita - in quel giardino pieno di odore e di ronzii.

Mi allontanai pian piano. Le foglie secche ammorzarono il romore dei miei passi e quando, in portineria, passai davanti a Maria Agnese ella si levò per aprirmi e s'inchinò mentre uscivo:

- Ave Maria - mormorò, sorridendo.

 

 

 


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