Salvatore Di Giacomo
L'ignoto

FEDERICA

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FEDERICA

 

 

I

 

Sono sei mesi da che ho dovuto lasciare una grande città del settentrione - desidero di non additarla a nome - per un paesetto che ne è lontano quindici miglia. Il mio spirito ha bisogno di quiete. Ho bisogno di vedermi circondato da cose e da persone tranquille; le capitali sono affollate di gente trista e volgare, ciarliera, spregevole, insopportabile, che vi preme e vi disgusta, che popola i caffè e li satura di vanità, di insincerità e di oziosi vaniloquii.

Qui dove sono venuto è altra cosa. Vi rimarrò a lungo? Non so. Ma mi sono suggestionato - e la mia suggestione non s'è interrotta fino a questo punto. Sì, vi rimarrò: vi devo restare parecchio. Qui scriverò, solo solo con me stesso e coi miei ricordi che hanno bisogno di prorompere una buona volta, la storia che attingerà dai molti e profondi dolori della mia stessa esistenza la materia più sincera. Vedo che mi aiuta, con la sua fisonomia placida e serena, il luogo ove ho riparato. Lo vado ancora percorrendo, in passeggiate mattutine, che non mi stancano e che oramai me l'hanno tutto quanto svelato.

A dugento passi dalla mia casetta, sul fondo verde della montagna, si disegna con semplici linee un edificio rustico e grigio. Ove la raggiunge un parco deserto appare la sua rozza facciata, qua e striata da bianche suture di calce. Nel parco solitario spuntano da terra, come tanti fiori mostruosi e deformati, alcune antiche erme di pietra - che il padrone di quella casa, che forse fu signorile e bene architettata e ornata, sparse una volta su per un prato muscoso, il prato arcadico del suo bel tempo, ora diventato brullo e disuguale. L'ho pur amato così, nei mesi dell'inverno, quando la pioggia lo immolla, freddo pianto del cielo. Forse perchè la natura non mi pare interessante se non quando è debole o è malata.

La prima volta in cui visitai quell'edificio fu in autunno. Mi parve subito che il tono delle cose esteriori corrispondesse al palpito che da ognuna delle creature umane raccolte in quella casa s'esprimeva come cercando di superarne i muri impenetrabili. In quel vasto manicomio la vicina e grande città industriale manda all'aria ossigenata della montagna i suoi poveri folli. Città meccanica, così pare che si liberi di tutti i guasti suoi congegni: ma ne ricominciano a stridere qui gl'ingranaggi arrugginiti e, spesso, nei giorni di tramontana, all'urlìo del vento, al suo sibilo lacerante si mescola un suono che certo è umano, che da creature umane si parte, e nella cui scomposta e aneuritmica insistenza s'adunano come trasformati, e su d'un tono che ora sale ora scende, il pianto e la preghiera, l'imprecazione e il lamento.

Per quale ragione, dal primo giorno in cui ho posto tenda a X..., mi ha chiamato a quel luogo dal quale in altri momenti della mia vita avrei certo rifuggito? Non ve lo so dire: come non saprei dirvi davvero quante volte mi vi sono recato e ho poi finito col giurare a me stesso, nell'uscirne, di non tornarvi mai più. Devo credere, per altro, che quelle mie frequenti visite siano state sollecitate pur dal piacere che ho sinceramente provato di pormi in comunione frequente con la più dotta, acuta e geniale persona che dentro, - con la scienza che lo esamina e lo sorveglia, con la pietà che lo inganna, con occhi che affisandosi su tanti poveri esseri paiono più teneramente meditativi che indagatori - presieda a quell'ignaro dolore. Non posso indicarvi a nome quest'uomo: lo chiamerò il dottor Massimo. E poi, che v'importa di sapere come si chiami? Questa è la narrazione di un fatto i cui pochi personaggi ho io soltanto il diritto di conoscere compiutamente. Quelli che abitano la triste casa di salute mi sono noti, quasi tutti. Con alcuni dei più tranquilli mi son posto, talvolta, persino a discutere, fino a quando non mi ha separato da loro quella mossa che, all'improvviso, han fatto i loro discorsi di uscire dal campo logico per appressarsi, per tornare con un'insistenza, a volte anche pacata, a un mondo di persone e di cose irreali.

 

 

II

 

Ora, una ventina di giorni fa, mentre allineavo su un pluteo della mia piccola libreria un bell'esemplare, in tredici volumi, Della vita e delle opere di Federigo il Grande, - edizione francese del 1789, che la vecchia vedova d'un bibliofilo farmacista di X... mi aveva ceduto per poco denaro - mi capitò un bigliettino del dottor Massimo, così concepito: «Ho qui del buon the, dell'autentico Hyson hayswen che mi arriva direttamente da Annam; ho per le mani un nuovo soggetto - e non ci vediamo da venti giorni!».

- Inutile scrivere al professore - dissi al vecchietto che mi aveva portata la lettera - fra mezz'ora sarò da lui.

Sulla soglia, uscendo, il vecchietto si voltò per raccomandarmi:

- Sa, signore: il paracqua! Il tempo minaccia.

Si preparava, difatti, una brutta giornata: cielo grigio, aria umida e fredda. Qualche goccia di pioggia mi colpì sulla faccia appena misi piede fuori di casa. Sulla via carrettiera mi soffermai un momento: la campagna, nel lontano, mi parve più deserta e malinconica del solito; una nebbiola bassa, come un fumo lieve, le stava sopra e la oscurava un poco.

Il dottore mi venne incontro nel cortile dell'ospizio. Con la sua effusione abituale m'afferrò la mano e me la strinse.

- Vi chieggo scusa se v'ho scomodato. Ma non vi vedevo da tanto tempo! Bravo, ho piacere. Ora concedetemi dieci minuti di permesso: il tempo di dare un'occhiata alle lettere che mi sono giunte adesso. Dieci minuti, e sono ai vostri ordini.

Si ficcò in fretta nel suo studiolo a pianterreno. Ma prima aveva fatto un cenno a un custode, un gigante biondo, che aspettava, col berretto fra le mani.

- Potete aprire.

Il gigante introdusse una piccola chiave nella toppa della porta ferrata che è in fondo al cortile, e quella, a un suo spintone, stridendo sui cardini s'aperse a mezzo. Passai: il custode era passato prima. La porta si rinchiuse. Eravamo nel Quadrato dei pazzi tranquilli.

Era stato forse un giardino, in origine: ora poco vi restava che lo attestasse: qualche alberello dal tronco sbiancato, il segno d'un viale, uno dei muri ancora rigato, verso la cresta, di cannucce in fila, che il giardiniere vi aveva inchiodato per favorire ascensioni di glicine o di campanule. Addossati a quel muro due freddi sedili di marmo pareva che aspettassero qualcuno: altri ve n'erano qua e , co' piedi a zoccolo già conquistati da umide chiazze di musco.

I tranquilli passeggiavano, solitarii, in peripatetici soliloqui. Qualcuno, d'un subito, dopo una lunga corsa lungo il muro di cinta, s'arrestava, si premeva il petto con le mani spiegate, e ansava forte - qualche altro, in estasi davanti all'arida vasca di quella che era stata una fontana, in un angolo, non ne levava più gli occhi incantati - un altro ancora, che ora si veniva a sedere sulla panca di marmo più prossima alla porta, si voltava a interrogarla senza posa, girando e rigirando il capo, che scattava come per un congegno meccanico. Ve n'erano di quelli che si sprofondavano nelle loro meditazioni, e non ascoltavano, non vedevano che que' loro fantasmi - e ve n'erano altri che, a due a due, a braccetto, or lentamente, ora a passi precipitosi, trascinavano, infervorati, le loro misteriose discussioni. Ove due delle pareti del recinto si raggiungevano e facevano spigolo, con la faccia al muro, con le mani sulla faccia, un poco piegato e quasi tremante, un altro singhiozzava. I compagni gli passavano davanti senza neppure guardarlo.

Spioveva, adesso. Pel fitto d'una scura nuvolaglia finalmente il sole era riescito a ficcarsi: ora quell'immane viluppo s'andava colorendo, i suoi lembi ondulanti si accendevano. Dalla terra inumidita si sprigionava un lievissimo odore che a poco a poco diventava più acre. Ma il silenzio non s'interrompeva. Vedevo venire verso di me, lenta, una coppia che a volte s'arrestava: un vecchio signore aveva passato il suo sotto al braccio di un giovane e questi, camminando, pareva che stesse ad ascoltare il suo compagno anziano. Quando si fermavano, il vecchio figgeva gli occhi ansiosi in quelli del giovane, che lo guardava come trasognato. Pian piano gli scioglieva le mani che quello s'ostinava a tenere rinserrate, e le premeva dolcemente nelle sue. L'ebete si lasciava fare, in silenzio, con un sorriso melenso, passivo alla carezza paterna. E il padre, ch'era venuto a trovarlo, e lo aveva ancora una volta rintracciato in quella folla misera, sempre allo stesso posto e assorbito dall'eterna sua meditazione sconsolata, ora, ancora una volta, e invano, gli parlava sommessamente di tutte le persone, di tutte le cose un tempo così care a lui: della casa, della famiglia, ch'egli aveva dimenticato, forse per sempre. E mentre attorno continuava il va e vieni, continuavano i soliloquii, le corse ansiose, e il pianto di quello che s'era messo con la faccia al muro, qui, a qualche passo da me, quel padre seguitava a sollecitare il figliuolo, e ora, incollerito e angoscioso, quasi lo investiva con la solita domanda che non ha mai risposta: Ma dimmi, dimmi... Ricordi? Dimmi... Ti ricordi?...

 

 

III

 

Il dottore m'aspettava, con le mani sul dosso, con l'ultimo fascicolo della Phrenologische Zeitschrift sotto l'ascella, appie' della vasta scala che mena ai corridoi superiori. Ricominciammo a parlare del suo nuovo soggetto: una giovane donna ch'era stata affidata alle sue cure speciali.

- Tipo non comune. Nessuna delle degenerazioni fisiche che io riscontro nelle altre ammalate di tal genere. Ecco: forse quelle iridi grige che talvolta si slargano...

S'arrestava al sommo della prima tesa delle scale e pigliava fiato.

- E di che cosa è malata?

- Ebbene, pel momento non vi saprei dire. Ha delle frenosi complicate d'isterismo e di catalessia, e una mania di pianto. Per lo più è muta e solitaria. Qualche volta l'ho udita cantare. La lascio fare, la lascio libera. Ella non farà mai male ad alcuno. Non s'agita, non urla. Nessuna irrequietezza. Per tanto è una isterica: e pure m'oppugna il Sydenam, che al cospetto di lei si troverebbe forse per la prima volta in presenza d'una di queste paranoiche la quale non ha, come lui dice, la costanza dell'incostanza. In fondo, siamo sempre - soggiunse il dottore, soffermandosi con me sul largo pianerottolo - le solite devastazioni di quel risvegliatore eterno, dolcissimo ed iniquo, d'ogni male latente. L'amore. Dico bene? Secondo me quella poverina ama o ha amato qualcuno che non ha mai potuto raggiungere.

S'apriva davanti a noi il lungo e spazioso corridoio dalle bianche pareti, deserto. Tutte le porte delle celle erano chiuse.

- È qui, ai pagamenti. - disse il dottore - Numero quaranta.

Con le nocche delle dita picchiò sulla porta e attese qualche poco. Poi ficcò la chiavetta nella toppa e la porta s'aperse.

Ora egli, di su la soglia, col cappello in mano, salutava.

- Buongiorno, signorina.

La vidi, subitamente. Era seduta presso la sponda del suo bianco letto e ci voltava le spalle. Vidi un'onda di capelli d'oro, quasi disciolti, vidi una mano, pallida e sottile, come abbandonata sulla tavola sparsa di fiori, accanto a lei; una mano che s'appressava a quei crisantemi con quel moto lievo e incerto che hanno le dita dei ciechi.

Il dottore presentava:

- Il mio amico Legrenzi.

Ella si volse, e si levò, di scatto. Con un grido, un grido che non potrò mai dimenticare! Si trasse addietro, s'addossò quasi a uno stipite della finestra. La luce della finestra la circonfuse; ma la coglieva alle spalle, e io non vedevo che un fantasma, alto, sottile, dalle braccia levate in atto di meraviglia e di terrore.

Che cosa io balbettai, che cosa feci in quel punto! Non so... M'è parso di piegarmi, di mancare. Le mie mani si sono afferrate allo spigolo della tavola, gli occhi miei fisi e spalancati hanno visto venire verso di me, lento, dal luminoso fondo della finestra, il fantasma. Ho sentito una mano che mi si posava sulla spalla. Ho visto confusamente lei, che si chinava, che mi guardava. E m'è parso che sorridesse, con gli occhi pieni di lagrime...

E ho udito poi la sua voce:

- Ti ricordi!... Dimmi... Ti ricordi!...

 

 

IV

 

Ebbene, sì, ricordavo. Una intera esistenza vi può ripassare davanti agli occhi in un attimo.

Rivedevo, in quella bionda e pallida figura, mia madre, mia madre adorata, morta quando io nulla ancora potevo intendere della vita e delle sue tragedie, dei suoi profondi dolori, delle orribili amarezze che vi invecchiano di colpo e vi abbandonano, disfatti, al tedio o alla disperazione. Sì, rivedevo mia madre, in costei. Era il suo profilo puro e dolce, erano i suoi capelli d'oro che io amavo di carezzare, erano i suoi grandi occhi chiari, d'un azzurro grigiastro, pieni di lume e di dolore. E la voce! La voce ch'era rimasta nel mio orecchio da quel tempo della mia infanzia, in cui la udivo suonare melodiosa e pur breve nella triste solitudine della mia casa. Sì, sì: a che varrebbe nasconderlo? Tutto, ora, tutto ricordavo. Ricordavo che un giorno mio padre, silenzioso, mi prese per mano e mi condusse nella camera ove mia madre moriva. Da tanto tempo non m'avevano lasciato vedere mia madre! Come era bianca nel suo letto, come le sue mani sottili tremavano sulla mia testa! Che mi disse? Balbettava parole che io non potetti comprendere. Oh, Dio, Dio! E pure erano le ultime sue! E poi mio padre, che a un punto disse: Basta! - con la sua voce cupa, quasi irritata. Mi parve un sogno. E poi tutto finì. Mi trovai solo con mio padre, in un'altra casa, in campagna, molto lontano dalla città. Tutto sparito: i servi, il mio precettore, la cameriera di mia madre, e quella bambina bionda, Federica, mia sorella, alla quale mio padre non aveva mai parlato, che non aveva carezzata mai. E poi... e poi venticinque anni della mia vita trascorsi in un baleno, i miei studii, i miei viaggi, la morte improvvisa di mio padre.... E quella sera, a Bamberga, al ballo della Croce rossa ove dopo tanti anni rividi e riconobbi a stento un signore ch'era stato amico di lui, qualcosa come un diplomatico, freddo, compassato, di poche parole. La figlia no: la figlia ch'egli v'accompagnava non gli somigliava che nella bella statura, soltanto. Dopo la prima contradanza, mentre ella mi parlava, sommessamente, nel vano d'una finestra, e io bevevo il suo sguardo e le sue parole, il vecchio le si avvicinò e le disse qualcosa, sottovoce. Ella mi stese la mano.

- Arrivederci - mormorò sorridendo - mio padre vuol rincasare.

E da quella sera, non la rividi più...

 

 

V

 

La pazza continuava a guardarmi, immobile, assorta.

Mi pareva che si sforzasse anche lei di penetrare le nebbie d'un passato confuso e incerto, di ricordar qualcosa, qualcuno...

E fra tanto mi sentivo trascinare addietro, pian piano, dal dottore. Subitamente egli rinserrò la porta. Un grido, ancora un grido risuonò nella celletta, un ultimo grido straziato. E un nome - il mio nome.

- Livio!

Il dottore, sul corridoio, si volse a me, stupefatto.

- Ma come?... Vi conosce?...

- No! - esclamai - No!... Non so... Ma chi è costei?... Come si chiama?...

Egli, un po' stranito, rispose:

- Federica Vossler.


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