Michele Amari
Storia dei Musulmani di Sicilia

LIBRO PRIMO.

CAPITOLO IX.

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CAPITOLO IX.

 

Ho differito fin qui a toccare le condizioni interne della Sicilia bizantina, perchè procedettero in parte dalle raccontate vicende dei due continenti tra i quali l'isola è posta. Cominciando la investigazione, dirò, innanzi ogni altra cosa, della schiatta ch'è elementopotente nei destini dei popoli. Fermata in Sicilia la dominazione romana, il grosso della popolazione eran Sicoli e Greci; non rimanendo più degli altri che la memoria, e forse un po' di gente punica nelle parti di ponente; la quale par che non tardasse a dileguarsi. Il conquisto portò novelli abitatori italiani, tra colonie e gente spicciolata che venía per faccende e officii; ma poche e sottili le colonie; gli altri spesso se ne tornavano; e parmi che il più potente effetto della signoria romana su la popolazione dell'isola sia stato di ritirare ai costumi e linguaggio dell'Italia i Sicoli, che, sforzati dall'incivilimento greco, stavano perdendo financo l'uso del proprio dialetto, e diremmo anzi che l'avessero abbandonato al tutto, se dovessimo stare alla lettera d'un passo di Diodoro290. Le torme poi di schiavi, ragunate da tante regioni e sparse nelle campagne della Sicilia, se non si consumavano senza prole, al certo il sangue loro, sterile per miseria e diverso, non creò schiatta nuova da poter contare. Gli Ebrei stanziati nelle città principali, segnalavansi meno per lo numero loro, che per lo avere e per l'odio reciproco con le altre schiatte291. I popoli settentrionali, come dicemmo, furon turbine passaggiero. Da Giustiniano ai Musulmani il decrepito Impero non potea mandar colonie; se non che ripararono in Sicilia i rifuggiti d'Italia e d'Affrica dei quali abbiam detto nei capitoli precedenti; e inoltre egli è probabile che a stilla a stilla s'accogliesse nell'isola qualche rimasuglio degli ospiti che vi mandava il governo bizantino: officiali pubblici, soldati delle provincie d'Europa o dell'Asia Minore292, e relegati per cagion di Stato293. Tra gli altri v'ebbe un corpo di mille uomini, avanzo delle soldatesche armene sollevatesi a Costantinopoli il settecento novantadue, che furono mandati nelle isole, sopratutto in Sicilia294, ove par che abbiano fatto stanza, poichè troviamo nelle guerre de' Musulmani295 la espugnazione d'un castello degli Armeni (a. 861). Dal fin qui si vede che per lo spazio di mille anni non capitarono in Sicilia tante popolazioni avventizie, che potessero mutare le schiatte esistenti. S'accorda in ciò con le tradizioni storiche il ragguaglio statistico di Costantino Porfirogenito, il quale trattando dei proprii suoi tempi (911-959) o piuttosto di quelli anteriori al conquisto musulmano, scrive essere gli isolani parte Liguri d'Italia, chiamati altrimenti Sicoli, e parte Greci, ossiano Sicelioti296. Con denominazione più esatta si direbbero le due schiatte, italica ed ellenica, ciascuna delle quali abbracciava le genti affini a lei, sopravvenute nei due periodi delle dominazioni romana e bizantina.

Qual delle due genti prevalesse di numero non si ritrae; e forse erano e si mantennero più uguali che non si è pensato. Aiutandoci con le induzioni, poichè mancano le testimonianze dirette, troviamo, egli è vero, dal principio dell'era volgare infino al sesto secolo, moltissime iscrizioni latine pubbliche o private anco nelle principali città greche dell'isola, e latini negli ultimi tempi i titoli dei magistrati municipali; ma tra ricordi letterarii, epigrafia e nomi proprii si vede la lingua greca non aver ceduto il campo in alcun luogo297. Un papiro del quinto secolo che i nomi degli affittuali di certi poderi, ne contiene più greci che latini298: e alla fine del sesto secolo, San Gregorio ci parla degli abitatori greci e latini299. Gli annali ecclesiastici poi dell'isola, dal sei all'ottocento, ci mostrano la medesima promiscuità delle due genti: dove monasteri basiliani e dove di regole latine; esaltati alcuni Siciliani alla sede pontificale di Roma, altri a quella d'Antiochia300; un dei papi siciliani, Leone II (682-683), lodato per lo eloquente parlare in greco e in latino301; e alla fine del sesto secolo la opinione pubblica in Sicilia pendere incerta tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli302. Finalmente, sendo stata alla metà dell'ottavo secolo assoggettata l'isola al patriarca costantinopolitano, scomparisce il latino, e torna su il greco negli scritti dei frati siciliani e negli scarsi monumenti d'epigrafia che ci avanzano di quel tempo. Così fatta vicenda non può condurre al supposto che la schiatta e la lingua greca in Sicilia, dopo esser calate durante la dominazione romana e le barbariche, d'un subito risalissero e occupassero tutta l'isola per virtù della dominazione bizantina. È da conchiudere più tosto che i due popoli si pareggiassero con poco divario per tutto il corso degli otto primi secoli dell'era cristiana; che ambo le lingue fossero state più o meno in uso, come ai tempi di Diodoro303, se pur il popolo non cominciava a parlarne già una diversa da entrambe e più vicina all'italiana; e che la influenza del governo e della Chiesa facessero prevalere negli scritti il latino prima e il greco dopo di Giustiniano304.

tra le due schiatte si vide mai differenza di condizione legale: chè nobili e plebei vi furono in entrambe, secondo l'antica riputazione delle famiglie e le vicende della ricchezza e lo splendore delle pubbliche dignità. Della condizione di nobili e plebei non dirò altrimenti, perchè reggendosi l'isola ormai a legge romana si torna a notissime generalità: occorre ripetere come da Costantino in poi fosse sostituita all'aristocrazia di nascita la gerarchia dei servidori di corte e officiali dello Stato, innalzati a piacimento del despota; e come fossero al tutto ragguagliati i dritti delle persone, sì che tra gli uomini liberi non rimase che una sola distinzione di poco momento. Dico della curia, nella quale non godeasi altro privilegio che la immunità da certe pene nei casi criminali; e il governo vi ascrivea involontarii i figliuoli di militari quando non fossero validi a portare ancor essi le armi, i proprietarii di venticinque iugeri o più di terreno, e gli affittuali in grande dei poderi del patrimonio imperiale305. Donde è manifesto che la curia non va chiamata aristocrazia, ma veramente popolani grassi o borghesi.

Dalle città volgendoci alle campagne, veggiamo altresì oscillare le classi della società antica, e posare alfine in una condizione di mezzo tra la libertà e la schiavitù. A ben comprendere i ricordi che abbiamo di tal mutamento, in Sicilia, è mestieri studiarlo prima per generalità. Venne da due motivi d'indole diversa; la coscienza, cioè, e l'interesse: i quali allor s'aiutarono scambievolmente, sì come par che avvenga ad ogni novello passo della civiltà. I principii umanitarii di filosofia pagana, attestati dalle opere di Seneca, Plinio e Plutarco, e messi in pratica negli editti d'Adriano e degli Antonini, cominciavano a temperare i mali della schiavitù, quando sottentrato il Cristianesimo, che si allargava e metteva radici, incalzò la santa opera306. Intanto la esperienza mostrava che la infeconda genía degli schiavi scemasse sempre più; e, aggiunta a questo la inefficacia del lavoro comandato coi supplizii, i campi con doppia celerità deterioravano. Ma se la pace dell'Impero togliea di rifornire gli schiavi con altre torme di vinti, la decadenza universale apparecchiava in luogo di quelli torme di poveri, fossero i proprietarii minori spogliati dal fisco imperiale, o le popolazioni industriali, libere e non libere, che fuggivano per miseria dalle città. Cercando ricetto e pane nei poderi dei ricchi, l'otteneano a prezzo di rimanervi da coloni; e par che i proprietarii del suolo, vedendo la utilità che ne ritraeano, s'invogliassero ad emancipare e porre nella medesima condizione gli antichi schiavi307. Cotesto mutamento di sorti par che siasi accelerato dal secondo o terzo secolo in poi; perocchè ai tempi di Costantino il Grande si parla dei coloni come di notissima e frequente qualità d'uomini, e si provvede tuttavia con crudeltà a tenere obbedienti gli schiavi, ma nelle leggi dei tempi seguenti a mano a mano il nome degli schiavi divien più raro, e spesseggia ai contrario quel dei coloni308. Io non dirò altrimenti della condizione degli schiavi, ch'è notissima; e ognun sa come andasse in meglio da Costantino a Giustiniano. Quella de' coloni era che rimaneano attaccati al suolo essi e i loro figliuoli e i nepoti perpetuamente, e pagavano un tributo annuale per la terra assegnata; che poteano acquistare beni mobili e stabili con la propria industria, ma non alienarli senza permesso del padrone; che, fuggendo dal podere, la legge dava al padrone di ridurli in schiavitù, e concedea di ripigliarli in termine di trent'anni per gli uomini, e di venti per le donne; e che tal prescrizione, assai più lunga di quella fissata per gli schiavi, non si interrompea anco per morte, poichè, mancato il colono, correva a pregiudizio de' figliuoli309. Tal condizione dunque non differì dalla servitù della gleba dei tempi feudali, se non che per la origine: la romana sempre da contratto, se tal può chiamarsi un pattodisuguale ed empio; la feudale talvolta da contratto, e talvolta dalla supposta ragion di guerra, che avea generato la schiavitù personale nel mondo antico, e nel mondo moderno si adopera a giustificare la servitù delle nazioni.

Or la popolazione rurale della Sicilia durò a un di presso le medesime vicende che abbiamo notato nel rimanente dell'Impero. Tolta una picciola mano di affittuali, chiamati conduttori310, i quali anco è da supporre liberi in tutti i casi, coltivavano le campagne i coloni311 e gli schiavi312, che sembrano talvolta confusi nell'uso volgare del linguaggio, come di fatto lo erano nella abiezione e nella miseria. Il Cristianesimo, o almeno i Cristiani di quel tempo e di molti secoli appresso, non abborrirono la servitù men cruenta della gleba; il clero la mantenne più tenacemente che i laici stessi nelle sue proprietà; e un pontefice santo e grande, Gregorio I, lodato tanto per la carità verso gli altrui schiavi nella terraferma d'Italia, ribadì le catene dei coloni dei poderi papali in Sicilia. Smesse, egli è vero, le taglie su i loro matrimonii; smesse i furti che l'azienda pontificia solea fare, frodando que' miseri nel prezzo e nella misura dei grani, obbligandoli a supplire le derrate, che, mandate a Roma, si perdessero per fortuna di mare, e richiedendo il censo pria che si vendessero le raccolte313. A tuttociò rimediava San Gregorio: ed era insieme giustizia e prudenza di buon massaio. Ma quando la coscienza gli richiedeva un atto magnanimo, entrò di mezzo la cupidigia che già sedea presso al trono pontificale, e con lei l'altra tentatrice a profanazione, che fu l'ambizione politica. Il sommo vescovo si ricordò soltanto ch'era proprietario; pensò falsamente che la libertà dei coloni di Sicilia potesse scemare le entrate e indi attraversare i disegni suoi a Roma: e vinta dal comodo presente la logica morale, San Gregorio, non solo non disdisse la servitù della gleba, ma vietò ai suoi coloni di maritare i figliuoli con gente d'altri poderi314. Non debbo tacere infine che San Gregorio discordò talvolta da' nobilissimi suoi principii in fatto della schiavitù propriamente detta. Nell'atto di emancipazione dei due schiavi romani Montano e Tommaso, dato del cinquecento novantasei, seppe ei ben dire: «Che se il Redentore s'incarnò per spezzare i ceppi dell'umanità, ottima cosa era di manomettere e rendere all'antica franchigia gli uomini, creati liberi dalla natura e sottomessi dal dritto delle genti al giogo della servitù315Seppe egli ancora, con nobile dispregio della ragion fattizia delle leggi, comandar che si manomettessero gli schiavi de' Giudei316. Ma non emancipò punto poco gli schiavi del patrimonio in Sicilia; e, quel ch'è peggio, talvolta ne donò altrui317; fece perseguitare e minacciare di gastighi severissimi que' che fuggivano o si nascondeano in altri poderi318; ed è manifesto ch'ei lasciasse non uno pochi schiavi, ma torme intere, e che diciannove successori suoi nel pontificato li mantenessero sotto l'abominevole giogo, poichè ottanta e più anni dopo la morte di San Gregorio gli schiavi erano gran parte della ricchezza della Santa Sede. E veramente sappiamo che Giustiniano Secondo, per far cosa grata a papa Conone, gli rimetteva (686) "la famiglia" del patrimonio di Sicilia e di Calabria, ch'era tenuta in pegno per debiti verso il fisco319; la qual famiglia non può significare altro che schiavi, poichè si staggiva come gli armenti, e poichè la legge fiscale permettea di prendere gli schiavi320 ai debitori, e non pretendea nulla da' lor coloni321.

Il tardo rivolgimento sociale che in dieci secoli avea fatto men disuguali le condizioni delle persone, mutò anche un poco la proporzione delle possessioni territoriali. Due movimenti contrarii operavano in ciò. Tendea l'uno ad agglomerare: e nascea dal decadimento generale; dalla menomata popolazione; dalla rovina dei proprietarii minori, che non potean durare le gravezze e molestie del fisco; dalla iniqua industria dei ricchi che si pigliavano i rottami di cotesti naufragi, dopo averli affrettato con le usure; dai lasciti alle chiese, che si moltiplicarono in Sicilia ai tempi di San Gregorio; e infine dall'avaro dispotismo, il quale aumentava a dismisura il patrimonio imperiale con le confiscazioni. All'incontro portavano a spicciolare le proprietà, la legge romana su le successioni, e l'utile pratica di dare in proprietà ai coloni le terre che coltivassero, e mutare il tributo personale in canone su la proprietà322. L'azienda imperiale avea tentato lo stesso espediente con circostanze alquanto diverse infin dal quarto secolo, quando una parte del patrimonio di Sicilia e di Sardegna fu conceduta in enfiteusi a picciole porzioni insieme con gli schiavi323, e poco appresso si accordò ai domini utili di quei poderi la franchigia dalle tasse straordinarie, come la godeano i beni tutti del patrimonio324. Qual dei due movimenti prevalesse, sarebbe difficile a provare. Nondimeno nei soli ricordi che abbiamo, che sono dei tempi di San Gregorio, veggiam lasciati a chiese o monasteri di Sicilia i beni di piccioli proprietarii; e par assurdo a supporre che non ve ne fossero molti altri nell'isola325.

Più oscure e scarse notizie possiamo spigolare intorno l'industria del paese. Il sol fatto che mi sembri certo è che i latifondi non addetti a pascolo si coltivassero a picciole porzioni, e che perciò la cultura in grande fosse finita con la dominazione romana che l'avea recato nell'isola326. Principal prodotto del suolo fu sempre il grano327. In secondo par che venisse la cultura della vite328. Quella dell'ulivo, che ai tempi greci avea arricchito gli Agrigentini, sembra abbandonata, e tornato di fatto agli abitatori dell'Affrica propria il privilegio di fornir l'olio d'ulivo all'Italia e ad altre nazioni occidentali. Perocchè si ritrae che, quando gli Affricani pagaron le prime taglie ai vincitori musulmani, il capitano Abd-Allah-ibn-Sa'd, vedendosi recare un mucchio di monete d'oro, domandava a un cittadino come le guadagnassero, e quegli, postosi a cercare intorno, e trovata un'uliva: "Ecco donde le caviamo," disse ad Abd-Allah; "i Romani non hanno ulivi, e comperano l'olio nostro con quest'oro329." La denominazione di Romani, che qui significa abitatori d'Italia, è da estendersi nel presente caso anco alla Sicilia; sapendosi che vi si importava olio d'Affrica nel nono secolo, nell'undecimo, e fino al duodecimo330. Certo egli è poi che la Sicilia nei principii del nono secolo avea frequenti commerci con lo stato degli Aghlabiti, e che parecchi mercatanti musulmani stanziavano nell'isola331.

Se questi particolari provano che non fosse spenta al tutto la industria in Sicilia, non mancò al certo per lo governo bizantino. Quell'ingordigia fiscale che spogliò l'Impero prima che il facessero i Barbari, non risparmiò le tre isole italiane poste sotto un solo amministratore, che si chiamò il razionale delle Tre Provincie. Noi le veggiamo sottomesse al sistema generale d'azienda: il tributo diretto su le proprietà e su le persone; le gabelle su le merci e su le industrie; le aggiunte straordinarie alla prima gravezza, o, come chiamavanle, le superindizioni; le leve di soldati che si compensavano in danaro; le leve de' marinaj; infine le estorsioni degli officiali onde si raddoppiava il peso: delle quali maladizioni tutte abbiamo più o meno qualche vestigio nelle memorie della Sicilia332. I Goti nel breve dominio loro fecero un novello censimento delle proprietà; rimessero debiti e tasse straordinarie333. Tornaron tutti i mali con la signoria bizantina; sì che alla fine del sesto secolo il fisco in Corsica obbligava i debitori a vendere i proprii figliuoli; in Sardegna il giudice avea posto una taglia sul battesimo; e in Sicilia un officiale subalterno staggiva ad arbitrio le possessioni: e ci vorrebbe un volume, scrivea San Gregorio, a divisar tutte le iniquità che ho risaputo di costui334. Non pochi imperatori a volta a volta esacerbaron cotesti mali, come abbiam detto di Costanzo e di Leone Isaurico, che aumentò d'un terzo la tassa diretta in Sicilia e in Calabria (a. 733) per punire que' popoli della propensione al culto delle imagini, e della gioia che provavano a veder fallire gli sforzi suoi contro l'Italia di mezzo335.

Risalendo dal popolo al governo, e lasciati da canto gli altri ordini subalterni, che poco montano336 e non differivano da quei delle altre provincie, dirò solo dei corpi municipali, elemento di governo proprio del paese, conservato come inoffensivo e comodo strumento d'amministrazione, e sopravvissuto alla dominazione che sì lo spregiava. Le municipalità della Sicilia, avanzo delle repubbliche greche, nei primi tempi che seguirono il conquisto romano, ebbero condizioni disuguali secondo la importanza delle città e i rapporti che avean tenuto con Roma nelle precedenti guerre. Indi ne veggiamo tre maniere: confederate, immuni e vettigali; alle quali poi se ne aggiunse una quarta, che eran le colonie romane: e la differenza principale stava nella gravezza e nome dei tributi che fornivano a Roma. Viveano del resto un po' più o un po' meno largamente, secondo le proprie leggi, e sotto i proprii magistrati, che ritennero le antiche appellazioni, dove greche, di Proagori, Gerapoli, Anfipoli; dove latine, di Quinqueprimi, Decemprimi, e anche di Senati per antica o novella influenza di quel linguaggio. E dissi proprii magistrati, perchè li eleggeano i cittadini, que', s'intenda, delle famiglie privilegiate per ricchezza e antico soggiorno; il qual dritto di suffragio spesso diè luogo a contese e indi a provvedimenti del governo romano che modificava a poco a poco gli antichi statuti e li tirava a uniformità337. La decadenza poi delle cittadi e l'accentramento della potestà politica, par che ragguagliassero al tutto la condizione dei municipii siciliani, e certamente mutilarono l'autorità loro. Dopo Costantino, questa era già ristretta a una giurisdizione civile, forse non dissimile da quella de' conciliatori o giudici di pace dei tempi nostri338, alle cure edilizie, e all'ingrato officio di scompartire tra i cittadini il peso delle tasse dirette, delle quali l'erario richiedeva, o per servirci della voce tecnica d'allora, indicea la somma ai municipii, e questi la suddivideano in quote personali secondo i catasti e con l'arbitrio che necessariamente v'entrò, sendo la contribuzione diretta non solo fondiaria ma anco testatica. La gravità del quale officio portò ad affidarlo non ai magistrati municipali propriamente detti, ma alla curia, come chiamossi, ch'era senza dubbio il corpo degli elettori alle cariche municipali339: infelici privilegiati, disposti forse ad abusare il dritto loro a danno delle classi povere, ma condannati a pagar caro l'abuso. Perocchè, dovendo sopperire del proprio le quote che non si potessero riscuotere, furono oppressi da così fatto peso, tra la insaziabile avarizia del governo e la universale decadenza che facea abbandonare le terre. Indi, come ognun sa, i decurioni fuggivano il tristo onore; si facean soldati, preti, romiti; e il governo, mettendo tra parentesi quell'ardente e intollerante suo zelo religioso, li facea strappare dall'altare e dal chiostro, e ricondurre per forza a lor sedie curuli340. Così la necessità del fisco portò a mantenere l'ordine fondamentale delle municipalità. Rinforzolle un altro provvedimento, nato sotto l'infausto regno di Valentino dai soprusi della burocrazia. Dico della istituzione dei difensori eletti dalla plebe: ombra di tribunato, o a dire propriamente, avvocati del popolo, che avean dritto a essere intesi dai giudici, dai governatori e dal principe; il quale officio poi si accordò anche all'ordine ecclesiastico; e, occupato infine dai vescovi, accrebbe non poco la loro potenza civile in Occidente. Molti documenti provano che così fatto sistema municipale fosse pienamente osservato in Sicilia, e ci mostrano in varie città i titoli di possessori e curiali, di padri e primi e decemprimi, e di difensori; cioè gli elettori, gli antichi magistrati municipali e il nuovo officio: ai quali collettivamente son indirizzati rescritti dei principi per negozii di giurisdizione municipale. Inoltre un rescritto imperiale, dato alla fine del quarto secolo, attesta che le città di Sicilia, siccome quelle d'altre provincie, ritenessero i beni lor proprii. E come in appresso non v'ha legge che abbia innovato quegli ordini, e li veggiamo andare innanzi bene o male per ogni luogo, non è dubbio che le instituzioni municipali durassero nell'isola fino al conquisto dei Musulmani341.

Dai corpi intermedii rivolgendoci al principato, non possiam fare che un cenno del sistema generale dell'Impero. Questo, come ognun sa, riteneva i vizii non la forza dell'antico reggimento dei Cesari, spogliato d'ogni avanzo di libertà e contigiato all'asiatica; assicurato dalla compiuta separazione dell'ordine militare dal civile; dalla vastità di quest'ultimo; e infine dall'accordo che Costantino iniziò, e compierono i successori, accordo col clero cristiano che prestò all'Impero il pastorale, e n'ebbe in cambio l'aiuto della borsa e della spada. Il qual congegno di corruzioni, ch'è servito poi di modello a tutti i despoti dell'Europa da Teodorico infino ai giorni nostri, non bastando a resistere all'impeto dei liberi popoli settentrionali, poi degli Arabi, e sendo ormai l'Impero scorciato e aperto d'ogni dove agli assalti, convenne riformare alla meglio le divisioni territoriali, e rinforzare l'autorità dei governatori. Smesse perciò le suddivisioni amministrative in prefetture, diocesi e provincie, che furon già convenienti al mondo romano, il principato bizantino, verso l'ottavo secolo, modestamente si scompartì in ventinove temi, come li dissero con voce nuova: divisione militare che si confuse con la civile, affidandosi entrambi i poteri a unica mano. La Sicilia, la quale ai tempi di Costantino si noverava tra le diciassette provincie d'una delle tre diocesi soggette al Prefetto del Pretorio, diè nome adesso a un tema, in cui andaron comprese anco la Calabria, la città di Napoli e costiera342. Il governatore dell'isola, che dopo Costantino avea avuto titolo di Correttore e talvolta di Consolare, poi sotto i Goti di Conte di Siracusa, ripigliò ai tempi di Giustiniano l'antica denominazione di Pretore, e infine fu detto Stratego, novello nome militare, e chiamossi patrizio, quando ei d'altronde avea tal dignità343.

Il fatto statistico che sovrasta a ogni altro, e che spiega dassè solo tutta la povera storia della Sicilia bizantina, è la qualità delle forze militari raccolte nell'isola. Nella decadenza di quel tempo gli eserciti ogni più che l'altro diveniano bande di mercenarii. L'Impero, come aggregato fattizio di varie genti tenute insieme dall'abitudine, dalla religione e dalla forza, non potea spirare ormai ai soldati l'amore d'una patria, sepolta tanti secoli innanzi. A ciò s'aggiunga che la popolazione della Grecia, cuor dell'Impero, la progenie di que' forti che avean vinto il mondo sotto Alessandro, ora, infeminita nelle industrie e nella superstizione, rifuggiva dalle armi; lasciavale prendere ai Barbari o agli abitatori delle frontiere, ed ella si riscattava con danari dal servigio militare. Il disordine dell'azienda allentava ancora i legami che debbono stringere il soldato al paese; perocchè le entrate pubbliche, menomate insieme col territorio e con la prosperità dei popoli, dilapidate dai ministri, consumate per soddisfare all'orgoglio e spesare i misfatti del principe, non più bastando al mantenimento degli eserciti, vi si trovò un comodo e pericoloso rimedio. Già fin dal quarto secolo veggiamo che i terreni soliti a distribuirsi ai veterani si dessero col carico di far militare i figliuoli344. Poscia, aumentandosi le strettezze dello erario e la mollezza dei popoli, e scemando il pregio della proprietà fondiaria, s'ebbe ricorso più sovente a cotesti beneficii militari, e ne fu alterata l'indole. In vece di proprietà ai veterani, accordossi l'usufrutto ai soldati in attuale servigio, e s'affidò l'amministrazione ai capitani loro. Le terre al certo si toglieano dal patrimonio imperiale, impinguato a furia di confiscazioni; e talvolta, senza aspettare la incorporazione, si dava ai soldati il godimento dei beni mobili o stabili staggiti ai debitori del fisco. Così avvenne che pagandosi malvolentieri dal papa le tasse su i patrimonii di Calabria e di Sicilia, gli fu presa anco la famiglia di que' poderi, e data in pegno ai soldati, dice il cronista345, cioè conceduto loro l'usufrutto degli schiavi, che poi il crudele Giustiniano Secondo rilasciò gratuitamente al papa (686-7).

Il numero dei beneficii militari tanto andò crescendo, che nei principii del decimo secolo la più parte dell'esercito era mantenuta in tal guisa. I capitani intanto s'erano dati ad alienar le terre; a frodare lo Stato, facendo comparir nelle file paltonieri condotti a poco prezzo, in vece d'uomini usi alle armi: donde qual maraviglia, sclamava l'imperatore Costantino Porfirogenito vietando ansiosamente così fatte magagne, qual maraviglia se la repubblica così tosto è ita a precipizio346? Ma la viltà dei soldati non sembra il solo inconveniente del beneficio bizantino: forma di amministrazione militare scompagnata da un ordinamento sociale che le desse alcuna virtù, come avvenne nei feudi germanici e nei giund arabici. Il beneficio bizantino mutava i guerrieri dell'Impero in famigliari temporanei dei capitani; cioè peggio che vassalli feudali o socii di tribù; non contrappeso al dispotismo, ma pessimo strumento da fare e disfare despoti; non milizie capaci di abituarsi ad alcuna carità verso le provincie ove stanziavano, ma stranieri sempre rinnovati e disposti ad opprimerle con fresca ingordigia. In fine, la debolezza di tal genía di mercenarii costrinse gli imperatori a condurre con grossi stipendii schiere di veri soldati di ventura, che almeno sapessero menar le mani.

Sola eccezione tra la corrotta milizia fu il navilio, come affidato a quella classe della popolazione greca e italica, cui l'aspra vita del mare non avea lasciato agio a guastarsi. Mercè cotesta buona schiatta il navilio bizantino mantenne infino al duodecimo secolo la disciplina; avvantaggiossi sopra le altre genti per la pratica del navigare e il maneggio degli ordegni di guerra; rinnovò spesso gli esempii dell'antica virtù, e ne lasciò eredi le repubbliche italiane del Tirreno e dell'Adriatico, e la monarchia di Sicilia. Componendosi l'armata bizantina di due parti, imperiale, cioè, e provinciale, la virtù di quest'ultima fu rinforzata dalla carità del municipio, ch'era ormai la sola patria. Indi ebbero tanto valore fin dall'ottavo secolo il navilio di Venezia e quel di Napoli, città quasi independenti; e par che anco si segnalasse nelle fazioni di cui abbiamo ricordo il navilio siciliano, ancorchè spesso confuso dai cronisti con quello dell'Impero347.

Or divenuta la Sicilia, infin dal settimo secolo, come baluardo occidentale dell'Impero e fortezza avanzata oltre la frontiera in mezzo a due potenti nemici, i principi bizantini necessariamente vi posero grosso presidio della milizia che abbiamo descritto, e necessariamente dettero larga autorità militare, civile e anco politica al capitano supremo del presidio, o vogliam chiamarlo stratego dell'isola. E perchè coteste armi straniere soverchiavano la sola forza propria del paese, ch'era il navilio provinciale, il popol siciliano non partecipò alle vicende che succedeano nella sua terra, altrimenti che come spettatore o vittima: fece plauso, maledisse, pianse, e non si mosse. Indi veggiamo dopo la raccontata sollevazione militare del seicentosessantotto, l'esercito di Sicilia provarsi tre fiate nel corso di un secolo a dare un despota all'Impero. La prima quando, stretta Costantinopoli dalle armi del califo, Sergio stratego di Sicilia fe' gridare imperatore un Tiberio, che presto fu spento per la virtù e fortuna di Leone Isaurico; il quale mandava a Siracusa Paolo suo fidato ministro: e questi svolgea gli officiali dell'esercito e l'armata di Sicilia; costringea Sergio a rifuggirsi appo i Longobardi; troncava il capo a Tiberio; ad altri il naso, per ignominia, o mozzava i capelli; altri vergheggiava o bandía; perdonava ai rimagnenti; e così ponea fine (718) al pericoloso moto348. Meno agevole a reprimere il secondo, che scoppiò mentre la corte era agitata dall'ambizione della ortodossa e snaturata Irene. Elpidio, uom d'alto affare, mandato al governo di Sicilia (781), per allontanarlo dalla reggia, e colpito indi a poco d'una accusa di maestà, cioè di resistere alla usurpazione d'Irene, cercò salvezza nella aperta ribellione. Aiutandolo il malcontento dei Siciliani e del presidio, prese titolo e insegne d'imperatore, e combattè le forze che veniano di Costantinopoli ad opprimerlo: se non che, vinto in parecchi scontri, si fuggì col tesoro pubblico in Affrica (782); ov'ebbe onori da principe349, e le croniche musulmane cel mostrano dodici anni appresso guerreggiante in Asia Minore contro i Greci, sotto i vessilli del califo350. La terza rivolta militare portò in Sicilia la dominazione musulmana per opera di un altro condottiero che seguì lo esempio d'Elpidio.

La prepotente massa della soldatesca fu cagione altresì che il movimento scoppiato contro gli imperatori iconoclasti nell'Italia di mezzo non si comunicasse alla Sicilia; ancorchè i popoli quivi non meno tenacemente aderissero alle dottrine di Roma, e al culto delle immagini. Anzi nei principii dell'ottavo secolo, prima che s'intendesse parlare degli Iconoclasti, s'era suscitato in Sicilia un nuovo bollore di zelo religioso, che movea dai monasteri comunicanti col clero dell'Italia centrale, e che scoppiò in Catania per provocazioni locali; forse invidia contro gli Ebrei, quivi ricchi e potenti351. Levò grido in quest'incontro (725) il vescovo della città, San Leone da Ravenna, detto il Taumaturgo pei molti miracoli che gli si apposero; e tra gli altri d'avere arso vivo un miscredente, tenendol fitto sul rogo con le proprie braccia, senza pur abbronzarsi le vestimenta. Dell'auto-da-fè, sventuratamente, non può dubitarsi; poichè San Giuseppe Innografo, che visse nel corso di quel secolo, ne lodava a suo modo il Taumaturgo. Oltre la tradizione dell'Innografo, se ne serbò un'altra, che con l'andare dei tempi s'accrebbe di novelle puerili, ma pur vi si scoprono le radici del mito; cioè un'ultima distruzione di monumenti dell'antichità pagana, e la persecuzione di qualche valentuomo che si allontanasse dalle superstizioni comuni: Eliodoro, come si chiamò quella vittima, nobile uomo, candidato una volta alla sede vescovile, poi molesto nemico di San Leone, e fattosi per ambizione discepolo degli Ebrei, negromante e fabbro di idoli352. Dopo il conquisto normanno, i frati di Catania lavoraron tanto su quelle fole, che si trovò infine una fattura del mago, un elefante di lava, ch'oggi adorna la piazza della cattedrale: e il popolo puntualmente lo chiama col nome un po' guasto di Diotro353. L'elefante d'Eliodoro fin dai principii del decimottavo secolo regge su la schiena un monumento più prezioso, dissepolto dalle rovine de' tremuoti, un picciol obelisco di granito, ottagono, inciso a caratteri geroglifici, recato al certo d'Egitto sotto la dominazione romana; il quale, con emblemi tanto sospetti, non so come campasse dalle mani di San Leone.

Or noi mal possiamo raffigurar nella mente quale tempesta abbia dovuto suscitare in Sicilia, in quella stagione di roghi e di miracoli, lo editto di Leone Isaurico contro le immagini (726). I Siciliani non dissimularono. Affrontaron dapprima la collera di Leone; la quale si sfogò, com'abbiam detto (733), con aggravare i tributi sopra di loro e sopra i Calabresi, che vivevano a un di presso nelle medesime condizioni. Affrontarono indi i supplizii di Costantino Copronimo; chè ci rimangono i nomi delle vittime più cospicue: un Antioco governatore di Sicilia, il quale si vede tra gli ortodossi indegnamente insultati e straziati (766) nell'ippodromo di Costantinopoli354; e San Giacomo vescovo di Catania, fatto morir di fame e di sete (772) in quella persecuzione355. Ai tempi di Michele il Balbo e di Teofilo, il sapiente Metodio da Siracusa fu lacerato a battiture; infrantegli le mascelle; sepolto per sette anni in un carcere sotterraneo con due masnadieri, un de' quali venuto a morte lasciarono putrefare accanto ai vivi il cadavere (821-836)356. Giuseppe l'Innografo (820) andò relegato in Creta, e venti anni appresso, in fondo delle Paludi Meotidi357. Del rimanente non nacque alcun tumulto nell'isola; poichè il numero dei soldati e delle fortezze vi s'aumentò in questo tempo358, non tanto forse per la paura dei Musulmani, quanto degli ortodossi; e poichè i beni confiscati sopra costoro erano argomento da render più che mai leale e iconoclasta il presidio. Il popolo fremendo e sopportando, tirò innanzi più d'un secolo; finchè non piacque agli imperatori di ristorare le immagini: e l'impeto col quale e' festeggiò questo avvenimento359, mostra che non fosse rattiepidita in Sicilia l'opinione cattolica. Ma ben lo era ogni zelo per la chiesa di Roma. Si dissipò in silenzio senza lasciar vestigio, come prima gli imperatori360 confiscarono il patrimonio papale in Sicilia (733), e condussero i vescovi dell'isola, senza far loro troppa forza, a spiccarsi dal primate ribelle, accettare la istituzione d'un arcivescovo, forse metropolitano, nell'isola, e ubbidire al patriarca di Costantinopoli361. I quali provvedimenti, presi per vendetta, furono mantenuti per necessità, quando si compose una prima (780) e una seconda volta (842) la lite delle immagini. E veramente il papa occupava in Italia tanti territorii tolti direttamente o indirettamente all'impero bizantino, che a cento doppii compensavano i poderi confiscatigli in Sicilia e in Calabria. Oltre a ciò, cotesti poderi, dati senza dubbio ai soldati, non si potean ritogliere sol che si volesse. Molto meno potea la corte di Costantinopoli rendere ai papi la giurisdizione disciplinare su la Sicilia, cioè una salda catena da tirare il paese alla dominazione dei Franchi. Però i papi invano dissero ch'era mestieri di quelle entrate per accendere i moccolini a San Pietro, e invano ridomandarono la giurisdizione, finchè il conquisto degli Arabi tolse luogo a ogni querela362.

Dal detto fin qui si vede che per due secoli non occorsero in Sicilia altre vicende che quelle d'una piazza di guerra, ove la popolazione fosse un nulla rispetto al presidio. Perciò anche la Sicilia servì di confino per casi di maestà; chè, oltre gli esempii d'un principe arabo relegatovi nel sesto secolo363, e d'una principessa longobarda tenutavi in ostaggio nel secol seguente364, sappiamo che Costantino Quinto imperatore, tramando di ripigliare lo Stato (790), avesse disegnato di farvi deportare Irene. E costei, alla sua volta, rassodatasi nella usurpazione, mandava nell'isola, il figliuolo no, che le parve più sicuro partito di accecarlo e tenerlo prigione nel palagio, ma i cortigiani più intinti nella pratica365. Non guari dopo (793). erano sbalzati in Sicilia, come dicemmo, da mille pretoriani, scritto pria loro in fronte a caratteri indelebili "Armeno ribelle366." È notevole che narrando questi casi il cronista Teofane ricordi la Sicilia come l'estrema provincia, o diremmo noi, la Siberia dell'Impero. E a tale in vero era condotta; se non che il sole, la fertilità del terreno e la postura in mezzo il Mediterraneo, non si poteano confiscare dai despoti. Sopravvivea con ciò tra quella gente greca e latina dell'isola alcuno effetto di civiltà: avanzi di industrie e commerci, com'abbiam detto; studii ecclesiastici, di che anche s'è fatta menzione; pittura, che vedremo esercitata da soli chierici verso la fine del nono secolo; architettura367; e infine le materiali delicatezze della vita, che non mancano nei tempi di decadenza. Ma gli studii, ristretti al clero regolare e secolare, non servian che di ausiliarii alla superstizione; la morale insegnata dal clero, traviante lungi assai dai semplici dettami del Vangelo e intento ai proprii interessi e ghiribizzi teologici, turbava le coscienze senza correggere i costumi pubblici privati; il sentimento della dignità umana, che solo può mantenere i buoni costumi, era soffocato necessariamente in un popolo il cui intelletto gemea tra i ceppi dei frati e dello imperatore, e il corpo sotto la sferza dell'imperatore e dei soldati. In una parola, la Sicilia era divenuta dentro e fuori bizantina; ammorbata dalla tisi d'un impero in decadenza; sì che, contemplando le misere condizioni sue, non può rincrescerci il conquisto musulmano che la scosse e rinnovò.

 

 

 





290  Diodorus Siculus, lib. V, cap. VI.



291  Ve n'era in Palermo, Catania, Girgenti ec., come si scorge dalle epistole di San Gregorio, lib. V, 132; VII, 24, 26.



292  A coteste famiglie di militari o impiegati venute di passaggio, e talvolta rimaste in Sicilia, par che appartenessero alcuni uomini dei quali il caso ci ha conservato i nomi; per esempio, Conone papa, nato in Tracia e educato in Sicilia; Sergio papa, oriundo d'Antiochia e nato a Palermo.



293  Veggasi questo medesimo capitolo, pagg. 222 e 223.



294  Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 727.



295  Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto; MS. C, tomo IV, fog. 221 recto.



296  Constantinus Porphyrogenitus, De Thematibus, lib. II, tomo III, p. 58. Sarebbe da approfondire il cenno etnologico di Costantino, relativamente ai Sicoli. Non saprei in quale scrittore antico egli abbia potuto trovare che Liguri fosse il nome generale de' popoli di cui facean parte i Sicoli; il qual nome, secondo la opinione del Niebuhr, non è altro che una variante di pronunzia della voce Itali.



297  Veggasi Torremuzza (G. L. Castelli), Siciliæ ... veterum Inscriptionum. Ricordisi inoltre la venuta di Porfirio, che scrisse e diè lezioni in Sicilia verso il 300.



298  Papiro del 444, presso il Marini, I Papiri diplomatici; LXXIII, p. 108, seg. I nomi sono Zosimo, Caprione, Sisinnio, Eleuterio, Eubudo.



299  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, LXIII, indizione 2a.



300  Pirro, Sicilia Sacra, p. 997; Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissert. III, p. 423, seg.



301  Anastasius Bibliothecarius, presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, p. 145.



302  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, LXIII, indizione 2a; e notisi la riflessione del Pirro, Sicilia Sacra, p. 34, a proposito dei matrimonii dei preti.



303  Diodorus Siculus, lib. I, cap. III.



304  L'Assemani, trattando la presente questione nel tomo IV degli Italicæ Historiæ Scriptores, cap. II, §i 1 a 22, ha sostenuto che sempre prevalesse in Sicilia il linguaggio latino al greco. Ma gli esempii che allega anzi mi rafforzano nella mia opinione. Tra gli altri, v'ha le soscrizioni greche dei vescovi di Sicilia e di Calabria che sedettero nei Concilio di Costantinopoli dell'869-70.



305  Codex Theodosianus, lib. XII, tit. XXXIII, XXXV. - Venticinque iugeri rispondono a un di presso a sei hectares di Francia, e a tre salme e mezza di Sicilia. Ma ricavandosi pochissimo dalla terra, si dovrà quella riguardare come picciola possessione.



306  Veggansi le autorità citate da Gibbon e dai suoi commentatori Guizot e Milman, cap. II, note 46 a 61.



307  Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII, legge 18. Questa legge è scritta in greco, e posta tra quelle d'Onorio e Teodosio, ma senza ripetervisi i nomi di questi imperatori; talchè la data rimane incerta, e si può supporre più recente. Dice che i contadini (γεωργοι) altri sono ascrittizii (ὲναπόγραφοι), e i loro peculii appartengono ai padroni; altri, dopo trent'anni, divengono liberi coloni (μισθωτοὶ ὲλεύθεροι) con la roba loro, e sono obbligati a pagar canone e lavorar la terra. E ciò, conchiude la legge, è più utile ed al signore e ai contadini. Una testimonianzadiretta non ha bisogno di comento.



308  Ducange, Glossarium mediæ et infimæ latinitatis, voce Colonus. Ai tempi di Teodosio si distingueano in originarii e inquilini, cioè i nati nel podere e gli avventizii. Sotto Giustiniano forse questa ultima classe di coloni si diceva ascrittizii: e talvolta son chiamati tributarii ed inquilini, talvolta rustici e coloni, Codex Theodosianus, lib. V, tit. X; lib. X, tit. XII; lib. XIII, tit. I.



309  Codex Theodosianus, lib. V, tit. IX, X, XI; Valentiniani, Novellæ, nov. IX.



310  Dei conduttori in Sicilia si fa menzione nel citato papiro del 444, Marini, I Papiri Diplomatici, LXXIII, e nella epistola di San Gregorio, lib. I, XLII, indizione 9a, che trovasi anco presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, num. LXIX, p. 110.



311  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, ibidem. Oltre I conduttori distinti dai coloni, vi si parla di rustici in modo, che questa voce par sinonimo di coloni, se pur non comprende gli uni e gli altri insieme.



312  Dei servi dei fondi patrimoniali in Sardegna, e, come pensa Gotofredo, anche in Sicilia e in Corsica, si fa menzione in una legge di Costantino il Grande, Codex Theodosianus, lib. II, tit. XXV, data forse il 325. Veggasi anco Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, num. IV, p. 5. In un papiro del 489, risguardante certi poderi nel territorio di Siracusa, leggiamo inquilinos sive servos, presso Marini, I Papiri Diplomatici, LXXXII e LXXXIII, p. 128 e 129.



313  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, XLII; e presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, LXIX, p. 110.



314  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. X, XXVIII: «sed in ea massa, cui lege et conditione ligati sunt, socientur.»



315  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. V, XII.



316  Ibidem, lib. III, IX; lib. V, XXXI e XXXII.



317  Un fanciullo siciliano, per nome Acosimo, fu donato da lui il 593 al consigliere Teodoro, che avea ben meritato della Chiesa, e non possedea schiavi. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. II, XVIII, indiz, 11a.



318  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, XVIII, indiz. 2a.



319  Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italic. Script., tomo III, p. 147: «Itemque et aliam jussionem direxit ut restituatur familia suprascripti patrimonii et Siciliæ, quæ in pignore a militia detinebatur.»



320  Codex Theodosianus, lib. XI, tit. IX.



321  Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII.



322  Veggasi la legge del Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII, 18, citata di sopra, p. 190.



323  Codex Theodosianus, lib. II, tit. XXV, legge di Costantino il Grande, di data incerta, forse del 325.



324  Codex Theodosianus, lib. XI, tit. XVI, legge di Costanzo e Giuliano Cesare, data il 359. Questa e la precedente si leggono altresì presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, ni IV e X, p. 5, 9.



325  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, passim.



326  Il papiro del 444, che ho citato più volte (Marini, I Papiri Diplomatici, LXXIII), mostra che i sette poderi tra masse e fondi appartenenti in Sicilia a Lauricio, e affittati separatamente, rendeano ogni anno soldi 753, 500, 445, 200, 144, 75, 52.



327  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, passim.



328  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VIII, LXIII, indizione 3a (a. 600-601). Il podere legato da una Adeodata per fondare un monistero di donne al Lilibeo, rendea dieci soldi all'anno netti di tasse; e vi erano tre ragazzi, tre gioghi di buoi, altri cinque schiavi, dieci giumente, dieci vacche, quattro iastulas vinearum, quaranta pecore e altro. Si vegga anche il lib. XI, epistola XLIX, indizione 6a (603, 604), ove si parla della vendita del vino prodotto delle vigne della Chiesa Palermitana.



329  Beladori, nel Journal Asiatique, série IV, tomo IV, p. 365.



330  Nell'880, come da noi si racconterà nel Libro II, cap. X, le forze navali bizantine venute presso Palermo presero moltissime barche cariche d'olio, certamente non esportato. Nell'XI secolo, Bekri ci attesta la esportazione degli olii da Sfax per la Sicilia e paese dei Rûm, Notices et Extraits des MSS., tom. XII, p. 465. Nel XII secolo si mandava grano di Sicilia in Affrica per levarne olio e altre derrate. Diploma del 1134, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 975.



331  Veggasi il Lib. II, cap. II.



332  Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, III, IV, IX, X, XXI, XXII.



333  Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, XLI, XLII, XLIII, XLIV.



334  Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. IV, LXXVII, indizione 13a (a. 595); e presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, CXVI.



335  Theophanes, Cronographia, tomo I, p. 631.



336  Veggasi Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, diss. VII, c. IV, seg.



337  Veggansi i fatti presso Caruso, Memorie storiche di Sicilia, parte I, lib. V; Palmieri, Somma della Storia di Sicilia, tomo I, cap. XIV; Di Gregorio, Discorsi intorno la Sicilia, discorso XII.



338  Justiniani Novellæ, nov. 75, altrimenti 104, De præt. Siciliæ; Savigny, Histoire du droit romain, tomo I, p. 226, e 232, cap. V, § 105, 107.



339  Da questo diritto nacque senza dubbio l'uso che la curia votasse a parte dal clero e dalla plebe nella elezione dei vescovi. Due epistole di San Gregorio ci provano tal modo di votazione in Sicilia, e sono indirizzate l'una Nobilibus Syracusanis, l'altra Clero ordini et plebi Panormitanæ civitatis; lib. IV, XCI; lib. XI, XXII.



340  Codex Theodosianus, lib. XII; Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, XI, indizione 1a, anche presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, CXLII, p. 188; Gibbon, Decline and fall, cap. XVII, con le osservazioni di Guizot e di Milman, alle note 172 e 180.



341  Confrontinsi i Diplomi seguenti:

                     del 489 presso Marini, I Papiri Diplom.,  XXXII e XXXIII.

                verso il 504 pr. Di Giov., Codex Sic. Diplom., XXXVIII, p. 79.

                     del 526-527             ibid.             XLI e XLIII, p. 82-84.

                verso il 537                   ibid.             LI, p. 91.

                Veggansi inoltre: Justiniani, Novellæ, nov. LXVIII; Di Giovanni, op. cit., diss. VI, cap. III, p. 458, seg.; Savigny, Histoire du droit romain, cap. V, § 106-108, p. 227, seg., che cita tra gli altri documenti le epistole di San Gregorio, delle quali ho fatto parola (p. 199, nota 3); e un'altra (della quale credo errata la citazione) scritta al vescovo di Tindaro intorno l'accettazione di certe donazioni, nella quale si ricorda essere bisognevoli a ciò le gesta municipalia.

                Intorno i beni delle città, leggasi nel Codex Theodosianus, lib. XV, tit. I, legge 32, il rescritto di Arcadio e Onorio (anno 395) indirizzato ad Eusebio consolare di Sicilia, nel quale, provvedendosi alla conservazione delle città ed oppida dell'isola, è detto: De redditibus fundorum juris reipublicæ tertiam partem publicorum mœnium et thermarum subustioni (corretto da Gotofredo substructioni) deputamus. Fondi appartenenti alla repubblica, secondo il linguaggio legale che prevaleva in quel secolo, non significa que' del patrimonio imperiale, ma appunto beni comunali, come l'ha spiegato il Di Gregorio nel citato Discorso XII.

 



342  Constantinus Porphyrogenitus, De Thematibus, lib. II, them. 10 e 11; De administrando imperio, tomo III, cap. XXVII, p. 58, 118, 121. Non occorre avvertire che la nuova divisione in temi, ancorchè si ritragga dalle opere di Costantino Porfirogenito, risalisce senza dubbio all'ottavo secolo. Ai tempi di quel povero imperatore (911-959) occupata tutta l'isola dagli atei Saraceni, com'ei li chiama, non rimanea del tema siciliano che la Calabria. Ei lo confessa nell'opera De Thematibus, dove prudentemente passa sotto silenzio Napoli e Amalfi ch'eran già repubbliche indipendenti. Nell'altro libro De administrando imperio confonde i temi di Sicilia e di Longobardia, nominando sol questo ultimo, e dicendo che dopo Costantino il Grande vi si mandassero due patrizii, uno dei quali per la Sicilia, Calabria, Napoli e Amalfi, e l'altro che sedendo a Benevento, reggea Pavia, Capua e il rimanente. Soggiugne più innanzi che Napoli era l'antica capitale dei patrizii; e chi comandava Napoli, comandava alla Sicilia; e andato il patrizio a Napoli, il duca di Napoli veniva in Sicilia. Queste parole non provan altro che l'ignoranza dell'augusto compilatore o di chi fece il lavoro per lui. Oltre la discrepanza delle notizie date nell'opera De Thematibus, è evidente qui che si prenda per regola generale qualche fatto particolare, e si faccia uno strano miscuglio dei tre sistemi diversi; cioè quel di Costantino, quello dei temi e quello intermedio adottato da Giustiniano dopo il conquisto di Belisario. Al contrario, il nome del tema, la importanza strategica della Sicilia al tempo in cui si adoperò la novella divisione territoriale, e qualche esempio di comandi dati dal patrizio di Sicilia al duca di Napoli, mostrano che la parte primaria del tema fosse l'isola, e la capitale probabilmente Siracusa. Così anche pensa l'Assemani, Italicæ Historiæ Scriptores, tomo I, p. 356. Ciò è provato infine da una epistola di Adriano Primo a Carlomagno, nella quale dice che i Napoletani, prima di stipulare uno accordo col papa, voleano andare a chiederne il permesso al loro stratego in Sicilia, Codex Carolinus, edizione del Gretser, LXIV, edizione del Cenni, LXV.



343  Varii suggelli di piombo danno i nomi e titoli di alcuni governatori e altri officiali pubblici di Sicilia sotto la dominazione bizantina; donde si vede come sovente variasse il titolo del governatore, o fosse data questa autorità provvisionalmente ad officiali di grado inferiore. Da una faccia del suggello si trova sempre il monogramma:

 



344 che significa Κύριε βοήζει τω̃ δούλω̣ σω̣̃ "Signore aiuta il servo tuo;" e nell'altra faccia si leggono i nomi seguenti:



345 Gregorio patrizio e stratego di Sicilia.

                Sergio      id.          id.

                Giovanni    id. spatario e proconsole.

                Andrea consolare e stratego

                Stefano     id. e spatario.

                Anastasio   id.    id.

                Giovanni patrizio e protospatario.

                Teodoro consolare.

                Gregorio    id. e protonotario.

                Teodoro spatario e cartulario.

                Leonzio prefetto.

                Teofilo prefetto imperiale.

                Leone spatario e logoteta del corso (posta).

                Anatolio conte.

                Sergio consolare e luogotenente.



346 Veggasi Torremuzza (Gabriello L. Castelli), Siciliæ veterum Inscriptionum, p. 212, seg. I cronisti usano sempre i titoli ordinarii di stratego e patrizio. In una epistola di papa Adriano Primo a Carlomagno del 788 (Codex Carolinus, edizione del Gretser, XCII; edizione del Cenni, XC), si legge: Cum dioecete, quod latine Dispositor Siciliæ dicitur.



347  Codex Theodosianus, lib. VII, titoli De Veteranis e De filiis veteranorum.



348  Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo III, p. 147.



349  Constantini Porphyrogeniti Novellæ Constitutiones, p. 1509. De militaribus fundis.



350  Si fa menzione particolare della annata di Sicilia nella epistola di Paolo Primo al re Pipino, Codex Carolinus, edizione del Gretser, XV; edizione del Cenni, XVIII; e nella epistola XXIV della prima, e XXXVIII della seconda di coteste edizioni.



351  Theophanis Chronographia, p. 611, seg.



352  Theophanis Chronographia, p. 702 e 705.



353  Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 164 recto, an. 178. Il Saint-Martin, nelle note a Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXVI, §i 27 e 36, registra due imprese di Elpidio nell'Asia Minore, il 791 e il 794, citando per la prima Abulfaragi, per l'altra Ibn-el-Athîr. Ma probabilmente si tratta di un sol fatto, recato da que' due compilatori sotto date diverse.



354  La importanza della popolazione ebraica in Sicilia, alla fine del IV secolo, si vede da due epistole di San Gregorio, presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, ni CXXVII e CXLVI.



355  Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 5, 28, le traduzioni latine dei versi di San Giuseppe Innografo, e di tre diverse compilazioni della vita di San Leone, le quali mi sembrano dell'XI o XII secolo, e si dicono tratte da Manoscritti della Vaticana, del Monastero di Criptaferrata e del Salvatore di Messina. L'Innografo non cita il nome di Eliodoro; ma sol dice arso un che sturbava gli uditori della divina parola, e accenna a varii altri prodigii del Taumaturgo. Gli eruditi non sono stati di accordo su la età in cui visse San Leone: e alcuni, l'han tirato giù fino al 779. Ma non trovandosi tra que' prodigii alcun cenno della eresia iconoclasta, San Leone ed Eliodoro si debbon porre senza dubbio innanzi il 726, com'ha fatto ii Gaetani. Confrontisi D'Amico, Catana Illustrata, parte I, p. 363 a 386. Veggansi ancora queste leggende di San Leone, nella collezione dei Bollandisti, febbraio, tomo III, p. 222, seg. Le due epistole a nome di Lucio governatore di Sicilia, tratte da queste fonti e pubblicate dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, ni CCLXXIV e CCLXXV, sono evidentemente apocrife.



356  D'Amico, Catana Illustrata, parte I, p. 363 a 386, parte III, p. 72 a 75, dice chiamato volgarmente il monumento Liodoro. Ma in oggi tal nome si pronunzia Diodoro, e anche Diodro e Diotro. Il Fazello, Deca I, lib. III, cap. I, al supposto negromante ambo i nomi: Diodoro e Liodoro. L'innesto dell'obelisco egiziano sull'elefante fu fatto nel 1736, come l'attestano due iscrizioni riferite dal D'Amico, III, p. 386. Quivi si vegga il disegno dell'obelisco, che è dato altresì dal Torremuzza, Siciliæ veterum Inscriptionum, p. 307.



357  Theophanes, Chronographia, tomo I, 631.



358  Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 32. Preferisco la data del 772, seguita da questo scrittore, a quella che altri ha voluto assegnare a San Giacomo di Catania, facendolo morire ai tempi di Leone Isaurico. Veggasi D'Amico, Catana Illustrata, parte I, p. 361.



359  Theophanes continuatus, p. 48; Symeon magister, p. 642, seg.; Georgius monachus, p. 811, seg. Si vegga anche la collezione dei Bollandisti, giugno, tomo II, p. 960 a 963; Mongitore, Bibliotheca Sicula, tomo II, p. 66, seg.



360  Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. II, p. 49; Collezione dei Bollandisti, aprile, tomo I, p. 266, 267.



361  Si vegga il Capitolo VII, p. 175.



362  Veggansi le omelie XI e XX di Teofane Cerameo, nella edizione di Scorso, p. 64, 125, 129 ec., e ciò che noi diciamo di questo sacro oratore nel Libro II, cap. XII.



363  Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 631.



364  Pirro, Sicilia Sacra, p. 611; e Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissertazione II, p. 421.



365  Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, epistola di papa Niccolò Primo dell'860, CCLXXXI, p. 318, e dissertazione V, p. 452; Epistola di papa Adriano Primo del 785, Acta Conciliorum, tom. IV, p. 93, 94.



366  Veggasi il Capitolo IV, p. 76.



367  Paolo Diacono, lib. V, c. XIV. La principessa avea nome Gisa, sorella di Romoaldo signore di Benevento.



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