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CAPITOLO IX.
Nel detto cenno biografico sopra il principe aghlabita Mohammed-ibn-Ahmed scrive Ibn-el-Athîr, alla sfuggita, che regnando costui (dicembre 864 a febbraio 875) «i Greci occuparono parecchi luoghi della Sicilia; e che Mohammed fe' costruire fortezze e corpi di guardia su la costiera d'Affrica;» e passa oltre l'annalista ai casi de' Musulmani a Bari670. L'autore del Baiân, come anche notammo, accenna che i due fratelli, capitani l'un di Sicilia, l'altro della Gran Terra, fiaccarono gli Infedeli in aspri scontri, l'anno dugento cinquantasette (870-71), e altro non ne dice671. Intanto veggiamo i governatori di Sicilia avvicendarsi in fretta. Mohammed-ibn-Hosein, scelto dalla colonia alla morte di Mohammed-ibn-Khafâgia, avea tenuto l'oficio per brevissimo tempo, come dicemmo. A Ribâh-ibn-Ia'kûb-ibn-Fezâra, nominato dal principe d'Affrica e trapassato verso la fine dell'ottocento settantuno, era sostituito, per elezione della colonia, Abu-Abbâs-ibn-Ia'kûb-ibn-Abd-Allah, che moriva a capo di un mese672. A costui par tenesse dietro un Ahmed-ibn-Ia'kûb, fratel suo, o d'altra famiglia: chè variano in ciò i cronisti673. Mancato di vita Ahmed nel medesimo anno dugento cinquantotto dell'egira (17 nov. 871 a 5 nov. 872), era rifatto il figliuolo, per nome Hosein, ovvero, secondo il Nowairi, un Hosein-ibn-Ribâh, cui il principe d'Affrica confermò674, e tantosto il rimosse. Allora, che correva il mese di scewâl dugento cinquantanove (agosto 873), venne a reggere la Sicilia Abu-Abbâs-Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah, di casa aghlabita, figliuolo del primo governatore ch'ebbe la colonia di Palermo, uom litterato, tradizionista, poeta, poc'anzi prefetto di Tripoli, e tornatovi non guari dopo, e poscia promosso a ragguardevole uficio in Kairewân; donde par abbia lasciato la Sicilia, non per disgrazia a corte, ma a chiesta sua; tardandogli forse di uscire di quel vespaio e tornare in Affrica dond'era partito a malincuore675. Gli fu sostituito, se è da credere al Nowairi, il medesimo anno dugento cinquantanove, un altro congiunto della dinastia, Abu-Malek-Ahmed-ibn-Ia'kûb-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah-ibn-Ibrahîm-ibn-Aghlab, soprannominato l'Abbissinio676, il quale a capo di quattro anni si vede anch'egli ito via677. De' quali sei o sette capitani ch'ebbe l'isola dall'ottocento settantuno al settantatrè, si sa in particolare una sola fazione, e mal direbbesi di guerra: che del dugento cinquantanove (6 nov. 872 a 25 ott. 873) una gualdana, andata infino a Siracusa, ridomandò trecento sessanta prigioni musulmani; avuti i quali, fe' la tregua, e incontanente si tornò in Palermo678.
Questi prigioni, queste reticenze degli annalisti musulmani, questi governatori sì spesso morti o scambiati, danno a vedere gravissime calamità della colonia siciliana. Dissanguata anch'essa dalle battaglie di Capua e di Benevento; lacera tuttavia dalla discordia civile, non potea fronteggiare le armi vincitrici di Basilio, che par si volgessero all'isola, mentre Lodovico e' Longobardi si travagliavano contro i Musulmani di Terraferma. Indi, non che perdere varie città, forse interi distretti in Sicilia, i Musulmani temeano anco per l'Affrica: afforzavano le costiere, secondo la testimonianza già detta d'Ibn-el-Athîr, con la quale s'accorda la Continuazione di Teofane679 Morto, tra tanto scapito dell'onor musulmano, Mohammed-ibn-Ahmed (febbraio 875), e lasciato un figliuolo di poca età, i grandi del Kairewân innalzavano al trono il fratello, Ibrahîm-ibn-Ahmed. Costui datosi ad apparecchiare in casa, come diremo nel terzo libro, gli stromenti dell'atrocissima dominazione sua, volle trasviare in Sicilia gli uomini che temea vicini; e ad un tempo far sentire a Basilio che più non regnava in Affrica il Signor delle Grù. Tentò dunque un'impresa, fallita già ai più illustri capitani della colonia: lanciò l'esercito sopra Siracusa680. La state dell'ottocento settantasette, i Musulmani, capitanati da Gia'far-ibn-Mohammed, novello governatore dell'isola, dopo distrutte le mèssi di Rametta, Taormina, Catania e altre città di cui non ricordansi i nomi, davano il guasto a quel di Siracusa681; occupati i sobborghi, poneansi allo assedio della città682.
Cinquant'anni addietro l'esercito di Ased-ibn-Forât s'era accampato alle latomie, lontano circa un miglio dall'istmo d'Ortigia683. Adesso il capitano degli assedianti facea stanza nell'edifizio della cattedrale vecchia fuor la città, scrive il monaco e grammatico Teodosio, che stettevi incarcerato trenta dì. Sappiamo anco da lui come una torre, abbattuta da' sassi che scagliavano i nemici dalla parte di terra, fosse posta in riva al mare, sul porto grande «nel luogo ove si stende il corno destro della città,» dice qui il narratore684, e poi che da quel luogo fosse presa Siracusa.
Or guardando una pianta topografica ognuno intenderà tal punta estrema essere l'istmo che separa i due porti; e però la città, al tempo dell'assedio, essere stata limitata, com'oggi, alla penisola d'Ortigia. Fuor da quella rimaneano i sobborghi, o piuttosto l'antico quartier principale della città, abbandonato da poco; quartier principale, perchè vi era stata la chiesa metropolitana; e abbandonato da poco, perchè quella, non diroccata per anco, offriva comodo alloggio al condottiero musulmano. Dal che parmi assai probabile che dopo l'assedio di Ased-ibn-Forât, comprendendo potersi meglio difendere un istmo largo poche centinaia di passi685, che il vasto cerchio di fortificazioni del quartiere esteriore, i capitani bizantini facessero sgombrare il quartiere o ponessero gli ordini opportuni a poterlo sgombrare d'un subito; e tra gli altri ordini quello di tramutare la chiesa metropolitana in Ortigia. D'altronde, in mezzo secolo, la popolazione di Siracusa dovea essere crudelmente menomata per guerre, pestilenze, emigrazione, povertà; talmentechè le abitazioni tra l'istmo e le latomie, com'esposte a maggiori pericoli, dovean anco, senza disegni strategici, rimaner vote d'abitatori.
Diersi dunque i Musulmani a battere le fortificazioni dell'istmo con ogni maniera di stromenti da guerra; gareggiando tra loro, così scrive Teodosio, a chi sapesse trovarne dei nuovi; e raddoppiando con quegli insoliti ingegni il terrore degli assediati. Tutto il di s'avea a ributtare assalti, aggiugne il narratore; tutta notte a guardarsi da frodi e colpi di mano. Percoteano le mura con le elepoli686; s'approcciavano all'aperto con le testuggini687, e sotterra con mine: da lor mangani lanciavano immani massi o fitta gragnuola di pietre688. In ultimo adoprarono macchine di tal possanza, che i sassi, in luogo di far la parabola in alto, ammazzare ricadendo qualche uomo, sfondar qualche tetto, e portare più spavento che danno, folgoravan diritto ad aprire la breccia, come le nostre artiglierie grosse. A che richiedendosi assai maggior momento di proiezione che nelle baliste ordinarie, fu giocoforza d'accrescere a dismisura la lunghezza delle vette, e con essa il volume delle macchine. Indi quei mangani di mostruosa grandezza che pochi anni innanzi avean fatto stupire i Longobardi di Salerno, e che, nel duodecimo secolo, portati dagli eserciti siciliani, battean le mura di Ravello presso Amalfi, metteano spavento ai Greci in Tessalonica, e i soldati di Saladino li guardavano con maraviglia all'assedio di Alessandria; e alfine nel decimoterzo secolo Carlo d'Angiò li mandava contro la Sicilia, maneggiati da Musulmani di Lucera. Cotesto parmi dei trovati a che allude il monaco Teodosio: nuovo, poichè, secondo gli eruditi, i tiri delle baliste adoprati a batter mura, occorrono per la prima volta nell'assedio di Siracusa, o meglio in quel di Salerno dell'ottocento settantuno, in cui si sa che una petriera, come la chiamarono gli Italiani, d'insolita grandezza, squassasse la torre Solarata. E finchè non se ne trovino altri esempii nelle guerre dei Musulmani innanzi il nono secolo, l'onore di tal trovato darassi a quei d'Affrica e di Sicilia689.
Sopravvenute forze navali di Costantinopoli, furono oppresse a un tratto dall'armata musulmana690; il vincitore restò padrone del mare; distrusse le fortificazioni dette allora i braccialetti691 che difendeano i due porti, senza dubbio quelle dei lati opposti ad Ortigia, la punta settentrionale cioè del porto picciolo e la meridionale del grande. Così fu tolto ai cittadini ogni aiuto di fuori. I Musulmani provaronsi anco a dare assalti con lor grosse navi. Ma la città sempre valorosamente si difendea.
Maggior prova fu a durare la fame, la quale si fe' sentire, incrudì, arrivò allo strazio che riferisce il Frate Siracusano, con parole da farci prima sorridere e poi abbrividire, «L'uccellame domestico, dice in tanta tragedia Teodosio, era consumato; conveniva mangiar come si potea di grasso o di magro; finiti i ceci, gli ortaggi, l'olio; la pescagione cessata dal dì che il nemico insignorissi dei porti. Ormai un moggio di grano, se avvenia di trovarlo, si comperava cencinquanta bizantini d'oro692; uno di farina, dugento; due once di pane, un bizantino693; una testa di cavallo o d'asino, da quindici a venti; un intero giumento, trecento. I poveri, poichè mancarono loro i salumi e le erbe solite a mangiarsi, andavano scerpando le amare e triste su per le muraglie; masticavano le pelli fresche; raccoglieano le ossa spolpate, e pestate e stemprate con un po' d'acqua le trangugiavano; rosicavano il cuoio: poi, soverchiato dalla rabbiosa fame ogni ribrezzo, ogni sentimento di religione e di natura, dettero di piglio ai bambini; piangevano i cadaveri dei morti in battaglia: sol nutrimento di cui non fosse penuria. Ingeneravasi da ciò una epidemia crudelmente diversa; della quale chi subitamente moriva in orribili convulsioni694; chi enfiò com'otre695; chi mostrava tutto il corpo foracchiato di piaghe696; altri restava paralitico697.» Così per tutto l'inverno e parte della primavera la misera cittade si travagliò; sperando che venisse l'armata di Costantinopoli a liberarla.
Da Basilio Macedone dovea in vero sperarsi aiuto. Ma la superstizione, le vergogne domestiche par che avessero stemprato quell'animo di valoroso malfattore. Tenne i soldati d'armata a edificare una chiesa di Costantinopoli698, mentre i mangani musulmani demolivano Siracusa. Poi mandò lo ammiraglio Adriano, uomo neghittoso o vigliacco; il quale ad agio suo salpava di Costantinopoli; andava a riposarsi nel porto di Monembasia in Peloponneso: e tanto aspettovvi un vento fresco col quale far vela per Siracusa, che certi demonii che bazzicavano nella selva d'Elos, dice gravemente la Cronica del Porfirogenito, e poi certi soldati scampati da Siracusa sur una barca, gli dettero avviso che già vi sventolassero le insegne musulmane. Allora corse a Costantinopoli a serrarsi in una chiesa e domandare pietà a Basilio; il quale gli perdonò la vita699.
Par che bloccata Siracusa per mare e per terra, il capitan musulmano, certo ormai di sua preda, si tornasse in Palermo; e che in primavera andasse a incalzar con nuovo furore l'assedio700, un Abu-I'sa, figliuolo di Mohammed-ibn-Kohreb, gran ciambellano d'Ibrahim701. Allora fu battuta in breccia la torre del porto grande di che si è detto di sopra. Verso la fin d'aprile un lato di quella sconquassato crollò; a capo di cinque dì, cadde anco un pezzo della cortina attigua: i Musulmani montavano agli assalti, ancorchè offesi di fianco dalla torre mezzo diroccata, alla quale gli assediati aveano ristorato il passaggio con una scala di legno; e impediti alsì dall'adito malagevole e più dal disperato valore del presidio cristiano. Battaglia da giganti, sclama Teodosio, non pensando che quivi avessero combattuto in altri tempi i giganti della storia antica: i repubblicani di Atene, di Cartagine e di Roma, contro quei di Siracusa; Marcello contro Archimede! Rattratta era la città, nel nono secolo, dal tempio di Giove Olimpico e dalle Epipoli alla penisola; rattratto l'umano ingegno da Gelone al monaco Teodosio; gli animi rimpiccioliti nell'obbedienza ai despoti bizantini, nell'egoismo della bacchettoneria; la religione lor insegnava meglio a morire che a vincere. Pur se quell'enfatico detto possa appropriarsi al sol coraggio personale, bene sta; e Teodosio ben chiama santo il patrizio che governò Siracusa in questo assedio, sapendo la fine che lo aspettava; e pur durando inesorabile a proposte del nemico o timidi consigli de' suoi; vigilante, infaticabile, esperto nelle cose di guerra, mantenitore della disciplina, tra quindici o venti migliaia di umane creature affamate702. Il presidio, sì come avveniva negli eserciti bizantini, componeasi di varie genti: v'erano Mardaiti, Greci del Peloponneso703, uomini di Tarso704; i Siracusani non mancarono a sè stessi; le donne aiutarono a combattere; i preti confortavano e pregavano. Per venti dì e venti notti fu difesa la breccia dai Cristiani esausti già in nove mesi di assedio e di fame. Quel fatale baluardo, detto del Malo Augurio, si coperse di cadaveri, le cui ferite descritte ad una ad una da Teodosio, mostrano che si combattesse pur con le spade, da corpo a corpo; un Cristiano contro cento Musulmani, dice egli, con iperbole che dipinge il vero. Stanchi, dispettosi d'essere trattenuti da una legione di spettri, da un mucchio di rovine, gli assalitori allenavano un istante.
La mattina del ventuno maggio ottocento settantotto705 parea cheta ogni cosa: il patrizio e il grosso delle genti s'erano ritirati a prendere un po' di cibo e di riposo: rimaneva a guardare la breccia, d'in su la torre, Giovanni Patriano con pochi soldati. Quando, alle sei, tutte le macchine dei nemici giocano a un tratto; scoppiane come una procella; la scala di legno, onde dalla città si comunicava alla torre, imberciata dai massi che piombavano, si sfasciò con gran fracasso. Il patrizio balza da mensa, corre alla breccia; seguonlo animosi guerrieri. Ma il nemico, apponendosi al colpo fatto, s'era avventato incontanente alla torre; avea trucidato i difenditori; e già irrompeva in città. Una frotta di soldati che volle far testa dinanzi la chiesa del Salvatore, pria che potesse mettersi in schiera, fu soverchiata e tagliata a pezzi. Dan d'urto i vincitori alla porta della chiesa; abbattonla; trovano una gran calca di cittadini, fanciulli, vecchi, infermi, chierici, frati, schiavi: e ne fanno carnificina. Poi si spandono per le contrade, uccidendo, predando. Il patrizio con settanta nobili siracusani si chiude in una torre; ed è preso la dimane. Uno stuolo corre alla cattedrale, ove l'arcivescovo Sofronio706 e tre preti, Teodosio era tra questi, si strappano d'indosso gli abiti sacerdotali, sperando non essere conosciuti; in farsetto di cuoio, si acquattano tra l'altar maggiore e il seggio vescovile; Sofronio tuttavia promette un miracolo; gli altri si domandano perdono scambievolmente delle offese, come in punto di morte: e Teodosio afferma che ringraziavano Iddio di tale tribolazione. Ecco i Musulmani nel tempio: uno brandendo la spada che stillava sangue va dietro all'altare, trae fuori i nascosi; ma senza maltratti, nè minaccioso piglio; e contemplato il venerabile aspetto dell'arcivescovo, gli domandava in greco: "Chi sei tu?" Saputolo, richiese dei vasi sacri; si fe' menare al luogo ove serbavansi, che erano cinquemila libbre di metalli preziosi di finissimo lavoro; fe' entrare nella stanza l'arcivescovo coi tre compagni, e ve li chiuse. Poi chiama gli anziani di sua nazione, scrive Teodosio, al certo i capi di famiglia ch'erano in quella schiera; li commuove a pietà; e salva la vita ai prigioni. Uomo di nobil sangue, dice il narratore, e lo chiama Semnoen forse Sema'ûn ch'è nome arabico. Niun soldato di nazione incivilita usò mai più umanamente in città presa d'assalto, nel primo impeto, verso ministri di religione avversa: nè gli eserciti dei nostri dì possono vantare molti Sema'ûn. Questo esempio di gentil animo del condottiero e disciplina dei soldati, accanto agli atti d'esecranda intolleranza che dovremo narrare, prova che miscuglio di schiatte, di costumi, di barbarie e civiltà, di cavalieri e ladroni, fosse nell'esercito musulmano ch'espugnò Siracusa. I men tristi sembrano i coloni di Sicilia; tra i quali va noverato Sema'ûn, poichè parlava il greco.
Teodosio e i compagni di prigionia furono recati allo alloggiamento del generale in capo, al vescovado vecchio, serrati in una stanza; la cui schifa descrizione legga, chi il voglia, nella epistola di Teodosio. Ma non può tacere la storia su le abbominevoli crudeltà. Cessata la strage indistinta, continuarono a scannare gli uomini d'arme, e serbare gli altri alla schiavitù707. E perchè mal si poteano distinguere, o intervenne qualche pia frode dei condottieri più inciviliti, fu preso tempo a scevrare le vittime: e a capo di una settimana, di sangue freddo, le immolarono fuor la città. Primo l'eroe dello assedio, quel patrizio di cui Teodosio tace il nome, per esser noto, dice egli, a chiunque: e andò alla morte a testa alta, impavido, sereno, che il capitano che il condannò lo guardava preso di stupore. Indi, i settanta presi nella torre col patrizio e gli altri prigionieri furono legati; fattane una massa, contro la quale come can villerecci, continua Teodosio, i Musulmani avventavansi: e fino all'ultimo li ammazzarono con sassi, bastoni, lance e checchè lor veniva alle mani; e arsero i cadaveri. Niceta da Tarso, notissimo ai nemici pei fieri colpi che solea menare ogni dì, svillaneggiando lor nazione e imprecando al Profeta, fu tratto in disparte; steso a terra supino; scorticato dal petto in giù; squarciategli con cento lance le viscere palpitanti; strappatogli il cuore: e gli empii lo dilaniarono coi denti; lo ammaccarono a colpi di pietra708. Il numero dei morti in tutte queste carnificine passò i quattromila, dice il Baiân; sommò a parecchie migliaia, dice Ibn-el-Athîr, aggiugnendo che «pochi, pochissimi camparono,» tra i quali son da noverare que' che gittatisi in una barca arrivarono in Grecia. Montò il valsente del bottino, secondo Teodosio, a un milione di bizantini709 che ne darebbe tredici delle nostre lire; nè par troppo per tanta città; nè arriva a quello che crederebbesi, leggendo negli annali musulmani non essersi fatta mai sì ricca preda in altra metropoli di Cristianità. Comparve, dopo la espugnazione, un'armatetta greca, contro la quale usciti i Musulmani la messero in fuga, le presero quattro navi, e passarono gli uomini per le armi. Per due mesi circa abbatterono fortificazioni, spogliarono tempii e case: alfine vi messer fuoco, e andaron via, allo scorcio del mese di dsulka'd, cioè all'entrare d'agosto710. Questo fu il fine di Siracusa antica: rimase un laberinto di rovine, senz'anima vivente711. "Nè un Teocrito v'era, nè un Ibn-Hamdîs che piangessero l'eccidio della patria; ma vi si provò un poeta bizantino, erede presuntivo della corona, Leone poi imperatore, detto il Sapiente, e autore d'un trattato d'arte militare; il quale, in vece di venire a far la vendetta, strimpellò sul doloroso argomento due anacreontiche, così chiamolle, che si sono perdute, nè parmi gran danno.712 Il monaco e grammatico Teodosio dettò poi la epistola da noi sovente citata, che ben risponde ai due titoli dello autore: piena di unzione, come si dice; diffusa, studiata, pur non disadorna di stile; pregevole pei fatti che ricorda; e può passare tra i buoni scritti greci del nono secolo.
Prima di sgombrar la città, i Musulmani avviavano a Palermo il bottino e i prigioni713: gittati su le medesime bestie da soma; scortati da brutali negri, ch'erano addetti ai servigii più bassi nello esercito; viaggiando sei dì e sei notti, al caldo e al freddo, senza riposo. All'alba del settimo dì, i prigioni siracusani gustavano amarezza novella a vedere la fiorente città, di cui la fama tanto parlava, uscita dall'antico giro delle sue mura, coronata di sobborghi, o meglio, sclama Teodosio, forti e superbe città, «l'iniqua Palermo, che tenendo a vile d'essere governata da un contarco, si impadronisce già d'ogni cosa, ha messo noi sotto il giogo, e minaccia d'assoggettare le genti più lontane, fin gli abitatori della imperiale Costantinopoli.» Così il prigione, struggendosi d'invidia municipale, inveiva contro un nome; confondea Palermo capoluogo di provincia sotto i Bizantini, con Palermo capitale musulmana, «ridondante di cittadini e di stranieri, che pareavi adunata tutta la genía saracenica da levante a ponente et da settentrione al mare.» Un folto popolo andò a incontrare il convoglio, tripudiando alla vista di quel bottino, intonando versetti del Corano, che Teodosio chiama canti trionfali e peani.
Dopo cinque dì, l'arcivescovo e i preti suoi erano addotti allo emiro supremo, dice Teodosio, senza dubbio il wâli di Sicilia, «sedente in trono, sotto un portico714, ascosto dietro una cortina per tirannesca superbia.» L'emiro e l'arcivescovo fecero per interpreti una breve disputa religiosa, nel cui tenore, dato da Teodosio, ben si ravvisa il gergo musulmano; e vedesi che il tiranno parlava senza orgoglio nè intolleranza; il pastore con dignità e circospezione. Accomiatati per tornare alla prigione, attraversavano la piazza di mezzo della città, probabilissimamente quella ch'or si chiama del Palagio Reale, seguendoli «moltissimi Cristiani che senza dissimulazione li compiangeano, e molti Musulmani tratti da curiosità di vedere il rinomato arcivescovo;» dei quali Teodosio non dice che desser su la voce a que' primi, nè profferissero ingiurie. Furon chiusi poi nelle pubbliche carceri715, che vi si scendea per quattordici gradini e non aveano altra finestra che la porta; dove, tra il caldo, la oscurità, il puzzo, gli schifi insetti, erano accalcati Negri, Arabi, Ebrei, Cristiani di Tarso, di Longobardia e Siciliani. Il vescovo di Malta, ch'avea i ferri ai piè, levossi per abbracciare Sofronio: si contarono a vicenda lor casi; piansero insieme; e ringraziarono Iddio. Ma venuta la festa dei Sagrifizii, com'esattamente la chiama Teodosio716, un fanatico dottore717 si messe a stigare il popolazzo che per maggiore allegria facesse un falò di quel sacerdote politeista; se non che gli uomini più autorevoli e i magistrati calmarono il furore, mostrando vietato da legge musulmana l'abbominevole sagrifizio718 e doversi in altra guisa render lode a Dio della vittoria. «Così campammo, conchiude Teodosio, scrivendo dal carcere, e pur ci minacciano la morte ogni dì719.» Si addoppiarono forse i timori suoi ne' tumulti della capitale, nella guerra che si raccese con avvantaggio delle armi greche; finchè, l'ottocento ottantacinque, erano riscattati i prigioni siracusani720; onde l'arcivescovo e Teodosio, par che tornassero in libertà721.
Tra questa discrepanza di compilatori, sembra che il Nowairi, più diligente nelle inezie, abbia notato tre governatori, trascurati da Ibn-el-Athîr e dal Baiân per essere rimasi in uficio brevissimo tempo; e che l'Ibn-Ia'kûb, di cui Nowairi non dà il nome proprio, sia appunto l'Ahmed di quegli altri due, come notai di sopra. Debbo aggiungere che stando strettamente alle lezioni dei compilatori tre varie famiglie avrebbero tenuto in men d'un anno il governo della Sicilia, quelle cioè di Ia'kûb-ibn-Fezâra, di Ia'kûb-ibn-Abd-Allah, e di Ia'kûb-ibn-Modhâ; ma è più probabile che vi sieno errori nei nomi o salti nelle genealogie. Dubito inoltre della lezione di Ibn-el-Athîr, perchè Ibn-Abbâr, che in questa materia fa più autorità, parla (MS., fog. 35 recto) di un Ia'kûb vivuto nel tempo di cui trattiamo e figliuolo di Modhâ-ibn-Sewâda-ibn-Sofiân-ibn-Sâlem, di Sâlem, dico, padre di Aghlab e avolo del fondatore della dinastia. Ia'kûb era dunque cugino di Kafâgia emiro di Sicilia. Era stato anco uomo di molto séguito a corte del principe aghlabita Mohammed-ibn-Aghlab di cui già si parlò, e i suoi discendenti furono detti, da lui, Ja'kûbîa «Giacobini:» nome che allor non portava pericolo. Mi pare probabilissimo che l'Ahmed nominato da Ibn-el-Athîr sia stato figliuolo di costui, e Modhâ non figliuolo di Selma, ma bisnipote di quel Sâlem progenitor comune di questa famiglia e degli Aghlabiti.
Syracusanorum in urbem,
Aggressus devicit (devicitur?)
Post decem autem menses excidit
Quanto al nome del vincitor di Siracusa, che Teodosio non poteva ignorare, mi par che vada letto Abu-l'sa, figliuolo dell'hâgeb ossia ciambellano di Ibrahim-ibn-Ahmed; poichè le due lettere latine ch sono trascrizione ordinaria della greca χ, come questa dell'ha, 6a lettera dell'alfabeto arabico, con la quale comincia la voce hageb; e le lettere g e b similmente rispondono alle arabiche. È maraviglia a trovare sì intatta quella parola passata per mano di varii copisti e d'un traduttore; poichè di questo squarcio il testo greco si è perduto. Debbo qui avvertire, per render testimonianza al vero, che M. Famin, nella Histoire des Invasions des Sarrazins en Italie, Paris 1843, della quale è uscito solo il primo volume, e la quale avrò poche altre occasioni di citare, ha colto nello stesso segno mio, tirando a un altro. La voce Châgeb gli parve corruzione del nome patronimico di Mohammed-ibn-Kohreb; e ne disse le male parole a Teodosio, anche per aver chiamato costui emiro, e conchiuse doversi correggere il nome Mouça fils de l'émir Khareb; cioè Mohammed-ibn-Kohreb, che per caso si trova appunto lo hâgeb del principe aghlabita in questo tempo.
Degli autori arabi ne trattano: Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc.; Baiân, tomo I, p. 110; aggiungasi la Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 42.
La data della espugnazione, il 21 maggio, si trova al paro in Teodosio nella Cronica di Cambridge, e nel Baiân. L'anno 878 è determinato da queste ultime due autorità. Manifesto l'errore di coloro che, seguendo la Continuazione di Teofane, han detto presa Siracusa l'880.