Michele Amari
Storia dei Musulmani di Sicilia

LIBRO SECONDO.

CAPITOLO XII.

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CAPITOLO XII.

 

Prendendo a studiare il popolo vinto nell'isola, la prima cosa convien tornare alla memoria i modi e la progressione del conquisto. Delle terre di Sicilia altre abbiam visto prese di viva forza, ovvero a patti che guarentissero le persone e gli averi; altre sottomettersi a tributo; altre vittoriosamente resistere. Le prime e le seconde di raro furon distrutte; talvolta i Musulmani vi posero colonie; più sovente le tennero suddite, abbattute pria le fortificazioni e presi ostaggi; in tutte lasciaron presidii. Non presidii colonie ebbero le città tributarie. Le independenti durarono nell'antico esser loro; aggiuntovi i pericoli, la gloria e la febbrile attività della guerra.

Quanto al cammino dei conquistatori, si è potuto notare che s'avanzarono quasi sempre da ponente a levante. Combattuto qua e con varia fortuna per quattro anni (827-831) e ferme poi le stanze in Palermo, s'insignorirono entro un decennio (831-841) del Val di Mazara: regione piana anzi che no, abbondante di pascoli e terre da seminato; nella quale fondarono lor prime colonie e trasportarono gli schiavi che coltivassero i poderi occupati. Nei diciott'anni susseguenti (841-859) fu domo con più duro contrasto il Val di Noto: terreno feracissimo, ondulato, sparso di men alti monti e men vaste pianure che il Val di Mazara; par che i Musulmani prendessero a soggiornarvi finchè Siracusa tenne il fermo. Repressa intanto la sollevazione cristiana dell'ottocento sessanta, che fu comune al Val di Mazara e al Val di Noto, i vincitori si spinsero in Val Demone: provincia formata dalla catena degli Apennini e dall'Etna; e però tutta valli e aspre montagne, coperta d'alberi da bosco e da giardino, e difendevole assai. In Val Demone, invero, aveano occupato Messina ed alcun'altra città marittima; pure, entro sessant'anni (843-902) non arrivarono a spuntar dalla difesa le popolazioni cristiane ridotte in un triangolo, il cui vertice846 toccava Catania e la base stendeasi dai monti sopra Messina infino a Caronia, com'io credo847.

Ho seguito fin qui la divisione territoriale della Sicilia in tre province, che chiamavansi Valli, di Mazara, Demone e Noto; la quale durò, con qualche mutamento, infino al mille ottocento diciotto, e la origine sua si riferisce d'ordinario ai Musulmani. Cotesta opinione manca di prove; poichè i diplomi e le cronache dei primi tempi normanni, quando l'azienda pubblica ritenea quasi tutte le forme del governo precedente, fanno menzione del solo Val Demone848. I ricordi del Val di Mazara e del Val di Noto non sono antichi precisi849. Nondimeno io accetto il pensamento comune, parendomi la divisione in tre province ordine antico che tornasse su, dopo qualche innovazione temporanea; e riflettendo inoltre che i conquistatori arabi erano necessitati a tripartire l'isola. Volendo giovarsi degli oficii dell'azienda bizantina per la riscossione del tributo fondiario, trovavano le due provincie, Lilibetana e Siracusana, divise dallo Imera Meridionale, ossia fiume Salso; ma com'eglino non possedeano per intero la provincia Siracusana, così doveano distinguere la parte che rimaneva ai nemici, ch'era appunto il Val Demone, dalla parte musulmana che giaceva a mezzodì e chiamossi Val di Noto, e da un po' di territorio a ponente il quale confuso con la provincia Lilibetana si addimandò Val di Mazara. Secondo tal supposto lo scompartimento in tre province tornerebbe alla seconda metà del nono secolo850.

In quell'epoca si potrebbe trovare alsì la ragione dei nuovi nomi delle tre province; delle quali la prima e l'ultima li presero, com'è evidente, da città. La provincia Lilibetana andò chiamata forse di Mazara, per esser questa la città più vicina al Lilibeo851, non ristorato per anco col nome di Porto di Ali (Marsâ-Alî, Marsala); ovvero perchè sedesse a Mazara il diwân dei beneficii militari, posto fuori dalle città di Palermo e di Girgenti ch'erano circondate di poderi allodiali. La provincia Siracusana potea ben prendere il nome da Noto che vi primeggiava, giacendo Siracusa in rovine, sendo risorta da quelle innanzi il decimo secolo. Quanto al Val Demone, l'etimologia si è riferita ai boschi (Vallis Nemorum); si è riferita ai demonii dell'Etna, tenuto spiraglio d'inferno (Vallis Dæmonum); altri più saviamente l'ha tratto da un forte castello, ricordato nelle memorie del nono secolo e abbandonato di certo nel duodecimo. Sembrami più probabile che i nomi della provincia e del castello fossero nati insieme dall'appellazione presa per avventura dagli abitatori di tutta quella regione: Perduranti, cioè, o Permanenti, nella fede, si aggiunga dell'impero bizantino. Perocchè un cronista greco del nono secolo, trattando delle città di Puglia rimase sotto il dominio di Costantinopoli, adopera il verbo analogo a così fatta voce852; e una delle varianti con che questa ci è pervenuta è appunto Tondemenon che si riferisce, senza dubbio, non al territorio ma agli abitatori853. La denominazione di valle potrebbe essere arabica al par che latina854; nel secondo dei quali casi ben potea convenire a un territorio compreso nella vallata tra gli Apennini e l'Etna; il nome generico latino o arabico unito a una appellazione greca, farebbe maraviglia nella Sicilia di quei tempi855.

I Cristiani ch'erano tuttavia la maggior parte della popolazione dell'isola, viveano in quattro condizioni diverse, cioè, indipendenti, tributarii, vassalli e schiavi; le quali partitamente prenderemo ad esaminare.

Le popolazioni independenti dai Musulmani chiuse nelle proprie mura e obbedienti, più o meno, all'impero bizantino, riteneano i magistrati e gli ordini anteriori al conquisto. Pure, nell'ultima metà del nono secolo, forza era che seguisse tra loro una vicenda analoga alla restaurazione dei comuni nell'Italia di mezzo dopo il conquisto longobardo. Non potendo l'impero porre presidii per ogni luogo dell'isola, dovea tollerare, anzi procacciare che le terre forti per sito o per numero di cittadini si difendessero dassè, come le città italiane del settimo secolo; il che inevitabilmente accresceva autorità e baldanza all'aristocrazia della curia, base dei corpi municipali. Avvezzi ormai a combattere o patteggiare coi Musulmani; a cospirare col governo bizantino quando talvolta fossero stati soggiogati dal nemico; ad ordinare mosse militari, di accordo coi capitani imperiali di Castrogiovanni o di Siracusa, le città siciliane par che a poco a poco prendessero sembianze di confederate più tosto che suddite. Pertanto le istituzioni municipali, che in Grecia e altrove si dileguarono sotto il forte governo di Basilio Macedone, sì che poi Leone il Sapiente ne cancellò anco il nome, le istituzioni municipali, io dico, doveano rinvigorire, in quel medesimo tempo, nelle città di Val Demone che mantennero l'onor del nome cristiano in Sicilia. Ciò confermano parecchi cenni delle cronache: come sarebbero le pratiche dei Musulmani a Troina l'ottocento sessantasei; la missione d'un decurione per lo riscatto dei prigioni nell'ottantatrè; e tanti casi di guerra cessata o ripresa, nei quali è manifesto che operassero i municipii, non gli oficiali dell'impero. I ricordi ecclesiastici del tempo, dei quali si tratterà in questo capitolo, danno indizio anch'essi della autorità politica assunta dagli ottimati: senza che il sacerdozio non avrebbe con tanta rabbia aguzzato contro costoro il pungolo della satira. L'autorità municipale poi occupò ogni potere, ossia i comuni independenti operarono come repubbliche, negli ultimi anni del nono e i primi del decimo secolo; quando lo impero del tutto li abbandonò.

Pari autorità civile, con minore possanza e niuna gloria, serbarono i municipii della seconda classe di popolazioni, vogliam dire le tributarie. Nei principii del conquisto, tal condizione dovea parer comoda ai vincitori al par che ai vinti; sopratutto ai capi. E veramente, i condottieri musulmani senza fatica imborsavano il danaro e poteano scompartirlo con più largo arbitrio che il bottino; e i magistrati municipali si francavan dai pericoli della guerra, pagando agli Infedeli, poco più o poco meno, quel che soleano mandare a Costantinopoli; poteano inoltre distribuire il peso tra' lor miseri concittadini con maggiore ingiustizia che loro non ne concedessero le leggi dell'impero. Nondimeno l'odio religioso, il sentimento nazionale, e le molestie nascenti dalla licenza e discordia dei vincitori, sturbavano sovente i raziocinii dell'interesse materiale e spingeano l'aristocrazia municipale a spezzare i patti. Perchè quella società non sembri troppo più generosa dell'odierna società europea, si aggiunga lo scapito dei proprietarii, i cui servi e coloni spesso fuggivansi dai poderi; spezzandosi le catene dello schiavo altrui che riparasse in paese musulmano e si convertisse all'islamismo, divenuto liberto di Dio, come dicea Maometto856. S'aggiunga infine il bisogno che portava le colonie musulmane ad estendersi, e si comprenderà come avveniasovente che le città tributarie si ribellassero o i Musulmani le assalissero con pretesti. Ricadendo sotto il giogo, erano ridotte a vassallaggio: talchè il numero delle tributarie scemò a poco a poco, e poi del tutto mancarono.

Nel tempo che durava tal qualità di popolazioni, l'ordinamento loro è agevole a immaginare. Come nelle città independenti, così nelle tributarie l'autorità dovea risedere nei municipii. Del ritratto dei beni imperiali e comunali, aggiuntevi le contribuzioni su i cittadini, il municipio pagava il tributo detto dai Musulmani gezîa o kharâg857; la somma del quale dipendea dai patti, e secondo le usanze musulmane si stipolava ordinariamente per dieci anni, dando statichi per sicurtà. È probabile che s'aggiugnesse il patto di svelare ai Musulmani le trame del governo imperiale; favorir le loro imprese e rispettare le persone e averi loro, come veggiamo stipolato da Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân con gli abitatori di Cipro858.

Soggiaceano al vassallaggio le terre prese per forza d'armi o a patti, come dicemmo. Nelle seconde per virtù del trattato, nelle prime per umanità e interesse a non desolare il paese, i Musulmani davano l'amân, o sicurtà, come suona in nostro linguaggio. Lasciate indietro le condizioni occasionali o transitorie di che si è fatta menzione nel racconto, come di consegnare un dato numero di schiavi, abbandonare una parte dello avere e somiglianti stipolazioni, la sostanza dello amân era questa. Cessava nel paese l'autorità politica dei Cristiani. I beni dello Stato, fors'anco del comune, e tutti o in parte i beni ecclesiastici, e quei dei cittadini uccisi o usciti, passavano in proprietà della repubblica musulmana; e insieme con le terre necessariamente andavano i servi o coloni che soleano coltivarle sotto gli antichi signori. Il rimanente della popolazione continuava a vivere secondo le proprie leggi e costumanze; e tutti gli uomini liberi, qual che si fosse lor grado e fortuna, si ragguagliavano dinanzi ai vincitori in unica condizione, che s'addimandava in arabico dsimma e lo individuo dsimmi, che noi diremmo umiliato o suddito. Godeano ordinariamente pieno esercizio del dritto di proprietà859. La legge musulmana proteggea loro persone e averi con le medesime sanzioni penali che pei Musulmani860 e ammetteva ogni contrattazione civile tra loro e i Musulmani, anche i lasciti per testamento861. Oltre le condizioni ragionevolmente chiamate essenziali; cioè che non parlassero con irriverenza del Corano, del Profeta, dell'Islâm, non dicessero villania a donne musulmane, non ingiuriassero i soldati, non tentassero far proseliti tra i Musulmani e rispettassero i beni loro862, gli dsimmi andavano sottoposti a tre maniere d'aggravii: di finanza, di polizia civile e di polizia ecclesiastica.

Gli aggravii di finanza addimandavansi gezîa e kharâg; la prima su le persone, il secondo su i beni stabili. La gezîa che suona compensazione, aggiungasi della sicurtà data alle persone e alla roba, era una tassa testatica di quarantotto dirhem all'anno863 su i ricchi, ventiquattro su gli uomini di mezzane facultà, e dodici su i nullatenenti costretti a vivere di lavoro manuale, escluse le donne, i bambini, i frati, gli storpii, i ciechi, i mendici e gli schiavi. Kharâg vuol dire ritratto o rendita. Si levava, come le contribuzioni fondiarie dei tempi nostri, sul fruttato presunto, in ragion composta della estensione del terreno e maniera della cultura: e in alcune province musulmane fu in origine il venti per cento; ma la somma spesso restò invariabile, talchè scemata la rendita, il dazio tornò più grave. La gezîa cessava per conversione all'islamismo. Per contraddizione fiscale, necessaria al mantenimento dello Stato, il kharâg continuava non ostante che il possessore si convertisse, o che il podere passasse in man di Musulmano864.

Ingiuriosi furono e molesti gli statuti di polizia civile. Vietato agli dsimmi di portare armi, montar cavalli, metter selle su' loro asini o muli, fabbricare case più alte o al ragguaglio di quelle dei Musulmani, prendere nomi proprii in uso appo i Musulmani e fin di adoperare suggelli con leggende arabiche. Proibivasi di più che bevessero vino in pubblico, accompagnassero i cadaveri alla sepoltura con pompe funebri e piagnistei; e alle donne loro di entrare nel bagno quando fosservi donne musulmane e rimanervi quando quelle sopravvenissero. E perchè non si dimenticasse in alcuno istante la inferiorità loro, era ingiunto agli dsimmi di tenere un segno su le porte delle case, uno su le vestimenta, usare turbanti d'altra foggia e colore e sopratutto portare una cintura di cuoio o di lana. In strada eran costretti a cedere il passo ai Musulmani; stando in brigata, a levarsi in piè quando entrasse o uscisse uom della schiatta vincitrice865.

Parrà mirabile dopo ciò la tolleranza dei regolamenti di polizia ecclesiastica, che limitavansi a vietare la costruzione di novelle chiese e monasteri, ma non già la restaurazione degli edifizii attuali866. Del rimanente era lecito alle chiese di redare867; liberissimo lo esercizio del culto nei tempii e nelle case; ma si inibiva di far mostra di croci in pubblico, leggere il vangeloalto che lo sentissero i Musulmani, ragionare del Messia con costoro, e suonare furiosamente campane o tabelle868. Non si intrometteano i Musulmani punto poco nelle materie di domma, culto, o disciplina, e proteggeano ugualmente i sudditi cristiani di qualsivoglia setta869.

A condizioni poco diverse il califo Omar aveva accordato l'Amân ai cittadini di Gerusalemme, il quale servì di norma in tutti i tempi, salvo i mutamenti consigliati dalle circostanze o dall'umor dei vincitori. I patti del vassallaggio si osservarono con rigore sotto i governanti duri o bacchettoni, e quando rincrudiva il fanatismo del popolo; si trascurarono più sovente per saviezza e dispregio di chi reggeva, e per la riputazione dei cristiani amministratori delle entrate pubbliche, medici, segretarii, cortigiani, grossi mercatanti, o innalzatisi in qual altro modo sappiano usare lo ingegno e l'astuzia per domare la forza brutale. Gli Ebrei, come ognun sa, e molti ne viveano allora in Sicilia, soggiaceano alle medesime leggi. È bene di notare che quanto ho qui scritto degli dsimmi, quanto dirò degli schiavi, si ritrae dagli esempii d'altri paesi; ma che si dee ritenere prescritto anco in Sicilia, per la medesimità delle circostanze e la uniformità delle costumanze musulmane. Raccoglierò in altro luogo gli attestati risguardanti l'esercizio del culto cristiano in Sicilia, ch'è stato messo in forse per erronei supposti e poca attenzione alle generalità che or ora accennai.

Se dalla condizione degli dsimmi ci volgiamo alle speciali istituzioni civili che fossero rimase loro, son da distinguere le terre abitate da soli cristiani e quelle ove stanziasse con loro qualche colonia musulmana. Nelle prime è probabile che fosse lasciato un avanzo di municipalità: magistrati eletti in qualunque modo dalla popolazione, col tristo carico di riscuotere la gezîa; con le rade cure edilizie che potessero occorrere tra tanta miseria; e di più vegliare su i mercati e amministrare la giustizia civile e penale nelle cause che non toccassero uomini musulmani. La giurisdizione di magistrati cristiani nelle terre di cui ragioniamo non può essere dubbia, quando la si esercitava per certo nelle terre che gli abitavano insieme coi Musulmani.

Queste erano le città o castella di maggiore importanza militare, ovvero economica. In esse credo aboliti i municipii e commesse ad officiali musulmani tutte le parti della polizia urbana. Ma i Cristiani ritennero di certo le corporazioni di mestiere e di quartiere, che per lo più coincideano l'una con l'altra nel medio evo. Così fatte associazioni, che si trovano negli ultimi tempi del dominio romano870, non furono distrutte al certo dagli Arabi, il cui reggimento n'avea d'uopo, e forse le creò laddove mancassero; perocchè la esecuzione delle leggi penali musulmane dipendea dalla responsabilità reciproca dei membri delle tribù o consorterie. A togliere ogni dubbio, è detto espressamente negli statuti penali che le ammende degli dsimmi debbano pagarsi dai loro 'akila ossiano ascritti alla medesima consorteria, e si vieta ai Musulmani di ascriversi in quelle degli dsimmi871. La istituzione delle consorterie necessariamente portava seco scelta di capi, vigilanza di costoro a prevenire i delitti la cui pena sarebbe ricaduta su la comunità; e infine, esercizio di giurisdizione civile affidata sia ai capi stessi, sia ad altri magistrati cui designasse la corporazione. A ciò conduceva il principio del compromesso, o vogliam dire giudizio per arbitri scelti dalle parti: giurisdizione unica degli antichi Arabi, come d'ogni popolo barbaro, accettata dai Musulmani, come da ogni popolo più civile872, e necessaria agli dsimmi che non avean comuni coi vincitori religione, costumi, ordini sociali, , per parecchi secoli, il linguaggio. E che tale giurisdizione volontaria fosse stata esercitata assai largamente, lo mostra un capitolo delle istituzioni musulmane relativo ai giudizii delle liti tra gli dsimmi; nelle quali era lasciato ad elezione delle parti di adire il giudice cristiano, ovvero il magistrato musulmano, il quale poi decidea secondo le proprie leggi873. Durano tuttavia così fatti ordini nelle popolazioni cristiane d'Oriente, ove la giurisdizione conciliativa e correzionale è attribuita per lo più alla gerarchia ecclesiastica, e la si estende molto più che negli stati cristiani, per ripugnanza della gente a richiedere il magistrato musulmano, e per timore delle molestie ed estorsioni di quello874.

Venendo agli uomini di condizione servile, noi lasceremo indietro que' che viveano nella società cristiana sotto l'antico giogo delle leggi romane; se non che dovea mitigarsi lor sorte nelle città independenti e tributarie, per paura che i servi e coloni non si emancipassero rinnegando la fede, e nelle popolazioni vassalle, per lo esempio dei signori musulmani. Appo costoro la schiavitù ebbe origine di tre maniere diverse: uomini liberi presi in guerra; uomini venduti da altri Musulmani o Cristiani che li avessero tolto d'altri paesi per violenza o frode; e in ultimo, com'e' non parmi dubbio, servi della gleba passati in proprietà dei Musulmani insieme coi poderi. L'origine non portava divario nella condizione. I Musulmani chiamavanli indistintamente rekîk, che vuoi dire "minuto o sottile" e memlûk, cioè "posseduto875:" orribile parola; ma il fatto era più mite; la legge tenea gli schiavi come cose più tosto che persone. Se Gregorio il grande meritò bene della umanità pei liberali precetti, non accompagnati sempre dallo esempio, a favor degli schiavi, Maometto va lodato sopra di lui per avere, venti anni appresso la morte di San Gregorio, migliorato assai più la condizione di coteste vittime della forza e dell'avarizia. Non potendo, come già il notammo876, cassare d'un tratto la schiavitù, fece opera ad alleggerirla ed abbreviarla. Ora in nome dell'Eterno comandava di usare carità agli schiavi come ai figliuoli, congiunti, orfanelli, mendici e viandanti877, e insinuava di dar loro abilità a riscattarsi col frutto del proprio lavoro878. Or ponea l'emancipazione d'uno schiavo ad ammenda di omicidio scusabile879, voto infranto, o ritrattazione di divorzio precipitoso880; rendea libera di dritto la schiava che avesse partorito un figliuolo al suo signore881, e chiamava reo di morte il padrone omicida del proprio schiavo882; comechè egli non abbia sempre fatto osservare questa legge e che la logica dei giuristi l'abbia del tutto annullato883. Tanto pure avanzò di quei caritatevoli insegnamenti, che lo schiavo, secondo legge musulmana, non può andar messo in catene884; e che la emancipazione, accordata volentieri dai generosi, carpita quasi dalla legge agli animi duri e taccagni, si effettuava a capo di parecchi anni di servigio; sopratutto venendo a morte il padrone, e fattosi musulmano lo schiavo885. Superfluo parmi d'avvertire che la schiavitù sotto gli Arabi inciviliti del nono secolo, non va punto rassomigliata a quella appo i pirati barbareschi, vergogna dell'Europa infino ai principii del secol nostro. Potrebbe per avventura farsi il ragguaglio con gli Stati cattolici e feudali del medio evo e con le due nazioni più giovani del mondo, cristiane entrambe e modello l'una di dispotismo, l'altra di libertà: e la bilancia penderebbe sempre a favor degli Arabi.

La somma è che la schiatta vinta in Sicilia vivea meno aggravata sotto i Musulmani, che le popolazioni italiche di terraferma sotto i Longobardi e i Franchi. L'ostacolo della diversa religione dovea scemare ogni per le apostasie dei vassalli, e assai più degli uomini di condizione servile, i quali per conseguire libertà si rifuggissero appo i Musulmani dalle città independenti o tributarie; ovvero, se schiavi di Musulmani, abbandonassero la fede dei padri loro per le sollecitazioni dei nuovi signori, la certezza di più umani trattamenti, la speranza dell'emancipazione e la lontananza dai correligionarii. La distribuzione geografica delle quattro classi della gente cristiana nel nono secolo, non mi par difficile a ritrovare. Il Val di Mazara, sede delle colonie musulmane, era pieno di schiavi e vassalli; e cotesti ultimi soggiornavano in città e terre insieme coi Musulmani, più tosto che soli886. Al contrario gli abitatori del Val di Noto, per un secolo in circa dalla metà del nono alla metà del decimo, sembran tutti cristiani, e le città loro più tostò vassalle che tributarie887. Tutte le città independenti, come già il dicemmo, e alcuna tributaria, eran ristrette in Val Demone.

Dall'ordine politico e sociale or ci volgeremo alle vicende intellettuali e morali. Avremo a scorta le memorie ecclesiastiche: unici annali dell'uman pensiero, nei tempi che il pensiero, incatenato dalla religione, in ciò solamente si esercitò che piacesse alla Chiesa; e i pochi frutti che produsse andaron a beneficio e nome di quella, com'avvien che il servo si affatichi sempre a comodo del padrone. La unità di cotesta forza motrice della società bizantina di Sicilia ci porta a seguire l'ordine cronologico, più tosto che la distinzione per materie, come sarebbero opinioni religiose, passioni pubbliche, lettere, costumi. E piacerà fors'anco al lettore a guardare, in vece di circoli ideologici, i ritratti degli uomini notabili del tempo, bene o mal dipinti che fossero.

Della storia ecclesiastica propriamente detta, ci basterà ricordare le due vicende principali; cioè la restaurazione delle Immagini e lo scisma di Fozio. L'una accrebbe potenza al clero non meno che agli imperatori, sendo stato il popol di Sicilia tenacissimo in quel culto. Lo scisma di Fozio, lite nazionale più tosto che religiosa, tra Roma e Costantinopoli, non portò scosse nell'isola, ove il papa era già caduto in obblio. Perocchè nell'ottavo secolo, senza contrasto rincrescimento dei popoli, s'era consumata la scissione della Chiesa Siciliana dalla sede di Roma888. Ubbidì la Sicilia allora al Patriarca di Costantinopoli. I vescovi di Siracusa e Catania ottennero grado di metropolitani; il secondo senza suffraganei; il primo preposto a tutte le sedi da Catania in fuori: cioè Taormina, Messina, Cefalù, Termini, Palermo, Trapani, Lilibeo, Triocala, Girgenti, Tindaro, Lentini, Alesa, Malta e Lipari889. Dopo il conquisto musulmano distrutta alcuna città, altra fatta stanza dei Musulmani, parecchi vescovadi caddero, o ne rimase il nome solo, non sappiam quali, in quali anni; perocchè in vano si cercherebbero le vestigia di cotesti mutamenti nelle copie diverse del catalogo attribuito a Leone il Sapiente. Pure il fatto è certo, perchè necessario, e perchè le soscrizioni dei vescovi siciliani scompariscono a poco a poco dagli atti dei concilii; non si parla più di loro nelle croniche; e il solo di cui si abbia memoria, verso la fine dell'undecimo secolo, è quel di Palermo, chiamato arcivescovo; del qual cenno noi tratteremo a suo luogo.

Aprendo i volumi delle agiografie siciliane reca maraviglia lo scarsissimo numero dei martiri dell'epoca musulmana. A spiegar ciò non basta la dimenticanza che necessariamente seguì nel decimo e undecimo secolo, quando la più parte della popolazione confessava un Dio solo e Maometto apostol di lui. Sendo rimasi tuttavia molti Cristiani in Sicilia, e surti in Calabria novelli monasteri ove riparavano frati siciliani, è manifesto che la tradizione non potea perire. Martiri da un'altra mano non ne mancavano. Migliaia di combattenti, fatti prigioni e proposta loro talvolta, a rigor del dritto di guerra, l'alternativa tra l'apostasia e la morte, eleggeano francamente la morte; come fecero sempre e in ogni luogo i soldati dell'impero bizantino. Ma il clero non volea santi laici, molto meno soldati; e di certo mandava all'inferno quei martiri che innanzi non fossero stati bacchettoni. De' suoi, il clero non ne forniva; perdonandosi per legge musulmana la vita ai preti e ai frati fuorchè se avessero combattuto: il che non avveniva giammai nella Chiesa Greca. Perciò sì poche le vittime cui il martirio desse titolo di santità. Si noverano tra quelle, nel primo impeto del conquisto, San Filareto e altri frati di che facemmo ricordo nell'assedio di Palermo (831): e furon presi fuggendo.

Contemporaneo di San Filareto un grande oratore sacro, Teofane Cerameo arcivescovo di Taormina: che sembra onoranza personale, se pure negli sconvolgimenti ecclesiastici e politici di quel tempo la dignità metropolitana non fu accordata e tosto ritolta alla detta sede. Di Teofane Cerameo si ha notizia per un'ampia raccolta di omelie greche, delle quali ci avanzano da quaranta esemplari890, la più parte col nome di lui, altri di Gregorio Cerameo, Giovanni Cerameo, Cerameo soltanto, e infine Filippo, chiamato poi, com'aggiugnesi ne' manoscritti, Filagato, monaco e filosofo891. Ostinandosi a riferire tutte le omelie a un medesimo autore, gli eruditi che le studiavano, disputarono vanamente su l'età in cui fosse vivuto. Lo Scorso, gesuita siciliano il quale pubblicò per lo primo a Parigi (1644) il testo e la versione latina di sessantadue omelie, le volle tirar su tutte al nono secolo; e infelicemente cavillò per adattare a quei tempi le vestigia del duodecimo secolo che si toccan con mano in alcune di coteste omelie892. Il dotto Guglielmo Cave, al contrario, opinò che la raccolta appartenesse al secolo undecimo, e dovea dire duodecimo893. Ha sostenuto questa medesima sentenza il sacerdote Niccolò Buscemi da Palermo (1832) illustrando la materia con le notizie di altri manoscritti, tra i quali uno di Madrid, che contiene altre ventinove omelie inedite, e che fu rubato probabilmente alla Sicilia894. Ma per vero si debbono riconoscere, come il pensò quel savio monsignor Di Giovanni895, almen due autori; l'uno dei quali visse di certo nel nono secolo, l'altro di certo nel duodecimo. La prova del primo assunto si vedrà or ora. Quella del secondo è che cinque orazioni896, come leggesi in alcuni codici, furono recitate «nel palagio di Palermo, in Palermo dinanzi il re, nel monastero del Salvatore di Messina897 nella chiesa di Santo Stefano in Palermo e sul pulpito della chiesa metropolitana della stessa città.» A togliere il dubbio che il predicatore moderno le avesse rubato tutte all'antico, una di coteste orazioni contiene lo elogio funebre del primo cantore del detto monastero del Salvatore898; e un'altra la più precisa descrizione che far si possa della cappella palatina di Palermo, coi mosaici e i marmi di che la arricchirono i principi normanni899. Par che cotesto oratore sia appunto Filagato del quale dicemmo: e può supporsi ch'egli abbia aggiunto del suo qua e ; composto qualche omelia; tolto di peso le altre da antichi codici; e spacciato tutto per roba propria. Altri probabilmente replicò il plagio, e così andrebbe spiegata la diversità dei nomi d'autori, che s'incontrano nei varii manoscritti900. Quanto alle omelie che non portanchiara la divisa della età, molte sembrano da attribuirsi all'autore del nono secolo901.

Senza avvilupparci in oziose questioni, chiameremo costui Teofane, soprannominato Cerameo dalla patria o dal casato. Ei passò, come pare, da un monastero al seggio vescovile di Taormina; ed affrontando l'ira del governo iconoclasta, fu bandito dalla diocesi; come lo mostra il caldo esordio d'una omelia recitata dal pulpito di Taormina902. «Avea durato, ei dicea, lungi dai suoi figliuoli in Cristo, la tirannide d'un amor violento; avea bramato di rivederli come il terreno arso e screpolato brama la pioggia: e dileguinsi, ei continuava, le rughe delle nostre fronti, poichè ci è dato di tornar tutti insieme a venerare questa effigie di Maria non dipinta da man d'uomo903.» Non guari dopo, quel stesso che si festeggiò per tutto lo impero la restaurazione delle Immagini (842), Teofane esponea con dire vibrato e conciso la storia degli Iconoclasti. Certi maghi ebrei vaticinarono la futura grandezza a Leone Isaurico; e lo spinsero a dar principio all'eresia. Serpente nato di un dragone, succedeva all'Isaurico, nell'impero e nella empietà, Costantino Copronimo: e rincalzava la persecuzione un altro Leone (l'Armeno) indegno della porpora; stigandolo alla mal opra quel falso abbate, che solea rintanarsi in un casolare, e uscir come pipistrello su l'imbrunire del 904. Narra poi il noto fatto di Teodora e del giullare che la scoprì; scansa prudentemente il nome del crudele Teofilo; e ne viene al concilio di Costantinopoli; alle lodi della imperatrice che rendeva alla Chiesa le immagini, quasi tolti ornamenti e segni di gloria; e sì esorta i fedeli a celebrare il fausto evento, abbominando i capi e fautori dell'empietà, venerando e baciando le immagini, non per idolatria, ma per onorare i prototipi di quelle: e conchiude, contro le premesse, con raccomandare a tutti carità, misericordia, penitenza905. La data dell'anno, mese e giorno è scritta quivi a caratteri indelebili. Quella del secolo si trova in due altre omelie, dove l'oratore volgeasi al cielo, pregando aiuto agli ortodossi imperatori contro gli empii figli di Agar, insultatori del culto cristiano906; e in un'altra ove discorre le voluttà dei Gentili, e dei nostri vicini Ismaeliti, ei dice, che si scambian le mogli907.

I dubbii cronologici che abbiam toccato, e la tendenza degli oratori sacri, come dei poeti satirici, ad abbozzare piuttosto caricature che ritratti, ci consigliano a molta circospezione nel dedurre dalle dette omelie i costumi della Sicilia cristiana nel nono secolo. Esagerate sembrano invero le invettive che il nostro oratore lanciava da petto a petto al popolo di Taormina, il festivo di San Pancrazio, primo vescovo, che si supponea, della città. Tornato in fretta di Palermo, Teofane, ancorchè spossato, com'ei dicea, dal viaggio, montava sul pulpito a sfogar sua collera. Ponea per testo le parole del Vangelo: "Son io la porta" (Giovanni, X, 9); e, spiegatele, veniane alla conchiusione, che il clero farebbe opera a non imitare i pastori mercenarii e ladri, ma i fedeli dovessero alsì fuggire l'esempio de' capretti che corrono a precipitar nei dirupi. E passando alle gesta del santo che si festeggiava: «In questa nostra isola, ei dicea, venne Pancrazio, e in questa città di Taormina; sì, città del toro e delle Menadi908, del furore e della mania, in questa terra ove siam dannati a soggiornare.» Poi facendo parola degli idoli Falcone, Lissa e Scamandro abbattuti da San Pancrazio, esortava i cittadini «a metter giù anch'essi i loro idoli, cioè le fiere passioni dell'animo; ad esercitarsi in buone opere; massime quei che il poteano, gli ottimati dell'empia città, ottimati, ei ripigliò, cioè più cospicui nei vizii909.» Il viaggio di Palermo, la perturbazione politica che si può argomentare da quella puntata contro i grandi, accennerebbero ai tempi della rivoluzione d'Eufemio, nei quali regnava Michele il Balbo, correan troppo pericolo gli adoratori delle immagini. Si potrebbe riferire per avventura ai principii del regno di Teofilo un'altra omelia recitata il di San Pantaleone, quando il sacro oratore rampognò gli uditori che venissero alla festa per vendere le merci più che a sentir la parola del Signore; e provocò al certo la potestà temporale, ricordando che Cristo avesse mandato suoi discepoli come pecore tra i lupi, e preveduto che monarchi, caporioni e tiranni sorgerebbero contro la predicazione del vangelo910. Un altro grave sermone tocca particolarmente i costumi privati. Spaventevole siccità travagliava il paese; il suolo non poteva intaccarsi ormai con aratro zappa911. L'oratore, costernato, parlando a gente costernata, descrive diffusamente, e pur con vivezza e forza d'immagini, la pubblica calamità. Commossi gli animi, risalisce, secondo suo mestiere, alla causa di tutti i mali, il peccato. «E questo flagello ne percuote, ei sclamava, perchè ci rodiamo d'invidia; perchè vogliamo superbire contro gl'infimi; godiamo nel mal del prossimo; ne laceriamo l'un l'altro a calunnie; ci abbandoniamo a stolte cupidigie; siam rotti a lussuria912; lupi affamati nell'avere altrui; stizzosi peggio che cameli; senza carità pei poverelli; senza rispetto verso la Chiesa. E i ministri della Chiesa (ei continua nell'impeto dell'orazione) non son essi i primi agli scandali; non si ingiuriano tra loro; non si odiano; non cercan vendetta; non si tendono insidie reciprocamente; e, vedendo il peccato in trionfo, non stan essi mutoli? I laici poi perchè guardan la gobba dei sacerdoti, e non la propria loro? E che! la città è piena di vizii; odo far giuramenti ogni , non ostante ch'io v'abbia ammonito a scansarli913, e vi abbia presagito la collera del cielo: qual maraviglia dunque che vi si apparecchi tal mèsse e tal vendemmia, e che Iddio gastighi tutti per le peccata dei pochi, e fin gli animali e il terreno per le peccata degli uomini914?» In tutta questa diceria non si trova sillaba che indichi appunto i tempi. Nondimeno quello scrupolo a far giuramenti, quella turbolenza del clero, mi fan pensare al nono secolo più tosto che alla prima metà del duodecimo.

Dello stile di Teofane ho dato esempio negli squarci che precedono. Non parmi carico di ornamenti quanto portava il gusto grosso di quei tempi. Anzi, in generale, la narrazione dei fatti semplice, tersa, impaziente, mi torna a mente il Maurolico, vivuto otto secoli appresso, nato com'e' pare della stessa buona schiatta greca del Valdemone; ma l'oratore sacro di Taormina non potea sempre mantener la sobrietà del geometra e storiografo messinese. Suole intessere le prediche con bel metodo. Dopo breve e leggiadro esordio pone il testo del vangelo; lo spiega nitidamente, e con saviezza rara a quei tempi sviluppa i principii morali più volentieri che sprofondarsi in astrazioni teologiche. Guardinsi dunque le opere di Teofane da qualunque lato si voglia, si dovran tenere come uno dei migliori esempii della eloquenza sacra appo i Greci dei bassi tempi915. Lascio ad altri a indagare se appartenga a Teofane un trattato didattico che si trova manoscritto a Torino; e chi sia l'autore delle altre omelie diverse che possiede, anco manoscritte, la Biblioteca di Vienna col nome di Giovanni Cerameo916.

Nel medesimo tempo altri Siciliani coglieano palme a lor modo, gittandosi, a Costantinopoli, nel centro della mischia contro gl'Iconoclasti. Primeggiò tra loro San Metodio, nato a Siracusa di cospicua famiglia; avviato agli studii di grammatica, storia e rettorica; mandato giovane a corte: ma l'ebbe a noia; e, persuaso da un frate, vestì la cocolla, dato prima ogni suo avere per amor di Dio ai poverelli. Così il puzzo del basso impero facea rifuggire nel chiostro gli animi generosi, che non vi fossero stati spinti già prima da preoccupazioni ascetiche; e la società civile perdea vigore; la religiosa ne prendea troppo, e sfogavalo in vane contese. Metodio pertanto si ricacciò suo malgrado tra i tumulti del mondo. Parlando speditamente, come nato in Sicilia, il greco e il latino, fu mandato una volta a Roma; tornò più caldo di zelo ortodosso e ardire contro la potestà civile; parteggiòfieramente per Niceforo patriarca di Costantinopoli, che, cacciato costui (814), egli fu costretto a ripararsi a Roma; e dimorovvi fino alla morte di Leone l'Armeno (820). Il papa allora l'inviava a nunzio appo Michele il Balbo; e questi, tenendo ribelle il papa e più ribelle Metodio, ch'era nato suddito suo e cadutogli tra le mani, lo fe' vergheggiare crudelmente; poi trasportare in un isolotto detto di Sant'Andrea, o secondo altri Antigono, nel mar di Marmara; chiuderlo in carcere sotterraneo con due condannati per misfatti; un de' quali venne a morte, e il cadavere fu lasciato coi compagni vivi. Dopo sette anni, Teofilo aguzzando il pazzo cervello a comprender non so che scritto, a persuasione di un cortigiano, lo mandò a Metodio; si compiacque della interpretazione; volle appo di il sapiente; gli diè pensione e stanza in corte; e poco appresso gli fe' sentir di nuovo il bastone e la muda, poichè l'ostinato Siciliano ripigliava sotto mano sue argomentazioni a pro del culto delle immagini. Ma liberato per novello ghiribizzo dello imperatore, Metodio, da savio, si messe a disputare con lui in persona; lo scosse; e certo lo stuzzicò in guisa, che Teofilo non sapendo star senza di lui, o temendo che facesse brogli a Costantinopoli917, sel tirava dietro quando egli andava a scapricciarsi alla guerra. È noto come, alla morte di Teofilo, l'imperatrice Teodora, volendo por fine alla eresia, la prima cosa cacciava per violenza il patriarca Giovanni Lecanomante. A lui fu surrogato Metodio, ch'era tenuto capo di parte ortodossa, per la dottrina, la pietà, la fortezza dell'animo, e di certo ancora per quelle pratiche già si sospette a Teofilo. Degnamente esercitò l'autorità patriarcale. Con agevolezza confuse i nemici che l'accusavano di violenza fatta a una donna; alla età sua, macerato e consunto come egli era dal carcere duro degli Iconoclasti918, ove avea perduto i denti e i capelli. Rese poscia gli estremi ufficii ai compagni di persecuzione, facendo opera a tramutare in Costantinopoli i cadaveri di que' ch'eran morti in esilio. E mancò l'anno appresso (847); lasciando fama di santità, e parecchi panegirici, e scritti disciplinari919.

Succedette a Metodio un figliuolo dello imperatore Michele Rangabe, per nome Niceta, detto Ignazio dopo la esaltazione al patriarcato: eunuco molto pio; divenuto inaspettatamente illustre e santo, perchè fu nemico di Fozio. Lo scisma di Fozio il quale covava da secoli, per la rivalità delle Chiese di Roma e di Costantinopoli, divampò per gelosia politica contro i papi, per mene di corte a Costantinopoli: pur egli è vero che la prima scintilla fosse stata gittata da Gregorio Asbesta, vescovo di Siracusa920. Ignazio, contro il consiglio dei suoi più fidati, avea vietato a costui di assistere alla sua consacrazione, come incolpato di non so che trasgressione disciplinare; lievissima al certo, poichè non fu mai specificata921. «Ma chi può spiegar con parole, sclama il biografo di Santo Ignazio, quanti scandali seguitassero da ciò; quanta rabbia di vendetta s'accendesse in petto a quel fier Siciliano922, che trovato Fozio lo mise su e il consagrò923?» Alla dura tempra dell'animo, audace, intollerante, superbo, Gregorio Asbesta congiungea chiaro ingegno, parlare insinuante, gran dottrina, pietà, costumi irreprensibili, e per colmo de' mali, ripiglia il biografo, fu anco buon dipintore924: ed abusonne in certo libello d'accusa, nel quale andò istoriando con sette miniature quel che bramava: il suo nemico, cioè, catturato, deposto, incatenato, messo in gogna, condannato e condotto al supplizio925. Prima che l'arcivescovo siracusano arrivasse a tanta rabbia, il patriarca l'avea fatto deporre in un sinodo (854). Adescato a portare la causa al papa, Gregorio sdegnò assoggettar di nuovo la sede siracusana alla romana onde s'era sciolta926; ovvero non gli bastò di uscir di briga, senza vendicarsi d'Ignazio. Non placato perchè questi or lo venisse piaggiando927, Asbesta diessi a lacerare il suo nome per tutta la città; a far brogli con vescovi e preti malcontenti; e s'aprì la via appo Fozio, primo scudiero dello imperatore, chiarissimo per sangue, ingegno e immensa dottrina, bel parlatore, uom di Stato e gradito al dotto Cesare Barda che reggea l'imperatore e l'impero. Il santo eunuco a questo, per ragguagliar le forze, gittatosi in braccio a papa Benedetto III, fece approvare da Roma la condannagione del vescovo di Siracusa928; il che Fozio e Barda tennero come caso di maestà. La lite s'innasprì per offese private: alfine Ignazio era cacciato dalla sede; rifatto patriarca Fozio; consagrato dal vescovo di Siracusa (858), il quale si avvilì incalzando la persecuzione contro il nemico caduto. Non occorre aggiugnere che il papa e il nuovo patriarca vennero alle prese; che, per trovar pretesto a tanto furore di rivalità mondana, si disputò sulla processione dello Spirito Santo; che Fozio osò deporre il papa (867); che si discese anco ai pettegolezzi: lagnandosi Michele III che papa Niccolò I gli scrivesse in idioma barbarico e scitico, e volea dire il latino; e rimbeccandogli Niccolò ch'era da stolto a rinvilir sì quella lingua, e volersi chiamar tuttavia imperator dei Romani929.

La fortuna subitamente voltò quando Basilio Macedone, per togliersi d'inutile briga (867), redintegrò Ignazio nella sede930: e non mancarono allora cento vescovi, che, adunati in Concilio, condannavano i lor due fratelli, rei di perduta grazia del principe. Quivi Fozio e Gregorio apparvero più grandi che prima, gettando parole di disprezzo in faccia ai vili giudici (29 ottobre 869)931. Dieci anni appresso, mancato Ignazio, esaltato di nuovo Fozio, diè meritamente a Gregorio la sede metropolitana di Nicea; ove tosto morì (878), e la sua memoria fu onorata da un elogio del patriarca di Costantinopoli, che per dottrina superava ogni altr'uomo di quei tempi932. Di sì gran momento furono due Siciliani nelle principali contese ecclesiastiche che si agitarono nel nono secolo tra l'Oriente e l'Occidente: l'una terminata per man di Metodio; l'altra accesa da Gregorio Asbesta.

In entrambe comparve, ma non tra i primi, San Giuseppe, detto l'Innografo, siciliano anch'egli. Nato, non sappiamo in quale città, da un Plotino e un'Agata, riparava coi genitori nel Peloponneso per fuggire la crudeltà dei Musulmani, dice il monaco biografo e forse discepolo di lui; aggiugnendo vaghe frasi di stragi, rapine, cattività, con che i Barbari affliggessero la Sicilia, isola nobilissima per la fama di Dionisio e di San Giuseppe Innografo. Entrò questi in un monastero di Tessalonica a quindici anni: studioso, solitario, taciturno; si straziava d'astinenza; percoteasi il petto con pietre; a usanza dei monachi greci si confessava gran peccatore indegno del sacerdozio, al quale fu assunto, suo malgrado, da un santo, che voleva adoperarlo a muover sedizioni contro gli Iconoclasti933. Mandato dunque per le bisogne della fazione a Roma, cadeva in mano di corsari musulmani, che sel recarono a Creta; e quivi metteasi ad esortare il vescovo contro la eresia; confortava al martirio un compagno di prigione, venuto in procinto di rinnegare la fede cristiana. Egli, dileguatosi prodigiosamente dal carcere, viaggiò per aria a Costantinopoli934. Indi corse in Tessaglia a fondare un monastero in onor di San Bartolomeo, il quale, per rendergli cortesia, gli apparve in sogno; il benedisse e il fe' poeta. E però, conchiude il biografo, i suoi versi rendonosvariata e celeste armonia, calman l'ira, muovono al pianto, e ogni nazione li ha voltato in suo linguaggio: e su, gettate via gli altri poeti e vi basti l'Innografo!

Sciocco quanto si voglia così fatto parlare, la storia può cavarne costrutto. La seconda favola ci attesta come l'Innografo si fosse dato a far versi in età matura, a forza di studio; e come i Greci del nono secolo tanto avessero preso ad imitare gli antichi, che lor era mestieri di rimetter su l'oficio di Apollo e investirne un santo cristiano. Cotesto movimento letterario, reminiscenza di gioventù d'una società decrepita, s'era già manifestato nella prima metà del secolo, come il provano le opere di Teofane Cerameo, la vita di Metodio, l'aneddoto di Teofilo con costui, e l'altro sì noto col matematico Leone fatto poi vescovo di Tessalonica. Par che Teofilo stesso abbia principiato935, e il Cesare Barda compiuto, sotto il regno di Michele Terzo, la istituzione dell'Accademia nel palagio imperiale detto la Magnaura; ove dapprima si dettero lezioni di filosofia e scienze esatte, compresavi la musica936; e, spartiti meglio gli studii o accresciuto il numero dei professori, si lessero filosofia, geometria, astronomia, grammatica greca: sappiamo inoltre che privati avessero preso già ad insegnare l'arte poetica a Costantinopoli, e altri fosse ito ricercando i tesori dell'antica sapienza e letteratura, qua e , pei monasteri della Grecia937. Un grande istorico938 ha attribuito così fatta ristorazione di studii a voglia che avesse la corte bizantina di gareggiare coi califi; ma questa non potea esser la sola, anco la primaria cagione. I movimenti intellettuali sogliono nascere nel popolo: e la lite delle Immagini, che agitava la cristianità da più di un secolo, aveva aguzzato gl'ingegni, come fa ogni grande contesa. Cercavan armi nella filosofia gli Iconoclasti; dalle cui file appunto veggiamo uscire il primo professore della Magnaura. Gli Iconolatri, al contrario, per necessità dello intento loro, si doveano raccomandare alla estetica; sforzarsi a imitare la magic'arte dei classici pagani, il manco male che potessero: per caso è che n'apparivano in Sicilia i primi segni; ma perchè nell'isola più caldamente e forse con minor pericolo si parteggiava. Indi il frate siciliano diessi a coltivare la poesia sacra, tentata al certo innanzi di lui, ma con minore riputazione. Ei si provò a far versi, con un po' d'orecchio in vece d'estro: la lingua greca gli prestò parole pieghevoli e sonore; le idee e i sentimenti suoi, che or ci promuovono il sonno, avean virtù allora di beare gli ascoltatori: e così fece proseliti alle immagini; e lo studio di parte, il pessimo gusto del secolo, forse la novità ch'ei recava in quelle composizioni gli procacciaronogran fama. Teofilo il bandì a Cherson in fondo al Mar Nero. Tornate le immagini sugli altari, il patriarca Ignazio (848) l'ebbe caro e lo deputò alla custodia dei vasi sacri d'una basilica. Dopo la morte del quale, sia per la riputazione letteraria, sia per la scaltrezza, chè ci lodan l'Innografo di leggere ogni pensiero negli occhi altrui, egli divenne intimo, dicon anche consigliere, di Fozio. Ciò nondimeno è entrato nel catalogo dei Santi939.

Poichè ci è occorso di toccare la poesia sacra, parleremo qui di Sergio, frate in un monastero di San Calogero, ch'era probabilmente su la montagna di questo nome presso Sciacca. Abbiam contezza di lui per un lungo inno e un frammento; il testo greco dei quali si trovò nell'antico monastero di San Filippo di Fragalà in Sicilia. L'inno fu recitato il della festa annuale di San Calogero, dinanzi una calca che vi traea di monaci e popolo: e tra gravi pericoli viveano essi al certo, poichè l'autore or innalzava una preghiera a San Calogero che campasse il paese dalle minacce, guasti e assalti dei nemici; or volgeasi alla madre di Cristo per impetrar la riscossa dal giogo degli Ismaeliti, e più volte ei ritornava a quest'argomento. Da ciò parmi che a quel tempo Sciacca fosse città tributaria; nella qual condizione si pativano insieme il giogo e i pericoli. La invocazione che troviamo a pro degli ortodossi imperatori non esclude tal supposto; e ci un barlume per iscoprire l'epoca: i primi dodici anni, credo io, del regno di Michele Terzo (842-854), quando regnava per lui la madre, e molte castella della regione ovSciacca aveano fermato coi Musulmani un patto che infransero di a poco940. Non sappiamo se sia vivuto in questo tempo medesimo Costantino di Sicilia di cui ci avanza un solo epigramma, anco intero941.

Più che cotesti miseri versi d'un'epoca di decadenza, ci premerebbe di ritrovare una cronaca greca, che pare inedita e passò sotto gli occhi di alcuni eruditi del secolo decimosesto; ma poi se n'è perduta la traccia. La quale cronaca, attribuita ad un Giovanni di Sicilia, principiando, al solito, dalla creazione del mondo, correa fino all'anno ottocentoottantasei; onde si suppose che l'autore fosse morto in quel tempo. Forse egli è il Siciliano, o pedagogo siciliano, di cui fanno menzione il Cedreno e Giovanni Scilitze, tra gli scrittori dell'istoria bizantina, anteriori all'undecimo secolo942. Forse è lo stesso Giovanni di Sicilia che comentò l'arte oratoria di Ermogene943. La cronica serbavasi nella Biblioteca Elettorale Palatina, dove par l'abbia veduto il Sylburgius; su la fede del quale e del Possevino, il Vossio registrò Giovanni di Sicilia tra gli storici bizantini, e conghietturò esser passato il MS. dalla Biblioteca Palatina nella Vaticana944. Lo Schoëll, ignoro su qual fondamento, affermò rinvenirsi il MS. nella Biblioteca di Vienna, con una continuazione infino al milledugento ventidue945; ma è lecito crederlo uno sbaglio dell'illustre filologo alemanno, poichè, se nol fosse, e i dotti editori di Bonn avrebbero pubblicato questo MS. nella Bizantina, e lo si troverebbe nel Catalogo di Daniele de Nessel. Rimane dunque il dubbio se il libro siasi perduto; se giaccia dimenticato nella Vaticana; ovvero se sia pubblicato sotto altro nome, per esempio, di Michele Glycas, ch'è è detto slmilmente Siciliano e che fece un magrissimo compendio storico dal principio del mondo all'anno 1118.

Lungi dalla patria e dai pericoli vissero due altri illustri Siciliani, Atanasio vescovo di Modone e Pietro vescovo degli Argivi che scrisse lo elogio funebre di Atanasio. Facendosi a narrare i primi anni della costui vita, Pietro ricorda la Sicilia come figliuolo amorevole ancorchè rettorico: e son le sole parole di carità cittadina che troviamo negli scritti dei preti siciliani del nono secolo. «Prima fu patria d'Atanasio il Cielo, poi Catania e la Sicilia, dice l'oratore; quell'isola famosa di cui potrei lodare il sito, la vastità, la bellezza, il temperamento dell'aere, la salubrità delle acque, i boschi, i folti giardini, la sapienza, prudenza, fortezza e giustizia degli uomini, e potrei noverare tanti illustri personaggi che vi nasceano; ma basti dir di Sant'Agata, la verginella, le cui reliquie rattengono la lava quando precipita dall'Etna. Ma a me non conviensi dilettarmi nelle lodi di patria terrena, poichè Atanasio, invaghito del Cielo, sdegnò quella come luogo d'esilio. Dalle rovine e tramonto della patria spuntò la novella luce di tant'uomo. Le avversità cimentarongli l'animo, come il fuoco affina l'oro, come i turbini di venti e i torrenti straripati mettono a prova la saldezza degli edifizii. Una barbarica genía d'Ismaeliti e Agareni era venuta a punir le nostre prevaricazioni e ostinazione al peccato. Quasi carnefici che vendicassero la divina giustizia, saccheggiarono e guastaron tante cittadi; fecero strazio di borghesi e di contadini; quale uccisero col ferro, qual fecero perire di fame o ne' flutti del mare; altri dettero a perpetue catene di servitù; altri aggravarono di miserie insopportabili; altri sforzarono a fuggire di Sicilia e andar vagando in terra straniera. Tra questi ultimi furono i genitori di Atanasio, i quali, senza mormorar contro Dio, ripararono a Patrasso in Peloponneso, non potendo guardare ad occhi asciutti il gregge di Cristo, la eletta dei Santi e il regio Sacerdozio calpestati dagli empii; non comportare il superbo disprezzo e la irrisione ai nostri maliDopo questo esordio, che ho tradotto scorciandolo alquanto, vien la vita religiosa: come il santo giovanetto entrasse in monastero; come ne fosse fatto superiore; indi esaltato al seggio vescovile di Modone; e quivi risplendesse d'ogni virtù che s'appartenga a pastore d'anime: pio, caritatevole, forte, consolatore degli afflitti, vendicatore degli oppressi. «Questa, sclamava l'oratore, è la verace filosofia, non quella di Socrate;» e poi, dal principio alla fine, andava lodando il vescovo di Modone della virtù che Socrate gli avrebbe insegnato meglio che niun altro: la carità civile senza ubbie religiose. Ma forse spiaceva allora al clero che i filosofi della Magnaura parlassero troppo del sapiente Ateniese. Lo elogio chiudeasi con una lista di miracoli operati alla tomba di Atanasio, ch'era morto, com'e' pare, l'anno ottocento ottantacinque946.

Dal quale scritto ognun vede che l'autore non isfuggì ai difetti letterarii del tempo; le troppe fronde, le declamazioni su luoghi comuni, lo sforzo a simular di fuori il calor d'affetti che mancava nell'animo. Pietro, detto Siculo dalla patria, fuggito come tanti altri nella guerra musulmana, andò a cercare fortuna nei monasteri di Costantinopoli. Basilio Macedone, verso l'ottocento settanta, il mandò a trattare il riscatto dei prigioni a Tefrica, città tra Cesarea e Trebisonda, tra l'Eufrate e il Mar Nero, la quale oggi s'appella corrottamente Divriki; allor era sede principale dei Pauliciani. Questo nome avea preso una setta che stranamente innestava alla semplicità della primitiva Chiesa cristiana, il dualismo dei Manichei: setta allignata in Armenia e altre province dell'Asia Minore; la quale, dopo varie vicende di persecuzione, poco mancò che non fosse sterminata alla ristorazione delle Immagini. Le soldatesche mandate allor da Teodora contro i Pauliciani, vantaronsi di centomila vittime uccise tra col ferro, il fuoco e gli annegamenti; ma gli avanzi del popolo proscritto disperatamente presero le armi; elessero condottieri; collegaronsi coi Musulmani: e in trent'anni di guerre si vendicarono con usura; sì infesti e ridottati nelle finitime provincie dell'impero, che Basilio Macedone esitò ad assalirli. Indi l'ambasceria di Pietro Siculo; il quale non piegò alla pace que' fieri ribelli, ma riebbe da loro i prigioni; scoprì una pratica loro coi Bulgari; ed or disputando coi dottori eretici, or confabulando con gli ortodossi che trovava qua e , in nove mesi che soggiornò a Tefrica, raccolse i materiali di una storia di quella eresia; e la scrisse tantosto, e la dedicò al novello arcivescovo dei Bulgari. Lucidamente spiegovvi i sei punti principali di quella eresia; la origine, la trasformazione delle credenze; ritrasse con critica, ordinò, espose non senz'arte i fatti materiali nati da quegli errori di metafisica: la persecuzione, la ribellione, le guerre. Potrebbe dirsi storia superiore a que' tempi, se non vi si notassero i vizii di forma accennati di sopra, e quel ch'è peggio mille volte, la corruzione del senso morale; la compiacenza teologica con che si narrano i supplizii dei Pauliciani; la irrisione delle vittime947. Pietro, fatto vescovo dopo questa missione, morì, com'e' pare, verso l'ottocento novanta.

Una leggenda tratta dai menologi greci, ma non favolosa al certo, riferisce alla stessa epoca il martirio di quattro Siciliani per nome Giovanni, Andrea Pietro e Antonio; dei quali Andrea e i due ultimi eran padre e figliuoli. Fatti schiavi alla espugnazione di Siracusa; condotti in Affrica al feroce Ibrahîm-ibn-Ahmed, questi educava i due giovanetti nelle discipline musulmane; e, vedendoli capaci e costumati, li adoperava in oficii pubblici: Antonio collettor di tasse948; Pietro tesoriere; il che non è inverosimile. Ma poichè essi serbavano in cuore la fede dei padri loro, il caso o qualche nemico li scoprì. Ibrahim li dannò a morte come apostati: onde furono imprigionati; lacerati a battiture; spezzate loro le ossa; sconciamente mutilati con tanaglie roventi. Il tiranno, tra cotesti supplizii, fa condurre il padre e gli tronca il capo egli stesso. Tratto poi Andrea dal carcere ov'era invecchiato, gli pianta una lancia in petto; e come quegli levava gli occhi al cielo rendendo grazie del martirio, lo finì con un altro colpo e gli spiccò anche il capo. Così fatti particolari, che in altro caso renderebbero assai sospetta la narrazione, la confermano trattandosi d'Ibrahîm. Il suo nome, quel di Basilio principe contemporaneo, la espugnazione di Siracusa, che son citati nella leggenda, tutti le aggiungon fede949.

Di assai maggior momento nella storia i casi di Giovanni Rachetta, detto Sant'Elia il giovane, del quale già abbiam fatto menzione. Nacque di nobil gente a Castrogiovanni, l'anno ottocento ventotto o ventinove950; essendo fanciullo di otto anni, i Cartaginesi, dice la leggenda, irruppero nella città: il qual tempo risponde in vero alla occupazione dei sobborghi di Castrogiovanni (837). I genitori, col fanciullo e l'avanzo di loro facoltà, si rifuggirono in un Castel di Santa Maria; e vissero tranquilli, finchè una notte parve a Giovanni udir voce del Cielo che gli annunziasse cattività e missione di confortare nella fede cristiana i conservi suoi. A dodici anni, segnalandosi già nello studio delle sacre lettere, ed esercitandosi assiduamente nella preghiera, gli si cominciò a squarciare dinanzi agli occhi il velo del futuro: predisse come i nemici farebbero impeto nel castello; come il tale e il tal altro sarebbero uccisi. Ciò sembra raccontato dal Santo, provetto negli anni e professante ormai apertamente la profezia. Forse non era bugia del tutto: forse egli stesso avea creduto, e in parte credea, vedere con altri sensi che i mortali. La immaginativa sua nudrita di spavento dei Musulmani, di terrori religiosi, di calamità sovrastanti e continua intervenzione del Cielo, creò un fantasma, e le parve mandato da Dio; presentì, e le parve ispirazione; e avveratosi talvolta il presentimento, ciò parve irrefragabil prova dell'intuizione profetica. Avventuratosi ai vaticinii, il giovine non potea smettere; fatto uomo maturo li vedea tornare utili a medesimo e ad altrui; alle anime e ai corpi; alla Chiesa e allo impero: e mille esempii gli permetteano d'inorpellare la verità a buon fine, senza interesse; poichè agli uomini non pare interesse privato la vanagloria.

Ciò detto, potrò seguire fil filo la leggenda. Gli abitatori del Castel di Santa Maria, sbigottiti alle parole del fanciullo, traevano a lui; ed egli a riprendere i vizii, a raccomandare penitenza e carità, e che secondo il vangelo si gettasse al foco il tristo legno. Ond'altri meravigliava di tanta saviezza; ma gli stolti e la feccia della plebe voltavan le spalle, dice amaramente il biografo: e parmi naturale che i poveri non abbiano mostrato punto di zelo a difendere un ordine socialeiniquo. Il virtuoso giovanetto incontrò tra i primi le calamità che presagiva. Uscito a diporto dal castello, imbattevasi in una torma di cavalli musulmani; era preso; venduto a un cristiano, forse trafficante di tal merce; e imbarcato sopra un legno musulmano, con altri dugento venti schiavi. Navigando alla volta d'Affrica, liberolli un dromone greco uscito di Siracusa; e Giovanni, che avea predetto anche ciò, fu reso ai parenti. Perdè il padre dopo tre anni. Mentre lo agitavano sentimenti contrarii, la pietà della madre e la brama di peregrinare ad esaltazione della fede, il decreto divino si compì. Fatto prigione in più fiera scorreria dei nemici, fu comperato anco da un cristiano; menato in Affrica; e venduto ad un altro cristiano, ricco mercatante di cuoia; il quale, preso del bello aspetto, modestia e integrità del giovane, gli affidò il maneggio della casa sua.

Lasceremo indietro un episodio tolto di peso dalla storia di Giuseppe il Giusto; non sapendo se pur vi sia di vero, vera usanza, dico, delle cittadine cristiane d'Affrica, Sicilia o Calabria in quel tempo, il rosso e il bianco951 di che si liscia il volto, il ferro952 con che s'arriccia i capelli la moglie del mercatante, ostinata a sedurre Giovanni. Chiaritosi innocente, ei si ricomperò coi frutti del proprio lavoro, ch'è tra i modi di emancipazione già notati secondo legge musulmana; i quali necessariamente veniano in uso tra i vassalli cristiani. Poscia salì in fama appo Cristiani e Musulmani al paro, per miracolose guarigioni di ferite e morbi: il che da molti secoli a questa parte è intervenuto e interviene tuttavia in Oriente a chiunque abbia una tintura di medicina, o almeno astuzia e baldanza. Dell'arte sua, qual che si fosse, il santo usò a far proseliti, credo io, in Egitto. Donde accusato dai barbassori musulmani o piuttosto dal clero giacobita953, corse pericoli: ma il governatore della provincia lo fe' uscir di prigione; ed egli non guari dopo se n'andò a Gerusalemme. Quivi il patriarca lo onorava; gli dava l'abito monastico e con quello il nome di Elia. Soggiornò tre anni in Gerusalemme; visitò il Giordano, il Taborre, il Sinai; venne ad Alessandria, o forse Alessandretta; e accingeasi a passare in Persia; ma le turbolenze nate in quel paese lo costrinsero a sostare ad Antiochia.

La voce divina che gli solea parlare ne' sogni, al dir della leggenda, lo visitò di nuovo in Antiochia, confortandolo a tornare in patria. Fu voce di coscienza in un animo generoso che sapea voltata la fortuna contro i Musulmani in Occidente; ovvero consiglio di qualche agente bizantino; o dello stesso patriarca di Gerusalemme che solea parteggiare per la corte di Roma, intesa allora a riconciliarsi con Basilio Macedone. Elia, vissuto mezzo in Sicilia e mezzo in paesi musulmani, ardente di zelo per la religione, ricordevole dei parenti, e, perchè no? anco della patria, era proprio il caso, nell'apostolato politico che dovea accompagnare le armi di Basilio in Sicilia. Narrammo già954 com'Elia tornasse nell'isola l'ottocento ottanta a riveder la madre; osservare le forze dei Musulmani; incoraggiare il popolo; ed esortare alla battaglia i capitani bizantini. Cammin facendo, avea con breve e dotto parlare955 convertito parecchi Infedeli. Dopo lo sbarco di Nasar presso Palermo, il frate siciliano passava da Reggio o da Palermo a Taormina956, dove dimorato pochi giorni prese seco un giovane di onesta famiglia, cui diè l'abito monastico e il nome di Daniele; e presagita la sconfitta del capitano Barsamio, navigava alla volta del Peloponneso. Il biografo ci narra tuttavia frequentissimi prodigii operati da Elia, e che, ciò non ostante, egli e Daniele, verso l'ottocento ottantuno957 erano tenuti spie a Botranto; imprigionati da un Epinio governatore; e che, liberati per la morte del ribaldo, si proponeano di andare a Roma; ma vietato loro quel viaggio, sostavano a Corfù, albergati e onorati dal vescovo; e infine veniano a fondare un romitaggio nella valle delle Saline, tra il Capo dell'Armi e Pentidattolo in Calabria, a rimpetto di Taormina. Coteste vicende, come altrove il notai, non s'adattano al mero apostolato religioso; e par che Elia da una mano conducesse pratiche contro i Musulmani di Sicilia; dall'altra parteggiasse coi frati che non si acquetavano alla ristorazione di Fozio sul seggio patriarcale, sopratutto dopo la morte di Giovanni Ottavo (882). Elia mandò ad effetto il viaggio di Roma al tempo di Stefano Quinto (885-891), dopo alquanti anni passati in Calabria spargendo odore di santità con guarigioni; vaticinii di scorrerie dei Musulmani; comandare ai venti e alla pioggia; far miracoli anche per ischerzo; e sempre cattar favore nel popolo; costringere a riverenza i grandi. Ritornato ch'ei fu da Roma, predisse ai Reggini il prossimo saccheggio della città (888); e ritrattosi opportunamente a Patrasso, si mostrò di nuovo a Reggio, quando seppe partiti i nemici; e indi tornò al suo romitaggio: ma per fuggire l'aura popolare, come dice il biografo, o piuttosto il pericoloso soggiorno in su lo Stretto di Messina, andò a fondare un monastero in altro luogo, credo io, in un monte tra Seminara e Palmi, detto di Sant'Elia, ov'è tuttavia una chiesa. Viaggiando spesso nella estrema Calabria, esortava per ogni luogo i fedeli a lasciare il vino, le lascivie, le risse, se voleano preservarsi dalle calamità di quella guerra. Gli esempii d'Epaminonda e di Scipione ch'ei talvolta frammetteva ai suoi ammonimenti, mostrano che tenesse la riforma dei costumi non solo come rimedio teologico, ma sì diretto e temporale. Aggiugne la biografia, stentiamo a crederlo, che un Michele capitano d'armata in Calabria, ristorata la disciplina tra i suoi per consiglio di Elia, riportasse vittoria in uno scontro; lieve combattimento, non ricordato nelle cronache.

Io ho voluto sì minutamente raccontare i casi d'Elia da Castrogiovanni, perchè parmi modello dello zelo religioso, solo raggio di virtù che rimaneva in Sicilia. Il genio della schiatta vinta si raffigura tanto meglio in questo frate cittadino, quanto la vita sua durò dai primi assalti dei Musulmani sino al compimento materiale del conquisto, la espugnazione, cioè, di Taormina. Com'ei vi andasse, con che parole e teatrali atteggiamenti avvertisse i cittadini del fato che loro sovrastava, il diremo nel libro terzo, trattando di quella guerra. D'altronde Elia, o il biografo, non imaginarono nulla di nuovo in questo incontro, in cui il santo, al solito, se ne fuggì avanti che arrivassero i nemici. Andò ad Amalfi; tornò in Calabria; operò altri miracoli; favorì un Colombo audace ribelle; lasciò morire il capitano imperiale che gli negava la impunità di Colombo; e la impetrò egli stesso da Leone il Sapiente, a prezzo d'andare a visitare l'imperatore a Costantinopoli. Leone, come ognun sa, avea deposto di nuovo Fozio per far cosa grata a Roma; blandiva e ingrassava il clero per tenersi più tranquillamente la bella Zoe; e il biografo ci afferma che avesse già richiesto il taumaturgo siciliano di pregare per lo Impero, al quale effetto quegli s'era portato a Taormina. Adesso, entrato in nave per soddisfare la novella promessa a Leone, presentì in viaggio che morrebbe di corto; e andò a spirare in un monastero presso Tessalonica, il diciassette agosto958 novecento quattro; comandando che si rendesse il suo corpo al monastero di Calabria, come fu fatto; e aggiuntovi ricchi doni e poderi dal religiosissimo imperatore, dice il biografo. Secondo costui Elia s'appressava agli ottant'anni, il che risponde alla cronologia dei fatti storici che si citano. Convengono altresì a quella età decrepita la eccessiva collera e i capricci che si notano negli ultimi fatti della sua vita959.

Ma i frati contemporanei di Elia, la più parte, preferivano all'attività e ai rischi una sterile pietà. Tra loro si ricorda un San Leoluca da Corleone, non educato, dice la leggenda, alla guerra all'oziosa filosofia; il quale, stanco di pascolare gli armenti nei campi paterni, andava a tosarsi i capelli nel monistero di San Filippo d'Argira; ove ammonito da un vecchio frate delle calamità che sovrastavano alla Sicilia, non le aspettò. Peregrino e mendico fuggissi a Roma; poi fondò un monistero in Calabria: si straziò in cento balzane penitenze ed oficii servili, e morì, dicono gli agiografi, nei primi anni del decimo secolo. Ma l'origine della leggenda è sospetta; e l'autore, facendo menzione di due fughe di Leoluca, alla venuta dei Vandali e poi dei Saraceni, non s'accorse del miracolo grandissimo che fabbricava960.

Taccio di Santa Oliva palermitana, confinata dai parenti a Tunis; dannata a morire tra i tormenti; uscita fresca dall'olio bollente, intatta dal foco; uccisa alfine con la spada da Pagani, Vandali o Musulmani, non si sa: leggendaassurda da non meritare esame961. Dello stesso conio parmi quella di Santa Venera da Gala, ricusante di andare a marito; e uccisa, per dispetto, dai fratelli pagani962. Nondimeno il dotto gesuita autor della raccolta, non volendo lasciar fuori cotesti nomipopolari in Sicilia, e trovando troppo pochi santi nell'epoca musulmana, destramente vi allogò le due donzelle. Così arrivò a noverare una diecina di martiri canonizzati, compresovi San Procopio vescovo di Taormina; la eroica morte del quale è attestata da memorie genuine, e la narreremo nel seguente libro, insieme con lo eccidio di quella città.

Percorse le biografie che abbiamo esposto, e ricercando qual maniera di civiltà avanzasse nella Sicilia cristiana del nono secolo, si troverà la sola religione; e poi si scoprirà che l'era pianta parasita che ingombrava l'albero, gli toglieva i succhi vitali, e invece di quello germogliava. Dell'incivilimento risguarderem solo i due aspetti primarii; cioè la coltura dello intelletto e il legame morale della società. Nel primo aspetto si vede che gli studii ecclesiastici, ristorati nell'isola da San Gregorio, caduti a poco a poco, risorti nella lotta contro gli Iconoclasti, produceano, ultimi frutti, le prediche di Teofane Cerameo, i versi di San Giuseppe Innografo e di Sergio, gli scritti di Teodosio monaco963 e di Pietro Siculo, la cultura onde si armava in sua vendetta Gregorio Asbesta, ed aiutavano alla ristorazione delle lettere nella capitale dell'Impero: ma niun laico s'incontra nella lista; nessuno studio profano. Il legame morale, massimo scopo della religione come pensavano i nostri padri latini, si vede rilasciato e inefficace. Inefficace nei costumi, nei quali si scopre sfrenamento delle passioni brutali e bacchettoneria, che per lo più vanno insieme. Inefficace nei rapporti politici, poichè la più parte della Sicilia spensieratamente piegava il collo ai Musulmani. Io non ho detto che sola causa di tanto infiacchimento fosse stata la religione, o quella che si tenea religione nel basso impero; ma affermo sì che la religione poco o nulla giovò a mantenere lo Stato di cui era solo elemento vitale. E veramente, nelle cronache e leggende dei primi tempi della guerra non v'ha vestigio di difesa nella quale avessero partecipato virilmente i ministri della religione; anzi veggiamo che i santi si affrettavano a fuggire dall'isola. Aiutò solo il sentimento religioso, quando le popolazioni disperate si sollevarono per altre cagioni; quando l'impero bizantino rinvigorito mandò eserciti; quando un nodo di popolazione, respirata l'aria della libertà, prese a mantenerla da stesso: e in questi eventi i preti e i frati ebber sempre parte secondaria; non surse tra loro un Pier l'Eremita un Savonarola. Di tali uomini non nacquero giammai nella società bizantina; la quale per ogni luogo traea sua vecchiezza tra i vizii che testè abbiamo notato nella popolazione cristiana di Sicilia al nono secolo, e che vedemmo in tutta l'isola nei tempi anteriori al conquisto. Qual fosse stata nel medesimo tempo la società musulmana nell'isola, mi ingegnerò a ritrarlo nel Capitolo primo del seguente libro.

 

 

 





846  Erchemperto, cap. LXXIII.



847  Erchemperto, cap. LXXV, LXXVII; Anonimo Salernitano, edizione di Pratilli, cap. CXLVII.



848  Erchemperto, cap. LXXVI; Anonimo Salernitano, edizione di Pratilli, cap. CXLVII.



849  Questo fatto si legge nello Anonimo Salernitano, cap. CLVI, ediz. di Pratilli.



850  Nell'originale "vertrice". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



851  Così penso, perchè al tempo di Edrisi (1154) il Val Demone arrivava a Caronia; il qual confine va attribuito a cagione politica più tosto che a necessità di geografia fisica. Nel XIV secolo il Val Demone fu esteso verso ponente; assegnatogli un confine naturale, cioè l'Imera settentrionale, detto altrimenti Fiume Grande.



852  Veggansi questi ricordi qui appresso p. 468, nota 4.



853  Le autorità citate dal Di Gregorio, Considerazioni su la Storia di Sicilia, lib. II, cap. II, note 24, 25, 26, fanno menzione del Val di Milazzo, Val di Mazara, Val di Noto e Val di Agrigento, oltre il Val Demone. Il Di Gregorio, che non vide chiaro negli ordini anteriori ai Normanni, supponea che la divisione in tante valli «ch'era forse solamente geografica» fosse stata adottata da re Ruggiero come divisione politica. Pochi righi appresso si contraddice, affermando che re Ruggiero istituiva i tre giustizierati di Val Demone, Val di Noto, e Val di Mazara; il che mostrerebbe che le province di Milazzo e Agrigento non fossero entrate nella divisione politica. A me la spiegazione più semplice pare, che la voce vallis debba intendersi nei detti diplomi col significato indistinto di territorio, da potersi adattare a città o distretto o provincia; come appunto la voce arabica iklîm, che probabilmente si leggea nei registri dell'azienda pubblica, e fu tradotta bene o male vallis. Può anche darsi che la divisione in tre province fosse stata adoperata dagli Arabi in alcuni rami di amministrazione, e in altri rami un'altra. Per esempio, nulla toglie che gli iklîm di Milazzo e Agrigento fossero stati due circoscrizioni di beneficii militari, assegnate ciascuna ad un giund.



854  È bene qui ricordare che nella prima metà del XIII secolo, Federigo imperatore tornò alla divisione romana in due province; la quale durò almeno fino alla rivoluzione del Vespro. Poi veggiamo ricomparire i giustizieri delle valli di Milazzo, Castrogiovanni e Demona. (Diploma del 1302, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 410.) Nei principii del XV secolo la Sicilia fu divisa in quattro valli: Demona, Noto, Castrogiovanni, e Girgenti. (Censo feudale del 1408, presso Di Gregorio, Bibliot, Aragon., tomo II, p. 490.) In fine si tornò alle tre valli.



855  La mutazione del nome di Lilibeo in Porto di Ali, fa supporre che quella città fosse stata distrutta al tempo del conquisto musulmano, o forse prima. Le città non abbandonate, assai di rado presero novelli nomi.



856  Theophanes continuatus, lib. V, cap. LVIII, p. 297. Καὶ τὸ ὰπὸ τούτου διέμειναν πιστοι βασιλει̃ τοιοὺτων έξηγούμενοι κάστρων. Questa voce si trova anche nel Nuovo Testamento, Luca, XXII, 28.



857  Il participio presente del verbo διαμένω (permaneo, perduro) al genitivo plurale farebbe τω̃ν διαμενόντων, che l'uso volgare forse contrasse in Ton Demenon.



858  L'arabico welâia significa territorio, giurisdizione o uficio di wâli; e wâli si dice di varii magistrati preposti a province, ovvero a rami speciali di amministrazione pubblica.



859  Ecco in serie cronologica gli scritti ove occorre Demona con le sue varianti, prima come nome di città, poi di provincia:

                I. Anno 902. Assedio e presa di Dimnsac (con la terminazione nel suono che daremmo alla s e alla c unite dinanzi una i, ossia quello della ch in francese e sh in inglese). Veggasi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 92 e 167 verso; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars, il solo ove si legga correttamente. Ibn-el-Athîr, ancorchè vissuto nel XIII secolo, trascriveva in questo passo ricordi derivati dal IX.

                II. Anno 963. Nome di Dimnasc dato a una gola di monti presso Rametta. Veggasi Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 16, correggendo la lezione secondo uno dei MSS. di Parigi. Valga, per l'antichità del ricordo, la stessa avvertenza che feci di sopra per Ibn-el-Athîr.

                III. Verso la fine del decimo secolo, la Biografia di San Luca, abate del monastero di Armento in Calabria, dice costui siciliano di Demena. Presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 96.

                IV. Malaterra, libro II, cap. XII, scrivendo, alla fine dell'undecimo secolo, del secondo sbarco del conte Ruggiero in Sicilia (1060) dice: Hic Christiani in valle Deminæ manentes, sub Saracenis tributarii erant. Presso Caruso, Bibliotheca Historica, tomo I, p. 181, e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p. 539, seg.

                V. Anno 1082. Diploma, del conte Ruggiero, che concede al vescovo di Troina ..... in valle Deminæ castrum quod vocatur Achareth. Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 495.

                VI. Anno 1084. Altro diploma del conte Ruggiero a favor del monastero di Sant'Angelo, de Lisico Tondemenon. Presso Pirro, op. c., p. 1021.

                VII. Anno 1093. Diploma per lo stesso monastero chiamato qui Sancti Angeli de Lisico de valle Dæmanæ. Presso Pirro, l. c.

                VIII. Anno 1096. Diploma, nel quale descrivendo i confini della diocesi di Messina, si dice: ..... usque ad Tauromenium, et respondet ad Messanam, et vadit usque ad Melacium, et respondet ad Demannam, et inde vadit per maritimam usque ad Flumen Tortum, et ascendit per flumen ec. Nello stesso diploma si ricorda la donazione del castellum Alcariæ apud Demennam. Presso Pirro, op. c., p. 383. È evidente che Demenna in entrambi i luoghi citati sia nome di provincia, poichè da Milazzo in poi non si notano più i nomi di città che sarebbero Patti, Caronía e Cefalù, ma sì il confine della provincia, il quale si sa che terminavasi a Caronía.

                IX. Diploma del 1097, per lo quale il conte Ruggiero concedette certi beni al monastero di San Filippo di Demena. Questo diploma è trascritto in uno di Adelasia e del conte Ruggiero Secondo, poi re, dato l'anno 6618 (1110), che il Pirro pubblicò in latino, a p. 1027, con la data erronea del 6628. Niccolò Buscemi ha corretto quella data, stampando il testo greco con una versione italiana, nel Giornale Ecclesiastico per la Sicilia, tomo I (1832), p. 113, seg. Ma il Buscemi stampò male la voce Δε-Μεννα; poichè il tratto d'unione, come lo chiamano gli oltramontani, è segno ortografico ignoto ai Greci, e non si trova punto nell'originale, posseduto dal principe di Trabia; diploma di belli e nitidi caratteri, del quale ho depositato un fac-simile nella Biblioteca imperiale di Parigi.

                X. Anno 1124. Diploma del medesimo Ruggiero Secondo, a favore di detto monastero chiamato Abbatia in valle Dæmanis. Presso Pirro, op. c., p. 1027.

                XI. Anno 1131. Diploma del vescovo di Messina, che assoggetta allo archimandrita di quella città parecchi monasteri greci della diocesi; tra gli altri quello di Sanctum Barbarum in Demeno. Presso Pirro, op. c., p. 974.

                XII. Anno 1134. Diploma di Ruggiero Secondo, su lo stesso argomento. Vi si noverano i monasteri assoggettati all'archimandrita, e tra quelli Sanctum Barbarum de Demenna, e alcuni altri independenti, tra i quali Sanctum Philippum de Demenna. Pirro, op. c., p. 975.

                XIII. Edrisi, che pubblicò la sua famosa opera geografica il 1154, descrivendo la costiera di Sicilia a dritta di Palermo, pervenuto a Caronía, nota che quindi cominciasse la provincia (iklîm) di Dimnasc, come leggiamo nel migliore dei MSS. Edrisi, nella minuta descrizione che fa della Sicilia, non parla di città o castello nominato Dimnasc.

                Confrontando le quali testimonianze, e avvisandomi che nei diplomi notati dal VI al XII si tratti anco della provincia, io credo provata la esistenza di Demana castello infino al decimo secolo, di Demana provincia dall'undecimo in poi; ma parmi assai dubbio che il castello durasse fino all'undecimo secolo, e certo che a metà del duodecimo fosse abbandonato o avesse mutato nome. Quanto al sito del castello non abbiamo argomenti da determinarlo: se non che il nome topografico, che si legge nella descrizione della battaglia di Rametta (963), indizio che Dimnasc si trovasse a ponente di quella città. Forse a quattro o cinque miglia, dove è oggi Monforte: nome di castello registrato da Edrisi, e nato probabilmente dopo il conquisto normanno; nome anco di feudo nei tempi normanni, come leggiamo nel Dizionario Topografico del D'Amico.



860  Hedaya, tomo I, lib. V, cap. I, p. 435; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo VI, p. 3; Kodûri, presso Rosenmuller, Analecta Arabica, § X, p. 3 del testo.



861  In sostanza era l'uno e l'altro, cioè assicurazione delle persone e delle proprietà. Le cronache soglion dare al tributo la prima di queste appellazioni; Mawerdi lo denota con la seconda, nel trattato di dritto pubblico intitolato Ahkâm-Sultanîia, lib. IV, p. 83; Kodûri, op. cit., § XLVI, p. 12, lo chiama gezîa.



862  Ibn-Khaldûn, sezione II, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tomo II, fog. 181 recto. Il tributo annuale di Cipro, secondo Ibn-Khaldûn, sommò a 7000 dinar, quanti l'isola ne solea pagare all'impero bizantino. Le altre condizioni rispondono in parte a quelle imposte agli dsimmi.



863  Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII e XIV, p. 238 e 255, seg.; Hedaya, tomo II, lib. IX, cap. VIII, p. 211; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, p. 95. Secondo Mawerdi, il dritto di proprietà lasciavasi talvolta intero, talvolta si riduceva a mero dominio utile.



864  Hedaya, lib. XLIX, cap. II, e lib. L, nel tomo IV, p. 280 e 332. Nondimeno questo è dei capi lasciati incerti dal Corano e dalla Tradizione, ovvero oscurati dalla logica dei giuristi. Così Mâlek e Sciafe'i combatteano la uguaglianza di pena nei reati contro gli dsimmi, al dire di Beidhawi, Comento del Corano, testo arabo, tomo I, p. 99, sul versetto 175 della sura II. Dovea parere scandaloso, in vero, che l'uccisore d'una donna musulmana pagasse metà dell'ammenda, stabilita in prezzo del sangue di un uomo musulmano, o dsimmi.



865  Hedaya, lib. LII, cap. I, tomo IV, p. 473.



866  Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII, p. 250, chiama coteste condizioni mostahekk, cioè "necessarie," e nota non esser uopo di stipolarsi espressamente. Le altre che seguono son dette da lui mostahebb, ossia "volontarie," e dipendono da patti espressi.



867  In peso di metallo tornerebbe a lire 28, 80.



868  Tratterò largamente questa materia e il diritto di proprietà territoriale nel cap. I del Libro III, abbozzando gli ordini della colonia musulmana di Sicilia.



869  Tra le condizioni che si dicono stipolate coi figliuoli di Witiza, in premio d'avere tradito Rodrigo alla giornata del Guadalete, si legge che andassero esenti dall'obbligo di alzarsi alla entrata o uscita dei Musulmani. Ibn-abi-Fiadh, citato da Ibn-Scebbât, MS. di M. Rousseau, p. 98.



870  Il dritto si stabilì in cotesti termini, non ostante che Omar avesse stipolato, com'egli è indubitabile, il divieto della restaurazione.



871  Su questo diritto veggasi l'Hedaya, lib. LII, cap. VI, tomo IV, p. 534, seg.; e D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, p. 120, seg. È inutile aggiungere che in oggi tutte le Chiese cristiane in Oriente posseggono beni.



872  Ho compilato questa esposizione su le autorità seguenti: Accordo di Omar coi Cristiani di Siria, secondo Ibn-Khaldûn, sezione IV, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tomo IV, fog. 181 recto, seg.; Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII, p.250, seg.; Kodûri e Sîdi-Ali-Hamdâni, testi arabi pubblicati dal Rosenmuller, Analecta Arabica, p. 13, seg., il primo, e 20, seg., il secondo; Statuti promulgati in Egitto l'anno 700 (1300), secondo Ibn-Khaldûn, l. c.; Fetwa (ossia avviso legale), di Ibn-Nakkâsc (scritto Naqquâch), dottore, morto al Cairo il 1362. Una versione francese di questo fetwa è stata pubblicata da M. Belin nel Journal Asiatique, série IV, tomo XVIII, p. 417, seg., (1851), e tomo XIX, p. 97, seg., (1852); Hedaya, lib. IX, cap. VIII, tomo II, p. 211, seg.; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, p. 104, seg. Ho tolto via le condizioni di poco momento, e quelle che mi sembravano dipendenti da circostanze locali.

                Correndo tante copie diverse dello accordo di Omar, ch'è tipo di tutti gli altri, parmi bene fare un sunto esatto del testo che ne Ibn-Khaldûn nel luogo citato, il quale mi sembra più compiuto di quanti se ne leggono qua e , non escluso il testo di Kodûri. Lo credo altresì degno di attenzione per la bizzarra forma diplomatica, e perchè vi si trova il nome dei Cristiani di Egitto oltre quei di Gerusalemme e la assimilazione degli ortodossi agli scismatici.

                «Questo è uno scritto indirizzato al Servo di Dio Omar dai Cristiani di Siria e d'Egitto. Quando veniste a noi, vi chiedemmo l'amân per le nostre persone, figliuoli, beni e gente di nostra religione; onde stipulammo di non fabbricare nelle nostre città o nei dintorni alcun novello monastero, chiesa, romitaggio, riparare quelli che andassero in rovina nelle strade abitate da Musulmani. Stipulammo di più di lasciar entrare in quegli edifizii i capi e i viandanti, e dar ospizio e vitto per tre ad ogni Musulmano che ce ne richiedesse. Inoltre abbiamo pattuito di astenerci dalle cose seguenti:

                Dare ricetto nelle chiese e case a spie che venissero ad esplorare le faccende dei Musulmani;

                Leggere il Corano ai nostri figliuoli;

                Promuovere la nostra religione facendo proseliti;

                Attraversare i nostri parenti che volessero farsi Musulmani.

                Di più, permetteremo ai Musulmani di sedersi nelle nostre brigate; e alla entrata loro ci leveremo in piè

                Non imiteremo lor fogge di vestimento, berretti e turbanti.

                Non piglieremo lor nomi soprannomi.

                Non monteremo a cavallo con sella.

                Non cingeremo spada altre armi.

                Non terremo suggelli con leggende arabiche.

                Raderemo i capelli su la fronte.

                Riterremo le nostre attuali fogge di vestire, ove il potremo.

                Cingeremo ai fianchi il zunnar (cintura di cuoio).

                Non mostreremo le croci.

                Non apriremo fogne nelle strade o mercati dei Musulmani.

                Non suoneremo le tabelle in alcuna città abitata da Musulmani.

                Non usciremo coi nostri doppieri, i nostri taghût (idoli).

                Non faremo piagnistei pei morti.

                Non li porremo presso i Musulmani.

                Non accenderemo fuochi nelle strade o mercati di Musulmani.

                Non prenderemo appo di noi gli schiavi appartenenti a Musulmani.

                Non cercheremo di guardare entro le case dei Musulmani.

                Non inalzeremo le nostre (più delle loro).»



873 Omar, lette tali proposizioni, aggiunse: che non battessero alcun Musulmano; che stipulassero per e loro correligionarii (solidariamente); e che, accettato l'amân a cotesti patti, chiunque li trasgredisse, non fosse più tenuto come dsimmi, rimanendo fuor della legge. Di più, estese l'amân ai dissidenti (cristiani), e scrissevi: «Omar accorda quanto chieggono.»]



874  Veggansi l'amân di Omar in fine della nota precedente, e il passo di Mawerdi qui appresso, p. 481, nota 1.



875  Veggasi Depping, Histoire du Commerce, etc., tomo II, cap. VII.



876  Hedaya, lib. LI, tomo IV, p. 459.



877  D'Ohsson, Tableau général etc., tomo V; Hamilton, Prefazione all'Hedaya, tomo I, p. XXXIV.



878  «E quand'essi facciano scisma in religione, o contendano su loro ortodossia, non siano molestati costretti a palesare qual credenza tenessero. Nelle cause loro, se adiscano loro hâkim (magistrato in generale) non ne siano impediti; ma se richieggano il nostro hâkim, questi giudichi secondo ragion musulmana, e gli accusati subiscano le pene che fossero per meritare. Chi poi abbia violato il patto (di vassallaggio), ne soffra le conseguenze, e sia tenuto come nemico.» Così Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII, p. 252.



879  La giurisdizione dei consoli europei in Oriente è fondata su lo stesso principio del compromesso. L'hanno convalidato ed esteso i trattati; nel medio evo, per interesse commerciale; poscia, per necessità politica dei principi musulmani.



880  La voce 'abd, che si adopera in senso mistico, come sarebbe Abd-Allah (servo di Dio), e che nel Corano designa anche gli schiavi, fu poi ristretta dall'uso ai Negri. I Bianchi, oltre le due denominazioni che ho dato, si chiamavano talvolta gholâm, che propriamente significa "garzone."



881  Libro I, cap. III, p. 63.



882  Corano, sura IV, verso 40.



883  Corano, sura XXIV, verso 33.



884  Hedaya, libro XLIX, cap. I, tomo IV, p. 277.



885  Hedaya, lib. IV, cap. VII, e lib. VI, cap. III, tomo I, p. 332 e 500.



886  Hedaya, lib. V, cap. VII, tomo I, p. 478, seg.



887  Mishcat-ul-Masabih, lib. XIV, cap. I, tomo II, p. 163.



888  Veggansi l'Hedaya, lib. XLIX[**Nell'originale "XLXIII"], cap. II, tomo IV, p. 279 e 283; e Beidhawi, Comento del Corano, testo arabico, tomo I, p. 99, sul verso 173 della sura II, ove si legge che Maometto una volta fe' vergheggiare e bandì per un anno un Musulmano uccisore del proprio schiavo. La ragione non spiegata dai giuristi musulmani, mi sembra pur evidente. La legge non ammetteva azione pubblica per l'omicidio; e l'azione privata, nel caso d'uno schiavo ucciso dal padrone, apparteneva allo stesso omicida.



889  Hedaya, lib. XLIV, tomo IV, p. 126; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, lib. III, tomo IV, p. 276.



890  Veggasi D'Ohsson, op. c., lib. VI, tomo VI, p. 58; e su i varii modi e gradi dell'emancipazione tutto il libro V dell'Hedaya, tomo I, p. 419, seg.



891  Nella guerra civile del 938, si vede avvolto un gran numero di città o castella del Val di Mazara. Indi è probabile che in ciascuna stanziassero colonie musulmane, almen da una o due generazioni.



892  Dall'867 in poi non si leggono scorrerie dei Musulmani in Val di Noto, fuorchè nel territorio di Siracusa; e ciò porta a supporre la condizione di vassallaggio, parendo difficile che città tributarie non avessero tentato di spezzare il freno. Nelle guerre civili della prima metà del decimo secolo non è nominata alcuna città del Val di Noto; ma nella guerra civile del 969 si parla della regione di Siracusa.



893  S'ignora la data, che in vero non potè essere precisa. L'Assemani, Italicæ Historiæ Scriptores, tomo III, p. 475, la riferisce al 737.



894  Non ricorderò le opinioni messe fuori dal Pirro, Disquisitio de Patriarca Siciliæ, nella Sicilia Sacra, p. LXXV, seg., e da parecchi altri eruditi palermitani, messinesi e di varie città, che rabbiosamente e puerilmente si azzuffavano a proposito dei sognati metropolitani dell'isola avanti l'VIII secolo. Veggasi bene il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissertazione II, p. 413, seg. L'autore fu indegnamente perseguitato, perchè dimostrò un fatto storico: ma oggi nella Chiesa Siciliana non vi ha chi dissenta da lui.

                Il catalogo delle Chiese siciliane e il grado dei metropolitani si ritraggono dall'editto degli imperatori bizantini, noto agli eruditi sotto il titolo di Dispositio, e attribuito a Leone il Sapiente, ma di certo pubblicato con vario tenore in varii tempi, dall'VIII al XIII secolo. Io ho messo insieme i nomi che si trovano in due esemplari, probabilmente l'uno del principio, e l'altro della fine del IX secolo, dei quali uno si legge presso il Di Giovanni, op. c., diploma CCXCII, p. 341, e presso l'Assemani, op. c., tomo III, p. 490, e il secondo nello stesso volume dell'Assemani, p. 493. L'ordine delle città, con poche eccezioni, è nel primo diploma quello che incontrerebbe chi girasse la costiera di Sicilia uscendo da Siracusa per a mezzogiorno; e nel secondo diploma, al contrario, di chi movesse per a settentrione. Nel primo, inoltre, manca Lentini, e Triocala è detta Cronio; nel secondo non si leggono Lipari, Trapani, e Catania va tra i suffraganei di Siracusa. Le varianti di altri esemplari, tratte da moltissimi codici della Vaticana, si leggono presso l'Assemani, op. c. p. 475 a 531.

                Sono apocrife le notizie dei metropolitani di Messina e di Palermo nell'ottavo e nono secolo, com'è provato dall'Assemani, l. c., p. 497 seg., e dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, p. 399.

                Il titolo di arcivescovo di Taormina, dato in alcuni MSS. di omelie a Teofane Cerameo, come si dirà in questo medesimo capitolo, non basta a dimostrare che quella sede fosse stata metropolitana.]



895  Il Buscemi, nel lavoro di cui or ora si dirà, novera 34 MSS. in alcune Biblioteche d'Europa. Non mi par ch'egli abbia notato tutti quelli della Biblioteca imperiale di Parigi, che sono i seguenti: Ancien Fonds 572, 760, 772, 1021, 1183, 1184, 1185, 1185 A, 1206, 1207; Supplément grec, ni 34 e 371 del catalogo MS. di M. Hase, e 277 della Bibliotheca Coisliniana. Nessuno di questi MSS. è più antico del XIII secolo. Molti non contengono che una sola omelia. Aggiungansi i codici della Biblioteca di Vienna, notati nel Catalogo di Nessel, parte 1, p. 163, 276, 360, 386, ni 82, 189, 257 e 279.



896  Filosofo, era titolo di oficio ecclesiastico, al par che cantore. Si trova nei diplomi delle Chiese Siciliane del XII e XIII secolo.



897  Sapientissimi et eloquentissimi Theophanis Ceramei, Archiepiscopi Tauromenitani, Homiliæ etc., Lutetiæ Parisiorum 1644, in-folio, greco e latino. Il Baronio, il Gaetani e altri eruditi avean dato alcuna di coteste omelie, e alcun'altra era tradotta, ma non pubblicata, quando lo Scorso, col favore di parecchi MSS., corresse e compiè la versione, e la diè alla luce insieme col testo. Le premesse una gonfia dedica alla città di Taormina; una confusa dissertazione biografica e critica; e sparse molta inutile erudizione nelle note.



898  Cave, Scriptorum Eccles. Historia Litteraria, tomo II, p. 132. La data del 1040, che l'autore assegna a re Ruggiero, è sbagliata d'un secolo.



899  Il Buscemi morì giovane or son pochi anni, dopo avere pubblicato una biografia di Giovanni di Procida e molte dissertazioni, illustrazioni di diplomi, e articoli di giornali, aggirandosi sempre sulla storia di Sicilia del medio evo. Ricercatore infaticabile, esperto a diciferare manoscritti, erudito nelle cose sacre; ma ellenista così così, critico alla grossa, faccendiere, parteggiante, e però di rado imparziale, il Buscemi recò pur molto giovamento agli studii storici in Sicilia, se non altro perchè rimestava i materiali.

                Il suo lavoro su Teofane Cerameo, pubblicato nel Giornale Ecclesiastico di Sicilia, Palermo 1832, n'empie le prime 48 pagine. Contiene accurate notizie bibliografiche e un indice alfabetico dei principii delle omelie, ove sono messe insieme le pubblicate dallo Scorso e le manoscritte di Madrid, secondo il catalogo d'Iriarte. Del rimanente, il Buscemi non mostra buona critica gusto in questa monografia. Son lieto d'intendere che Pietro Matranga, dotto ellenista siciliano e Scrittore della Vaticana, abbia preso a fare ricerche e studii su le Omelie di Teofane Cerameo. Così possiamo sperare su questo argomento un lavoro profondo e compiuto.



900  Codex Siciliæ Diplomaticus, p. 316 e 410. Il Di Giovanni bene avvisò che il Teofane monaco, al quale si vede indirizzata una epistola di Fozio, non poteva essere l'arcivescovo di Taormina. Ma troppo facilmente ei suppone due arcivescovi di Taormina, Teofane e Gregorio, vissuti l'un prima e l'altro dopo il conquisto musulmano.



901  Quelle notate dallo Scorso coi ni 55, 26 e 6, e le inedite del MS. di Madrid, ni 36 e 67.



902  Fu fondato il 1094.



903  La 6a della edizione di Scorso. Il titolo di cantore si legge nel MS. di Madrid.



904  La 55a della edizione di Scorso.



905  Il Buscemi immaginò che Teofane avesse mutato nome quattro o cinque volte, e portato successivamente tutti quelli che si leggono nei MSS. La usanza di prendere altro nome insieme con l'abito di frate, è notissima; ma basta solo a spiegare il primo cangiamento.



906  Secondo me, tutte quelle di cui si legge nel MS. di Madrid "Recitata dal pulpito dell'arcivescovado," che sono ventisei pubblicate, e tre inedite. E ciò perchè somigliante avvertenza è fatta per alcune delle omelie appartenenti senza dubbio al IX secolo. Non saprei far conghiettura su l'epoca di molte altre. In alcune si legge soltanto la festa in cui furono recitate; in altre, il nome della chiesa e non della città. La inedita del MS. di Madrid, 79, fu recitata a Reggio. La 51a della edizione dello Scorso fa cenno d'un Musulmano che avesse durato una tempesta insieme con l'autore nello stretto di Messina; ma così fatto accompagnamento potea avvenire nel IX, come nel XII secolo.



907  Omelia 11a nella edizione dello Scorso. Quella del MS. di Madrid, 40, ha la postilla: "Recitata dal pulpito dell'arcivescovado al ritorno in Sicilia."



908  Αχειρότευκτον. Forse si tenea venuta dal cielo; reliquia da rivaleggiare con la lettera della Madonna ai Messinesi.



909  Accenna a Sabbatio, il cui nome troviamo presso gli scrittori bizantini. Tenea costui lo stesso romitaggio di un altro furbo che avea presagito lo impero a Leone l'Armeno. Consultato di nuovo l'oracolo da messaggi di Leone già fatto imperatore, Sabbatio gli mandò a dir villania, e che non sperasse nulla di bene, fin tanto che adorasse gli Idoli. Leone allora volle andare travestito a parlargli; e Sabbatio, che n'avea avuto avviso da un cortigiano, gliene sciorinò tante più; si fece credere ispirato, ec. Veggansi Theophanes continuatus, lib. I, cap. XV e XVI; Symeon Magister, De Leone Armeno, cap. III.



910  Omelia 20a, nella edizione di Scorso. L'oratore qui fa menzione della effigie di Maria dipinta da San Luca con la cera e i colori, che si conservava tuttavia in Costantinopoli; p. 129. Il Baronio, Annales Ecclesiastici, anno 842, diè uno squarcio di questa omelia.



911  Omelia 6a, p. 26, e omelia 40a, p. 288. Nella prima, il MS. di Madrid nota essere stata recitata dal pulpito arcivescovile. Quivi la invocazione è per gli imperatori al plurale; e nella seconda, al singolare: sembrano dunque composte, l'una avanti, e l'altra dopo l'854.



912  Omelia 13a della edizione di Scorso, p. 80. Al tempo di re Ruggiero v'erano tuttavia molte popolazioni musulmane in Sicilia; ma il predicatore li avrebbe chiamato sudditi, non vicini.



913  Πόλιν ταύρον καὶ μενείας



914  Omelia 57a della edizione dello Scorso, p. 385: ́Οι τε γὰς τη̃ς ὰσεβοϊς προέχοντες ω̃όλεος, τουτέστιν όι επὶ κακία περιφανέστεροι.



915  Omelia 58a della edizione di Scorso. Questo linguaggio non si usava certamente dal pulpito sotto il regno di Ruggiero.



916  ̀Ούτε τη̃ν σκάφησιν. Da questa voce greca par derivata la voce "scalzare" che si pronunzia in dialetto siciliano squasari, e si usa particolarmente parlando delle viti. Credo pertanto che l'autore qui alluda alla cultura delle vigne.



917  La decenza del nostro secolo non permette di tradurre litteralmente la frase di "cavalli Φηλυμανεις," che è tolta da Geremia, cap. V, v. 8.



918  Infatti, nella omelia 21a della edizione di Scorso si trovi una ammonizione a cessare i litigii, e non giurare. di questa della omelia 62a si ritrae dove fossero state recitate.



919  Omelia 62a della edizione di Scorso.



920  Tale è il giudizio del Cave, Scriptorum Eccles. Historia Litteraria, tomo II, p. 132; del Fabricio, Bibliotheca Græca, tomo X, p. 232; per non dir nulla di quello dello Scorso, che assai men vale. Pure il gesuita palermitano, scrivendo egli stesso sì gonfio, riprendea Teofane di ampollosità.



921  Codice CCXXII della Biblioteca di Torino, e CCXXIX di quella di Vienna, citati dal Buscemi, p. 13, dal quale tolgo questa notizia. Il MS. di Vienna or citato si trova nel catalogo di Daniele de Nessel, parte I, p. 163. Codd. Theolog., LXXXII.



922  Così pensa l'Autore della Continuazione di Teofane.



923  Metodio, al dir della Continuazione di Teofane, si difese in pien tribunale la questo modo: Paulum se a throno subrigens, sinumque ad se colligens, verenda nuda ostendit, miraculo arefacta. Raccontò poi il miracolo; cioè, che sendo a Roma, e pregando San Pietro di liberarlo dagli stimoli della concupiscenza, gli apparve l'Apostolo in sogno, ed eam tangendo partem, libidinis sensum omnem extinxit. indecenti erano que' bacchettoni!



924  Si riscontrino Theophanes continuatus, lib. II, cap. VIII; lib. III, cap. XXIV; lib. IV, cap. III, VI, X; Symeon Magyster, De Theophilo, cap. XXII, XXIII, XXIV, e De Michaele et Theodora, cap. I, III, IV; Georgius Monachus, De Michaele et Theodora, cap. I, II, III; Acta Sanctorum, 14 giugno, p. 960 a 973, e le altre autorità citate dal Mongitore, Bibliotheca Sicula, tomo II, p. 66, seg.; e Le Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LXVIII, § 28; LXIX, § 24; e LXX, § 4, 5, 7, 14.



925  I documenti e scrittori papalini, i soli che abbiamo sul fatto suo, lo chiaman sempre vescovo; non ammettendo la novella dignità metropolitana.



926  Nicetæ Paphlagonii Vita Sancti Ignatii, ec., greca e latina, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo VIII, p. 1199, lo dice «gravato a Costantinopoli di qualche accusa (ὲπ̉ ενκλήμασι δὲ τισιν) e condannato da Roma per infrazione ai canoni.» Ma la epistola di Niccolò I, del 13 novembre 866, nello stesso tomo, p. 326, smentisce la seconda asserzione. Simeone, De Michaele et Theodora, cap. XXXII, lo dice deposto già dal patriarca Metodio, per avere ordinato (forse vescovo di Taormina) uno Zaccaria, inviato di Metodio alla corte di Roma, e per altri falli. E tal deposizione è smentita da Niceta, che l'attribuisce appunto al patriarca Ignazio. Insomma, alla esaltazione di costui, Gregorio era accusato, e non altro.



927  Niceta, op. c., p. 1199. Il gesuita tirolese Rader, che scrisse nel decimosettimo secolo, non so per che vezzo, rendea questa frase: et improbitatem illius probi Siculi. Il testo ha: καὶ μνησικακίαν τοΰ δεινοΰ εκείνου Σεκελοΰ.



928  Καθηγητὴς και ίεροτελεστὴς



929  Ζωγράφος



930  Niceta, op. c., p. 1226. L'autore aggiugne che il volume fu poi preso in casa di Fozio, presentato al Concilio dell'867, e dato alle fiamme.



931  Si fa menzione di questo appello nelle epistole di Niccolò I, presso Labbe, op. c., tomo VIII, ni VII, VIII, IX, XI, p. 288, 289, 303, 320, 326, 335, 375, e in altri atti pontificii, a p. 1274, 1283, 1295, 1332. Tutti son dati in un tempo in cui la prima accusa contro Gregorio si confondea con quella, assai più grave, di aver fatto parte del concilio di Costantinopoli dell'861. Veggansi anche Niceta, op. c., p. 1199; e Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 854.



932  Niceta, op. c., p. 1199.



933  Questo fatto si legge nel secondo decreto del Concilio di Roma, dell'863, presso Labbe, vol. c., p. 1322; e Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 863.



934  Veggasi la epistola VIII di Niccolò, presso Labbe, vol. c., p. 298.



935  Sarebbe inutile di accumulare citazioni sul notissimo fatto dello Scisma, che si ricava dagli atti dei Concilii, dalla Vita di Sant'Ignazio, ec.



936  Veggansi le loro risposte nelle due diverse compilazioni degli atti di questo Concilio, l'una greca, l'altra latina, presso il Labbe, vol. c., p. 1061 e 1307, 1311, seg.



937  Niceta, op. c., p, 1258; Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 878.



938  Il biografo mette i nomi di San Gregorio Decapolita e di Leone, senza dubbio l'Armeno. Ma questi morì prima che i Musulmani occupassero la Sicilia. Perciò, se non è bugiardo il fatto, van corretti i nomi.



939  San Niccolò, apparsogli in sogno, gli diè a mangiare uno scritto di squisito sapore, e di tanta virtù, che le catene si sciolsero, le mura si aprirono, e San Giuseppe si vide trasportato per aria a Costantinopoli.



940  Così dice Symeon Magister, De Theophilo, cap. XX.



941  Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XXVI e XXVII. L'anonimo cronista riferisce la fondazione a Barda, ma ricorda espressamente che la ristorazione degli studii fosse cominciata prima.



942  Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XXIX.



943  Gibbon, Decline and Fall, cap. LIII.



944  Due compilazioni v'hanno della biografia di San Giuseppe Innografo, pubblicate, l'una dal Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 43, seg., e dai Bollandisti, Acta Sanctorum, 3 aprile, p. 266, seg.; l'altra, dai soli Bollandisti, l. c.; e il testo greco della prima, corretto sopra un MS. Vaticano, si trova in fin del volume loro, p. XXXIV. L'originale si crede scritto da un diacono Giovanni, su le notizie che gli forniva un Teofane, discepolo dell'Innografo. Oltre i miracoli, vi ha sbagli madornali di cronologia: seguendo i quali, il P. Gaetani fe' vivere l'Innografo 170 anni. I Bollandisti ne diffalcarono un secolo; ma tuttavia non tolsero la contraddizione del biografo che portava Giuseppe fuggito di Sicilia fanciullo dopo la occupazione musulmana, la quale cominciò l'827, e fatto già sacerdote ai tempi di Leone l'Armeno, che morì l'820. La morte di San Giuseppe Innografo è riferita per conghiettura all'883.



945  Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo I, p. 128, seg. e Bollandisti, Acta Sanctorum, 18 giugno, tomo III (di giugno), p. 596, seg., ove leggonsi pochi frammenti del testo greco. Il Gaetani, seguíto in ciò dai Bollandisti, riferì la composizione dell'inno all'870.



946  Schoëll, Histoire de la Littérature grecque profane, versione francese del 1824, tomo IV, p. 48.



947  Veggasi Cedrenus, edizione di Bonn, tomo I, p. 4 e nota, nel tomo II, p. 748. Cedreno il chiama è Σικελιώτης, e un altro MS. vi aggiugne διδάσκαλος. Secondo il luogo che gli assegna Cedreno, costui sarebbe vivuto verso la fine del X secolo.



948  Danielis de Nessel, Catalogus.... Bibl. Vindobonensis (1690), parte I, p. 14, X, § 3.



949  Vossius, De Historicis Græcis (Leyde, 1650), lib. IV, cap. XXI, p. 499; esattamente citato dal Mongitore, Bibliotheca Sicula, p. 313.



950  Histoire de la Littérature grecque profane, versione franc. del 1824, tomo VI, p. 370.



951  Questo elogio funebre, che porta il nome dell'autore, fu tradotto in latino sul testo greco del monastero del Salvatore di Messina, e pubblicato dal Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 52, seg., e con molte correzioni dai Bollandisti, Acta Sanctorum, 31 gennaio.



952  Petri Siculi Historia de Manichæis, versione latina di un MS. della Vaticana, nella Maxima Bibliotheca Patrum, tomo XVI. Veggansi anco, su le persecuzioni dei Pauliciani, Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XVI; e Gibbon, Decline and Fall, cap. LIV.



953  Nella versione pubblicata dal Gaetani si legge Genicus, e si spiega "riscuotitore." E veramente il verbo gena ha significato di "raccogliere," e il derivato genâia vale "multa" e "tassa in generale;" come l'ha notato il Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks, tomo I, p. 199. Gêni significherebbe appunto collector.



954  Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 59.



955  Il biografo dice che morisse il 904, ottuagenario; il che significa soltanto che s'avvicinava agli ottanta.



956  Nella versione latina si legge fuco et cerussa. Si sa che questo è il bianco di piombo; l'altra è espressione vaga. Se nel testo greco si trovasse, com'è probabile, φΰκος, indicherebbe il rosso cavato da una specie d'alga.



957  Calamistrum.



958  La leggenda attribuisce l'accusa ai principali ismaeliti; dice che fu portata al califo (ameramnem), e che contenea due rubriche, dispregio del Profeta e dei suoi vaticinii; «predicare una novella religione, e sostenere il figliuol di Maria coeterno e consustanziale a non so che Spirito e al padre.» Or questo non mi pare linguaggio da Musulmani, invenzione del biografo. Non ostante qualche difficoltà, che sparirebbe forse se avessimo il testo greco, l'accusa sembra scritta dai fanatici della Chiesa Copta; e però la persecuzione seguita in Egitto. Alla stessa conchiusione porterebbe il fatto della liberazione ordinata dal governatore della provincia, non ostante il richiamo al califo.



959  Cap. X, p. 411, seg.



960  Leggasi nella biografia citata presso il Gaetani, tomo II, pag. 67, 68.



961  Il biografo dice che Sant'Elia venne in Palermo; che, partita quinci alla volta di Reggio l'armata musulmana, ei ritenne i Reggini i quali volean fuggire; e poi che da Palermo andò a Taormina. Se non v'ha qualche confusione nel testo, potrebbe supporsi ch'ei fosse tornato in Palermo, forse con l'armata bizantina, e di ito a Taormina.



962  Questo fatto è dato come contemporaneo alla sconfitta di Barsamio presso Taormina che seguì nell'881. Veggasi il Capitolo X, pag. 417.



963  Così nel testo greco, presso i Bollandisti, agosto, tom. III, p. 508. Nella versione latina si legge XVI kalendas augusti, che torna al 17 luglio, e si additerebbe meglio al caso di Tessalonica, seguito pochi giorni appresso.



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