Luigi Fabbri
Carlo Pisacane

CARLO PISACANE

I.

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CARLO PISACANE

I.

Questo eroe dell'azione e del pensiero occupa un posto che non gli spetta nella storia contemporanea, almeno in quella storia conosciuta per tale dai più, illustrata ed insegnata nelle nostre scuole e scritta nei libri che hanno maggiore diffusione. Ciò fa sì che di Carlo Pisacane si sappia da tutti il nome, da pochi la vera essenza; – da molti si sappia come visse, che cosa fece e come morì; da quasi nessuno come pensò, perchè agì e quale idea lo conducesse a morire sotto i colpi ignobili dei villani nei dintorni di Sapri.

Carlo Pisacane, che Victor Hugo disse più simpatico ancora di Garibaldi, ha dettato ai poeti romantici e patriottici versi gentili ed a qualcuno ha fatto anche tentare il poema; la sua figura è stata idealizzata, questo è un male. Chi non ricorda i facili e leggiadri versi del Mercantini?

Dagli occhi azzurri e dai capelli d'oro
Un giovin camminava in mezzo a loro....

Ma, nascosto entro la nube dell'idealismo patriottico, il «bel capitano» dei trecento caduti a Sapri, una delle Termopili della unificazione d'Italia, ai nostri tempi di positivismo e di ricerche scientifiche, non appaga più completamente il nostro desiderio di sapere. Nonostante, c'è come una congiurac'è stata, almeno, rotta appena da qualche tentativo mal riuscito – per non lasciar fuggire l'eroe dalla sua nube di poesia e di romanticismo; se pure non si vuol tener conto che gli amici delle odierne istituzioni, così maniaci nel voler ingombrare tutte le piazze ed i trivi del bel Paese con statue erette a quanti, bene o male, prepararono ad essi la cuccagna del potere, che questi uomini, dico, di Carlo Pisacane hanno taciuto quanto più era loro possibile, e più hanno taciuto di ciò che di fronte ai lavoratori del braccio e della mente è dell'eroe di Sapri il monumento imperituro: il suo pensiero.

La poesia e la leggenda è dimenticata presto; la vita materiale, sia pure eroica, d'un uomo perde coll'andar del tempo sempre più la sua importanza agli occhi dei futuri. Ciò che resta è l'idea che ha fatto vibrare la poesia, che ha dato anima all'azione dell'eroe; e la vita dell' e la poesia che la circonda a un sol patto conservano imperitura la freschezza dei ricordi e dell'entusiasmo dinanzi ai posteri, a patto che se ne scorga chiara la relazione col pensiero che ha guidato l'eroe sul suo cammino terreno; e che questo pensiero contenga in una promessa ed una speranza precorritrice dei tempi.

Eroe e martire della rivoluzione politica, Carlo Pisacane fu anche uno dei più grandi precursori della rivoluzione sociale, uno dei primi che alle odierne aspirazioni delle società umane hanno dato una base ed un contenuto positivo. Come italiani dobbiamo essergli riconoscenti per ciò che ha fatto onde non fossimo più sottoposti alla ferula borbonica, al mordacchio papalino ed al bastone tedesco; come uomini che combattono per la fratellanza internazionale dei popoli, per la vera uguaglianza economica e per la libertà integrale di tutti, anche maggiore riconoscenza gli dobbiamo; a lui, che mentre ci insegnava con l'esempio come si lotta e si muore per una idea, ci dettava fin da allora le prime parole della nostra idea socialista e libertaria.

Guardiamo dunque a Carlo Pisacane, come a Maestro del pensiero e dell'azione.

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Carlo Pisacane nacque a Napoli il 22 agosto 1818 dal Duca Gennaro di San Giovanni e da Niccolina Basile De Luna. Avendo perduto all’età di 6 anni il padre, sette anni dopo la morte di questo fu rinchiuso in collegio (1831), e precisamente nel Collegio Militare della Nunziatella. Qui si distinse subito per il suo ingegno svegliato, specialmente nelle matematiche, ciò che rivelava la praticità insieme e l'acutezza della sua mente. Ancora collegiale, per quattro anni visse alla Corte di Napoli, come paggio del Borbone, rimanendo però sempre di costumi morigerati ed alteri. Nell'anno 1839, dopo aver superati splendidamente gli esami, uscì di collegio. Aveva 21 anni.

Fra i suoi concittadini salì presto a una certa rinomanza come ingegnere, sopratutto ingegnere militare; ed il governo lo adibì alla costruzione della ferrovia fra Napoli e Caserta. Dopo un certo tempo partì per gli Abruzzi, dove passò un circa 15 mesi; e ritornato quindi a Napoli, fu promosso dall'autorità militare al grado di sottotenente. Qui la sua vita trascorse senza incidenti notevoli, se ne togli che una sera nel rincasare venne assalito e ferito a morte da un ladro che tentava derubarlo. Guarito, ebbe dal capitano Gonzales incarico di andare a dirigere la costruzione di una strada all'Antignano.

Intanto, da qualche tempo la sua attenzione era stata richiamata sugli avvenimenti politici che si andavano succedendo; e la sua mente non poteva non occuparsi delle questioni più urgenti in quel tempo. Il suo temperamento, la educazione ed istruzione che si era andata man mano impartendo da stesso, non tardarono a fargli accettare le idee politiche più avanzate, a farne in una parola un rivoluzionario. Così si sviluppò in lui il desiderio d'una patria unita e della libertà, insieme ad un odio profondo per il regime «paterno» dei Borboni. Fu così che, desideroso, come sempre si dimostrò in seguito, di essere coerente a stesso, l'8 febbraio 1847 rinunciò al suo impiego ed al suo grado ed emigrò a Londra.

Prima di seguirlo nella via avventurosa e battagliera dell'esilio dobbiamo accennare alla parte intima ed affettiva della vita di Carlo Pisacane. Egli fin dall'età di 12 o 13 anni, prima cioè di entrare in collegio, s'era invaghito d'una fanciulla sua coetanea; e quando uscì la trovò già sposata. Ciò non valse agli occhi suoi, ed anzi il tempo aveva raddoppiato il suo amore, che, condiviso dalla donna amata con pari intensità, spinse questa a lasciare il marito per seguire l'amante. Noi non faremo certo i puritani a questo proposito. Si sa come in quel tempo, e in certi ambienti anche presentemente, si combinavano i matrimoni: la donna quasi sempre era gettata nelle braccia e sul letto d'un uomo prima d'allora appena conosciuto e quasi mai amato. Questa donna aveva quindi il diritto di ribellarsi ad una unione che era stata forse un mercato, alla quale non era in grado di consentire scientemente. Di questo diritto si valse la signora D. che divenne da allora in poi la fida compagna di Carlo Pisacane, da cui ebbe una figlia, Silvia, adottata dopo la morte del padre e della madre da Giovanni Nicotera. Questa donna seguì Pisacane dappertutto, nella buona e nell'avversa fortuna, sua consolatrice.

E il nostro rivoluzionario, rimanendo a lei fedele fino alla morte, dimostrò con l'esempio la superiorità della unione libera determinata dall'amore, sulla unione legale forzata basata in interessi estranei al sentimento.

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Dopo breve soggiorno a Londra, Carlo Pisacane partì per Parigi, dove sollecitò il permesso di entrare nella legione straniera per addestrarsi alla vita militare, in vista degli avvenimenti che da un giorno all'altro potevano richiamarlo in Italia. Bisogna ricordare che a quel tempo, non risolta ancora per tutte le nazioni europee la questione politica, questa incombeva su tutti e ne determinava le attitudini. In un tempo in cui dalla sorte delle armi dipendevano molti problemi, anche nell'interesse della libertà era duopo essere alle armi addestrati per non essere inadatti anche in tempo di guerra a fare il proprio dovere rivoluzionario.

Entrato Pisacane nella legione straniera come sottotenente, il 5 dicembre 1847 fu mandato in Africa a combattere contro gli Arabi. E quivi si distingueva pel suo valore e coraggio, quando gli avvenimenti d'Italia lo richiamarono in patria. Il 12 gennaio 1848 Palermo era insorta, e l'11 febbraio susseguente il Borbone era costretto a largire al popolo la Costituzione. Tutta l'Italia era in fiamme – anzi tutta Europa – e Carlo Pisacane non poteva certo rimanere in Africa ad azzuffarsi cogli Arabi, che alla fin dei conti combattevano anch'essi per la propria libertà.

Ottenuto il congedo, egli tornò in Italia mentre si preparava la guerra contro l'Austria. Corse a Milano, e subito si arruolò fra i volontari della legione Borra, coi quali combattè, poi valorosamente nel Tirolo. A Milano conobbe Carlo Cattaneo e gli altri animosi eroi delle Cinque Giornate; e fu per incarico appunto del Cattaneo ch'egli scrisse in quel tempo la sua memoria sul Momentaneo ordinamento dell'esercito lombardo del 1848, in cui mostrò fin da allora l'estensione e la profondità delle sue cognizioni e vedute tecniche in materia guerresca e rivoluzionaria.

Ma intanto a Napoli il Borbone affogava nei giorni luttuosi del 14 e 15 maggio la Costituzione nel sangue. Ogni alito di libertà fu soffocato in tutto il reame con le stragi del giugno in Calabria e con quelle del settembre in Sicilia, la cui resistenza ultima fu vinta. A Milano pel tradimento dei moderati e dei monarchici tornarono gli Austriaci, vinti già dalla rivoluzione, ma vincitori d'un esercito regio da cui lo spirito rivoluzionario era bandito. Carlo Pisacane si rifugiò in Svizzera. Qui per la prima volta egli vide e conobbe Giuseppe Mazzini, che gli pose subito grande stima, malgrado il disaccordo evidente di metodi e di idee fra i due uomini. Desideroso di moto e di lotta sul campo dell'azione, sulla fine del 1848 Pisacane entrò in Piemonte per arruolarsi nell'esercito sardo, che doveva continuare la guerra all'Austria.

Ma non appena si seppe della sollevazione di Roma del febbraio 1849, egli prese congedo e volò a Roma a portare alla giovine repubblica l'aiuto del suo polso d'acciaio, del suo ingegno e della sua esperienza nelle cose di guerra, su cui aveva fatti seri e profondi studi. Infatti dal governo repubblicano fu subito nominato membro della Commissione di guerra; e come tale egli fu che diede il migliore ordinamento alle milizie rivoluzionarie di Roma. Però desideroso come sempre di unire l'azione al pensiero ed al consiglio, l'esser egli uno dei capi tecnici dell'esercito dei volontari non gl'impedì di combattere a fianco di Garibaldi di persona con l'armi alla mano, e di prender parte a quasi tutti gli scontri col nemico.

Giuseppe Mazzini gli continuò anche allora la sua stima, benchè fosse l'avversario accanito che tutti sanno delle idee razionaliste e socialiste del Pisacane; e lo fece colonnello. A proposito di Garibaldi, non torna inopportuno riferire il pensiero del nostro Pisacane, pensiero di positivista e di libertario, sull'entusiasmo dei volontari per l'Eroe dei due mondi. «Guai – egli dicevaallorchè le masse giungono a credere all'infallibilità ed inviolabilità d'un uomo! Guai allorchè le masse si avvezzano alla fede e non alla ragione! è questo il segreto sul quale fino ad ora si è basata la tirannide, che ha trovato facile la strada nel conseguimento dei suoi disegni; dappoichè il pensare è fatica dalla quale rifuggono le moltitudini corrive sempre al credere

Vinta la repubblica romana dalle armi francesi mandate dal Bonaparte, Carlo Pisacane fu prima imprigionato e quindi espulso da Roma. Ed egli se ne andò in Svizzera, a Losanna, da dove collaborò assiduamente nel giornale che Giuseppe Mazzini ed altri avevano fondato colà, L'Italia del Popolo. In questo giornale egli svolse le sue idee contro gli eserciti assoldati e permanenti, e sui fatti di Roma dal punto di vista militare. Dopo tre mesi di permanenza in Svizzera passò per Londra; e fu appunto a Londra che, datosi con maggior ardore agli studi delle questioni sociali, approfondì le sue idee in proposito ed accentuò ancor più la differenza delle opinioni sue da quelle di Mazzini e dei patriotti italiani.

Tornò quindi daccapo nel 1850 in Svizzera, e andò questa volta a Lugano, dove scrisse la sua memoria sulla Guerra combattuta in Italia nel 1848-49. In quest'opera le sue idee rivoluzionarie ed antiautoritarie si determinano ancor più: in essa dice che non bisogna avere alcuna fiducia nei prìncipi e nella diplomazia per il trionfo della libertà, e combatte il principio della disciplina che suole essere imposta ai militari. Fedele ai suoi principi razionalisti e socialisti, sostiene che «la miseria e la religione sono i primi ausiliarii dei despoti», che «non si salvano le nazioni marciando alla guerra sotto l'insegna del privilegio e del cattolicesimo», che «la religione è l'ostacolo più potente che si opponga al progresso dell'umanità

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Sulla fine del 1850 Carlo Pisacane tornò in Italia, recandosi a Genova, dove, prima di ottenere il permesso di soggiornarvi liberamente, dovette restare per qualche tempo nascosto; ottenuto questo permesso si diede con maggiore entusiasmo allo studio indefesso dei problemi politici e sociali, che gli erano prediletti e non aveva mai abbandonati. Per essere anzi più tranquillo si ritirò ad abitare sul vicino colle di Albaro, in una specie di romitaggio. Intanto, nel 1851, l'editore G. Pavesi gli pubblicava la sua opera scritta a Lugano, La guerra combattuta in Italia nel 1848-49.

Logico, franco, integro, d'una fedeltà a tutta prova alle sue idee, non arrestò, come molti fanno, la coerenza con queste al di fuori della sua vita intima, ma la mantenne anche dentro l'ambito della propria famiglia. Quando nel 1853 gli nacque la sua bambina, non volle battezzarla, e solo ne fece una notifica per atto notarile al solo scopo di non privare la figlia dei diritti suoi dinanzi alle leggi civili.

Fu nel suo romitaggio di Albaro che Carlo Pisacane scrisse l'opera più importante della sua vita che completò nel 1855, e cioè i Saggi storici-politici-militari sull'Italia, libro che si divide in quattro parti: Cenni storici. Cenni storici-militari. La rivoluzione. Ordinamento dell'esercito italiano. Il libro non trovò subito editori, e solo fu pubblicato quando l'eroica morte del suo autore richiamò la generale attenzione sul suo nome, nel 1858-1860. Oltre questo libro, e l'altro accennato sopra, Pisacane ha scritto altre cose di minore importanza, fra cui una polemica col generale Rosselli sui fatti militari di Roma del 49 nel giornale La voce della libertà, uno scritto per combattere le pretensioni della famiglia Murat al trono di Napoli, «Italia e Murat» nel N. 225 del Diritto, ed un altro scritto «Murat e i Borboni» pubblicato nel N. 263 dell'Italia e Popolo.

Mentre il pensatore elaborava le idee, l'uomo d'azione non rimaneva ozioso. Carlo Pisacane continuò sempre a mantenersi in relazione coi suoi amici politici, specialmente col Comitato Nazionale di Napoli e col barone Giovanni Nicotera che risiedeva allora in Torino. Quando credette opportuno il momento di seguir più dappresso gli avvenimenti, lasciò Albaro (1856) e tornò a Genova.


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